sabato 23 luglio 2016

24.07.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 11 par. 2-3

2. La preghiera insegnataci da Gesù Cristo, mirabile direttiva di tutte le nostre preghiere

Gesù Cristo, com'era solito, s'era appartato in un luogo solitario per pregare, ed uno dei suoi discepoli, notando la grandiosa elevazione del suo spirito e l'illuminazione amorosa di tutta la sua persona, fu preso da un grande desiderio di pregare come Lui e gli disse: Insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli. E chiaro da questa domanda e da luoghi paralleli, che gli apostoli riconoscevano di non saper pregare ed avevano un desiderio tanto più intenso di farlo, quanto più affascinante era il loro Maestro nell'orazione.

Allora Egli rifulgeva di amore e di maestà e conquideva suscitando desideri di unione con Dio; la trasfigurazione del Tabor in fondo, fu una delle manifestazioni più belle della sua preghiera e ci dà un'idea della grandiosa maestà che Egli aveva quando si rivolgeva al Padre.

Egli, infatti, non era figlio di adozione ma consustanziale al Padre; non lo pregava perché avesse bisogno di domandare, ma per lodarlo, benedirlo ed amarlo in nostra vece, e mettere così per noi quella base di meriti che mancavano alla nostra preghiera.

Domandava per noi, amando, in una perfettissima unione col Padre, ammirando ed adorando i suoi disegni nella stessa luce dell'infinita sua sapienza e rifulgeva di singolare ed arcana bellezza che affascinava e conquideva.

Come uomo e mediatore degli uomini Egli supplicava il Padre per le nostre necessità ed aveva sul volto tutto il fulgore della carità; come Figlio di Dio Egli lodava, benediceva ed amava il Padre, e splendeva dell'eterna Luce. Aveva la maestà di Dio e la tenerezza della più soave dolcezza: immobile, con lo sguardo al cielo e le braccia aperte in un'espansione di amore, aveva il sorriso della più profonda intimità con Dio, e nello stesso tempo lo sfiorava l'angustia delle nostre necessità; tutto questo costituiva uno spettacolo ineffabile per gli apostoli, benché essi non giungessero ancora ad apprezzarne il valore.

E evidente che Gesù Cristo, assentendo alla supplica rivoltagli dal discepolo in nome di tutti, dette una formula di preghiera che era l'eco della sua medesima orazione. San Luca non la riporta alla lettera e tralascia qualcuna delle domande, abbreviandola, forse perché conosciutissima e di uso comune, ma nella medesima formula più sintetica che ce ne dà, c'è la sostanza di quella preghiera, e nella sintesi stessa il Signore vuole ammonirci che non ha voluto darci strettamente una formula esclusiva di preghiera, ma ha voluto tracciarci le linee direttive di tutte le nostre preghiere. Il Pater noster, se può dirsi così, è come bussola che orienta nella giusta direzione le nostre preghiere, e per questo la Chiesa ce lo fa recitare sempre al principio ed al termine di tutte le ore canoniche, quasi per determinare innanzi a Dio il preciso significato e l'intenzione di tutte le sue petizioni.

Il Padre Nostro
Padre, ecco il modo come l'anima deve orientarsi a Dio. Non deve considerarlo col terrore superstizioso che avevano i pagani della divinità, espresso a volte dalle stesse forme dei loro idoli, né col timore servile dell'ebraismo di allora, che aveva deviato dallo spirito dei patriarchi; doveva riguardarlo come Padre, quindi come creatore di tutto e come proprio creatore, provvido ed amorosissimo.

Il padre naturale dà la vita al figlio amando, e la conserva amando, quando non è ridotto allo stato brutale dal vizio.

Dio dà la vita per un atto della sua volontà infinita che è Amore; e la conserva con la provvidenza che è amore; l'anima, dunque, prega confessando la realtà di Dio, il suo Amore e la sua provvidenza, e confessandola in un atto di viva fede. Se non c'è questa fede che ci fa parlare a Dio come all'Essere infinitamente esistente, sapiente ed amante, se non si ha con Lui l'intimità filiale che viene dalla fede veramente e praticamente sentita e convinta, la preghiera non supera la nostra povera atmosfera e diventa più uno sfogo della propria impotenza, che una fiduciosa domanda fatta a Dio.

