venerdì 1 maggio 2015

03.05.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 15 par. 2

2. L'unione dell'anima a Gesù Cristo è segreto di fecondità, di amore, di carità e di apostolato


Gesù Cristo esortò gli apostoli ad alzarsi da tavola e andar via, come si accennò nel capitolo precedente, ma non uscirono immediatamente, perché dovettero rassettare la sala del banchetto. Mentre raccoglievano i residui della mensa Gesù continuò il suo discorso con loro. Egli che già si chiamò Pane di vita (6,35) e si paragonò al granello di frumento (11,24), vedendo gli apostoli che toglievano i vasi del vino, o forse anch vedendo qualche tralcio disseccato di vite che poteva essere nella sala per attizzare il fuoco esclamò: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.Gesù era il coltivatore divino della vigna novella che era venuto a piantare in mezzo al popolo eletto, ma in quel momento s'era donato vivo e vero come cibo e come bevanda, ed era Egli stesso la vite che dava il frutto soave, e lo dava perché le anime, congiunte a Lui, avessero prodotto anch'esse il loro frutto, in Lui e per Lui. Dandosi sacramentalmente Egli s'era come moltiplicato ed aveva promesso di darsi a tutti i suoi fedeli, unendoli a sé; era dunque, per l'Eucaristia, come una vite che doveva coprire dei suoi tralci tutto il mondo ed i fedeli erano i suoi tralci, congiunti a Lui, per attingere da Lui il succo vitale e produrre il frutto. Il Padre suo, sotto questo aspetto, era il vignaiolo ed il coltivatore di questa vite divina, poiché Egli aveva mandato il Piglio suo in terra perché salvando le anime le avesse congiunte a sé e le avesse rese come suoi tralci vivi e fecondi. Per mezzo dei Sacramenti, e soprattutto per l'Eucaristia, i fedeli, congiunti a Gesù Cristo come i tralci alla vite nel suo mistico Corpo, avrebbero attinto la sua vita e prodotto in Lui e per Lui frutti di eterna gloria.


L'espressione più bella della schiavitù di amore al Re divino sta proprio nel paragone della vite e del tralcio, simbolo del Corpo mistico unito al suo capo in una dedizione piena, che è in Lui legame di amore e libertà piena da ogni vincolo di morte. Il tralcio non è libero quando è congiunto alla vite, perché la sua vitalità dipende da essa; ma questa dipendenza non è oppressione o mancanza di proprie attività, è invece espansione di vita, fioritura e produzione di frutto. Se il tralcio si stacca dal ceppo e pretende di vivere da sé, muore, è reietto, è schiavo del terreno in cui giace inerte, è schiavo di chi lo raccoglie per gettarlo nel fuoco ed è schiavo del fuoco medesimo che lo consuma. L'anima che si dona interamente a Gesù, senza restrizioni, rinunzia alla propria inerzia e, per la dolce schiavitù d'amore è tutta vivificata da Lui. Essa, più che rinunziare alla propria libertà, dona a Lui l'intera libertà di elevarla e santificarla, e vive di una libertà divina, immensamente più vera e più bella della propria effimera libertà. Sta infatti nell'essenza della libertà non tanto il potere di operare il male o di degradarsi, ma la possibilità di elevarsi in Dio senza restrizione, in una continua ascesa verso le vette della perfezione e della santità.

La libertà del male è un difetto della libertà non un vantaggio, com'è un difetto il servirsi di una tastiera libera di pianoforte per strimpellarvi note confuse ed accordi stridenti.

Si è veramente liberi al pianoforte quando si è legati alla melodia ed al ritmo, e quando vi si suona ogni specie di musica, senza esser costretto da un diaframma ad una sola suonata o, peggio, senza esser costretto dalla paralisi del braccio o delle dita a percuotere i tasti senza nesso alcuno.

