2. Il vincitore della morte
Il Vangelo non ci racconta quel che avvenne al momento della risurrezione di Gesù, ma lo lascia supporre dal contesto medesimo; non è una reticenza, è una sublime maniera di esprimersi, che possiamo noi stessi ricostruire recandoci in spirito al sepolcro 6. Ecco la tomba: la pietra pesantissima che la copriva è ribaltata, i lini che avvolsero Gesù sono piegati e riposti in un canto, due angeli sfolgoranti di luce vigilano il luogo della sepoltura; uno di essi, come dice san Matteo (28,2) rovesciò la pietra, e vi si assise sopra, terrorizzando le guardie che vigilavano il sepolcro; poi entrò nella tomba e vi rimase in adorazione con l'altro angelo, di cui fa menzione san Luca.
Essi soli furono testimoni del momento solenne, che non ebbe nulla d'impetuoso, ed essi soli con la potenza del loro spirito scossero la terra. Era l'alba del giorno dopo il sabato: Gesù dormiva ancora nel sonno della morte, ma la Persona divina non aveva abbandonato il suo Corpo incorrotto. Era veramente morto, ma non poteva dirsi cadavere dominato dalla corruzione; attendeva l'ora stabilita dal Padre per ricomporre quel Corpo divino e rianimarlo.
La sua anima si avvicinò al Corpo, gloriosa, ripiena di potenza divina, sublimata dalla divina volontà che aveva perfettamente compiuta; guardò il Corpo esanime e piagato, lo amò perché era stato olocausto pieno di amore per la divina gloria; lo desiderò, perché non poteva abbandonarlo alla corruzione, essendo esso innocentissimo e santo. Vide il Sangue che ancora lo copriva, e vide quello che s'era sparso, si ordinò di nuovo al Corpo ed al Sangue suo, poiché la Persona divina v'era ancora congiunta, com'era congiunta a lei. Non poteva essere separata più da quella unità, poiché la Persona divina traeva l'anima verso il Corpo ed il Sangue, ed il Corpo e il Sangue verso l'anima. Fu come una consacrazione; l'anima disse: Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue, ed il Corpo non mutò di sostanza ma di forma, si ricostituì in un istante, e da cadavere divenne addormentato, col Sangue vivo che rigurgitava già nel cuore e nelle vene ed aspettava il pulsare della vita per circolare. Fu un istante solo; l'Anima rientrò nel Corpo e lo informò nuovamente, comunicandogli la gloria che l'avvolgeva, ed il corpo, come oro volatilizzato da una grande fiamma, fu tutto spirituale. Era avvolto dalle bende; il Cuore pulsò amando, e come onda gioiosa il Sangue si riversò nelle vene e raggiunse il cervello, che si rischiuse lodando il Padre, come fiore che si riapre al sole mattutino e dà la sua fragranza.
Quel Corpo sgusciò quasi tra le bende, passandole in un attimo, quasi fosse una nube di luce, od un fascio di raggi splendenti. Si levò adorando, e tutta la sua umanità cantava come arpa dalle corde di oro fulgente, cantava ringraziando il Padre del suo trionfo.
L'angelo come folgore scese dal cielo, e con Lui una turba gioiosa; con un atto di volontà si volse alla terra ed essa tremò, si volse al macigno ed esso ribaltò come fuscello trasportato dal vento, infrangendo i suggelli.
Gesù era già passato attraverso il masso. Aveva dato uno sguardo intorno allo speco, l'aveva benedetto perché fosse d'ora innanzi glorioso, ed aveva benedetto tutte le tombe degli uomini, perché un giorno, come grano, rifiorisse la loro vita.
Egli era la primizia degli addormentati nella morte, e risorgeva per darci la risurrezione, com'era morto per darci la vita.
Albeggiava, e le tenebre calavano, calavano come tenda che si ravvolge; la terra fuggiva, fuggiva, girava sull'asse, avanzava, perché il sole la avesse inondata di gioia; aveva un fremito di vita novella, perché la Vita aveva scontrato la morte e l'aveva fiaccata.
Fuggiva la morte... in quell'ora il suo regno passava; sorgeva la Vita, splendente nei raggi di gloria, avvolgeva gli oscuri meandri della scarna morte, ed opponeva alla condanna dell'Eden: Morte morieris, morirai di morte, il chirografo della misericordia: Vitam habeant, abbiano la vita.
Un canto si levò dai cieli, un canto di gioia al vincitore della morte: Exultet iam angelica turba caelorum, exultent divina mysteria, et prò tanti Regis victoria tuba insonet salutaris,esulti dunque E angelica schiera dei cieli, esultino i divini misteri e risuoni la tromba della salvezza per la vittoria di un così grande re.
Discesero gli angeli a schiere, esultarono sfavillando come folgori intorno alla tomba del grande trionfo e cantarono di nuovo: Gloria a Dio e pace agli uomini di buona volontà, come a Betlem.
Tratto dalla monumentale opera di dottrina esegetica di ben 30 volumi. Il frutto che si ricava da tale lettura è una maturazione profonda nella fede, una percezione della verità della Parola negli eventi del nostro tempo, una aspirazione santa alle promesse contenute nella Rivelazione.
domenica 27 marzo 2016
domenica 20 marzo 2016
20.03.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 22 par. 2-7
2. Il patto di Giuda, e la psicologia del suo tradimento.
Si avvicinava la festa della Pasqua, e, come dicono S. Matteo (26, 2) e S. Marco (14, 1), di lì a due giorni doveva celebrarsi; ora, i principi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo che il concorso del popolo si faceva sempre più numeroso quando Gesù insegnava nel tempio per l'affluire dei pellegrini che venivano a celebrare la solennità in Gerusalemme, ne furono impressionati e si consultarono insieme per vedere in qual modo uccidere il Redentore senza suscitare turbamenti nel popolo. Essi non credevano ancora che Gesù fosse così popolare e che la sua parola attraesse tanto; se ne convinsero quando videro che i pellegrini confluiti a Gerusalemme si affollavano anch'essi per ascoltarlo nel tempio, e pensarono che quel movimento dovesse ad ogni costo troncarsi, avendo guadagnato anche le altre regioni. Più grande, però, era il concorso del popolo e meno essi avevano il coraggio di agire manifestamente contro Gesù, e per questo andavano cercando un'occasione propizia per farlo.
L'occasione venne loro da chi meno se lo sarebbero aspettato, da Giuda Iscariota, uno degli apostoli.
Questi da molto tempo seguiva Gesù con animo falso e perverso; era col corpo ma non con l'anima tra i suoi discepoli, anzi era in atteggiamento subdolamente ostile. Gli era venuta quasi una ossessione del suo avvenire, e poiché la vita randagia e povera che conduceva non gli dava nessuna assicurazione per il futuro, portandogli le elemosine che si raccoglievano, aveva cominciato ad appropriarsene.
S'era messo a seguire Gesù con l'entusiasmo di chi aspetta grandi trionfi e grandi vantaggi temporali; aveva visto sfumare queste illusioni; anzi l'incalzare delle persecuzioni contro il Maestro divino l'aveva persuaso di essersi imbattuto in un falso profeta. Egli aveva perduto quel poco di fede più naturale che soprannaturale che prima aveva avuto, ed era diventato un critico spietato di tutte le azioni di Gesù, tanto più pericoloso in quanto che non si manifestava.
Il Sacro Testo dice che satana era entrato in lui, non ossessionandolo e rendendolo irresponsabile, ma suscitando in lui uno spirito diffidente, critico, sospettoso e fantastico, e dandogli un sempre maggiore assillamento per la propria situazione materiale. Voleva ad ogni costo crearsi una fortuna stabile, e forse al principio s'illuse magari anche di poter rendere meno precaria la situazione dei suoi compagni; non accettò il precetto della povertà volontaria, non confidò in nessun modo in Dio e, quando credette essere giunto per lui il momento di fare un buon guadagno, non esitò a gettarsi nell'abisso del tradimento.
Subdolamente egli era certamente in relazione coi sacerdoti del tempio e con gli scribi; questi si accorsero della sua incertezza e cercarono staccarlo da Gesù; al principio satana lo illuse facendogli intendere che in fondo era l'autorità del sinedrio che riprovava il Maestro. Quando seppe che complottavano contro di Lui, satana gli pose in cuore che poteva fare un lauto guadagno tradendolo, e senza più esitare si recò dai sommi sacerdoti per contrattare il tradimento. Forse s'illuse e cercò giustificarsi innanzi alla propria coscienza, pensando di far togliere di mezzo un impostore; può ricavarsi questo dal disperato rammarico che provò quando, dalla sua pazienza nella Passione e dalla sua innocenza proclamata da Pilato, s'accorse che era un giusto.
Egli non domandò un prezzo determinato del suo tradimento, ma si rimise ai sacerdoti, proprio perché sperava fare un buon affare. Avendo però egli stesso prospettato Gesù come un mestatore, per non comparire innanzi ai sacerdoti come un traditore, dovette contentarsi dei trenta denari che gli offrirono, ciò che allora costituiva il prezzo di uno schiavo. Rimase male per questo, ma non lo manifestò, e forse uno dei motivi per i quali dopo restituì la moneta e la gettò per terra non fu tanto il pentimento del tradimento quanto il dispetto d'averne avuto così poco.
