domenica 20 marzo 2016

20.03.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 22 par. 2-7

2. Il patto di Giuda, e la psicologia del suo tradimento.


Si avvicinava la festa della Pasqua, e, come dicono S. Matteo (26, 2) e S. Marco (14, 1), di lì a due giorni doveva celebrarsi; ora, i principi dei sacerdoti e gli scribi, vedendo che il concorso del popolo si faceva sempre più numeroso quando Gesù insegnava nel tempio per l'affluire dei pellegrini che venivano a celebrare la solennità in Gerusalemme, ne furono impressionati e si consultarono insieme per vedere in qual modo uccidere il Redentore senza suscitare turbamenti nel popolo. Essi non credevano ancora che Gesù fosse così popolare e che la sua parola attraesse tanto; se ne convinsero quando videro che i pellegrini confluiti a Gerusalemme si affollavano anch'essi per ascoltarlo nel tempio, e pensarono che quel movimento dovesse ad ogni costo troncarsi, avendo guadagnato anche le altre regioni. Più grande, però, era il concorso del popolo e meno essi avevano il coraggio di agire manifestamente contro Gesù, e per questo andavano cercando un'occasione propizia per farlo.

L'occasione venne loro da chi meno se lo sarebbero aspettato, da Giuda Iscariota, uno degli apostoli.

Questi da molto tempo seguiva Gesù con animo falso e perverso; era col corpo ma non con l'anima tra i suoi discepoli, anzi era in atteggiamento subdolamente ostile. Gli era venuta quasi una ossessione del suo avvenire, e poiché la vita randagia e povera che conduceva non gli dava nessuna assicurazione per il futuro, portandogli le elemosine che si raccoglievano, aveva cominciato ad appropriarsene.

S'era messo a seguire Gesù con l'entusiasmo di chi aspetta grandi trionfi e grandi vantaggi temporali; aveva visto sfumare queste illusioni; anzi l'incalzare delle persecuzioni contro il Maestro divino l'aveva persuaso di essersi imbattuto in un falso profeta. Egli aveva perduto quel poco di fede più naturale che soprannaturale che prima aveva avuto, ed era diventato un critico spietato di tutte le azioni di Gesù, tanto più pericoloso in quanto che non si manifestava.

Il Sacro Testo dice che satana era entrato in lui, non ossessionandolo e rendendolo irresponsabile, ma suscitando in lui uno spirito diffidente, critico, sospettoso e fantastico, e dandogli un sempre maggiore assillamento per la propria situazione materiale. Voleva ad ogni costo crearsi una fortuna stabile, e forse al principio s'illuse magari anche di poter rendere meno precaria la situazione dei suoi compagni; non accettò il precetto della povertà volontaria, non confidò in nessun modo in Dio e, quando credette essere giunto per lui il momento di fare un buon guadagno, non esitò a gettarsi nell'abisso del tradimento.

Subdolamente egli era certamente in relazione coi sacerdoti del tempio e con gli scribi; questi si accorsero della sua incertezza e cercarono staccarlo da Gesù; al principio satana lo illuse facendogli intendere che in fondo era l'autorità del sinedrio che riprovava il Maestro. Quando seppe che complottavano contro di Lui, satana gli pose in cuore che poteva fare un lauto guadagno tradendolo, e senza più esitare si recò dai sommi sacerdoti per contrattare il tradimento. Forse s'illuse e cercò giustificarsi innanzi alla propria coscienza, pensando di far togliere di mezzo un impostore; può ricavarsi questo dal disperato rammarico che provò quando, dalla sua pazienza nella Passione e dalla sua innocenza proclamata da Pilato, s'accorse che era un giusto.

Egli non domandò un prezzo determinato del suo tradimento, ma si rimise ai sacerdoti, proprio perché sperava fare un buon affare. Avendo però egli stesso prospettato Gesù come un mestatore, per non comparire innanzi ai sacerdoti come un traditore, dovette contentarsi dei trenta denari che gli offrirono, ciò che allora costituiva il prezzo di uno schiavo. Rimase male per questo, ma non lo manifestò, e forse uno dei motivi per i quali dopo restituì la moneta e la gettò per terra non fu tanto il pentimento del tradimento quanto il dispetto d'averne avuto così poco.

Se il suo fosse stato un vero pentimento, anche iniziale, Dio gli avrebbe concesso la grazia di pentirsi veramente.

Il gesto di Giuda si ripete ogni giorno
Il gesto di Giuda dolorosamente si ripete ogni giorno, poiché ogni giorno tante anime barattano Gesù e lo consegnano ai suoi nemici nel loro cuore. Satana entra in queste creature con la stessa tentazione con la quale s'insinuò in Adamo e in Giuda: il conseguimento di un bene maggiore. Se l'anima è spirituale, non l'aggredisce subito con illusioni materiali, ma cerca di falsarne la coscienza ed il cammino; se è tutta rivolta ai beni materiali le prospetta nel male vantaggi, guadagni e divertimenti. È necessario vigilare e pregare per non cadere in queste tentazioni e per non tradire Gesù in noi medesimi.

Giuda si recò dai sacerdoti e questi avrebbero dovuto illuminarlo; ma ci andò con cuore falso, si rivolse non alla loro autorità ma alla loro malizia e per questo trovò in essi un aiuto alla propria rovina.

Lo stesso può avvenire alle anime già preda di satana per una passione: per un traviamento, per un allontanamento dalla divina volontà: vanno dal sacerdote falsamente e trovano le tenebre, la confusione ed a volte la medesima rovina. Quando poi s'imbattono disgraziatamente in un sacerdote cattivo, che con la sua vita disordinata già tradisce Gesù, esse vanno ad offrirgli il mezzo per tradirlo ancora, e cadono in un abisso di morte insieme con lui; per il vilissimo prezzo di un diletto materiale o di un falso e scellerato ideale.