Gesù Cristo è la vera vite, cioè è il vero centro della vita delle anime, congiunte a Lui nella Chiesa e per la Chiesa. Ora come nella vigna l'agricoltore toglie via dalla vite quei tralci che non portano frutto e pota salutarmente quelli che ne portano poco, così Dio recide dal Corpo mistico del Redentore le anime che non portano frutto alcuno, perché non assorbono più la sua vita, e purifica con le tribolazioni, le prove e le tentazioni, le anime che danno con facilità corso alle proprie miserie, e si espandono nel mondo, come un povero tralcio che s'allunga lontano dal tronco, s'avvinghia agli sterili pali, e disperde tutto l'umore che dovrebbe farlo fiorire e fruttificare.

Se rimarrete in me e rimarranno in voi le mie parole, qualunque cosa vorrete e la domanderete vi sarà concessa

Gesù, rivolto agli apostoli, disse che essi erano già mondi per la parola che aveva loro annunziato, perché i loro pensieri e la loro anima per quella parola di vita erano orientati a Dio. Tutto ciò che nell'antica Legge era simbolico e transitorio, era in loro già illuminato dalla realtà, e tutto quello che di arbitrario vi avevano frammischiato gli scribi e i farisei era stato illuminato in loro dalla luce della verità. Nel loro spirito Egli aveva come piantato il seme della carità e dell'universalità, di modo che non erano più isolati nella cerchia ristretta di una stirpe o di una nazione, né erano presi dal disprezzo verso gli altri e dall'aborrimento verso i peccatori; aveva dato loro il nuovo precetto della carità perché avessero amato tutti, e li aveva designati ad un apostolato universale, per conquistare al suo Cuore tutto il mondo. Benché conservassero ancora le loro idee e le loro debolezze, la sua parola aveva determinato nell'anima loro un mutamento radicale, che avrebbe portato il suo frutto, come lo porta un tralcio potato, al primo tepore della primavera. Non bastava però questo per portare il frutto che Egli voleva dal loro apostolato e dalla loro anima; essi dovevano rimanere in Lui ed accoglierlo in loro, dovevano attingere la sua vita e cedere la propria, dovevano essere come tralci uniti alla vite feconda, poiché senza di Lui nulla di buono o di utile per l'eterna vita potevano fare.

Evidentemente Gesù parlava dell'unione eucaristica di Lui negli apostoli, e degli apostoli in Lui. Lo stesso paragone della vite e dei tralci vi aveva relazione, poiché Egli aveva loro dato, sotto le specie del vino, il suo medesimo Sangue, quasi vite divina che aveva donato il suo grappolo d'uva e il vino generoso roborante le forze. E impossibile portare un vero frutto di opere buone e di apostolato senza unirsi a Gesù Sacramentato e vivere di Lui e per Lui. E questo il grande segreto della santità personale e dell'evangelizzazione del mondo. Ma per attingere la vita dall'Eucaristia non basta semplicemente riceverla, occorre rimanere in Gesù donandosi a Lui, e farlo rimanere nel proprio cuore accogliendolo come Re dell'anima. Ora non si può rimanere in Gesù senza donarsi né lo si può accogliere senza lasciargli la piena libertà di operare in noi, secondo i fini ineffabili del suo amore. Chi si comunica senza rinunziare a se stesso, ai suoi pensieri, alle sue idee, al mondo, allo spirito mondano ed a tutto ciò che lo attrae alla terra rimane un tralcio sterile, è gettato via, inaridisce ed è buono solo per il fuoco eterno.

Per questo Gesù, dopo aver parlato dell'unione eucaristica con Lui, parla della necessità di custodire la sua parola: Se rimarrete in me e le mie parole rimarranno in voi, qualunque cosa vorrete, la domanderete e vi sarà concessa. Qualunque cosa vorrete, cioè qualunque frutto vorrete raccogliere dall'anima vostra, lo otterrete rimanendo in me nella Comunione eucaristica, e facendo rimanere in voi le mie parole, nell'unione ai miei pensieri ed alla mia volontà. Questa duplice unione con Lui produce la vera ricchezza delle opere buone, rende l'anima vera sua discepola, e la rende glorificazione di Dio nella vita e nelle opere.