Si avvicinava la festa della Pasqua, e, come dicono S. Matteo (26, 2) e S. Marco (14, 1), di lì a due giorni doveva celebrarsi; ora, i principi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo che il concorso del popolo si faceva sempre più numeroso quando Gesù insegnava nel tempio per l'affluire dei pellegrini che venivano a celebrare la solennità in Gerusalemme, ne furono impressionati e si consultarono insieme per vedere in qual modo uccidere il Redentore senza suscitare turbamenti nel popolo. Essi non credevano ancora che Gesù fosse così popolare e che la sua parola attraesse tanto; se ne convinsero quando videro che i pellegrini confluiti a Gerusalemme si affollavano anch'essi per ascoltarlo nel tempio, e pensarono che quel movimento dovesse ad ogni costo troncarsi, avendo guadagnato anche le altre regioni. Più grande, però, era il concorso del popolo e meno essi avevano il coraggio di agire manifestamente contro Gesù, e per questo andavano cercando un'occasione propizia per farlo.
L'occasione venne loro da chi meno se lo sarebbero aspettato, da Giuda Iscariota, uno degli apostoli.
Questi da molto tempo seguiva Gesù con animo falso e perverso; era col corpo ma non con l'anima tra i suoi discepoli, anzi era in atteggiamento subdolamente ostile. Gli era venuta quasi una ossessione del suo avvenire, e poiché la vita randagia e povera che conduceva non gli dava nessuna assicurazione per il futuro, portandogli le elemosine che si raccoglievano, aveva cominciato ad appropriarsene.
S'era messo a seguire Gesù con l'entusiasmo di chi aspetta grandi trionfi e grandi vantaggi temporali; aveva visto sfumare queste illusioni; anzi l'incalzare delle persecuzioni contro il Maestro divino l'aveva persuaso di essersi imbattuto in un falso profeta. Egli aveva perduto quel poco di fede più naturale che soprannaturale che prima aveva avuto, ed era diventato un critico spietato di tutte le azioni di Gesù, tanto più pericoloso in quanto che non si manifestava.
Il Sacro Testo dice che satana era entrato in lui, non ossessionandolo e rendendolo irresponsabile, ma suscitando in lui uno spirito diffidente, critico, sospettoso e fantastico, e dandogli un sempre maggiore assillamento per la propria situazione materiale. Voleva ad ogni costo crearsi una fortuna stabile, e forse al principio s'illuse magari anche di poter rendere meno precaria la situazione dei suoi compagni; non accettò il precetto della povertà volontaria, non confidò in nessun modo in Dio e, quando credette essere giunto per lui il momento di fare un buon guadagno, non esitò a gettarsi nell'abisso del tradimento.
Subdolamente egli era certamente in relazione coi sacerdoti del tempio e con gli scribi; questi si accorsero della sua incertezza e cercarono staccarlo da Gesù; al principio satana lo illuse facendogli intendere che in fondo era l'autorità del sinedrio che riprovava il Maestro. Quando seppe che complottavano contro di Lui, satana gli pose in cuore che poteva fare un lauto guadagno tradendolo, e senza più esitare si recò dai sommi sacerdoti per contrattare il tradimento. Forse s'illuse e cercò giustificarsi innanzi alla propria coscienza, pensando di far togliere di mezzo un impostore; può ricavarsi questo dal disperato rammarico che provò quando, dalla sua pazienza nella Passione e dalla sua innocenza proclamata da Pilato, s'accorse che era un giusto.
Egli non domandò un prezzo determinato del suo tradimento, ma si rimise ai sacerdoti, proprio perché sperava fare un buon affare. Avendo però egli stesso prospettato Gesù come un mestatore, per non comparire innanzi ai sacerdoti come un traditore, dovette contentarsi dei trenta denari che gli offrirono, ciò che allora costituiva il prezzo di uno schiavo. Rimase male per questo, ma non lo manifestò, e forse uno dei motivi per i quali dopo restituì la moneta e la gettò per terra non fu tanto il pentimento del tradimento quanto il dispetto d'averne avuto così poco.
sabato 12 marzo 2016
13.03.2016 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 8 par. 2
2. Le notti angosciose di Gesù che pregava conoscendo l'anima vile dei nemici e degli... amici, la debolezza e la mancanza di fede
Dopo la proclamazione della sua divinità, Gesù, fattasi sera, se ne andò al monte Oliveto per pregare. Egli spargeva così sul mondo quelle grazie che ardentemente desiderava donare ed effondeva nel Padre il suo Cuore addolorato.
È diffìcile formarsi un concetto anche pallido delle pene interne di Gesù innanzi all'incomprensione del popolo e dei suoi medesimi apostoli.
Egli era veramente Dio, e sentiva nella sua santissima umanità la gloria della sua divina Maestà, e l'infinita ricchezza delle misericordie che veniva a spargere sulla terra; apprezzava da Dio la luce della verità che donava agli uomini, e li vedeva sempre incerti, sospettosi o addirittura ostili.
Vedeva nei suoi apostoli la fede titubante, le aspirazioni ancora materiali, dopo tanta divina effusione di spiritualità, il carattere tuttora sospettoso, pronto a svalutare tutto, a vedere oscurità dov'era luce, a giudicare errato ciò che non intendevano, o fallito ciò che secondo essi non rispondeva alle loro piccole vedute.
Considerava nella sua profondità la malizia dei suoi nemici, le insidie che gli tendevano, la doppiezza del loro spirito, la completa assenza in loro di ogni giustizia, la volontaria cecità, il rinnegamento dell'evidenza, il servilismo del loro animo ad ogni illusione diabolica e ad ogni sopraffazione dei perversi, purché non contrastasse i loro interessi materiali e il loro orgoglio, e gemeva nel suo Cuore.
Egli poi sapeva che essi oramai avevano deciso di sbarazzarsi di Lui ad ogni costo, e che, qualunque luce potesse dare e qualunque manifestazione miracolosa, era perfettamente inutile. Questo li metteva nella pratica necessità o inevitabilità di perdersi, ed Egli, che infinitamente li amava, ne era desolato, non potendo forzare la loro volontà libera com'era e non potendoli ridurre con manifestazioni di potenza che li avrebbe resi maggiormente colpevoli. Che cosa erano le angosciose notti della sua preghiera, agonia del suo Cuore divino! Che pena era poi per Lui il vedere nell'ambiente che lo circondava la sintesi di tutti i secoli e di tutte le umane ingratitudini che gravavano fin d'allora sul suo Cuore, perché tutto gli era presente! L'anima nostra si smarrisce in questo profondo mistero di dolore e non sa misurarlo!
Dopo la proclamazione della sua divinità, Gesù, fattasi sera, se ne andò al monte Oliveto per pregare. Egli spargeva così sul mondo quelle grazie che ardentemente desiderava donare ed effondeva nel Padre il suo Cuore addolorato.
È diffìcile formarsi un concetto anche pallido delle pene interne di Gesù innanzi all'incomprensione del popolo e dei suoi medesimi apostoli.
Egli era veramente Dio, e sentiva nella sua santissima umanità la gloria della sua divina Maestà, e l'infinita ricchezza delle misericordie che veniva a spargere sulla terra; apprezzava da Dio la luce della verità che donava agli uomini, e li vedeva sempre incerti, sospettosi o addirittura ostili.
Vedeva nei suoi apostoli la fede titubante, le aspirazioni ancora materiali, dopo tanta divina effusione di spiritualità, il carattere tuttora sospettoso, pronto a svalutare tutto, a vedere oscurità dov'era luce, a giudicare errato ciò che non intendevano, o fallito ciò che secondo essi non rispondeva alle loro piccole vedute.
Considerava nella sua profondità la malizia dei suoi nemici, le insidie che gli tendevano, la doppiezza del loro spirito, la completa assenza in loro di ogni giustizia, la volontaria cecità, il rinnegamento dell'evidenza, il servilismo del loro animo ad ogni illusione diabolica e ad ogni sopraffazione dei perversi, purché non contrastasse i loro interessi materiali e il loro orgoglio, e gemeva nel suo Cuore.
Egli poi sapeva che essi oramai avevano deciso di sbarazzarsi di Lui ad ogni costo, e che, qualunque luce potesse dare e qualunque manifestazione miracolosa, era perfettamente inutile. Questo li metteva nella pratica necessità o inevitabilità di perdersi, ed Egli, che infinitamente li amava, ne era desolato, non potendo forzare la loro volontà libera com'era e non potendoli ridurre con manifestazioni di potenza che li avrebbe resi maggiormente colpevoli. Che cosa erano le angosciose notti della sua preghiera, agonia del suo Cuore divino! Che pena era poi per Lui il vedere nell'ambiente che lo circondava la sintesi di tutti i secoli e di tutte le umane ingratitudini che gravavano fin d'allora sul suo Cuore, perché tutto gli era presente! L'anima nostra si smarrisce in questo profondo mistero di dolore e non sa misurarlo!
sabato 5 marzo 2016
06.03.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 15 par. 2-3
2. L'infinita misericordia di Dio nel ricercare i peccatori e nell'accoglierli, in uno sguardo generale alle parabole di Gesù
Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani per ascoltarlo. Il testo greco dice che gli si avvicinavano tutti i peccatori ed i pubblicani, per far rilevare che tutti erano attratti dalla bontà di Gesù, anche quelli che poi non si convertivano per loro colpa.
C'era, infatti, nel Redentore una potente attrattiva, perché Egli era venuto in terra per rigenerarli ed aveva in sé la delicatezza di una mamma, la premura di un pastore e l'espansione di un affettuosissimo padre. I peccatori, poi, standogli vicino, si sentivano migliori, perché in quell'immensa luce di santità l'anima loro spontaneamente si umiliava.
