sabato 21 novembre 2015

22.11.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 18 par. 5

5. Gesù Cristo davanti a Pilato

Dopo il processo, diciamo così, religioso, fatto a Gesù in casa di Anna e di Caifa, e dopo averlo condannato a morte come bestemmiatore, i Giudei sul fare del mattino lo condussero da Pilato per far ratificare la sentenza. Essi infatti, dopo l'occupazione romana, non potevano eseguire nessuna sentenza capitale senza l'autorizzazione del preside o governatore della nazione. Andarono in massa a bella posta per impressionare Pilato, sicuri che non avrebbe rifiutato la ratifica che domandavano. Siccome per gli Ebrei entrare in una casa pagana era lo stesso che contrarre un'impurità legale, essi, dovendo ancora mangiare la Pasqua, per la quale si richiedeva una grande mondezza, non entrarono nel pretorio per non contaminarsi. Ipocriti e scellerati! Si facevano scrupolo di entrare nel pretorio, e non si facevano scrupolo di domandare la morte d'un innocente, anzi, la morte del Figlio di Dio!

Pilato era già informato del processo che s'era ordito contro Gesù e sapeva bene che il movente principale era stata l'invidia che avevano contro di Lui i sacerdoti, gli scribi e i farisei. Il tribuno poi che aveva accompagnato coi soldati I messi del Sommo sacerdote per catturare Gesù, aveva certamente riferito a Pilato lo scempio che ne avevano fatto, ed egli non era disposto a ratificare un'ingiustizia così manifesta. Egli inoltre aveva dovuto indispettirsi anche del gesto dei Giudei di non entrare nel pretorio come luogo immondo, e perciò uscì fuori, sulla loggia, pronto a dare una lezione a quella canaglia. Si potrebbe aggiungere a questo che, siccome i Romani amministravano la giustizia a prima mattina, Pilato era seccato anche d'essere disturbato dal sonno a quell'ora. Egli perciò con fare secco domandò quale accusa portassero contro Gesù, iniziando così il processo penale.

I Giudei, indispettiti di quella domanda che frustrava tutto il loro piano, risposero con rabbia, mostrandosi offesi: Se non fosse costui un malfattore, non te lo avremmo condotto. E volevano dire: potresti fidarti di noi e della nostra giustizia, poiché non saremmo capaci di presentarti come reo un innocente. Pilato, sapendo già che lo avevano condannato per loro beghe religiose che per lui non avevano alcun'importanza, colse subito l'occasione per liberarsi da quell'increscioso processo; la moglie, infatti, come narra san Matteo (27,19), gli mandò a dire che non s'impicciasse di quel giusto, perché essa era stata molto turbata in sogno a causa di lui. Quest'ambasciata gli mise nell'animo un timore grande, e perciò rispose ai Giudei: Prendetelo voi stessi e giudicatelo secondo la vostra legge. Egli voleva così mutare il processo penale in processo religioso, per il quale i Giudei avrebbero potuto solo scomunicare Gesù e farlo flagellare. Che, se Pilato avesse loro concesso la facoltà di procedere contro di Lui sino alla pena capitale, essi avrebbero potuto lapidarlo come bestemmiatore secondo la loro legge, ma non crocifiggerlo.

Alcuni suppongono che Pilato abbia detto per ironia: Giudicatelo voi secondo la vostra legge, ma dal contesto non appare; egli aveva veramente l'intenzione di liberarsi da quel processo.

I sacerdoti, gli scribi e i farisei, per il loro odio contro Gesù e per togliergli ogni prestigio sul popolo con una morte infamante, avevano deciso nel loro conciliabolo di farlo crocifiggere, e probabilmente avevano già dato ordine di apprestare lo strumento del supplizio. Ad essi non bastava neppure che Pilato desse loro l'autorizzazione di farlo morire; voleva che l'avesse fatto crocifiggere, e questo poteva farlo solo lui. Essi inoltre, con sottile malizia, non vollero addossarsi innanzi al popolo la responsabilità d'una così atroce condanna, perché sapevano quanto Gesù era amato e stimato per le sue grandi opere e per le sue parole; volevano mostrare al popolo che il potere civile l'aveva trovato tanto degno di condanna, da fargli subire il supplizio della croce, come si faceva coi ladroni e coi più grandi malfattori. Ebbero cura anzi, con la scusa dell'imminente ciclo di feste pasquali, di affrettare l'esecuzione capitale di due ladri condannati già alla croce, per accomunare Gesù ai malfattori più tristi. Perciò, alla proposta di Pilato di giudicarlo essi stessi secondo la Legge, risposero che a loro non era lecito di dar la morte a nessuno. Con questo, nota l'evangelista, si adempivano le parole di Gesù, che aveva predetto più volte che sarebbe stato crocifisso (3,14; 8,32; 12,33; Mt 20,19, ecc.). Reclamavano quindi ad ogni costo il giudizio di Pilato non solo perché Gesù fosse stato ucciso, ma perché fosse stato ucciso con la morte di croce.

