sabato 28 gennaio 2017

29.01.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. V par. 4-16

4. La beatitudine vera di chi peregrina in terra

L'uomo tende alla beatitudine, alla piena felicità, alla gioia, perché fu creato da Dio per godere eternamente. L'essenza medesima del fine per cui viviamo è questa, poiché il Signore ci ha creati per la sua gloria; e per renderci sua voce di gloria ci riempie della sua grazia, nel compimento poi della sua volontà, che è sommo bene, ci comunica la sua felicità. La beatitudine quindi sta tutta in Dio, ed è da Lui solo che la si può attingere: sta nella conoscenza delle sue perfezioni e nel compimento della sua volontà.

La beatitudine è un premio, e come tale suppone la prova; perciò prima di raggiungerla nel Cielo eternamente, noi subiamo la breve e passeggera angustia della vita presente. Quest'angustia tende ad addestrarci alla ricerca di Dio, alla sua conoscenza, al suo apprezzamento ed al compimento della sua volontà.

La vita quindi è più gravosa quanto più è impigliata nell'ambito della terra, ed è più beata quanto più se ne distacca.

Tutte le raffinatezze della vita del tempo non sono che fili di una rete che tarpa ogni volo dell'anima, e che rende più ardua la conoscenza di Dio e il compimento della sua volontà; esse perciò hanno un segreto di somma infelicità.

E l'esperienza quotidiana che ce ne convince, e bisogna pure avere il coraggio di liberarsi da tutte le menzogne convenzionali, con le quali satana, il mondo e la carne ci trasportano sulle false altezze unicamente per farci precipitare o per farci adorare le brutture dello spirito maligno.

E per convenzionalismo, bisogna riconoscerlo, che noi stimiamo grandi certe altezze della vita terrena, dicendo grande la filosofia, la scienza, la politica, le arti, la letteratura, ma in realtà nessuno oserebbe dire che queste cose rendono beata la vita. Sono alture sulle quali si ascende a grande fatica, e che, raggiunte, fanno scorgere solo i monti impervi che non si raggiungono, e gli abissi che ad ogni passo falso minacciano d'inghiottirci.

Se si vuole essere giusti, bisogna confessare che nel mondo il reparto più colmo d'infelicità è proprio questo che appare come una mèta delle aspirazioni umane. Chi ha raggiunto una vetta scoscesa, strapiombante nell'abisso, sembra un dominatore a chi lo guarda da lontano, ma egli solo conosce le vertigini di quella posizione sulla quale non vorrebbe essere mai giunto. Da quelle altezze non si va oltre, si discende, e la discesa ha sempre le vertigini dell'abisso. Tutto è avvelenato d'assenzio e di amarezze indicibili in questa vita, anche le ricchezze, che sembrano i beni più immateriali e più semplici, mezzi infallibili di novelli beni; tutto come l'ortica, anche quando non appare, dà punture fastidiose. Noi infatti abbiamo, per così dire, due capacità nella vita: una materiale che è limitatissima, e che, ricolma, preme sulle pareti e le strazia, ed una spirituale che esige un vuoto sempre maggiore per essere riempita di ciò che viene da Dio.

Tutto quello che è soverchiante nella materia dà la pena dell'indigestione, e tutto quello che pretende riempire la capacità dello spirito con la materia, dà lo spasimo dell'avvelenamento.

Sono verità che magari non si ha il coraggio di sperimentare, perché si ha l'orecchio assordato dagli inviti del mondo, del demonio e della carne, ma sono verità che si controllano nostro malgrado nella vita quotidiana.

Chi vive nella città, e specialmente nelle fragorose metropoli moderne, riguarda la pace della campagna come un'oasi nel deserto: è attratto dalla rude semplicità primitiva, gli sembrano poeticamente attraenti le pareti disadorne, i piatti di creta, gli orcioli che fanno da bottiglie; i piedi nudi sul terreno brullo sembrano più belli delle calzature eleganti, lo scialle, che incornicia il volto schiettamente sano di una contadina, sembra più attraente di tutte le eleganze mondane; si respira a pieni polmoni, si è come prigionieri liberati per un momento dai ceppi, o come uccelli fuori gabbia che raggiungono trillando i rami. È un momento di felicità relativa, dovuta alla semplicità di una povertà che non è miseria, ma è sazietà più proporzionata alla nostra capacità materiale. Il contadino non capirà magari la superiorità della sua condizione rispetto ai cittadini, come i bambini non intendono la felicità della loro spensierata età, ma non si può negare che quella vita ci fa invidia e fa invidia, molto più a chi è tutto irretito nelle cose del mondo. Non è la povertà vera dello spirito, per l'incosciente scontentezza che l'accompagna, ma in se stessa è un'immagine e, se è accompagnata dalla pienezza spirituale che trae l'anima alle altezze eterne, è un saggio di felicità vera.