I farisei e gli scribi non potevano tollerare la bontà di Gesù, perché contrastava troppo con la loro durezza; premurosi com'erano della loro fama e della loro gloria, disprezzavano i peccatori per ostentare anche così la loro pretesa giustizia e riprovavano l'atteggiamento di Gesù, non tanto perché loro dispiacesse, ma per far rimarcare al popolo che Egli non era giusto come loro. Credevano che la sua familiarità coi peccatori dipendesse per lo meno da superficialità e volevano far rilevare che Egli non sapeva conoscerli, e quindi non era profeta.
C'era nel loro rimprovero un insieme di orgoglio, di malignità e di avversione che li rivelava.
Gesù Cristo non rispose smascherandoli, come avrebbe potuto fare, ma rivelò la misericordia di Dio e per conseguenza quella del suo Cuore, aprendo così maggiormente alla fiducia il cuore dei peccatori di tutti i tempi, e manifestando il grande segreto della sua missione divina, Gesù raccontò tre parabole che esprimono la bontà di Dio stesso nel cercare, nell'accogliere i peccatori, e rivelò così che Egli non cercava i traviati né per superficialità di valutazione delle loro colpe, né per semplice compassione naturale, ma perché era Dio e li cercava per usare loro misericordia. Le tre parabole, poi, manifestavano la valutazione vera che Egli faceva dei peccatori di tutte le nazioni e di tutte le epoche, riguardandoli come pecorelle smarrite dell'ovile di Dio, come valori dell'umanità, perduti con danno comune, e come figli lontani dal cuore paterno. Un pastore cerca la pecorella smarrita per compassione, una donna cerca il valore perduto per interesse, un padre per amore tenerissimo sospira al figlio ribelle, che si è allontanato da lui.
Sono i tre grandi momenti della divina misericordia: il Signore chiama l'umanità peccatrice come pecorella smarrita, la redime pagando il prezzo del suo riscatto, e l'accoglie in un amore paterno immenso che la ridona alla primitiva grandezza. Accolse Israele e lo cercò nel deserto del mondo come pecorella smarrita, portandolo Egli stesso per le vie della vita come un pastore porta sulle spalle la sua pecorella. Venne dal cielo in terra e fece luce per cercare l'umanità perduta e ridonarle il valore perduto col peccato; aspetta al suo Cuore l'umanità traviata ed apostata, immersa nelle sozzure dell'impurità e ridotta ad uno stato di estremo squallore, e l'accoglie con amore paterno riabilitandola.
La misericordia di Dio è sempre ricerca amorosa, valutazione divina di un'anima ed amore immenso nell'accoglierla, ma si può dire che le tre parabole proposte da Gesù riguardassero le tre grandi manifestazioni della misericordia di Dio Uno e Trino: quella fatta al popolo eletto, pecorella sua, il Padre; quella fatta nella redenzione, pagando il prezzo del nostro riscatto, il Figlio, e quella che fa ogni giorno nella Chiesa, e farà in modo meraviglioso alla fine dei tempi, accogliendo al suo Cuore i figli traviati, corrotti ed apostati dal suo paterno amore, lo Spirito Santo.
Gesù parla della gioia del pastore nel ritrovare la pecorella smarrita, della gioia della donna nel rintracciare la dramma perduta, e della gioia del padre nel riabbracciare il figlio traviato, non per dire che Dio ama più i peccatori che i giusti, ma per dire che è così piena e completa la sua misericordia che Egli accoglie i peccatori pentiti come se fossero giusti. Egli parla della festa che si fa nel cielo per un peccatore che si converte, per dirci che è più grande la gioia attuale dei Beati per un'anima che si salva, che per quelle che sono già salve o giuste; anche un padre gode più attualmente della guarigione di un figlio infermo, che della sanità degli altri, il che non significa che egli apprezza più i malati che i sani, ma proprio perché apprezza la salute, gode che il figlio infermo l'abbia recuperata.
Nei peccatori che si convertono c'è poi sempre una ricchezza di umiltà, di riconoscenza e di amore che li rende più cari al Signore, e facilita in loro l'efflusso della grazia.
Il peccato è un male orribile che Dio aborre sempre; ma la vera penitenza può far fiorire il cuore dei peccatori anche più di quello dei giusti, e la tenerezza di Dio riguarda proprio questa fioritura di amore e di virtù.
Si deve notare che Gesù accennò semplicemente le parabole della pecorella smarrita e della dramma sperduta, mentre raccontò con minuti e bellissimi particolari quella del figliol prodigo, per dare maggiore risalto all'amore col quale Dio accoglie come padre i peccatori che vanno a Lui, pentiti.
Il suo Cuore divino non ebbe confini nella tenerezza quando parlò di ciò che l'anima fa per cercare Dio e, nell'esuberanza della parabola, rivelò l'esuberanza dell'amore di Dio. Si direbbe che la delicata sua carità abbia voluto dare più risalto al bisogno che il peccatore sente di Dio che a quello che fa Dio per un peccatore; l'amor suo nel cercarci è infinito, ma l'amor suo nell'accoglierci è tenerissimo, ed è divinamente psicologico che il Redentore si sia trattenuto di più sulla parabola del fìgliol prodigo. L'ampiezza di questa parabola, poi, può anche farci intendere quanto sarà esuberante la misericordia che Dio farà negli ultimi tempi ai figli apostati che ritorneranno al suo Cuore.
Gesù, per rendere loro intelligibile la delicatezza della divina bontà, li richiama direttamente ai loro interessi materiali, ed in particolare alle pecorelle dei loro ovili, che erano la ricchezza di quei tempi. Psicologicamente c'è una ritorsione amorosissima nella stessa concisione con la quale Gesù risponde ai farisei: Chi di voi, avendo cento pecore e perdutane una, non lascia le altre novantanove nel deserto, e non va a cercare quella che si è smarrita, finché non l 'abbia trovata? Il suo Cuore divino è ferito dalla loro mormorazione, non forma un racconto, ma li investe toccandoli su ciò che poteva interessarli e commuoverli, per dire: Come, voi non sapete che i peccatori sono mie pecorelle e che io li amo quasi pastore dell'ovile? Voi avete care le pecorelle vostre e se ne smarrite una non vi date pace finché non l'abbiate ritrovata, ed io dovrei lasciar perire una pecorella mia, smarrita nei dirupi della colpa? È un'argomentazione veemente, che mostra tutto l'amore di Gesù per i poveri peccatori, e la pietà cristiana l'ha raccolta e diremmo l'ha sviluppata per fame uno dei più teneri simboli dell'amore misericordioso del Redentore.
Un pastore ha cento pecorelle e le porta al pascolo nel deserto, cioè in un luogo incolto, lontano dalle abitazioni, e adibito a pascolo. Nel pascolarle si accorge che una se n'è smarrita; egli, dunque, non le guida come un mercenario, ha cura di ciascuna di esse, e le conta ad una ad una. È così che s'accorge che una se n'è smarrita. Pieno di angustia, allora, mette al sicuro le novantanove pecorelle e corre per i dirupi a cercare la sua pecorella, chiamandola con tutti i modi che gli suggerisce il suo amore. Finalmente la ritrova, impigliata fra le spine, la districa, la vede stanca, affamata e spaurita; la bacia, la carezza, se la pone sulle spalle mentre essa bela, e corre a casa contento, per comunicare la notizia agli amici ed ai vicini e per fare festa con essi.
Il suo amore è stato capace di comunicare anche agli amici il suo dolore, ed ha reso un fatto d'interesse comune la sua disavventura. Tutti, infatti, sentono il suo richiamo di gioia, escono dalle case, corrono a lui, si congratulano e fanno festa insieme con lui, colmando di carezze la pecorella.
Il Signore non è indifferente per l'anima peccatrice, il suo sguardo amoroso la segue nei suoi traviamenti, ed Egli è tanto amoroso che sembra quasi non abbia premura che per essa. Non si stanca di ricercarla correndole appresso coi richiami della grazia, con le tribolazioni e con le voci del suo amore immolato.
E cosa sua, l'ama come sua pecorella e quando l'ha ritrovata se la carica sulle spalle, perché la porta e la sostiene con particolarissimi aiuti della sua grazia, e la riguarda come un trofeo della sua vittoria innanzi alla corte celeste. Gli uomini non sono capaci di apprezzare in pieno il ritorno di un'anima a Dio; ne esultano i buoni, ma non ne intendono il valore; solo in cielo si valuta appieno che cosa è lo smarrimento di un'anima e che cosa è il suo ritorno allo stato di grazia, e perciò Gesù dice che la festa si fa nel cielo.
Perdere Dio è una sventura terribile, ritrovarlo è una grazia incommensurabile, perché si tratta di ritrovare il nostro primo principio ed il nostro ultimo fine. Nel cielo la carità è perfetta, e per questo la gioia è immensa per un peccatore che ritorna a Dio. Questo ci mostra l'ammirabile comunione dei santi con noi che ancora peregriniamo in terra, e la premura che essi hanno della nostra salvezza eterna.
Gesù Cristo li richiama alla loro venalità delicatamente, con una parabola che riguarda una donna povera. Con questa circostanza Egli fa rimarcare anche meglio la premura di questa poveretta nel ricercare la dramma perduta. La dramma equivaleva a circa 87 centesimi; la donna ne aveva dieci, cioè aveva un peculio di lire 8,70; perderne una, quindi, non era per lei indifferente. Le case ebree avevano poca luce, e tuttora mancano spesso di finestre, perciò la donna accese un lume per ricercare la moneta e, non ritrovandola, cominciò a spazzare la casa ed a frugare attentamente dovunque. Il suo affanno non sfuggì alle amiche e vicine di casa, le quali presero parte al suo dolore; perciò ella, appena ritrovata la moneta, le convocò per partecipare ad esse la sua gioia e farle godere con lei.