Sei tu il re dei Giudei?

Pilato, visto che essi erano più che mai decisi e che per indurlo ad assentire alla loro richiesta, accusavano Gesù di sedizione contro l'autorità romana dichiarandosi re dei Giudei, rientrò nel pretorio e, chiamato il Redentore, gli domandò: Sei tu il re dei Giudei? La domanda era come la base necessaria dell'inchiesta che voleva fare per assodare la verità o meno dell'accusa fattagli. Se Egli fosse stato realmente re dei Giudei per legittima discendenza, l'accusa aveva un fondamento, e diventava compromettente per Pilato innanzi a Cesare il non prenderne conto, giacché un vero re, per quanto spodestato, poteva realmente essere nel popolo un elemento di rivolte e di rivendicazioni nazionali. Se non fosse stato re per discendenza, ma avesse egli preso quel titolo, allora sarebbe stato meno pericoloso, e sarebbe bastato infliggergli una pena infamante, come la flagellazione, per farlo desistere. Pilato poi non poteva ignorare, benché forse la conoscesse confusamente, l'aspirazione degli Ebrei al Messia e quindi era per lui importantissimo l'assodare se Gesù era il re aspettato, o se si proclamasse tale Egli stesso, per una strana ambizione; perciò gli domandò: Sei tu il re dei Giudei?

La domanda di Pilato in realtà era confusa, e comprendeva tutti insieme i sospetti ch'egli aveva, e Gesù, nella sua altissima sapienza, volle che fosse precisata per rispondergli in modo inequivocabile. Perciò gli disse: Dici questo da te stesso, oppure altri te lo hanno detto di me? Se, infatti, Pilato gli avesse fatto quella domanda per un suo sospetto, la parola re aveva il valore di rivendicatore politico; se egli invece l'avesse fatta perché altri gliene avevano parlato, quella parola poteva avere o il valore di sobillatore o quello di Messia, a seconda che quelli che gliene avevano parlato erano nemici o amici suoi.

Gesù Cristo sapeva bene, per la sua scienza infinita, in qual senso Pilato l'aveva interrogato e, se gli fece quella

domanda chiarificatrice, la fece non per essere illuminato Lui, ma per illuminare Pilato. Scelse quella forma interrogativa e dubitativa per indurre il preside alla riflessione, giacché quegli, per carattere, prendeva le cose superficialmente, e lo aveva interrogato se era re confondendo in uno la sua discendenza regale, l'accusa che gli avevano fatto di proclamarsi re contro Cesare, e l'accusa di proclamarsi il Messia aspettato, Figlio di Dio. Egli non poteva rispondere senza costringere Pilato ad uscire da quella confusione.

Il preside però, da autentico romano, disdegnando di mostrarsi interessato alle vicende d'un popolo soggiogato, e mostrando di interrogarlo unicamente sulla base delle accuse fattegli, soggiunse: Sono io forse Giudeo? Potrei io mai interessarmi se tu sei re o non lo sei? Anche se tu lo fossi non saresti sotto il mio potere, come capo di una nazione vinta? Se interrogo dunque lo faccio non perché tema o m'interessi di un re dei Giudei, ma perché la tua nazione e i pontefici ti hanno deferito a me q ti hanno accusato di sobillazione; ora tu dimmi che hai fatto? Che cosa c'è di vero in quest'accusa? Hai veramente congiurato contro Cesare?

Il mio regno non è di questo mondo

Alla specifica domanda sull'accusa di sobillazione Gesù rispose con una solennità veramente regale, escludendola con un argomento inoppugnabile: Il mio regno non è di questo mondo; se fosse di questo mondo il mio regno, i miei servi certamente avrebbero combattuto perché non cadessi nelle mani dei Giudei; ora poi il mio regno non è di qua. E necessario approfondire queste grandi parole di Gesù per non fraintenderle. Egli non disse: Io non sono Re di questo mondo, ma il mio regno non è di questo mondo, cioè io non sono re come lo sono i re della terra che conquistano il regno con le armi e lo conservano con la forza. Il mio regno non è di qua, non viene cioè dalla terra, non è frutto di un diritto temporale, ma

viene dal diritto divino, ed è un regno di umore e di pace, un regno di anime, che non ha nulla di comune con i regni del mondo. Egli sta al di sopra dei regni e dei re terreni, anche loro malgrado, e vi sta visibilmente per il suo vicario, il Papa: Egli domina non per sottoporre i sudditi ad un regime d'oppressione, ma per elevarli nella verità e condurli con Lui nell'eterna gloria. Per questo, a Pilato che nelle sue parole avvertì una regalità veramente grande, e impressionato gli disse: Tu dunque sei re? — rispose — Tu lo dici, io sono Re. Io per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce.