sabato 21 gennaio 2017

22.01.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. IV par. 8

8. La prima predicazione di Gesù e l'elezione dei primi apostoli

Dopo aver subito la prova nel deserto, Gesù Cristo cominciò la sua vita di apostolato. Giovanni era stato messo in prigione da Erode Antipa, a causa di Erodiade, come è detto al capitolo 14, e per questo vi era nella Giudea un grande fermento, data la stima che il popolo aveva del Battista. Il Testo dice che Gesù aveva udito che Giovanni era stato messo in carcere, proprio per indicare il fermento popolare che spargeva la notizia in ogni parte. Non volendo per delicatezza di carità verso san Giovanni prendere il suo posto in luoghi che risuonavano tuttora della predicazione di lui, si ritirò nella Galilea, e licenziatosi da Maria Santissima che abitava tuttora in Nazaret, andò ad abitare a Cafarnao, città a quei tempi abbastanza importante per il commercio, situata sulla riva occidentale del lago di Genesaret. L'apostolato che vi esercitò dovette essere così grande da far ricordare la profezia d'Isaia (9,1-2) nella quale era annunziata la voce del Messia risonante ai confini della terra di Zàbulon e di Néftali, sulla strada del mare di Genesaret, ad oriente del Giordano, cioè nella Perea, e fino alla parte della Galilea confinante con la Siria e con la Fenicia, chiamata Galilea delle genti perché abitata da molti pagani.

Quei popoli giacevano nelle tenebre dell'errore e del peccato, e la voce di Gesù era per loro una grande luce, perché annunziava il regno di Dio ed il vicino compimento della redenzione, esortandoli a far penitenza dei loro peccati.

Gesù Cristo era ancora solo, ma l'affluenza medesima del popolo che a Lui accorreva, attratto dalla sua parola e dai suoi prodigi, esigeva che Egli fosse aiutato nel suo ministero, e perciò cominciò a chiamare i primi apostoli.

Non si rivolse ai grandi della terra, non scelse uomini di scienza e di prestigio, ma poveri ed ignoranti pescatori, semplici e schietti, come sono quelli che esercitano questo mestiere. Li chiamò non solo con la voce ma con la grazia interiore, ed essi, benché intenti al loro mestiere, lasciarono tutto e lo seguirono. Gesù Cristo scelse il momento opportuno per chiamarli, utilizzando le loro interne disposizioni naturali. Erano due coppie di fratelli: Simone, chiamato poi Pietro, ed Andrea suo fratello, Giacomo e Giovanni figli di Zebedeo; tutti e quattro avevano seguito il Battista (Gv l,35ss) ed erano stati presenti al battesimo del Redentore, imparando dal loro Maestro a riconoscerlo per Messia. Imprigionato Giovanni, erano ritornati al loro mestiere, certamente scoraggiati, e l'invito di Gesù li trovò perciò più disposti a seguirlo.

Il Sacro Testo sintetizza l'apostolato di Gesù Cristo dicendo che Egli andava per tutta la Galilea, insegnando nelle sinagoghe, che erano edifici rettangolari dove il popolo si riuniva per pregare e per leggere i Libri Santi; andava predicando la nuova Legge e sanava le malattie di quanti venivano a Lui presentati; scacciava satana dagli ossessi; curava i lunatici, ossia gli epilettici, chiamati così per l'influenza che, secondo la comune credenza, esercitavano sui loro eccessi le fasi lunari, e risanava i paralitici. La fama di questi prodigi si sparse fin nella Siria, e gran turba di popolo cominciò a seguirlo dalla Galilea, dalle dieci città poste al di là del Giordano, chiamate perciò Decapoli, da Gerusalemme, dalla Giudea, e dalla Perea, all'Oriente del Giordano.

Giovanni fu messo in prigione, e sembrò una sventura, poiché si soffocava una voce potente di rinnovazione in mezzo al popolo. Eppure proprio allora Gesù intensificò il suo apostolato di verità e di carità. Il sacrificio non è mai infecondo nelle vie di Dio, e dall'immolazione nasce sempre un maggior bene in mezzo alle anime.

Dalla regione più nobile Gesù si ritirò in quella più umile della Galilea, per ricercare le anime semplici, giacché è più facile che le parole veramente grandi siano ricevute dagli umili: i cosiddetti grandi del mondo in realtà sono materiati di miserie, e sono sordi alle voci della verità.