La vacuità di tante preghiere che facciamo sta proprio nella mancanza della fede vera in Dio. Molti, moltissimi, pregando hanno ancora lo spirito idolatrico; credono e non credono a Dio, lo ammettono e non lo ammettono, esitano nel loro cuore e, subcoscientemente, vorrebbero metterlo alla prova, come può mettersi alla prova, l'efficacia di una medicina.

Padre, sia santificato il Nome tuo. Ecco una seconda direttiva assolutamente necessaria alla nostra preghiera: considerare tutto alla luce della gloria di Dio e volere tutto secondo i fini della sua volontà. A volte noi giungiamo alla stoltezza somma di volere imporre le nostre vedute e i nostri interessi umani al Signore, e rimaniamo, quindi, inetti ed impotenti, nell'ambito delle nostre povere forze. Quando l'anima crede veramente ed apprezza Dio per quello che è, domanda in piena sottomissione alle esigenze della gloria di Lui, che è diffusione di misericordia e di bene anche per noi.

Come potrebbe aversi il calore del sole sottraendosi ai suoi raggi, e pretendendo di ridurli nell'ambito della propria meschinità? Il trionfo della luce del sole, e quindi la rimozione degli ostacoli che ne impediscono la diffusione, è anche il conseguimento pieno del nostro desiderio di calore vivificante.

Nell'orazione bisogna, dunque, dare a Dio il posto che gli spetta, e desiderare la vita a ciò che è necessario alla vita, unicamente per la sua gloria e per il trionfo del suo amore in noi, nella pienezza del suo regno: Venga il regno tuo.

Se si pondera veramente la meschinità delle nostre aspirazioni nella preghiera, volta tutta al compimento del nostro egoismo, e se si pensa che la massa del popolo ignora quasi completamente che cosa significhi amare Dio e desiderarne la gloria, non fa più meraviglia che tante preghiere rimangano nella nostra povera cerchia, e sono inesaudite.

Nel tracciarci la direttiva delle nostre preghiere, Gesù Cristo distingue nettamente le esigenze della vita dell'anima da quelle della vita del corpo nella nostra condizione naturale. Per questo il Pater noster ha due parti determinate: alla vita dell'anima è necessaria l'intimità filiale con Dio, per la grazia che la rende sua figlia: Padre. In questa semplice parola c'è la sintesi stupenda delle elevazioni dell'anima negli splendori della grazia, che la restaura, la santifica e la eleva. L'intimità con Dio è amore nelle sue molteplici gradazioni e sfumature e questo amore si sintetizza tutto nel desiderio di glorificare Dio e di farlo regnare nella propria vita ed in quella di tutti.

Noi, quindi, domandiamo a Dio lo stato di grazia, l'amore verso di Lui, lo zelo per la sua gloria, la santificazione delle anime ed il suo regno in tutte nel dominio soavissimo dell'amore. Tutte le grandi manifestazioni della vita della santità e della vita della Chiesa stanno in queste brevi e mirabili parole.

Per la vita del corpo, ordinata a quella dello spirito, noi abbiamo bisogno dell'alimento e di tutto quello che serve all'ordine ed alla missione temporale della medesima vita: Dacci oggi il nostro pane quotidiano; abbiamo bisogno della pace, bene assolutamente imprescindibile da una vita che non sia concepita, come si fa oggi, quale esasperante tramestio di prepotenze e di oppressioni.

Ora la pace non è fuori dell'anima, e tanto meno può considerarsi come l'oppressione del più forte sul più debole; essa è tranquillità dell'ordine, e questa tranquillità viene dall'armonia della coscienza e da quella della carità: Rimetti a noi i nostri peccati, come noi li rimettiamo ad ogni nostro debitore. Siamo tutti miserabili, e nessuno può presumere di essere da più di un altro; ci confessiamo peccatori per avere il perdono e promettiamo perdono a quelli che ci fanno del torto. Così viene stroncato nella radice quello che disturba la pace.