Gesù voleva dire ai farisei ed agli scribi: «Come mai, voi non vi date pace se perdete una moneta e potete poi mormorare di me che cerco i peccatori che sono la mia eredità?». Egli, infatti, li cerca per una donna, per Maria Santissima Madre dei peccatori, e li cerca per la Chiesa. Maria accende la lucerna illuminando le anime con interiori ispirazioni, e la Chiesa spazza la casa con gli esercizi spirituali, con le missioni e con i mezzi giornalieri di risurrezione spirituale che da a suoi fedeli. Gesù rintraccia così le anime, ricchezza sua di valore inestimabile per Lui, ne esulta il suo amore e con Lui esultano tutte le anime beate, salvate esse pure dalLinfinita misericordia di Dio.
Un uomo aveva due figli, ed il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca. L'eredità paterna era di diritto dei figli; il primogenito aveva il doppio degli altri figli nella divisione dei beni, che poteva farsi in vita o dopo la morte del padre. Il più giovane, dunque, dei figli di questo padre reclamò la parte dei suoi beni. Per quale motivo la reclamò, pur avendo un padre immensamente buono? È evidente dal contesto: voleva godere a modo suo la vita; gli sembrava troppo vuota la casa, troppo opprimente la vigilanza patema, e non andando d'accordo col fratello, unica compagnia che aveva in casa, volle cercarsi lontano le amicizie e i divertimenti.
Il padre avrebbe potuto negargli l'eredità in quel momento e rimandare la divisione a dopo la sua morte, ma credette di farlo allora perché il figlio la reclamava con la prepotenza che hanno i cattivi, ed alla quale non è possibile praticamente opporsi. Teoricamente il padre può imporsi ai figli, ma certi tipi sono indomabili l'averli in casa costituisce un inferno tale, che appare una liberazione il loro allontanamento. Il padre, dunque, pur avendo un grande dolore che il figlio si allontanava, gli dette la parte che gli spettava e non poté fare diversamente.
Dopo pochi giorni il figlio discolo, messo insieme il denaro e quanto aveva, se ne andò in lontano paese. Voleva essere pienamente indipendente, non voleva controlli e scelse un paese lontano. Forse il padre, angosciatissimo, non poté neppure salutarlo, perché il figlio gli sfuggì, come avviene in simili casi, quasi fosse un nemico; può rilevarsi dalla penosa aspettativa di un ritomo nella quale rimane.
Il giovane credette di aver conquistato la felicità e quando fu lontano di casa gli sembrò di respirare a più larghi polmoni. Oramai credeva di essere padrone di sé e si dette ad una vita dissoluta, consumando tutto quello che aveva. Intanto sopravvenne una grande carestia nel paese nel quale era, ed egli si trovò nella più squallida miseria. Cercò, dunque, un'occupazione e si ridusse servo, egli che era di nobile nascita, e servo di un pagano che lo mandò a custodire i porci. Un ebreo non avrebbe tenuto una mandria di maiali e quel padrone, mettendo il giovane a guardia di quegli animali immondi, lo ridusse in uno stato di grande avvilimento. Inoltre lo tenne in tali ristrettezze, che l'infelice desiderava mangiare le ghiande o secondo il testo greco, le carrube che si davano ai porci, e nessuno gliene dava. Era ridotto come uno schiavo e lo stesso avvilimento nel quale era gli toglieva il coraggio di domandare almeno il cibo che si dava ai porci.
Quali giorni amarissimi menò l'infelice giovane! Stando a guardia di animali, aveva tutto l'agio di considerare il suo stato, perché quell'occupazione non lo distraeva e lo teneva tutto pensieroso; inoltre, la vita immonda di quelle bestie era per lui come un'immagine della vita che egli aveva condotto. Ricordò i giorni passati nella pulizia e nella pace della casa patema, ricordò il modo come vi erano trattati i servi, rispettati, benvoluti e provvisti abbondantemente, ricordò soprattutto la bontà patema e non disperò di essere riaccolto da lui almeno come un servo.
Uno degli effetti del peccato, e soprattutto di quello impuro, è l'indecisione e lo scoraggiamento, e per questo il giovane rimase per un certo tempo a pascolare i porci senza ribellarsi a quello stato di vita; egli, che si era ribellato al padre, sottostava poi supinamente ad un tiranno e non fiatava. Però l'idea di poter servire nella casa patema cominciò a sembrargli attuabile, ed un giorno, deciso, disse a se stesso: Mi alzerò ed andrò dal padre mio, e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e non sono più degno d'essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi. Era così avvilito che non aveva la forza di alzarsi senza imporselo: Mi alzerò ed andrò; era così confuso che si preparava ciò che doveva dire al padre; era ancora lontano dall'amare il padre, giacché si decideva principalmente in vista dei danni che la vita dissoluta gli aveva arrecati e dello stato nel quale era ridotto. Fu l'amore del padre che lo riabilitò e che mutò quel pentimento di attrizione in contrizione del cuore.
Il padre non lo aveva dimenticato ed ogni giorno guardava gemendo quella strada per la quale il figlio s'era allontanato; com'era triste per lui! Il sole gli sembrava più scialbo, la solitudine più desolante ed il passaggio dei viaggiatori era per lui una stretta al cuore.
Guardava lontano e piangeva silenziosamente, piangeva di amore e piangeva anche di collera, riprovando in cuor suo i traviamenti del figlio. L'ingratitudine che gli aveva mostrata non poteva non disgustarlo profondamente.
Ma ecco, un giorno vede avanzarsi un giovane dall'andamento accasciato, tutto lacero, tutto incolto, appoggiato ad un bastone per la debolezza e per la stanchezza. Lo riconobbe subito: era suo figlio! E si sentì così commosso che, dimenticando tutto, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò in un efflusso di amorosissime lacrime. Il figlio, piangente egli pure, disse ciò che aveva preparato e ripetuto tra sé lungo la strada: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno d'essere chiamato tuo figlio. Non completò la frase come l'aveva preparata e non accennò a voler essere un servo di casa, forse perché il padre non gliene dette il tempo, ma forse anche perché quell'espressione non reggeva di fronte a tanto amore ed a tanta misericordia.
Il padre, vedendolo tutto lacero, chiamò in fretta i servi, ed ordinò loro di mettere fuori la veste più preziosa per vestirlo, dopo averlo lavato; ordinò che gli mettessero al dito l'anello col suggello, segno di onore speciale, ed i calzari al piede come si conveniva ad un uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi ed il povero giovane, tornando da uno stato di schiavitù, non aveva calzari.
Ordinò poi il padre che si uccidesse il vitello ingrassato con cibi speciali, che si teneva in serbo per le grandi circostanze, e si preparasse un grande banchetto, perché quel figlio suo era morto ed era risuscitato, era perduto ed era stato ritrovato. Queste ultime parole del padre rivelavano tutto il suo amore e la sua gioia; mentre il giovane aveva protestato di non essere degno di chiamarsi suo figlio, il padre lo chiamava affettuosamente: Questo mio figlio.
Si preparò il banchetto, e fra canti e suoni di gioia si cominciò a mangiare. Mancava il primo figlio del padre, perché s'era recato nei campi a sorvegliare i lavori. Nel ritornare sentì da lontano le musiche e le danze di quella festa e, chiamato uno dei servi, domandò che cosa fosse. Saputo di che si trattava montò in collera e non voleva entrare.
Nelle feste del cuore c'è sempre qualche persona che mette una nota discordante, ma questa volta l'ira del figlio maggiore poteva degenerare in una rissa, ed il padre volle evitarla e corse personalmente a supplicarlo di entrare. Avrebbe potuto imporglielo, ma a che sarebbe valsa un'imposizione? Lo supplicò, invece, con lo stesso cuore misericordioso, compatendo il suo sdegno, ad entrare. Ma il figlio reagì dicendo che l'aveva sempre servito fedelmente, senz'avere avuto mai in dono un capretto per banchettare coi suoi amici e soggiunse in tono sprezzante: Quando, invece, è venuto questo tuo figlio che ha divorato tutto il suo avere con le meretrici, hai ammazzato per lui il vitello grasso. Non chiamò fratello il giovane che era tornato, ma essendo sdegnato, lo chiamò: tuo figlio, quasi che a lui non appartenesse più, ed espresse nella maniera più veristica, per disprezzo, lo stato di colpa del fratello: ha divorato tutto il suo avere con le meretrici. Gli sembrò, poi, un'enormità l'avere ucciso giusto per lui il vitello grasso.
Con immenso amore il padre cercò di placarlo, facendogli riflettere che egli non doveva adontarsi di quell'atto di misericordia, perché non diminuiva i suoi diritti: tutto ciò che è mio, gli disse, è tuo\ ma soggiunse, ricordandogli l'amore fraterno, che era giusto banchettare e fare festa perché quel suo fratello era come risuscitato e ritrovato. Il figlio aveva chiamato suo fratello semplicemente figlio del padre, ed il padre, invece di chiamarlo suo figlio, l'aveva chiamato tuo fratello, per fargli riflettere che colui per il quale si faceva festa non gli era estraneo, ma gli era fratello e doveva essergli tanto più caro in quanto che era come un morto risuscitato ed un traviato ritornato alla via del bene.