Quante anime, illuse da satana, sfuggono alla divina volontà, si sottraggono all'azione di Gesù e, andando dai sacerdoti, trovano la conferma e l'incoraggiamento nelle loro illusioni!

Quante anime invece di essere dirette presumono dirigere i sacerdoti, li spingono alla prevaricazione come Eva spinse Adamo alla rovina!

Non si può dunque dire con facilità: Mi sono consigliato col sacerdote, per giustificare le proprie illusioni e le proprie miserie, perché bisogna vedere in qual modo si domanda il consiglio del ministro di Dio, e da quale ministro di Dio si va. In un fatto straordinario, per esempio, che supera l'ordinaria provvidenza spirituale, non basta un sacerdote qualunque, ma se ne richiede uno particolarmente santo ed illuminato; un'anima che cammina per vie mistiche non può essere guidata dal primo che incontra, e tanto meno poi da chi dolorosamente può essere agli antipodi delle sublimi elevazioni spirituali.

Dio illumina il sacerdote retto, senza dubbio, ed illumina anche il sacerdote difettoso quando l'anima va a lui con rettitudine, confidando in Dio; ma nella provvidenza ordinaria la direzione spirituale è una luce che dipende dai due poli che s'incontrano: il confessore e il penitente, e dalla corrente di grazia che li attraversa; quando un polo è in dislivello, invece di aversi la luce, possono aversi le tenebre.

3. La preparazione del banchetto pasquale e l'istituzione dell'Eucaristia

Essendo venuto il giorno degli Azzimi, cioè il primo giorno dei sette della solennità pasquale, in cui si usava solo pane azzimo, Gesù mandò Pietro e Giovanni per preparare quanto occorreva al rituale banchetto. Egli non aveva casa e tanto meno una sala sufficientemente grande per celebrarlo e perciò ricorse all'ospitalità di un amico.

Era, del resto, uso generale che si ospitassero quelli che, peregrinando a Gerusalemme, non avevano un luogo dove raccogliersi.

Giuda, dopo il patto fatto coi sacerdoti, era più che mai sospettoso e guardingo, e spiava tutte le sue mosse per trovare l'opportunità per tradirlo; ora Gesù, dovendo ricorrere all'ospitalità, probabilmente di Nicodemo o di un altro legato al sinedrio, non volle esporlo a rappresaglie, né volle che Giuda avesse combinato il tradimento proprio nel Cenacolo; perciò parlò a Pietro ed a Giovanni in gergo, in modo che essi avessero potuto rintracciare l'amico e Giuda non avesse potuto saperlo che al momento proprio del banchetto.

Con la sua prescienza divina Gesù conosceva tutto e dette, perciò, precise indicazioni ai due apostoli per rintracciare colui che doveva ospitarlo: entrando in città avrebbero incontrato un uomo che portava una brocca d'acqua; dovevano seguirlo fino alla casa dove sarebbe entrato, che era quella del suo amico, e domandargli in suo nome ospitalità, apparecchiando quanto era necessario per il banchetto. Giuda dovette essere non poco contrariato dall'atto di sfiducia del Maestro, giacché era lui che, portando le elemosine, si occupava delle cose materiali, ma non poté mostrare la sua contrarietà, temendo di svelarsi. Egli dovette anche dare, dalla borsa che portava, il denaro occorrente alle spese, e questo poté anche indispettirlo, giacché alla sua avarizia spaventosa, che aveva cercato di trarre guadagno dal tradimento, ogni spesa sembrava inutile.

Pietro e Giovanni trovarono tutto come aveva detto loro Gesù e prepararono il banchetto, mentre Gesù con gli altri suoi discepoli si avviò alla casa ed entratovi si assise a mensa.

Dal racconto di san Luca è evidente che anche Giuda era presente ed anche lui partecipò alla cena; ma in quale stato di animo egli era! Già traditore, col prezzo dell'infame patto in tasca, senza fede, con l'animo pieno di astio contro il Maestro e contro tutti, egli vedeva tutto in una luce sinistra, e tutta l'effusione infinita dell'amore di Gesù servì solo ad accrescergli l'astio ed il livore contro di Lui.

Tutto lo urtava, gli sembrava arbitrario, sciocco, contrario alla Legge e sempre più si radicava nel pensiero di far finire quella che a lui sembrava una gazzarra di anime fanatiche ed esaltate. Era una nota terribilmente stonata in quella grande manifestazione di amore, ma non poté impedirne l'effusione;

pesava certamente come un incubo mortale sul Cuore di Gesù e disseminava nei compagni un senso di cupa tetraggine, ma non riusciva a spegnere la luce splendente di quel momento ineffabile.

Gesù, assiso al centro della tavola, aveva un aspetto trasumanato, divino. Il bellissimo volto era soffuso di maestà, di amore, di bontà, di pace e di una soave e profonda tristezza, che era come l'ombra di quel quadro meraviglioso e lo rendeva più bello.

La divinità, nascosta dall'umanità santissima, affiorava da quei lineamenti arcanamente scultorei e bellissimi; gli occhi rifulgevano ed in essi si rispecchiava il cielo, le guance erano candide e rubiconde, e ad esse la bionda barba dava come una sfumatura di oro nello splendore della sua bontà. Affiorava da quel volto tutto il suo Cuore, tutto il suo amore, e nella composta sua modestia aveva un tratto materno, immensamente materno.

Era lo Sposo dei Cantici che in quel momento si donava; apriva la porta della sua carità e stillava profumi di amore; Egli abbracciava le anime dei secoli tutti; abbracciava la sua Chiesa e le donava la sua vita.

Guardò in giro i suoi discepoli ed il suo sguardo li avvolse tutti di amore, come è avvolta dal sole nascente una brulla ed umida roccia.