Grazia di Dio in noi e carità verso il prossimo sono due beni spirituali dai quali dipende la tranquilla prosperità temporale della vita; i peccatori non hanno mai bene; anche quando satana si sforza di farli apparire prosperati, e dove manca la generosa carità, manca la benedizione di Dio. Satana sfrutta la posizione di alcuni (molto pochi in realtà rispetto alle masse), che, non essendo più capaci di beni eterni, raccolgono come tenue premio di qualche opera buona, i miseri beni temporali; egli li presenta come esseri felici nel male, ma è una menzogna anche in questi la pace, perché sono infelicissimi nel loro cuore ed è una menzogna maggiore il far credere od il supporre che il peccato porti la prosperità.

No, la massa dei peccatori sta in mille tribolazioni, e la massa dei prepotenti è infelicissima, perché è stretta dai rimorsi e dalle angustie interiori che tolgono loro la pace. Che cosa sono i beni temporali senza la pace? E come si può avere pace senza il perdono di Dio e senza la grazia? Come poi si può avere la grazia ed il perdono senza darlo a chi ci è debitore?

Quando la nostra preghiera per i beni temporali non sta su queste direttive precise è una preghiera vana; quando cioè non si domanda ciò che serve alla vita, e non più, e non lo si domanda nell'armonia della grazia e della carità, la preghiera diventa vana, ed a volte può farci credere, per illusione diabolica, che produca anche l'effetto contrario. Quanti hanno l'anima piena di avidità, di odio, d'invidia e di peccati di ogni genere e domandano a Dio non ciò che serve al corpo per la vita dello spirito, ma ciò che serve al corpo per la vita materiale, e si lamentano poi di non essere esauditi!

Quanti hanno peccati impuri che disordinano la vita, anche occultamente e senza che nessuno lo sappia, e si lamentano della miseria corporale che ne è immediata conseguenza! Quanti sono spietati nel giudicare e più spietati nell'inveire contro il prossimo, e pretendono da questa bolgia far risuonare la loro preghiera nei cieli, dove tutto è armonia soavissima di carità!

La vita è una prova di pochi anni, nei quali dobbiamo meritarci, per la grazia di Dio, il premio eterno. Questa prova ci viene dalla condizione stessa nella quale viviamo e può venirci anche dalle insidie e dagli assalti di satana. C'è dunque un terzo elemento della nostra vita terrena: la difesa nei pericoli. Senza la difesa provvida che può venirci solo da Dio la vita dell'anima è travolta dalla colpa e la vita del corpo dalle sventure. Perciò Gesù Cristo ci fa domandare a Dio: Non ci indurre in tentazione, cioè non permettere che ci vinca la tentazione e, nel provarci, Tu donaci la forza di esserti fedeli, riducendo le prove a causa della nostra fragilità.

È, in fondo, un atto di umiltà che ci concilia la misericordia di Dio, poiché è la confessione della nostra debolezza, in un atto di fiducia e di abbandono alla misericordia di Dio. Chi presume di sé, crede di poter affrontare i cimenti della vita ordinaria e quelli più ardui della santità, e può esserne vinto; ma chi è conscio della propria fragilità, domanda a Dio solo la grazia di resistere alle prove e di non cadere, e lo supplica di attenuare quelle che per la nostra miseria potrebbero travolgerci.

Con quest'ultima domanda la direttiva della preghiera dataci da Gesù è completa: credere veramente in Dio, confidare in Lui come figli ed essergli amici per la grazia; ecco il fondamento di ogni vera preghiera. Domandare i beni delfanima, non come nostro appagamento egoistico, ma per rispondere al nostro fine, e quindi domandare la gloria di Dio ed il suo regno, perché quei beni così si diffondono in noi.

Qualunque domanda che prescinda dalla gloria di Dio e dal suo regno in noi è sterile e può esserci di danno. Per la vita del corpo domandare il sostentamento necessario, il pane quotidiano, senza aggravarla di ingombri inutili, è domandare la pace, frutto della giustizia e della carità.

Infine considerarsi fragili nelle prove che servono al conseguimento dell'etema vita è domandare a Dio la difesa e la conservazione della vita spirituale.