Gesù Cristo non poteva tracciare in una maniera più commovente e tenera lo stato di un peccatore e l'infinita misericordia di Dio nel raccoglierlo in grazia sua quando egli veramente si pente. Non poteva esprimere in una maniera più profonda la misericordia di Dio verso l'umanità, le nazioni ed i popoli quando tornano a Lui. Sono due applicazioni distinte della parabola, che bisogna meditare: il padre che ha due figli è Dio che ha tra i suoi figli buoni e cattivi, ed ha fra le nazioni quelle che gli sono fedeli e quelle che apostatano da Lui.
Dio è un padre che ha dato alle sue creature la libertà, affinché operino il bene meritando, e quando esse la reclamano, Egli non la nega loro, anche se per loro colpa ne abusano. Quando l'anima pecca, si allontana da Dio suo Padre, lascia la sua amorosa compagnia e si abbandona agli stravizi, distruggendo in se stessa la grazia e tutte le buone qualità che Dio le ha donate; il peccato le porta la miseria più squallida, ed essa da serva di Dio diventa serva, anzi schiava delle passioni più immonde. La caratteristica di questo stato è l'avvilimento e la fame, poiché l'anima non giunge neppure a saziarsi delle sue passioni e vive in uno stato di somma infelicità spirituale e corporale.
Lo stesso avviene alle nazioni quando apostatando si allontanano da Dio: vivono lussuriosamente, si riducono schiave di satana, e schiave dei suoi tristi rappresentanti, e cadono nell'avvilimento e nella miseria. Dolorosamente il campo dei porci è il naturale epilogo dell'allontanamento da Dio, e la miseria ne è la conseguenza.
Sotto l'impeto dei castighi il peccatore rientra in se stesso ed ha un primo movimento di ritorno a Dio; considera la brevità e la nullità delle sue false gioie, considera la pace e la felicità di chi opera il bene, si vergogna di sé e decide di ritornare al Padre celeste, andando da chi in terra lo rappresenta. Padre ho peccato, ecco l'umile confessione che il peccatore fa a Dio ai piedi del confessore, ecco l'umile confessione che fanno le nazioni apostate al Padre, quando vedono la loro rovina.
Dio è infinita misericordia ed accoglie subito al suo cuore chi si pente sinceramente; ordina ai suoi servi, cioè ai sacerdoti, di mettergli, con l'assoluzione, la veste della grazia; non gliela pone Lui direttamente, ma chiama i suoi servi, e da essi gli fa porre al dito l'anello di nuove grazie ed ai piedi i sandali della libertà, ordinando poi il banchetto dell'amore, perché si sazi di beni.
Alle singole anime penitenti Dio concede le delizie del Banchetto eucaristico, alle nazioni che, come tali, non hanno un avvenire eterno, Dio concede l'abbondanza dei beni materiali e la prosperità.
L'epilogo della parabola riguarda particolarmente il popolo ebreo e lo scandalo che i farisei prendevano vedendo Gesù che trattava amabilmente i peccatori. Essi si rifiutavano di far parte del regno di Dio e del banchetto della vita, perché vedevano che Gesù vi accoglieva i peccatori; eppure avrebbero dovuto esultarne e goderne, perché quella familiarità li convertiva e li salvava.
Il Padre celeste non aveva solo un figlio maggiore, il popolo ebreo, ne aveva anche uno minore, il popolo pagano; se Gesù cercava i pubblicani ed i peccatori, cercava di ricondurre al Padre celeste il figlio minore con quelle primizie di misericordia. Questo avrebbe dovuto produrre in loro una gran gioia, giacché tutti gli uomini sono figli di Dio, Ebrei e pagani, e gli Ebrei avrebbero dovuto esultare nel vedere il figlio minore essere accolto tra le braccia della misericordia e partecipare al banchetto della vita.
La parabola del fìgliol prodigo, come accennammo, si riferisce anche al ritorno delle nazioni apostate a Dio negli ultimi tempi.
È un racconto troppo vivo, che noi in parte stiamo già vivendo, per poterlo trascurare: Dio ha due figli: il popolo ebreo ed il popolo pagano. Quest'ultimo, minore di età, dopo essere stato nella casa patema, reclama la sua parte di eredità tutta materiale, pretende di potere usare a suo modo dei doni di Dio, e si allontana da Lui vivendo lussuriosamente.
La famosa dichiarazione dei diritti dell'uomo nella rivoluzione francese fu come l'atto ufficiale col quale il popolo pagano, reso ribelle a Dio, reclamò i diritti, falsati e travisati, della propria eredità. Dio non forza nessuno al bene e per suoi altissimi fini lasciò fare.
In possesso pieno e disordinato della propria eredità, le nazioni si allontanarono da Dio e cominciarono quella vita sistematicamente dissoluta, che è l'impronta speciale della nostra moderna così detta civiltà.
È la storia contemporanea, che fa orrore. E vero, in ogni tempo le nazioni, anche cristiane, si sono oberate di delitti spaventosi, ma se si pensa al bene che in esse regnava, a tanti re santi, a tante manifestazioni di fede, di pietà e di carità, deve riconoscersi che, dopo l'apostasia, le nazioni sono cadute in profondi abissi di corruzione che i nostri padri non hanno neppure sospettato. La caratteristica poi di questa corruzione è l'impurità, spinta a poco a poco fino agli eccessi più degradanti.
La lontananza da Dio produce la miseria e la miseria conduce alle schiavitù più degradanti. Gli uomini, che dovevano vivere della divina provvidenza ed essere santamente liberi, vedono diminuite le loro risorse fino alla miseria ed alla carestia e subiscono l'esoso dominio d'un padrone crudele. Lo stato economico delle nazioni moderne fa spavento e con la scusa delle esigenze militari esse vanno verso una completa schiavitù interna. Servono, servono lo Stato, padrone esigente, crudele e spietato, e non hanno di che sfamarsi.
Pascolano i porci, ma i porci non danno loro neppure quello che costituisce la loro mensa. In fondo i popoli apostati vivono per pascolare le mandrie corrotte dei capi, come si vede dovunque e specie in Russia, e non ricavano nulla dalla loro schiavitù. Ecco in quale stato ha ridotto i popoli l'apostasia! E una cosa che si constata e si vive, non ha bisogno di dimostrazione.
Ma verrà l'ora della rinascita e verrà per la stessa violenza della crisi che tortura i popoli. Quasi svegliandosi da un sonno, diranno: Sorgerò ed andrò dal Padre mio. All'apostasia subentrerà un periodo di risurrezione della coscienza cristiana, e quindi un periodo di ritorno.
Il Padre celeste, pieno di misericordia, verrà incontro ai popoli, li abbraccerà e li bacerà con grazie speciali e li introdurrà nuovamente nella Chiesa. I suoi servi rivestiranno a nuovo le anime, rimettendole in grazia di Dio, porranno al loro dito l'anello di novelle grazie e di una novella figliolanza con Dio ed imbandiranno il banchetto col vitello grasso, cioè con un'esuberanza di doni eucaristici. Ci saranno anche allora le voci discordanti, senza dubbio, perché nel mondo viatore non è possibile una completa armonia; ma saranno voci che la bontà del Padre comune, del Papa, saprà conciliare, per mantenere l'unità tra i popoli cristiani.
Il padre poi che invita, anzi supplica il fratello maggiore ad entrare nel banchetto, può significare il Papa dell'amore che invita con grande amorevolezza gli Ebrei far parte della gioia del mondo cattolico, e l'amorosa insistenza li indurrà alla conversione, formando così l'unico ovile sotto un solo pastore.
Scrivendo queste pagine e pensando alla misericordia di Dio ho pianto tanto, implorandola per noi e per tutti.
Che pena vedere le anime nella più squallida miseria e nella più tormentosa infelicità per essere lontane da Dio!
Che tenerezza vedere Dio che, nonostante le loro ingratitudini, le accoglie!
O Signore, veramente abbiamo peccato contro il cielo e contro di Te non siamo degni di chiamarci tuoi figli!
Accoglici come tuoi servi, ridonaci la libertà santa del cuore, rivestici a nuovo con la tua grazia e rendici partecipi della tua mensa di amore in terra ed in cielo.
Sac. Dolindo Ruotolo
Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani per ascoltarlo. Il testo greco dice che gli si avvicinavano tutti i peccatori ed i pubblicani, per far rilevare che tutti erano attratti dalla bontà di Gesù, anche quelli che poi non si convertivano per loro colpa.
C'era, infatti, nel Redentore una potente attrattiva, perché Egli era venuto in terra per rigenerarli ed aveva in sé la delicatezza di una mamma, la premura di un pastore e l'espansione di un affettuosissimo padre. I peccatori, poi, standogli vicino, si sentivano migliori, perché in quell'immensa luce di santità l'anima loro spontaneamente si umiliava.
I farisei e gli scribi non potevano tollerare la bontà di Gesù, perché contrastava troppo con la loro durezza; premurosi com'erano della loro fama e della loro gloria, disprezzavano i peccatori per ostentare anche così la loro pretesa giustizia e riprovavano l'atteggiamento di Gesù, non tanto perché loro dispiacesse, ma per far rimarcare al popolo che Egli non era giusto come loro. Credevano che la sua familiarità coi peccatori dipendesse per lo meno da superficialità e volevano far rilevare che Egli non sapeva conoscerli, e quindi non era profeta.