Anche in questo passo evangelico Gesù non promette l'esaudimento di qualunque preghiera, ma l'esaudimento delle preghiere fatte per ottenere la santificazione dell'anima e il frutto dell'apostolato, per la gloria di Dio. Ci lamentiamo della nostra miseria e della nostra debolezza; eppure, se ci uniamo veramente a Gesù Sacramentato rinnegando noi stessi, i nostri pensieri e la nostra volontà otterremo qualunque aiuto e potremo progredire nella via della santità e dell'apostolato, per la divina gloria, unica mèta della nostra vita in terra.

L'anima angustiata, provata, inariditae il Sacramento dell'Amore

La dedizione piena di noi stessi a Gesù dev'essere fatta per amore, e deve essere corrispondenza piena e pratica al suo amore. Nell'Eucaristia infatti domina l'amore di Gesù per l'umanità, e per parteciparvi fruttuosamente è necessario che il nostro amore per Lui sia pieno. Non può concepirsi che si riceva senza amore il Sacramento dell'amore né che quest'amore si restringa ad uno sterile sentimento. Per questo Gesù, a completare la sua mirabile esortazione, soggiunse: Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Perseverate nel mio amore. Se osservate i miei precetti rimarrete nel mìo amore, come anch'io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Il Padre ha amato il Figlio incarnato con un amore infinito e per glorificarlo non ha esitato a farlo camminare per la via del dolore. Il Figlio poi lo ha amato osservando i suoi comandamenti, cioè compiendo la sua volontà. Ora Gesù protesta di amare i suoi cari con lo stesso amore: dona loro la sua vita, li genera ad una vita superiore e soprannaturale e li porta per il cammino della croce in questa terra, perché possano conseguire l'eterna gioia del Cielo: Vi ho detto queste cose affinché la mia gioia sia in voi e la gioia vostra sia completa. Per rispondere a questo amore e conseguirne i frutti è necessario amare, camminando per la via del Calvario e compiendo la divina volontà nelle angustie della vita e nell'osservanza dei divini precetti. E questo l'amore che si deve portare all'Eucaristia.

Quando l'anima si sente angustiata, arida, provata, e va a Gesù con un pieno abbandono alla sua volontà, allora veramente ama, ed allora il Sacramento dell'amore la vivifica. Si può dire giustamente che si riceve l'Eucaristia per unirsi in Gesù e con Gesù alla divina volontà, nelle pene e nelle tenebre del nostro cammino. L'Eucaristia non è il Sacramento dei beati comprensori, ma dei viatori e delle vittime. All'altare del Sacrificio ci si va meglio con una veste di sacrificio, e con un pieno abbandono al Signore per tutto ciò che dispone nella nostra vita. La gioia che si raccoglie all'altare è proprio la gioia di una più completa unione alla divina volontà.

Non si raggiunge la gloria per la via della natura, ma per quella della grazia

L'Eucaristia non è il cibo della mensa eterna, è il cibo dei martiri; e noi nella vita spirituale e in quella corporale siamo tutti martiri, e dobbiamo essere martiri di amore e di piena unione alla divina volontà. La gioia che Gesù ci promette completa ci è riservata solo nell'eterna vita. Possiamo averne qui qualche piccolo assaggio, ma questo non è il conseguimento della gioia, è un conforto che Dio ci dà nel cammino doloroso, è come una stilla d'acqua che viene data sulla nostra croce. Bisogna rimanere nell'amore di Gesù, cioè essere costanti nel seguirlo nella via del sacrificio e persuaderci che immaginare un cammino diverso è un'illusione pericolosa e spesso esiziale per l'anima. Le migliori comunioni non sono quelle fatte tutte nel fervore ma quelle fatte nell'agonia; allora si raggiunge per così dire l'incandescenza dell'amore, che in Gesù Cristo fu l'ultimo atto di dedizione al Padre nell'abbandono e nella morte. Alla natura questo non piace ma non si raggiunge la gloria per le vie della natura, sebbene per quelle della grazia e dell'amore immolato. La gioia che Gesù volle trasfondere negli apostoli fu proprio la gioia purissima d'immolarsi, il più alto vertice della dolce schiavitù dell'amore, che nel Cielo diventa dedizione piena a Dio nella ineffabile e completa gioia della gloria.

Sac. Dolindo Ruotolo

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