Essi erano ancora meschini e poveri di spirito, non intendevano neppure quello che Egli stava per fare, ma erano suoi e li amava immensamente. Era venuto in terra per sorreggere l'umana infermità, si donava per darle la sua vita; la stessa meschinità dei suoi apostoli accrebbe la sua tenerezza ed Egli esclamò: Ardentemente ho bramato di mangiare questa Pasqua con voi prima dì patire e, per far loro intendere chiaramente che Egli oramai li lasciava, soggiunse: Poiché io vi dico che non ne mangerò più fino a tanto che si compia nel regno di Dio.

Egli, dunque, celebrava l'ultima cena coi suoi cari e sarebbe stato con loro nuovamente a banchetto di amore pieno, quando il dono che loro elargiva in quel momento sì sarebbe compiuto nel regno di Dio con la piena manifestazione del suo amore nella gloria eterna. Egli, poi, si donava per rimanere con loro in terra, ma la intimità famigliare di quella Cena, nella quale Egli si dava senza riserve e senza badare all'impreparazione ed all'indegnità di quelli ai quali si dava, si sarebbe solo rinnovata e compiuta nel regno di Dio, cioè nel trionfo del suo amore sulla terra medesima, quando Egli si sarebbe come nuovamente donato in una grande espansione eucaristica.

Con una stessa espressione Gesù accenna, dunque, ai due compimenti del suo mistero di amore: a quello che sarebbe avvenuto alla fine dei tempi nel trionfo della Chiesa, nel quale l'espansione del suo amore sarebbe stato così grande da farlo sentire quasi a mensa con i suoi figli, ed al compimento di amore che avrebbe avuto nel regno eterno, nel quale Egli sarebbe stato e sarà cibo di eterna felicità per la sua Chiesa trionfante.

Gli apostoli non capirono le sue parole, non volevano capirle, non potevano persuadersi che Egli li lasciava, credettero che alludesse all'imminente trionfo suo temporale che essi attendevano, e perciò Gesù insistette nel suo pensiero con un atto maggiormente sensibile: prese la coppa di vino che il capo di famiglia soleva bere e distribuire ai commensali al principio della cena pasquale, dopo averla benedetta, e la diede ai suoi cari dicendo: Prendete e distribuitelo tra voi, poiché vi dico che non berrò più del frutto della vite fino a tanto che venga il regno di Dio.

Egli non dette ancora la coppa eucaristica, ma quella della cena rituale, e la dette per annunziare di nuovo la sua morte ed il compimento del banchetto dell'amore nel trionfo della Chiesa e nel Regno eterno.

Il momento era solenne, e gli angeli discesero dal cielo per contemplarlo. Si compiva in quel momento il miracolo più grande di Dio, e si compiva in un momento, ad una sola parola del Verbo Incarnato.

Il Signore medesimo volle darci quasi la misura di quel miracolo istantaneo di amore che doveva transustanziare il pane ed il vino nel Corpo e nel Sangue del Redentore, facendoci vedere quanti milioni di anni e di secoli si addensano sulla materia che si trasforma e si evolve. Egli dal principio creò i cieli e la terra, ma i cieli d'allora ancora si evolvono nel loro mirabile ordine, e la terra ancora si assesta nella sua compagine.

Gesù Cristo con una parola di onnipotente amore compiva un'opera immensamente più grande.

Era già come trasfigurato, ma si trasfigurò anche di più... Il suo volto era arcano, dolcissimo, pensoso, profondo, ... era come il volto di Dio: potenza, sapienza ed amore. Aveva la sicurezza di chi può tutto, la luminosità di chi tutto conosce e tutto compie con sapienza, e la soavità di chi si dona per purissimo amore. Gli angeli trattenevano quasi la vita, e i cieli quasi fermarono la loro armonia. Prese il pane, elevò gli occhi al cielo, rese grazie, cioè pregò ardentemente e ringraziò il Padre per il dono grande che dava agli uomini; spezzò il pane distribuendolo ai suoi apostoli, ed esclamò pacatamente con voce di placido amore, innanzi al quale le leggi del creato si arrestarono adoranti ed obbedirono, quasi sparendo dal suo cospetto: Questo è il mio corpo che è dato per voi, fate questo in memoria di me. La sostanza del pane fu come colpita dall'onnipotente parola e si dileguò, dando luogo alla sostanza del Corpo del Redentore; e poiché Egli non aveva pronunziato la sua onnipotente parola sulla quantità del pane, essa, insieme agli accidenti, rimase sospesa come velo di quella sostanza divina.

Era l'Arca della novella alleanza nascosta nel mistero e celata dai veli; arca fulgente di oro per la divinità del Redentore, manna vera del cielo, pane di vita, legge di amore novello, sacrificio ammirabile dell'eterno Sacerdote. Quel pane non era più il pane, era Lui stesso; Egli viveva veramente nelle dimensioni del suo Corpo e viveva in quelle del pane; non poteva dividere le dimensioni del suo corpo per darsi a tutti, e divise quelle del pane; ma poiché esse erano accidentali e la sostanza del suo corpo era totalmente data, ogni parte del pane lo conteneva tutto come era, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità. Quale mistero ineffabile!

Sostò un momento; gli apostoli mangiavano il pane di vita, Egli era in loro e li vivificava. L'amor suo aveva raggiunto il culmine della dedizione; nessun amore umano poteva giungere a tanto, perché se si fosse dato così sarebbe morto ed avrebbe donato non l'amore vivificante, l'anima ed il cuore, ma un poco di cibo che tutto al più avrebbe potuto sostenere la vita del corpo. Gli apostoli quasi non si accorsero del dono divino; ferveva in loro una novella vita ma non la sapevano ancora discemere. Gesù, però esultava d'amore penetrandoli, avvolgendoli, baciandoli nell'intimo della loro sostanza, e percorrendoli come corrente d'infinita carità.