C'era nel loro rimprovero un insieme di orgoglio, di malignità e di avversione che li rivelava.
Gesù Cristo non rispose smascherandoli, come avrebbe potuto fare, ma rivelò la misericordia di Dio e per conseguenza quella del suo Cuore, aprendo così maggiormente alla fiducia il cuore dei peccatori di tutti i tempi, e manifestando il grande segreto della sua missione divina, Gesù raccontò tre parabole che esprimono la bontà di Dio stesso nel cercare, nell'accogliere i peccatori, e rivelò così che Egli non cercava i traviati né per superficialità di valutazione delle loro colpe, né per semplice compassione naturale, ma perché era Dio e li cercava per usare loro misericordia. Le tre parabole, poi, manifestavano la valutazione vera che Egli faceva dei peccatori di tutte le nazioni e di tutte le epoche, riguardandoli come pecorelle smarrite dell'ovile di Dio, come valori dell'umanità, perduti con danno comune, e come figli lontani dal cuore paterno. Un pastore cerca la pecorella smarrita per compassione, una donna cerca il valore perduto per interesse, un padre per amore tenerissimo sospira al figlio ribelle, che si è allontanato da lui.
Sono i tre grandi momenti della divina misericordia: il Signore chiama l'umanità peccatrice come pecorella smarrita, la redime pagando il prezzo del suo riscatto, e l'accoglie in un amore paterno immenso che la ridona alla primitiva grandezza. Accolse Israele e lo cercò nel deserto del mondo come pecorella smarrita, portandolo Egli stesso per le vie della vita come un pastore porta sulle spalle la sua pecorella. Venne dal cielo in terra e fece luce per cercare l'umanità perduta e ridonarle il valore perduto col peccato; aspetta al suo Cuore l'umanità traviata ed apostata, immersa nelle sozzure dell'impurità e ridotta ad uno stato di estremo squallore, e l'accoglie con amore paterno riabilitandola.
La misericordia di Dio è sempre ricerca amorosa, valutazione divina di un'anima ed amore immenso nell'accoglierla, ma si può dire che le tre parabole proposte da Gesù riguardassero le tre grandi manifestazioni della misericordia di Dio Uno e Trino: quella fatta al popolo eletto, pecorella sua, il Padre; quella fatta nella redenzione, pagando il prezzo del nostro riscatto, il Figlio, e quella che fa ogni giorno nella Chiesa, e farà in modo meraviglioso alla fine dei tempi, accogliendo al suo Cuore i figli traviati, corrotti ed apostati dal suo paterno amore, lo Spirito Santo.
Gesù parla della gioia del pastore nel ritrovare la pecorella smarrita, della gioia della donna nel rintracciare la dramma perduta, e della gioia del padre nel riabbracciare il figlio traviato, non per dire che Dio ama più i peccatori che i giusti, ma per dire che è così piena e completa la sua misericordia che Egli accoglie i peccatori pentiti come se fossero giusti. Egli parla della festa che si fa nel cielo per un peccatore che si converte, per dirci che è più grande la gioia attuale dei Beati per un'anima che si salva, che per quelle che sono già salve o giuste; anche un padre gode più attualmente della guarigione di un figlio infermo, che della sanità degli altri, il che non significa che egli apprezza più i malati che i sani, ma proprio perché apprezza la salute, gode che il figlio infermo l'abbia recuperata.
Nei peccatori che si convertono c'è poi sempre una ricchezza di umiltà, di riconoscenza e di amore che li rende più cari al Signore, e facilita in loro l'efflusso della grazia.
Il peccato è un male orribile che Dio aborre sempre; ma la vera penitenza può far fiorire il cuore dei peccatori anche più di quello dei giusti, e la tenerezza di Dio riguarda proprio questa fioritura di amore e di virtù.
Si deve notare che Gesù accennò semplicemente le parabole della pecorella smarrita e della dramma sperduta, mentre raccontò con minuti e bellissimi particolari quella del figliol prodigo, per dare maggiore risalto all'amore col quale Dio accoglie come padre i peccatori che vanno a Lui, pentiti.
Il suo Cuore divino non ebbe confini nella tenerezza quando parlò di ciò che l'anima fa per cercare Dio e, nell'esuberanza della parabola, rivelò l'esuberanza dell'amore di Dio. Si direbbe che la delicata sua carità abbia voluto dare più risalto al bisogno che il peccatore sente di Dio che a quello che fa Dio per un peccatore; l'amor suo nel cercarci è infinito, ma l'amor suo nell'accoglierci è tenerissimo, ed è divinamente psicologico che il Redentore si sia trattenuto di più sulla parabola del fìgliol prodigo. L'ampiezza di questa parabola, poi, può anche farci intendere quanto sarà esuberante la misericordia che Dio farà negli ultimi tempi ai figli apostati che ritorneranno al suo Cuore.
3. Le tre parabole della misericordia di Dio: la pecorella smarrita
I farisei si mostravano spietati contro i peccatori, perché la loro salvezza non li interessava. Amavano così poco Dio, che non importava loro delle perdite del suo amore, mentre erano estremamente interessati e venali per ciò che riguardava i loro averi ed il loro denaro.Gesù, per rendere loro intelligibile la delicatezza della divina bontà, li richiama direttamente ai loro interessi materiali, ed in particolare alle pecorelle dei loro ovili, che erano la ricchezza di quei tempi. Psicologicamente c'è una ritorsione amorosissima nella stessa concisione con la quale Gesù risponde ai farisei: Chi di voi, avendo cento pecore e perdutane una, non lascia le altre novantanove nel deserto, e non va a cercare quella che si è smarrita, finché non l 'abbia trovata? Il suo Cuore divino è ferito dalla loro mormorazione, non forma un racconto, ma li investe toccandoli su ciò che poteva interessarli e commuoverli, per dire: Come, voi non sapete che i peccatori sono mie pecorelle e che io li amo quasi pastore dell'ovile? Voi avete care le pecorelle vostre e se ne smarrite una non vi date pace finché non l'abbiate ritrovata, ed io dovrei lasciar perire una pecorella mia, smarrita nei dirupi della colpa? È un'argomentazione veemente, che mostra tutto l'amore di Gesù per i poveri peccatori, e la pietà cristiana l'ha raccolta e diremmo l'ha sviluppata per fame uno dei più teneri simboli dell'amore misericordioso del Redentore.
Un pastore ha cento pecorelle e le porta al pascolo nel deserto, cioè in un luogo incolto, lontano dalle abitazioni, e adibito a pascolo. Nel pascolarle si accorge che una se n'è smarrita; egli, dunque, non le guida come un mercenario, ha cura di ciascuna di esse, e le conta ad una ad una. È così che s'accorge che una se n'è smarrita. Pieno di angustia, allora, mette al sicuro le novantanove pecorelle e corre per i dirupi a cercare la sua pecorella, chiamandola con tutti i modi che gli suggerisce il suo amore. Finalmente la ritrova, impigliata fra le spine, la districa, la vede stanca, affamata e spaurita; la bacia, la carezza, se la pone sulle spalle mentre essa bela, e corre a casa contento, per comunicare la notizia agli amici ed ai vicini e per fare festa con essi.
Il suo amore è stato capace di comunicare anche agli amici il suo dolore, ed ha reso un fatto d'interesse comune la sua disavventura. Tutti, infatti, sentono il suo richiamo di gioia, escono dalle case, corrono a lui, si congratulano e fanno festa insieme con lui, colmando di carezze la pecorella.
Il Signore non è indifferente per l'anima peccatrice, il suo sguardo amoroso la segue nei suoi traviamenti, ed Egli è tanto amoroso che sembra quasi non abbia premura che per essa. Non si stanca di ricercarla correndole appresso coi richiami della grazia, con le tribolazioni e con le voci del suo amore immolato.
E cosa sua, l'ama come sua pecorella e quando l'ha ritrovata se la carica sulle spalle, perché la porta e la sostiene con particolarissimi aiuti della sua grazia, e la riguarda come un trofeo della sua vittoria innanzi alla corte celeste. Gli uomini non sono capaci di apprezzare in pieno il ritorno di un'anima a Dio; ne esultano i buoni, ma non ne intendono il valore; solo in cielo si valuta appieno che cosa è lo smarrimento di un'anima e che cosa è il suo ritorno allo stato di grazia, e perciò Gesù dice che la festa si fa nel cielo.
Perdere Dio è una sventura terribile, ritrovarlo è una grazia incommensurabile, perché si tratta di ritrovare il nostro primo principio ed il nostro ultimo fine. Nel cielo la carità è perfetta, e per questo la gioia è immensa per un peccatore che ritorna a Dio. Questo ci mostra l'ammirabile comunione dei santi con noi che ancora peregriniamo in terra, e la premura che essi hanno della nostra salvezza eterna.
La dramma ritrovata
Gli scribi e farisei erano sommamente interessati ed avevano un grande attaccamento al denaro, perciò Gesù insiste sul grande pensiero della divina misericordia con un'altra parabola che poteva più facilmente convincerli; non la rivolge direttamente a loro per estrema delicatezza di carità, come fece con quella della pecorella smarrita, perché se era lodevole per essi cercare una loro pecorella, non era ugualmente lodevole cercare avidamente il denaro.Gesù Cristo li richiama alla loro venalità delicatamente, con una parabola che riguarda una donna povera. Con questa circostanza Egli fa rimarcare anche meglio la premura di questa poveretta nel ricercare la dramma perduta. La dramma equivaleva a circa 87 centesimi; la donna ne aveva dieci, cioè aveva un peculio di lire 8,70; perderne una, quindi, non era per lei indifferente. Le case ebree avevano poca luce, e tuttora mancano spesso di finestre, perciò la donna accese un lume per ricercare la moneta e, non ritrovandola, cominciò a spazzare la casa ed a frugare attentamente dovunque. Il suo affanno non sfuggì alle amiche e vicine di casa, le quali presero parte al suo dolore; perciò ella, appena ritrovata la moneta, le convocò per partecipare ad esse la sua gioia e farle godere con lei.