Come già si è accennato, Gesù Cristo nel dare agli apostoli le direttive di qualunque preghiera nella formula che loro insegnò, espresse in una sintesi mirabile quello che era la sua medesima vita di preghiera: Egli, Figlio di Dio, era venuto in terra per proclamare la divina paternità di adozione per tutti gli uomini, e per sollevare a Lui, verso le altezze dei Cieli, le sue creature: Padre nostro che sei nei cieli. Egli pregava per esaltare il nome di Dio e per far risuonare in terra, nella natura umana da Lui assunta, le lodi che dall'eternità dava al Padre: Sia santificato il tuo Nome.

Egli era venuto per stabilirne il regno su tutte le creature, e proclamava questo regno realizzandolo con la sua grande preghiera che doveva culminare nel sacrificio del Golgota: Venga il tuo regno. Egli stabiliva il regno di Dio nel pieno compimento dei disegni dell'infinito suo Amore, ossia della sua volontà, ed implorava che questa volontà amorosa fosse stata in terra il legame e l'armonia di tutte le attività umane per la gloria divina, come in cielo era l'eterno legame del Padre e del Figlio: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Egli, Figlio di Dio, dunque, si rivolgeva al Padre; Egli, gloria sua sostanziale lo glorificava e ne stabiliva il regno trionfante, compiendo la sua volontà, fatto obbediente fino alla morte ed amandolo nell'infinito Amore.

Essendo vero uomo come era vero Dio, Egli, mediatore nostro e pellegrino della terra, domandava per noi anche i beni della vita mortale: il sostentamento, la pace e la difesa da ogni pericolo, ossia quella sobria prosperità che aiuta la vita ad orientarsi a Dio e non la rende povera lotta per i beni fugaci, confusione di contrasti ed irruenza di prepotenze brutali, misero zimbello di satana e vittima delle stesse prove che debbono orientarla al Signore.

Era questa la grande preghiera della vita mortale di Gesù Cristo e logicamente Egli, uscendo da una di queste sue grandi elevazioni, al discepolo che in nome di tutti lo supplicò d'insegnare loro a pregare, dette una formula sublime di preghiera che era la sintesi della sua orazione, e la direttiva di tutte le nostre preghiere.

3. Condizioni per essere esauditi: perseveranza nel pregare e pieno abbandono alla bontà di Dio

I bambini, quando domandano qualche cosa, pretendono di averla immediatamente e, senza sentir ragioni, se non l'hanno, piangono disperatamente. Se avessero senno, dovrebbero rimettersi alla discrezione dei genitori, i quali solo possono giudicare quello che loro giova o quello che loro nuoce.

Noi domandiamo a Dio tante grazie con la stessa inconsideratezza dei bambini, ma non con la stessa insistenza, per mancanza di abbandono e di fiducia. Appena abbozzata una preghiera, pretendiamo di vederne l'effetto e di vederlo secondo il nostro pensiero ed i nostri desideri; quando crediamo di non essere esauditi, ci sfiduciamo, tralasciamo ogni preghiera e mormoriamo della divina provvidenza.

Gesù Cristo, a complemento della sua istruzione sulla preghiera, espresse in una parabola ed in una analogia la necessità di perseverarvi e di abbandonarsi alla divina bontà. La parabola ha un significato profondissimo, pur sembrando, a primo aspetto, che non possa applicarsi completamente alla relazione dell'anima con Dio: un uomo riceve a mezzanotte la visita di un amico che, viaggiando, gli domanda ospitalità.

Gli Ebrei, quando era il tempo dei grandi calori, viaggiavano di notte, e quindi non è meraviglia che questo pellegrino abbia domandato ospitalità a mezzanotte. Siccome in Palestina non si era soliti avere provviste di pane, cuocendosene ogni giorno quel tanto che bastava, l'amico del viaggiatore se ne trovava sprovvisto, e per non mancare ai doveri di ospitalità, andò a domandarne in prestito ad un suo conoscente, e bussò alla sua porta. Ma l'altro gli rispose che era già a letto coi suoi figli, non voleva essere molestato, e non poteva alzarsi per non svegliarli dal sonno. L'amico non si perdette di coraggio a quella repulsa, ma continuò a picchiare con tanta insistenza che l'altro, non tanto per l'amicizia quanto per toglierselo davanti, scese dal letto e gli diede i tre pani che domandava.