Non fu pago: s'era dato come cibo, voleva darsi come bevanda; aveva dato il suo corpo intero e voleva dare, immolandosi per amore, il suo Sangue. Voleva dividerlo ad ogni costo dal Corpo, anticiparne l'effusione e perpetuarla per i secoli sino alla fine del mondo. Perciò prese il calice pieno di vino, e dandolo ai suoi cari esclamò con la stessa parola onnipotente e transustanziante: Questo calice è il nuovo testamento del mio sangue che sarà sparso per voi. Egli non lo spargeva, lo dava e dandolo sacramentalmente separato dal Corpo lo dava come sacrificio di amore; era proprio il suo Sangue, non un simbolo; era lo stesso che sarebbe stato sparso, non una figura; era il Sangue del sacrificio stesso della croce, che sarebbe stato consumato tra breve per il tradimento di Giuda, e per questo Gesù, ad eliminare ogni dubbio, soggiunse: Del resto, ecco che la mano di chi mi tradisce è qui con me a tavola.

4. Gesù annunzia il tradimento e il rinnegamento di Pietro

Il volto divino tutto spirante amore si rabbuiò, si contrasse in un'espressione di spasimo che era proporzionata all'amore col quale s'era dato: Egli s'era immolato per amore, ed uno dei suoi cari voleva tutto immolarlo per odio; Egli dava tutto se stesso, incommensurabile ricchezza, e l'apostolo ingrato lo barattava per trenta miserabili denari; Egli si dava per salvare, e l'apostolo infedele lo vendeva per perdersi...! Quale pena per Gesù! Egli perciò soggiunse: E certo il Figlio dell'uomo se ne va, secondo ciò che è decretato, ma, guai a quell'uomo dal quale sarà tradito.

Egli si sarebbe immolato lasciando questa terra; con la morte, avrebbe utilizzato persino il tradimento dell' apostolo infedele per farsi ghermire dalla morte, ma questo non avrebbe scusato la colpa spaventosa del traditore, che ne avrebbe pagato le conseguenze con l'eterna rovina.

A queste parole di Gesù gli apostoli furono sgomenti, e cominciarono a domandarsi gli uni gli altri, prima di domandarlo al Maestro divino, chi tra loro avrebbe commesso si gran delitto. Il loro cuore era ancora piccolo, però, e non approfondirono sufficientemente le parole di Gesù; sembrava impossibile che uno di essi avesse potuto tradirlo e, dopo un momento di sbigottimento, ritornarono alla loro mentalità, auspicando il regno temporale del Maestro, nel quale speravano avere dei posti elevati, contendendo fin d'allora chi di essi avrebbe dovuto essere considerato il maggiore.

Gesù Cristo non negò che avrebbero avuto dei posti di responsabilità nel suo regno spirituale, perché in realtà Egli veniva a fondare la sua Chiesa come una società perfetta; ma determinò quale doveva essere la natura vera delle potestà che loro avrebbe conferite e quale il loro esercizio pratico.

I re delle genti, Egli disse, governano con impero, e quelli che hanno autorità su di loro vengono chiamati benefattori. Governano con impero, cioè senza carità e con la forza e ciò nonostante vengono chiamati benefattori, perché, dominando con la forza, pretendono con la forza di essere onorati.

L'autorità nel mondo era un dominio e chi stava in alto esigeva solo onori e denaro, ma gli apostoli e i loro successori non dovevano fare così; essi erano ministri di bene e servi di Dio; dovevano essere fra i sudditi come i più piccoli, con l'affabile carità, e dovevano essere come servi delle anime.

Con un atto di delicatissima umiltà ed illuminando l'insegnamento con l'esempio, Gesù soggiunse: Chi è più grande, colui che sta a tavola o colui che serve? Non è forse colui che siede a tavola? Io invece sto in mezzo a voi come uno che serve. Egli non disse esplicitamente che era la medesima suprema potestà, ma usò una circonlocuzione di umiltà, quasi gli ripugnasse dirlo in quel momento.

Era il primo di tutti in tutti i secoli e s'era ridotto come servo loro e servo delle anime, offrendosi loro come cibo e fra poco come vittima. Era questo il carattere della potestà che Egli avrebbe costituito nel suo regno.

Gli apostoli aspettavano il suo regno ma lo concepivano in un senso tutto naturale; Gesù non nega che costituirà un regno nel quale avrebbero avuto un grande potere, ed affettuosamente dice loro che lo prepara per essi perché sono rimasti con Lui nelle sue prove; lo prepara in premio della loro fedeltà, ma soggiunge che sarebbe stato simile al regno che il Padre gli aveva donato. Essi dovevano come Lui annunziare la verità e come Lui soffrire; dovevano coronare la vita col martirio, come Egli tra poco l'avrebbe coronata con l'immolazione del Calvario e dovevano, poi, ricevere un premio eterno di eterna felicità, quasi banchetto di eterna vita, ed essere esaltati nel giorno del giudizio come giudici del mondo.

Con delicatezza immensa, Gesù non accennò ai dolori che avrebbero sofferto, ma solo al premio che avrebbero avuto. La frase quasi gli si troncò sulle labbra e, dopo aver parlato in gergo del regno che avrebbero avuto, simile a quello che gli aveva preparato il Padre, accennò solo all'epilogo eterno di questo regno. Gli faceva troppa pena in quel momento parlare loro dei dolori futuri che avrebbero avuto.

Egli, però, non poté non prevenirli su quelli che erano imminenti, perché si avvicinava l'ora, e lo fece con grande carità, a poco a poco, rivolgendosi prima di tutti a Pietro che un giorno, come capo della Chiesa, doveva sostenere la fede ed il coraggio dei suoi compagni e di tutti i fedeli. Gesù lo chiamò due volte in segno di premuroso affetto per il pericolo che incombeva su di lui e su tutti gli apostoli, e gli disse: Simone, Simone, ecco satana va in cerca di voi per vagliarvi come grano, cioè per tormentarvi e disorientarvi, agitandovi come s'agita il grano nel vaglio; ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli.