Gesù voleva dire ai farisei ed agli scribi: «Come mai, voi non vi date pace se perdete una moneta e potete poi mormorare di me che cerco i peccatori che sono la mia eredità?». Egli, infatti, li cerca per una donna, per Maria Santissima Madre dei peccatori, e li cerca per la Chiesa. Maria accende la lucerna illuminando le anime con interiori ispirazioni, e la Chiesa spazza la casa con gli esercizi spirituali, con le missioni e con i mezzi giornalieri di risurrezione spirituale che da a suoi fedeli. Gesù rintraccia così le anime, ricchezza sua di valore inestimabile per Lui, ne esulta il suo amore e con Lui esultano tutte le anime beate, salvate esse pure dalLinfinita misericordia di Dio.
Il fìgliol prodigo
Ai farisei sembrava impossibile che Dio potesse accogliere i peccatori e vollero vedere nella familiarità che Gesù aveva con loro un argomento contro la sua divinità; perciò il Redentore mostrò in una scena tenerissima il modo col quale Dio accoglie i peccatori, ed indirettamente si proclamò Dio, perché Egli li accoglieva proprio in quel modo, per eccesso di misericordioso amore e non per connivenza alle opere loro. La parabola del fìgliol prodigo con la quale Gesù Cristo manifesta in pieno la misericordia di Dio e la sua, è bellissima e commovente, e più che un racconto è una minuta descrizione della degradazione e della risurrezione dei peccatori. Colui che legge i cuori volle manifestare le particolari posizioni dei peccatori. Dobbiamo, perciò, meditare accuratamente tutte le circostanze della parabola, che hanno un profondo valore psicologico.Un uomo aveva due figli, ed il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte dei beni che mi tocca. L'eredità paterna era di diritto dei figli; il primogenito aveva il doppio degli altri figli nella divisione dei beni, che poteva farsi in vita o dopo la morte del padre. Il più giovane, dunque, dei figli di questo padre reclamò la parte dei suoi beni. Per quale motivo la reclamò, pur avendo un padre immensamente buono? È evidente dal contesto: voleva godere a modo suo la vita; gli sembrava troppo vuota la casa, troppo opprimente la vigilanza patema, e non andando d'accordo col fratello, unica compagnia che aveva in casa, volle cercarsi lontano le amicizie e i divertimenti.
Il padre avrebbe potuto negargli l'eredità in quel momento e rimandare la divisione a dopo la sua morte, ma credette di farlo allora perché il figlio la reclamava con la prepotenza che hanno i cattivi, ed alla quale non è possibile praticamente opporsi. Teoricamente il padre può imporsi ai figli, ma certi tipi sono indomabili l'averli in casa costituisce un inferno tale, che appare una liberazione il loro allontanamento. Il padre, dunque, pur avendo un grande dolore che il figlio si allontanava, gli dette la parte che gli spettava e non poté fare diversamente.
Dopo pochi giorni il figlio discolo, messo insieme il denaro e quanto aveva, se ne andò in lontano paese. Voleva essere pienamente indipendente, non voleva controlli e scelse un paese lontano. Forse il padre, angosciatissimo, non poté neppure salutarlo, perché il figlio gli sfuggì, come avviene in simili casi, quasi fosse un nemico; può rilevarsi dalla penosa aspettativa di un ritomo nella quale rimane.
Il giovane credette di aver conquistato la felicità e quando fu lontano di casa gli sembrò di respirare a più larghi polmoni. Oramai credeva di essere padrone di sé e si dette ad una vita dissoluta, consumando tutto quello che aveva. Intanto sopravvenne una grande carestia nel paese nel quale era, ed egli si trovò nella più squallida miseria. Cercò, dunque, un'occupazione e si ridusse servo, egli che era di nobile nascita, e servo di un pagano che lo mandò a custodire i porci. Un ebreo non avrebbe tenuto una mandria di maiali e quel padrone, mettendo il giovane a guardia di quegli animali immondi, lo ridusse in uno stato di grande avvilimento. Inoltre lo tenne in tali ristrettezze, che l'infelice desiderava mangiare le ghiande o secondo il testo greco, le carrube che si davano ai porci, e nessuno gliene dava. Era ridotto come uno schiavo e lo stesso avvilimento nel quale era gli toglieva il coraggio di domandare almeno il cibo che si dava ai porci.
Quali giorni amarissimi menò l'infelice giovane! Stando a guardia di animali, aveva tutto l'agio di considerare il suo stato, perché quell'occupazione non lo distraeva e lo teneva tutto pensieroso; inoltre, la vita immonda di quelle bestie era per lui come un'immagine della vita che egli aveva condotto. Ricordò i giorni passati nella pulizia e nella pace della casa patema, ricordò il modo come vi erano trattati i servi, rispettati, benvoluti e provvisti abbondantemente, ricordò soprattutto la bontà patema e non disperò di essere riaccolto da lui almeno come un servo.
Uno degli effetti del peccato, e soprattutto di quello impuro, è l'indecisione e lo scoraggiamento, e per questo il giovane rimase per un certo tempo a pascolare i porci senza ribellarsi a quello stato di vita; egli, che si era ribellato al padre, sottostava poi supinamente ad un tiranno e non fiatava. Però l'idea di poter servire nella casa patema cominciò a sembrargli attuabile, ed un giorno, deciso, disse a se stesso: Mi alzerò ed andrò dal padre mio, e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te, e non sono più degno d'essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi. Era così avvilito che non aveva la forza di alzarsi senza imporselo: Mi alzerò ed andrò; era così confuso che si preparava ciò che doveva dire al padre; era ancora lontano dall'amare il padre, giacché si decideva principalmente in vista dei danni che la vita dissoluta gli aveva arrecati e dello stato nel quale era ridotto. Fu l'amore del padre che lo riabilitò e che mutò quel pentimento di attrizione in contrizione del cuore.
Il padre non lo aveva dimenticato ed ogni giorno guardava gemendo quella strada per la quale il figlio s'era allontanato; com'era triste per lui! Il sole gli sembrava più scialbo, la solitudine più desolante ed il passaggio dei viaggiatori era per lui una stretta al cuore.
Guardava lontano e piangeva silenziosamente, piangeva di amore e piangeva anche di collera, riprovando in cuor suo i traviamenti del figlio. L'ingratitudine che gli aveva mostrata non poteva non disgustarlo profondamente.
Ma ecco, un giorno vede avanzarsi un giovane dall'andamento accasciato, tutto lacero, tutto incolto, appoggiato ad un bastone per la debolezza e per la stanchezza. Lo riconobbe subito: era suo figlio! E si sentì così commosso che, dimenticando tutto, gli corse incontro, gli gettò le braccia al collo e lo baciò in un efflusso di amorosissime lacrime. Il figlio, piangente egli pure, disse ciò che aveva preparato e ripetuto tra sé lungo la strada: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno d'essere chiamato tuo figlio. Non completò la frase come l'aveva preparata e non accennò a voler essere un servo di casa, forse perché il padre non gliene dette il tempo, ma forse anche perché quell'espressione non reggeva di fronte a tanto amore ed a tanta misericordia.
Il padre, vedendolo tutto lacero, chiamò in fretta i servi, ed ordinò loro di mettere fuori la veste più preziosa per vestirlo, dopo averlo lavato; ordinò che gli mettessero al dito l'anello col suggello, segno di onore speciale, ed i calzari al piede come si conveniva ad un uomo libero. Gli schiavi andavano scalzi ed il povero giovane, tornando da uno stato di schiavitù, non aveva calzari.
Ordinò poi il padre che si uccidesse il vitello ingrassato con cibi speciali, che si teneva in serbo per le grandi circostanze, e si preparasse un grande banchetto, perché quel figlio suo era morto ed era risuscitato, era perduto ed era stato ritrovato. Queste ultime parole del padre rivelavano tutto il suo amore e la sua gioia; mentre il giovane aveva protestato di non essere degno di chiamarsi suo figlio, il padre lo chiamava affettuosamente: Questo mio figlio.
Si preparò il banchetto, e fra canti e suoni di gioia si cominciò a mangiare. Mancava il primo figlio del padre, perché s'era recato nei campi a sorvegliare i lavori. Nel ritornare sentì da lontano le musiche e le danze di quella festa e, chiamato uno dei servi, domandò che cosa fosse. Saputo di che si trattava montò in collera e non voleva entrare.
Nelle feste del cuore c'è sempre qualche persona che mette una nota discordante, ma questa volta l'ira del figlio maggiore poteva degenerare in una rissa, ed il padre volle evitarla e corse personalmente a supplicarlo di entrare. Avrebbe potuto imporglielo, ma a che sarebbe valsa un'imposizione? Lo supplicò, invece, con lo stesso cuore misericordioso, compatendo il suo sdegno, ad entrare. Ma il figlio reagì dicendo che l'aveva sempre servito fedelmente, senz'avere avuto mai in dono un capretto per banchettare coi suoi amici e soggiunse in tono sprezzante: Quando, invece, è venuto questo tuo figlio che ha divorato tutto il suo avere con le meretrici, hai ammazzato per lui il vitello grasso. Non chiamò fratello il giovane che era tornato, ma essendo sdegnato, lo chiamò: tuo figlio, quasi che a lui non appartenesse più, ed espresse nella maniera più veristica, per disprezzo, lo stato di colpa del fratello: ha divorato tutto il suo avere con le meretrici. Gli sembrò, poi, un'enormità l'avere ucciso giusto per lui il vitello grasso.