Gesù Cristo soggiunse, subito dopo aver raccontato la parabola: Ed io dico a voi: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, poiché chi chiede riceve, chi cerca trova ed a chi bussa sarà aperto. Dunque quella parabola aveva questo senso principale: Insistere per ottenere, insistere con la fede di ottenere, insistere perché Dio vuole da noi questa insistenza per esaudirci.

L'argomento generale di Gesù è dal meno al più: se l'amico che non voleva essere molestato e che non aveva la volontà di dare, finisce per assentire, se non all'amicizia, almeno all'insistenza, quanto più Dio che vuole essere pregato e si diletta delle nostre filiali insistenze, ascolta ed esaudisce le nostre preghiere perseveranti.

Dio non si annoia delle nostre suppliche, non può annoiarsi, ma per esaudirci vuol essere pregato con l'insistenza che si avrebbe fino ad annoiare un altro.

Il Signore lo vuole per nostro bene, perché solo l'insistente preghiera ci addestra a parlargli filialmente e ci mette in comunicazione con Lui.

Se fossimo ascoltati alla prima domanda, le nostre preghiere sarebbero insignificanti.

Siamo come i motori che non si mettono in marcia se non vengono riscaldati dal medesimo movimento ed abbiamo bisogno d'insistere nel domandare, per infiammarci il cuore ed abituarlo a quello slancio d'amore che ci rende capaci di essere esauditi. Nella sua divina delicatezza, il Signore non vuole darci ciò che domandiamo per elemosina, ma richiede che la nostra insistenza sia come il contributo alla grazia che dobbiamo ricevere.

Noi chiediamo alla sua potenza, cerchiamo alla sua sapienza e bussiamo al suo amore. Chiedendo insistentemente, la sua potenza sostiene la nostra debolezza; cercando, la sua sapienza guida le nostre forze; bussando il suo amore ci apre le porte della misericordia e supplisce quelle che le nostre colpe demoliscono.

Il cielo è tanto distante da noi e la nostra insistenza non serve tanto a curvarlo misericordiosamente verso di noi, quanto ad elevare noi verso di esso; Dio sa quello di cui abbiamo bisogno, disse altrove Gesù, ma noi non sappiamo quello che Dio richiede da noi; l'insistente preghiera stabilisce fra noi e Lui quell'intima familiarità che ci rende a poco a poco capaci di compiere la sua santissima volontà.

Quando ci sembra di non essere esauditi nella preghiera

Gesù Cristo ci assicura che chi domanda riceve, e noi di fronte a quest'assicurazione ci disorientiamo, perché ci sembra che avvenga l'opposto quasi sempre: chiediamo e non c'è dato nulla, cerchiamo e non troviamo, bussiamo e non ci viene aperto; così diciamo noi tante volte prima e dopo aver pregato. È raro, anzi rarissimo, trovare una persona che non rimanga almeno qualche volta scettica di fronte all'efficacia della preghiera, ed è ugualmente raro trovare uno il quale confessi di aver pregato male e di non aver meritato la grazia. È una cosa penosissima questa, sfruttata mille volte da satana per allontanarci dalla preghiera.

Eppure Gesù Cristo c'illumina su questa interessante questione con le stesse parole con le quali ci mostra la certezza dell'effetto buono della preghiera: Se un figlio domanda del pane al padre, questi gli darà un sasso? E se un pesce, gli darà forse invece del pesce un serpente? E se chiede un uovo gli darà uno scorpione?

Dunque, è evidente, il Padre celeste ci esaudisce quando noi domandiamo il bene, il vero bene, anzi, come aggiunge Gesù, lo spirito buono, cioè la grazia di una santa vita e le grazie per l'anima.

Il Redentore non poteva contraddirsi, e se disse una volta che bisognava cercare il regno di Dio e la sua giustizia, perché il resto ci sarebbe stato dato per sovrappiù, non poteva promettere l'efficacia alle preghiere fatte unicamente in vista dei beni temporali.

Noi poi, in realtà, siamo figli ingrati che domandiamo il sasso, il serpente e lo scorpione in luogo del pane, del pesce e dell 'uovo, e se il padre ascolta il figlio che gli domanda il bene, non ascolta, proprio per bontà ed amore, colui che gli domanda il male. L'espressione di Gesù può quindi capovolgersi.