Era l'annunzio di una grande tempesta e Pietro capì che parlava dell'imminente persecuzione che si sarebbe scatenata contro il Maestro, secondo ciò che già aveva loro annunziato; quella velata ma precisa previsione di una sua caduta non gli andava, la credeva impossibile, e perciò disse che si sentiva nell'animo l'amore di seguirlo anche nella prigione e nella morte. Ma Gesù accoratamente gli replicò: Dico a te, Pietro, che non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi. E voleva dirgli: prima che faccia giorno, o come dice san Marco più esplicitamente: Prima che il gallo abbia cantato la seconda volta (14,30), all'aurora, tu per tre volte protesterai di non conoscermi. Non solo non sarebbe andato con Lui alla prigione od alla morte, ma avrebbe addirittura protestato di non conoscerlo.

L'infallibilità di Pietro
Gesù Cristo aveva promesso agli apostoli un regno simile a quello che il Padre gli aveva preparato, e questo regno era la Chiesa. Logicamente questo regno non poteva essere senza un capo, e Gesù si rivolse a Pietro, designandolo come tale nell'ingiungergli di confermare nella fede i suoi fratelli.Non avrebbe potuto confermarli senza averne l'autorità e la grazia. L'autorità Gesù gliela dava in quel comando, la grazia gliel'aveva ottenuta pregando per lui affinché non fosse venuta meno la sua fede.

È evidente che Gesù parlava dell'infallibilità della sua fede nel confermare gli altri, cioè dalla cattedra dell'insegnamento che gli affidava; è chiarissimo, poi, che parlava non solo di quel momento doloroso ma di tutti i tempi e di tutte le anime, e quindi di tutti i successori che Pietro avrebbe avuti nella grande potestà che gli dava. È anche più chiaro dal contesto che Gesù Cristo non parlava d'infallibilità personale di Pietro nella sua vita, cioè d'impeccabilità o d'infallibilità privata, perché subito dopo gli predisse che l'avrebbe rinnegato tre volte.

Il dogma mirabile della supremazia e dell'infallibilità del Papa era tutto nelle divine parole di Gesù: egli non può errare confermando gli altri, per una grazia speciale ottenutagli dalla preghiera di Gesù; egli può errare nella sua vita, come errò Pietro, e può aver bisogno di convertirsi, come si convertì Pietro dopo aver rinnegato il maestro. Gesù pregò che non fosse venuta meno la fede di Pietro in Lui e, nonostante il rinnegamento, infatti, egli non la perdette completamente come uomo privato, diciamo così; ma quello che soprattutto non gli venne mai meno, secondo la preghiera di Gesù, fu la fede che ebbe dopo il ravvedimento, la fede luminosa ed infallibile, frutto speciale dello Spirito Santo, luce d'insegnamento per tutta la Chiesa.

Gesù pregò per Pietro e certamente venne esaudito (Gv 11,42); ora se pregò per lui in quanto capo del regno che costituiva, cioè della Chiesa, è evidente che pregò per i suoi successori, legati a lui in interrotta autorità che durerà sino al termine dei secoli. L'argomento è così lampante che fu la base della definizione dell'infallibilità pontificia fatta nel Concilio Vaticano (Costitut. de Eccl. cap. 4).

Gesù Cristo, dopo aver dato a Pietro l'incarico di confermare i suoi fratelli, ed avergli predetto il rinnegamento, continuò a prevenire i suoi cari con delicatezza sugl'imminenti pericoli e dolori che li attendevano; satana andava in cerca di loro o, secondo il testo greco, aveva ottenuto con le sue insistenze da Dio il permesso di vagliarli, come un giorno fece con Giobbe, e già stava in agguato per assalirli con la più fiera tempesta. Alla truce insistenza di satana presso Dio, Gesù aveva opposto la sua ardente preghiera per Pietro, ed aveva ottenuto a lui ed alla terra l'ammirabile dono d'una fede infallibile anche fra le più fiere tempeste; ma la tempesta sarebbe scoppiata, terribile, e Gesù ne previene gli apostoli, e per essi ne previene anche la Chiesa.

Egli lo fece, però, indirettamente per non turbarli troppo e volle che essi stessi l'avessero capito. Perciò disse loro: Quando vi mandai senza sacco, senza bisaccia e senza calzari vi mancò mai nulla? Ed essi risposero: Nulla. Fino allora li aveva Egli provveduti con grande provvidenza, e li aveva difesi; ma tra poco egli non ci sarebbe stato più, ed avrebbero dovuto essi provvedersi e difendersi.

Con queste parole Gesù annunziò la sua morte e predisse loro l'ostilità che avrebbero incontrato: quando li mandava a predicare Gesù li faceva andare senza provviste, perché trovavano sempre famiglie generose che li ospitavano come discepoli suoi; ma, morto Lui, tutti li avrebbero avversati ed essi avrebbero dovuto non solo provvedersi, ma stare in guardia e difendersi da pericoli mortali. Gesù espresse loro la gravità dei pericoli ai quali sarebbero stati esposti, con un'allegoria, dicendo: Chi non ha la spada venda la sua tonaca e ne compri una, poiché vi dico che è necessario che si compia anche questo che è scritto di me: Egli è stato noverato tra gli scellerati. Con queste parole voleva dire: Ecco che io sarò catturato e sarò messo a morte, essere, infatti, annoverato fra gli scellerati significava precisamente questo, anzi era un'allusione alla sua crocifissione, poiché solo gli scellerati erano condannati all'infame supplizio.

Gli apostoli credettero che Egli alludesse ad un assalto che poteva subire nella notte dai ladroni, e poiché avevano due spade a portata di mano, forse proprio nella sala del banchetto, gliele additarono, probabilmente per ottenere il permesso di portarle con loro, e dissero: Signore, ecco qui due spade.Ma Gesù rispose: Basta così! Non avevano capito che alludeva ai pericoli futuri che avrebbero incontrato, ed Egli non insistette, perché in quel momento era inutile, e troncò il discorso con quella parola: Basta così! Si può supporre che gli apostoli avessero capito che le due spade erano sufficienti per difendersi, e le avessero prese con loro.