Era un orizzonte troppo magnifico per essere capito da Pilato, che, come governatore, viveva di politica, ossia di doppiezze e di menzogne. Al regno politico Gesù opponeva il regno dell'intelligenza e dei cuori, che è regno di vera libertà, di vera uguaglianza innanzi a Dio, e di vera fraternità soprannaturale. I regni terreni sono fondati sulla forza e sulla violenza, di modo che i sudditi non seguono la verità ma l'imposizione, non sono conquisi dall'amore ma dalla forza; il regno di Gesù Cristo invece è verità splendente che conquide la mente, è luce che guida la volontà al bene ed ai beni eterni, ed è amore che affascina nell'amore.

Libero, Barabba!
Pilato non poteva capire questa grande visuale di vita nuova, credette di trovarsi innanzi ad un idealista o ad un filosofo, ed esclamò in tono ironico: Che cosa è la verità? Egli stava da mane a sera a contatto di bugie, di doppiezze, sapeva per esperienza di governo quanto fosse difficile il poter sapere una verità, aveva egli stesso coscienza di dire un mondo di bugie tanto nella sua vita privata che pubblica, e le parole di Gesù gli parvero una grande utopia. Che cosa è la verità, egli voleva dire, se tutti la deformano a modo loro? E come mai tu puoi ancora illuderti che ci sia chi segue la verità, se tu stesso

sei trascinato innanzi a me sotto un cumulo di accuse false? Ad ogni modo quella risposta di Gesù, detta con tanta maestà e convinzione, persuase Pilato ch'Egli era un uomo retto, e che non avrebbe mai osato congiurare contro i Romani, dato che ogni congiura è sempre a base d'imbrogli. Capì che un uomo così retto e franco non aveva potuto dire di sé una cosa falsa né aveva potuto contrastare la stessa legge dei Giudei; sentì nelle sue parole l'accento dell'innocente che non si confonde innanzi al giudice, ma ha anche la forza di sostenere le sue opinioni, e perciò, uscendo nuovamente sulla loggia del pretorio, disse al popolo: Io non trovo in Lui nessuna colpa. Disse questo e guardò con occhio scrutatore la massa del popolo che in quel momento, sorpresa da questa testimonianza precisa, taceva. Non aveva detto Gesù sfidando tutti, una volta: Chi di voi mi riprenderà di peccato?

Il popolo rimase come interdetto perché in realtà non poteva rimproverare nulla a Gesù, ed assentiva in cuor suo alle parole del preside. Gli stessi sacerdoti, scribi e farisei rimasero per un momento disorientati, vedendo fallito tutto il loro piano. Pilato interpretò il silenzio del popolo e il disorientamento dei suoi capi come un momento di simpatia o d'indecisione dando peso solo alla propria asserzione, credette di averli inchiodati e confusi; s'aspettava di vederli subito sbandati, senza più insistere sulla loro richiesta, ma da uomo navigato in politica com'era, capì pure che, soprattutto per i capi, sarebbe stato disonorante ritirare l'accusa, e perciò ricorse ad un espediente che poteva liberare lui da quell'impiccio, e poteva accomodare tutto senza l'umiliazione dei capi del popolo: era uso che nella solennità di Pasqua il governatore liberasse un reo dal carcere e dalla pena, a richiesta di popolo, in memoria della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù dell'Egitto; egli, appellandosi a quest'uso, domandò: Volete che vi lasci libero il re dei Giudei? Propose come liberazione d'indulgenza quella che doveva essere liberazione di giustizia; pose a confronto

di Gesù un ladro ed un omicida, perché non ci potesse essere esitazione sulla scelta, e cercò di lusingare anche il sentimento nazionale del popolo, dicendo che voleva liberare il loro re. Egli infatti s'era persuaso che Gesù era il legittimo discendente dei re di Giuda, perché nel giudicarlo, com'è ovvio, aveva prima di tutto stabilito le generalità del supposto reo, ed aveva saputo che era della famiglia di Davide. Egli non avrebbe domandato a Gesù una seconda volta: Tu dunque sei re? senza avere avuto un fondamento nella sua supposizione; sarebbe stato strabiliante per un preside romano fare sul serio questa domanda ad un sobillatore qualunque, accusato di tentata usurpazione della regale potestà. Pilato s'attendeva un esito certo dalla sua proposta, e ritto sul suo podio guardò la massa del popolo ed attese la risposta. S'accorse certamente della manovra bieca dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei, che eccitarono il popolo a reclamare Barabba, e con disgustosa sorpresa sentì formidabile il grido di quella canaglia venduta e inviperita: Non già costui ma Barabba. L'evangelista nota con un senso di profonda pena e di profondo disgusto: Barabba poi era un ladrone. Era l'epilogo più ripugnante dell'umana ingratitudine verso Colui che era passato beneficando e sanando tutti!

Sac. Dolindo Ruotolo

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