La vera e profonda ragione per la quale non siamo esauditi nelle preghiere è il nostro spirito cattivo: non abbiamo fede, non confidiamo in Dio, non lo amiamo. Abbiamo una grave soma di peccati passati, quasi sempre impuri, e di peccati presenti che sono d'impedimento alle grazie. Manchiamo di carità verso il prossimo in tutti i modi, e non pensiamo che Dio ci tratta come noi trattiamo gli altri; manchiamo di semplicità e di abbandono in Dio, ed in realtà quando domandiamo abbiamo sempre qualche pregiudiziale contro di Lui.

Preghiamo, ma senza uscire dall'ambito della nostra miseria, e siamo come aeroplani che rombano ma non si sollevano dal suolo, o come ruote slittate che girano su se stesse e non imprimono il moto al veicolo.

Parliamo molto fra noi stessi e rarissimamente a Dio, perché diciamo parole che le distrazioni e la noia rendono vuote di significato.

Se parlassimo veramente a Dio come fecero i santi, vedremmo effetti anche miracolosi dalle nostre preghiere.

Invece di dire che la nostra orazione è vana, dovremmo piuttosto riconoscere con umiltà che noi non chiediamo, non cerchiamo e non bussiamo. Si chiede con l'insistenza di figli, si cerca con la fiducia di amici, si bussa con l'umiltà di sudditi, e si va a Dio con la certezza della sua misericordia, a Dio Uno e Trino', non si può prescindere da questo, ed è necessario che in noi ci sia qualche cosa che ci avvicini a Lui, alla sua potenza, alla sua sapienza ed al suo amore.

Dobbiamo credere che Egli può, efficacemente e completamente, che dispone tutto con sapienza ed amore e vuole il nostro vero bene. Prescindere da una di queste posizioni dell'anima nostra, significa mutilare la preghiera e renderla vana, diremmo quasi come è vano l'attacco di una corrente trifase con un solo polo.

Quello che nuoce alla nostra preghiera è questo paradosso pratico: pretendere di andare a Dio rimanendo in noi, di appellarci al suo intervento confidando unicamente nelle nostre forze od in quelle degli uomini, di muovere la sua potenza rinnegandola, la sua sapienza mormorandone, ed il suo amore conculcandolo. Quante volte preghiamo con questo spirito, senza quasi accorgercene, e non chiediamo, non cerchiamo e non bussiamo. Se Gesù Cristo, del resto, ci dice con tanta certezza che chi prega è esaudito, quando non siamo esauditi dovremmo dire con assoluta certezza che non abbiamo pregato: affermare il contrario è lo stesso che dichiarare falsa la parola dell'eterna sapienza, il che è enorme.

L'insistenza continua nella preghiera, condizione imprescindibile per essere esauditi, non serve per Dio ma per noi, come s'è accennato, e serve ad orientare l'anima nostra a Lui. Dev'essere però insistenza non desistenza.

Abbiamo, infatti, l'abitudine di cominciare a pregare con entusiasmo naturale, che scambiamo per fede, con una certa presunzione che crediamo speranza, e con un po' di fervore sensibile che stimiamo amore. A misura che passano i giorni decadono queste disposizioni, ed all'entusiasmo subentra la stanchezza, alla speranza la sfiducia, ed al fervore la tiepidezza; la preghiera a mano a mano si spegne, come lucignolo senza olio, fumiga nelle impazienze e muore tante volte in atti di vera e propria miscredenza. Domandiamo a Dio lo spirito buono, frutto dell'infusione dello Spirito Santo, ed orientiamoci a Lui con tutta la nostra vita. Non può pregare solo la bocca, o debolmente il cuore, deve pregare tutta l'anima, anzi tutto l'essere nostro, rimanendo fedele ai propri doveri e cercando il regno di Dio e la sua giustizia sopra tutte le cose.

Dobbiamo guardare all'eterna vita, soprattutto all'eterna vita, poiché la massima parte delle nostre preghiere Dio le ascolta in ordine a questa meta suprema. Nel cielo vedremo i ricami del suo amore e ci accorgeremo che nessuna preghiera è stata perduta, anche quelle che non si sono sollevate oltre la nostra piccola cerchia, e possiamo dire anche quelle che sono state infette dalla lue delle passioni. Se queste preghiere, infatti, non giungono a Dio, Dio le sente e giunge Egli a noi, accettandole come gridi della nostra inferma natura. Egli allora ci ascolta proprio all'inverso delle nostre domande, e con questa inversione le raddrizza e le rende domande di bene e suppliche di eterna vita.