Noi troviamo infatti san Pietro nell'orto in possesso di una spada, della quale si servì contro il servo del principe dei sacerdoti; era difficile, per non dire impossibile che Pietro, povero e pacifico pescatore, possedesse una spada, ed era più difficile ancora che fosse andato armato al banchetto pasquale; la trovò nella casa che li aveva ospitati e, come avevano preso l'asina e l'asinelio per l'ingresso di Gesù in Gerusalemme senza permesso del padrone, si dovette credere autorizzato dalle parole del Maestro e prendere la spada per poi restituirla.

La Chiesa nelle sue lotte
Annunziando agli apostoli i pericoli ai quali sarebbero andati incontro nell'apostolato, ed annunziandoli alla sua Chiesa, Gesù Cristo raccomandò di aver cura di provvedersi del necessario e di comprare una spada vendendo la tonaca', Egli con questo volle dire che la Chiesa doveva possedere il necessario per compiere la sua missione e doveva procurarsi la difesa dalla spada dei principi temporali nei pericoli che l'avrebbero minacciata da parte degli scellerati. Pretendere che la Chiesa non possegga nulla e che la vita apostolica sia il non possedere assolutamente nulla è utopia, perché chi vive sulla terra ha bisogno anche di ciò che è indispensabile alla vita.

La Chiesa vive in mezzo al mondo e non può prescindere dalle necessità temporali, specialmente nei luoghi dove la poca fede dei popoli, o addirittura la scelleratezza degli uomini la costringe a vivere come abbandonata o tra le persecuzioni. Essa non può fare a meno neppure della spada, cioè di un certo appoggio politico fra le genti, senza del quale la convivenza sociale le sarebbe impossibile.

Nelle grandi crisi politiche degli Stati o nelle persecuzioni Essa è costretta a vendere la tonaca per la spada, cioè a rinunziare anche a qualche suo diritto esterno, a qualche prerogativa che non lede la sua essenza, perché possa assicurarsi la spada, cioè una certa sicurezza di esistenza in mezzo alle nazioni. Quelli che mormorano degli atteggiamenti diplomatici della Chiesa e presumono di dettarle le norme della vita mostrano chiaro di non intendere che Essa è guidata dallo Spirito Santo e che sa meglio di chiunque altro quello che deve fare per vivere sulla terra.

La Chiesa è essenzialmente pacifica e, sull'esempio del suo capo divino, è più disposta a subire che a reagire; ma vengono momenti terribili nella storia delle nazioni, nei quali Essa è come annoverata tra gli scellerati, è perseguitata ed è cercata a morte con movimenti violenti e diabolici, promossi da mestatori che usurpano il potere e si dichiarano autorità costituita, mentre sono solo delinquenti in veste di governatori; in questi casi la Chiesa può avere anche la spada, può ricacciare, cioè la violenza con la violenza, ed affermare anche con la forza i diritti di uno Stato cattolico, ghermito da pochi facinorosi. Così avvenne per esempio nel Messico, quando i cattolici formarono le armate di Cristo re per combattere i governi scellerati, massonici ed atei, che sopraffacevano la stragrande maggioranza cattolica del paese; così avvenne nella Spagna al tempo della rivoluzione bolscevica, che tentò in tutti i modi di strapparle la fede. In questi casi non solo è un diritto prendere la spada ma un grande dovere, poiché la tutela della fede contro la violenza organizzata, che ha l'audacia d'impadronirsi della stessa organizzazione di uno Stato cattolico, è un dovere di tutela per le anime e per lo stesso onore di Dio.

Checché ne pensino e ne dicano i moderni mestatori che pretendono ridurre la Chiesa ad una setta, Essa è sempre la madre dei popoli e l'autentica rappresentanza di Dio sui re della terra; Essa, dunque, può e deve tutelare i popoli contro le sopraffazioni degli scellerati. Quando un Papa, Giulio II, brandiva personalmente la spada e saliva sugli spalti delle mura per liberare il popolo da un giogo straniero, non rappresentava un conquistatore, ma era il vindice della giustizia, e tentava ricondurre la pace per la salvezza delle anime. I pigmei guardano dalla valle certe situazioni storiche, mentre dovrebbero guardarle dall'alto.

La lotta promossa tante volte dai Papi contro i Turchi era guerra di vera liberazione cristiana, come quelle promosse contro gli eretici erano legittima difesa della verità contro l'irrompere degli errori. In certi eventi storici che riguardano i Papi e la Chiesa è mille volte più saggio e prudente il non arrischiare giudizi, quasi sempre errati, e adorare invece le disposizioni e le permissioni della provvidenza che sa come guidare gli eventi del mondo secondo giustizia e verità.

5. L'orazione nell'orto degli ulivi

Gesù Cristo era solito andare nella notte a pregare solo al monte Oliveto; dopo la cena e l'istituzione eucaristica, gli apostoli vollero seguirlo fino all'orto nel quale si raccoglieva.

Aveva parlato di spade, di pericoli, di angustie, e non ebbero il cuore di lasciarlo solo. D'altra parte Egli, dopo l'istituzione dell'Eucaristia, era di un'amabilità immensamente affascinante e si mostrava così tenero verso i suoi, vivificati poco prima da Lui, che essi si sentivano attratti straordinariamente. Gesù stesso, essendo come una sola cosa con loro, mostrò di non volersene allontanare, tanto che, quando se ne distaccò per pregare, il testo greco usa una espressione tipica che rivela in Lui lo sforzo, anzi la violenza che dovette farsi per lasciarli in disparte.