Con immenso amore il padre cercò di placarlo, facendogli riflettere che egli non doveva adontarsi di quell'atto di misericordia, perché non diminuiva i suoi diritti: tutto ciò che è mio, gli disse, è tuo\ ma soggiunse, ricordandogli l'amore fraterno, che era giusto banchettare e fare festa perché quel suo fratello era come risuscitato e ritrovato. Il figlio aveva chiamato suo fratello semplicemente figlio del padre, ed il padre, invece di chiamarlo suo figlio, l'aveva chiamato tuo fratello, per fargli riflettere che colui per il quale si faceva festa non gli era estraneo, ma gli era fratello e doveva essergli tanto più caro in quanto che era come un morto risuscitato ed un traviato ritornato alla via del bene.
Gesù Cristo non poteva tracciare in una maniera più commovente e tenera lo stato di un peccatore e l'infinita misericordia di Dio nel raccoglierlo in grazia sua quando egli veramente si pente. Non poteva esprimere in una maniera più profonda la misericordia di Dio verso l'umanità, le nazioni ed i popoli quando tornano a Lui. Sono due applicazioni distinte della parabola, che bisogna meditare: il padre che ha due figli è Dio che ha tra i suoi figli buoni e cattivi, ed ha fra le nazioni quelle che gli sono fedeli e quelle che apostatano da Lui.
Dio è un padre che ha dato alle sue creature la libertà, affinché operino il bene meritando, e quando esse la reclamano, Egli non la nega loro, anche se per loro colpa ne abusano. Quando l'anima pecca, si allontana da Dio suo Padre, lascia la sua amorosa compagnia e si abbandona agli stravizi, distruggendo in se stessa la grazia e tutte le buone qualità che Dio le ha donate; il peccato le porta la miseria più squallida, ed essa da serva di Dio diventa serva, anzi schiava delle passioni più immonde. La caratteristica di questo stato è l'avvilimento e la fame, poiché l'anima non giunge neppure a saziarsi delle sue passioni e vive in uno stato di somma infelicità spirituale e corporale.
Lo stesso avviene alle nazioni quando apostatando si allontanano da Dio: vivono lussuriosamente, si riducono schiave di satana, e schiave dei suoi tristi rappresentanti, e cadono nell'avvilimento e nella miseria. Dolorosamente il campo dei porci è il naturale epilogo dell'allontanamento da Dio, e la miseria ne è la conseguenza.
Sotto l'impeto dei castighi il peccatore rientra in se stesso ed ha un primo movimento di ritorno a Dio; considera la brevità e la nullità delle sue false gioie, considera la pace e la felicità di chi opera il bene, si vergogna di sé e decide di ritornare al Padre celeste, andando da chi in terra lo rappresenta. Padre ho peccato, ecco l'umile confessione che il peccatore fa a Dio ai piedi del confessore, ecco l'umile confessione che fanno le nazioni apostate al Padre, quando vedono la loro rovina.
Dio è infinita misericordia ed accoglie subito al suo cuore chi si pente sinceramente; ordina ai suoi servi, cioè ai sacerdoti, di mettergli, con l'assoluzione, la veste della grazia; non gliela pone Lui direttamente, ma chiama i suoi servi, e da essi gli fa porre al dito l'anello di nuove grazie ed ai piedi i sandali della libertà, ordinando poi il banchetto dell'amore, perché si sazi di beni.
Alle singole anime penitenti Dio concede le delizie del Banchetto eucaristico, alle nazioni che, come tali, non hanno un avvenire eterno, Dio concede l'abbondanza dei beni materiali e la prosperità.
L'epilogo della parabola riguarda particolarmente il popolo ebreo e lo scandalo che i farisei prendevano vedendo Gesù che trattava amabilmente i peccatori. Essi si rifiutavano di far parte del regno di Dio e del banchetto della vita, perché vedevano che Gesù vi accoglieva i peccatori; eppure avrebbero dovuto esultarne e goderne, perché quella familiarità li convertiva e li salvava.
Il Padre celeste non aveva solo un figlio maggiore, il popolo ebreo, ne aveva anche uno minore, il popolo pagano; se Gesù cercava i pubblicani ed i peccatori, cercava di ricondurre al Padre celeste il figlio minore con quelle primizie di misericordia. Questo avrebbe dovuto produrre in loro una gran gioia, giacché tutti gli uomini sono figli di Dio, Ebrei e pagani, e gli Ebrei avrebbero dovuto esultare nel vedere il figlio minore essere accolto tra le braccia della misericordia e partecipare al banchetto della vita.
La parabola del fìgliol prodigo, come accennammo, si riferisce anche al ritorno delle nazioni apostate a Dio negli ultimi tempi.
È un racconto troppo vivo, che noi in parte stiamo già vivendo, per poterlo trascurare: Dio ha due figli: il popolo ebreo ed il popolo pagano. Quest'ultimo, minore di età, dopo essere stato nella casa patema, reclama la sua parte di eredità tutta materiale, pretende di potere usare a suo modo dei doni di Dio, e si allontana da Lui vivendo lussuriosamente.
La famosa dichiarazione dei diritti dell'uomo nella rivoluzione francese fu come l'atto ufficiale col quale il popolo pagano, reso ribelle a Dio, reclamò i diritti, falsati e travisati, della propria eredità. Dio non forza nessuno al bene e per suoi altissimi fini lasciò fare.
In possesso pieno e disordinato della propria eredità, le nazioni si allontanarono da Dio e cominciarono quella vita sistematicamente dissoluta, che è l'impronta speciale della nostra moderna così detta civiltà.
È la storia contemporanea, che fa orrore. E vero, in ogni tempo le nazioni, anche cristiane, si sono oberate di delitti spaventosi, ma se si pensa al bene che in esse regnava, a tanti re santi, a tante manifestazioni di fede, di pietà e di carità, deve riconoscersi che, dopo l'apostasia, le nazioni sono cadute in profondi abissi di corruzione che i nostri padri non hanno neppure sospettato. La caratteristica poi di questa corruzione è l'impurità, spinta a poco a poco fino agli eccessi più degradanti.
La lontananza da Dio produce la miseria e la miseria conduce alle schiavitù più degradanti. Gli uomini, che dovevano vivere della divina provvidenza ed essere santamente liberi, vedono diminuite le loro risorse fino alla miseria ed alla carestia e subiscono l'esoso dominio d'un padrone crudele. Lo stato economico delle nazioni moderne fa spavento e con la scusa delle esigenze militari esse vanno verso una completa schiavitù interna. Servono, servono lo Stato, padrone esigente, crudele e spietato, e non hanno di che sfamarsi.
Pascolano i porci, ma i porci non danno loro neppure quello che costituisce la loro mensa. In fondo i popoli apostati vivono per pascolare le mandrie corrotte dei capi, come si vede dovunque e specie in Russia, e non ricavano nulla dalla loro schiavitù. Ecco in quale stato ha ridotto i popoli l'apostasia! E una cosa che si constata e si vive, non ha bisogno di dimostrazione.
Ma verrà l'ora della rinascita e verrà per la stessa violenza della crisi che tortura i popoli. Quasi svegliandosi da un sonno, diranno: Sorgerò ed andrò dal Padre mio. All'apostasia subentrerà un periodo di risurrezione della coscienza cristiana, e quindi un periodo di ritorno.
Il Padre celeste, pieno di misericordia, verrà incontro ai popoli, li abbraccerà e li bacerà con grazie speciali e li introdurrà nuovamente nella Chiesa. I suoi servi rivestiranno a nuovo le anime, rimettendole in grazia di Dio, porranno al loro dito l'anello di novelle grazie e di una novella figliolanza con Dio ed imbandiranno il banchetto col vitello grasso, cioè con un'esuberanza di doni eucaristici. Ci saranno anche allora le voci discordanti, senza dubbio, perché nel mondo viatore non è possibile una completa armonia; ma saranno voci che la bontà del Padre comune, del Papa, saprà conciliare, per mantenere l'unità tra i popoli cristiani.
Il padre poi che invita, anzi supplica il fratello maggiore ad entrare nel banchetto, può significare il Papa dell'amore che invita con grande amorevolezza gli Ebrei far parte della gioia del mondo cattolico, e l'amorosa insistenza li indurrà alla conversione, formando così l'unico ovile sotto un solo pastore.
Scrivendo queste pagine e pensando alla misericordia di Dio ho pianto tanto, implorandola per noi e per tutti.
Che pena vedere le anime nella più squallida miseria e nella più tormentosa infelicità per essere lontane da Dio!
Che tenerezza vedere Dio che, nonostante le loro ingratitudini, le accoglie!
O Signore, veramente abbiamo peccato contro il cielo e contro di Te non siamo degni di chiamarci tuoi figli!
Accoglici come tuoi servi, ridonaci la libertà santa del cuore, rivestici a nuovo con la tua grazia e rendici partecipi della tua mensa di amore in terra ed in cielo.
Sac. Dolindo Ruotolo
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