Tu domandi la guarigione di una creatura che ti lega alla terra e Dio ti ascolta togliendotela; tu domandi la salute per un'altra che pericola, e Dio ti ascolta chiamandola a sé al sicuro.

Tu cerchi la provvidenza ed hai la povertà perché è la povertà che ti giova; cerchi il posto e rimani disoccupato, perché il posto come lo cerchi tu ti sposterebbe; cerchi la gloria ed hai l'umiliazione, perché questa ti porta alla vera gloria.

Quante di queste false posizioni Dio raddrizza, e quanto dobbiamo essergli grati nelle stesse delusioni che crediamo avere quando preghiamo!

Un'ultima difficoltà: a volte noi domandiamo a Dio proprio lo spirito buono, la virtù, la perfezione, e ci pare di non essere esauditi; fallisce allora la parola di Gesù? Rispondiamo prima di tutto con un paragone: la pompa aspirante toglie l'acqua dalla stiva; ma il marinaio pompa e la stiva è tuttora allagata. E vana la pompa?

No, è appena sufficiente a controbilanciare la falla e l'acqua che per essa irrompe nella stiva. La spazzola pulisce l'abito, ma se l'abito è ingrassato o infangato non basta una passatina: occorre un lavoro che richiede del tempo.

Il fuoco riscalda l'acqua; ma se invece dell'acqua c'è il ghiaccio, un chilogrammo di combustibile è appena sufficiente a scioglierlo, e l'acqua è sempre fredda.

Tirando la corda s'apre l'imposta, ma se c'è una molla di compressione al battente, l'imposta si richiude.

Noi desideriamo lo spirito buono, ma non ponderiamo la cattiveria che lo controbilancia; vogliamo purificarci ma rifuggiamo da quei mezzi radicali ed energici che ci fanno veramente bene; vogliamo il fervore e non misuriamo lo spessore del nostro gelo interiore.

Ecco, vogliamo una perfezione ad uso e consumo nostro, senza rinunzie e senza abnegazioni; vogliamo medicare noi le nostre piaghe senza cauterizzanti, ma col balsamo che carezza l'orgoglio e la natura; vogliamo dirci noi le insolenze ma non tolleriamo che ce le dicano gli altri neppure con la riduzione del novantanove per cento su quelle che diciamo noi; vogliamo insomma ascendere, sì, ma rimanendo dove siamo, e vorremmo portare con noi tutto il nostro bagaglio.

La preghiera allora non è vana, ma è come la pompa che combatte con le falle; produce il frutto, ma esso non è sensibile finché non ci sia un dislivello tra la natura e la grazia.

Chi sa dove andrebbero certe anime se non pregassero, e chi sa dove le porterebbe la loro natura se non domandassero a Dio, anche con forti percentuali di riduzioni, lo spirito buono!

Quali voli veri di santità farebbe un'anima se, domandando lo spirito buono, si abbandonasse veramente all'azione della grazia! La natura a volte c'inganna, e noi, pur pregando per essere perfetti, abbiamo delle zone nello spirito nelle quali non vogliamo che vi penetri la grazia; facciamo come Giona: c'imbarchiamo su navi in tempesta e fuggiamo dalla faccia di Dio, dormiamo sulle nostre ripulse alla divina volontà e ci lamentiamo di non progredire. Se sapessimo gettarci in pieno nell'oceano del divino Amore dove ci porterebbe la sua grazia e di quale santità saremmo capaci!

Preghiamo, preghiamo, non ci stanchiamo mai, e lasciamo a Dio la cura di esaudirci come e quando Egli crede. Preghiamo anche per le cose temporali, se lo vogliamo, lasciando però a Lui la cura di misurarcene la razione secondo ciò che ci è utile per l'eterna vita.

Persuadiamoci che Dio ci è padre, e che, qualunque sia la nostra preghiera, non può darci che il bene.

Sac. Dolindo Ruotolo

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