L'amore infinito che si era tutto donato cominciava già ad abbandonarsi alla piena immolazione per tutto redimere e salvare; già si rabbuiava quell'anima divina, splendente d'infinita beatitudine, già scendevano su quel cuore infinitamente amabile le cupe ombre della tristezza; Egli sentiva quasi come tramontare in sé il divino, dietro una fosca cortina di nubi procellose e dietro i miasmi dei peccati che si addossava. Si direbbe, con frase ardita ma veramente conforme alla sua pena interna, che sentiva quasi un distacco dalla divinità, si sentiva quasi interamente uomo, sospeso su di un abisso di pene e di angosce spaventose che gli toglievano il respiro e lo facevano venire meno; perciò desiderò la compagnia dei suoi prediletti e dovette farsi violenza per distaccarsene quanto un tiro di sasso.

Un tedio mortale l'aveva assalito, una paura per ciò che gl'incombeva, un timore che tutto lo prostrava, una mestizia profonda per le ingratitudini umane, e volle con Sé i suoi cari quasi per essere sorretto ed aiutato; perciò raccomandò loro di pregare per non cadere nella tentazione, cioè per non essere sopraffatti da quello che stava per accadere, per rimanergli fedeli e non dubitare di Lui.

Si allontanò, si raccolse solo nella sua angoscia mortale, s'inginocchiò umiliandosi innanzi al Padre e pregò.

Certo non disse solo le poche parole ricordate nel Sacro Testo, epilogo della sua preghiera, ma si profuse in suppliche ardenti per tutta l'umanità; perché fosse stata redenta, rinnovata e salvata.

Tre volte Egli pregò, come è detto in san Matteo (26,39- 44), e tre volte andò dai suoi apostoli per risvegliarli, esprimendo nella sua preghiera, diventata agonìa, cioè lotta estrema, non solo l'angoscia immensa che provava per le sue pene, ma quella che sentiva per la sua Chiesa. Pregò la prima volta per la redenzione di tutti, e vide le pene immense che gli doveva costare; la sua umanità si atterrì, e domandò al Padre se era possibile che passasse quel calice amaro, pur offrendosi interamente alla divina volontà.

Pregò la seconda volta e domandò che i frutti della redenzione fossero stati pieni, perché vide come in un quadro il tristissimo spettacolo delle umane ingratitudini, e quello delle apostasie degli ultimi secoli. A questo quadro fu preso da un tedio mortale, perché non avrebbe voluto soffrire inutilmente. Si unì, però, alla divina volontà, e pregò per la rinnovazione dell'umanità e per il pieno trionfo di Dio.

Pregò la terza volta per implorare la salvezza alle anime, ossia perché fossero raccolte da tutta la terra, nel Paradiso. Pregò in tal modo per le tre grandi tappe, per così dire, dell'opera sua: la redenzione, la rinnovazione di tutto nel regno di Dio, il riepilogo finale, ossia la definitiva raccolta nel regno eterno, dopo la fine del mondo e il giudizio universale.

Epilogo di ogni sua preghiera fu un atto di unione alla divina volontà, ed un ricorrere ai suoi apostoli per averne conforto; ma li trovò addormentati per la grande tristezza. Gesù Cristo, infatti, trova quasi sempre addormentati quelli che dovrebbero confortarlo zelando il suo onore e la salvezza delle anime. In mezzo alle lotte suscitate dagli empi che la Chiesa affronta, i suoi fedeli sono spesso addormentati, anzi gravati dal sonno, e fanno ben poco per consolarlo. Bisogna pur confessare che non a caso Gesù si rivolse in particolare a Pietro addormentato; Egli guardò al futuro, a quei periodi di rilassamento di insidie nei quali Pietro stesso e i pastori della Chiesa possono addormentarsi. I pochi Papi che non risposero alla loro alta missione erano gli addormentati ai quali Gesù diceva: Vigilate e pregate; non potete vegliare con me un 'ora sola? Pregate per non essere vinti dalla tentazione.Ma gli addormentati non si risvegliarono, e Gesù non ebbe conforto quando il mondo gli si ribellò e tentò cancellarne la memoria dalla terra!... Come dobbiamo vigilare e pregare, perciò, in questi tempi noi, per consolare Gesù agonizzante nel suo Corpo mistico, che è fatto segno a mille insidie e persecuzioni!

Mentre Gesù più agonizzava, gli apparve un angelo per confortarlo; gli apostoli dormivano, Pietro era gravato dal sonno, e l'angelo lo confortava sostenendogli le forze che venivano meno, essendosi in Lui come eclissata la divinità.

Conforto per Lui innanzi alla manomissione della divina gloria era l'offrirsi alle pene ed alla morte, ma queste gli cagionarono tale angoscia sensibile che si ridusse come in agonia, e per la veemenza del dolore cominciò a sudar sangue in tanta abbondanza che se ne bagnò la terra.

La scienza ha constatato e spiegato parecchie volte in infermi il sudore di sangue, chiamato diapedesi, ma il sudore di Gesù fu certamente eccezionale e straordinario, perché fu un profluvio di sangue; il suo dolore non aveva e non avrà mai l'uguale sulla terra.

San Luca, come medico, nota questa singolare circostanza dell'agonia, che conobbe dai tre apostoli che accompagnarono il Signore; essi dormivano, è vero, ma per tre volte Gesù andò da loro, e non poterono non vederlo insanguinato. San Luca sintetizza le tre orazioni fatte dal Redentore, forse perché attratto dal fenomeno del sudore sanguigno, e parla dell'ultima volta che Egli andò verso gli apostoli, trovandoli addormentati.

Perché dormite? Egli disse loro: Alzatevi, pregate per non cadere in tentazione; ma essi non si svegliarono che per poco, riaddormentandosi pesantemente.

O mio Gesù, perché dormiamo quando il mondo prepara insidie alle anime, parte del tuo Corpo mistico? Perché non preghiamo nei momenti delle grandi tentazioni del mondo? Geme la Chiesa tua tra le insidie dei suoi nemici, e noi ci assonniamo? Perché ti amiamo così poco? Svegliaci, Signore, svegliaci almeno in un vero e valido apostolato di preghiera. Non è apostolato il recitare quasi macchinalmente poche preci, ma il profondere l'anima propria innanzi a Dio, in compagnia di Gesù agonizzante, per combattere le insidie di satana e cooperare alla salvezza delle anime ed al trionfo di Dio.