Sac. Dolindo Ruotolo

     

    sabato 14 gennaio 2017

    15.01.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. I par. 7

     

    7. La testimonianza di san Giovanni Battista

    San Giovanni, dopo aver detto che il Verbo si è fatto carne, conferma la sua testimonianza con quella del Battista, prima di spiegare quale pienezza ha il Verbo Incarnato, e quale grazia e verità ci comunica. Il versetto 15 è come un inciso, una parentesi, una conferma dell'Incarnazione del Verbo, per la testimonianza di san Giovanni Battista, come i versetti 16, 17 e 18 sono la spiegazione della pienezza di grazia e di verità che il Verbo Incarnato ebbe e ci comunicò. San Giovanni Battista rese questa testimonianza solennemente, gridando alle turbe nell'additare Gesù Cristo: Questi è Colui del quale io dissi: Quegli che verrà dopo di me a predicare, è più di me per dignità e per dottrina, perché era prima di me, essendo vero Dio.

    Nella generazione secondo la carne san Giovanni era prima di Gesù, perchè concepito e nato sei mesi prima di Lui; con quelle solenni parole non poteva dunque alludere che alla preesistenza del Verbo nell'eternità, ossia alla sua divinità. Per quelli che ancora riguardavano il Battista come un prodigio di santità la testimonianza era di grandissimo valore. Gesù Cristo era stato come presentato al mondo da un grande profeta, e presentato come Dio; non era dunque un ignoto, come dicevano i farisei: Nescimus unde sit: non sappiamo da dove venga, ma era glorificato dalla testimonianza di uno, certamente mandato da Dio. Se era Dio, evidentemente noi abbiamo ricevuto e riceviamo dalla sua pienezza di grazia, grazia su grazia, e dalla sua pienezza di verità la grazia e la verità, cioè l'annunzio pieno della verità e la grazia per accoglierla e metterla in pratica.

    A Mosè fu data la Legge, ed egli è il fondamento dell'Antico Testamento; ma la Legge era piena di ombre e di figure, e non aveva valore che per il suo riferimento al Redentore che doveva venire, né giustificava che in vista di Lui. Era grazia divina e diffondeva grazia, ma non ne era pienezza, né poteva dirsi completa luce di verità, dato che annunziava la Luce vera che doveva un giorno illuminare ogni uomo.

    Nessuno, infatti, soggiunge san Giovanni, ha mai veduto Dio nella sua essenza, e nessuno ha potuto rivelarcene il mistero profondo; solo il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, cioè a Lui consustanziale, ed infinita conoscenza di Lui, ha potuto rivelarcelo, annunziandoci la Santissima Trinità, e svelandoci il mistero della sua eterna generazione dal Padre e dell'eterna spirazione dello Spirito Santo.

    Con queste parole l'evangelista indica la fonte dalla quale egli ha attinto la verità che forma lo scopo del suo Vangelo: la divinità di Gesù Cristo. Egli non fa supposizioni, non esprime un'opinione, non propugna fantasie, attinge la sua dottrina dalla stessa rivelazione fattane da Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, e confermata dai suoi miracoli e dalla sua vita.

    I nemici di Gesù Cristo avrebbero potuto opporre a Lui il Battista, che con la sua austerità rispondeva di più alle idee che essi avevano del futuro Messia, ma san Giovanni, prevenendo l'obiezione, la sfata con la stessa testimonianza del Battista. I Giudei, infatti, cioè i capi del sinedrio di Gerusalemme, avendo saputo della predicazione di san Giovanni Battista e dell'entusiasmo che aveva suscitato nel popolo, sospettarono che potesse essere egli il Messia e vollero accertarsene con un'inchiesta. Siccome poi l'evangelista scriveva quando il popolo giudaico si era già posto in opposizione col cristianesimo, e designava per Giudei gli Ebrei traviati e i nemici di Gesù Cristo, si può supporre che l'ambasceria mandata al Battista, più che un'inchiesta per riconoscere il Messia, sia stata un'inquisizione per togliere di mezzo il Precursore ed impedirgli ogni forma di apostolato.

    giovedì 5 gennaio 2017

    06.01.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. II par. 2

    2. I Magi, il loro viaggio a Gerusalemme, l'adorazione del nato Redentore

    Quando nacque Gesù Cristo regnava nella Giudea Erode, chiamato il grande, si direbbe per una storica ironia, giacché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, ed ottenne il regno a furia d'intrighi col senato romano. L'evangelista fa notare a bella posta che regnava Erode, un Idumeo straniero, che rappresentava per di più l'autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (Gen 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell'Erode, tetrarca della Galilea, che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte infatti il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.