Occorre lo spirito di preghiera e non semplicemente qualche preghiera, occorre che l'anima sia tutta immedesimata delle agonie di Gesù nella sua Chiesa e che senta il dovere di rimanere, anche nel silenzio del proprio cuore, con Lui agonizzante per cooperare davvero alla gloria di Dio e alla salvezza dei poveri peccatori.

L'agonia di Gesù non è terminata, poiché Egli ancora si offre eucaristicamente sui nostri altari. C'è l'agonia dei suoi tabernacoli silenziosi ed abbandonati. Gesù vi dimora per darsi e per avere compagnia nelle preghiere che eleva continuamente al Padre; Egli ci risveglia coi santi richiami della Chiesa e noi lo lasceremo solo? Con quanto dolore deve vedere Gesù le anime lontane da Lui, immerse nei bagordi della vita ed addormentate nelle loro miserie! Consoliamolo, rispondiamo al suo invito, e raccolti intorno ai suoi tabernacoli vigiliamo e preghiamo!

6. La cattura di Gesù Cristo

Mentre Gesù risvegliava i tre apostoli addormentati per la terza volta, si udì nell'orto un frastuono insolito; era la turba di quelli che erano stati mandati dai principi dei sacerdoti per catturarlo, ed a capo di essi vi era Giuda Iscariota.

Di notte i soldati, poco abituati alla familiarità con Gesù Cristo, non avrebbero potuto riconoscerlo; perciò Giuda aveva dato loro come segno d'identificazione un bacio. Ormai la sua coscienza s'era abbrutita, ed egli non ponderava l'orrore di tradire con un bacio il suo Maestro divino e fingere con Lui un atto di amore proprio quando lo consegnava innocentemente agli sgherri.

Egli, dunque, si staccò un poco dalla turba, si fece incontro a Gesù, e baciandolo lo salutò. Il redentore non lo apostrofò severamente come il reprobo avrebbe meritato, ma gli rifiutò il bacio pur facendogli orrore ed essendo per il suo Cuore ferito più acuta saetta, lo richiamò solo con ineffabile dolcezza a quello che faceva, e gli disse: Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell 'uomo!

Il momento fu tragico; gli apostoli s'erano raccolti intorno al Maestro e, vedendo che la turba, al segnale di Giuda, s'avanzava già per catturarlo, gli domandarono se dovevano porre mano alla spada per difenderlo.

Di fronte alla mansuetudine del Maestro divino non osarono prendere un'iniziativa di forza senza il suo permesso; Pietro, però, nell'impetuosità del suo amore, vedendo che il servo del principe dei sacerdoti si avanzava minaccioso e già si slanciava su di Gesù, forse per vantarsi poi col sacerdote di averlo catturato lui, per impedirgli di avanzare levò la spada e gli tagliò l'orecchio destro. Ma Gesù subito rivolto ai suoi disse: Smettete, basta; e sia per estrema bontà verso il ferito sia anche per non fare compromettere Pietro, toccando l'orecchio lo risanò istantaneamente.

A quel miracolo sia il servo che gli altri avrebbero dovuto ricredersi e domandare perdono a Gesù; invece insolentirono di più e si slanciarono per catturarlo.

Dal Vangelo di san Giovanni si rileva in quale maniera Gesù mostrò a quegli sgherri la sua divina potenza, e come era proprio Lui a darsi nelle loro mani; ma anche dal racconto più succinto di san Luca si rileva che Egli parlò con immensa maestà.

Egli, infatti, avanzando andò incontro ai principi dei sacerdoti, ai prefetti del tempio, ossia ai capi leviti incaricati della custodia del sacro luogo, ed ai signori che erano venuti personalmente a catturarlo. Venali come erano, avendo pagato a Giuda il prezzo del tradimento, vollero anche assicurarsi ch'egli non li avesse turlupinati. Erano congestionati, sentivano di trovarsi di fronte ad un essere straordinario, ne avevano avuto allora stesso le prove e ciononostante avanzavano minacciosi, armati e decisi a compiere il loro scellerato disegno.

Con calma divina Gesù fece loro notare che nell'apparato di forza si mostravano deboli e che riuscivano nel loro intento unicamente perché Dio lo permetteva. Erano venuti contro di Lui armati di spade e di bastoni, quasi che Egli fosse stato un ladro; eppure avrebbero potuto più agevolmente catturarlo nel tempio, dov'Egli ogni giorno si recava per insegnare; ma quella era la loro ora e la potestà delle tenebre. Con queste parole Gesù non solo constatava un fatto, ma dava il permesso all'iniquità ed alle potenze diaboliche d'irrompergli contro. Nell'atto medesimo nel quale veniva sopraffatto affermava la sua padronanza assoluta e faceva notare che, se non l'avevano catturato nel tempio, non era stato tanto per timore, quanto perché Egli non l'aveva loro permesso.

Solo un Dio poteva parlare con tanta pace, dignità e maestà.

I mestatori, infatti, ed i falsi profeti o sono irruenti o si avviliscono quando si trovano di fronte alla forza. Cercano difendersi, e quando non lo possono, passano dall'audacia alla viltà. Gesù Cristo, invece, si mostrò ai nemici in una grande dignità che stupisce e parlò loro con pacata maestà, senz'avere né tracotanza, né timore.

Era il padrone degli eventi e mostrava ancora di averne pieno dominio.

Egli avrebbe potuto dileguarsi, come aveva fatto altre volte, avrebbe potuto annientarli con una parola sola, come aveva loro mostrato, ma si dette volontariamente nelle loro mani perché era giunto il momento nel quale aveva decretato di dare la sua vita per la salvezza di tutti.

Appena quei manigoldi si sentirono come padroni della situazione, si gettarono contro Gesù, e legatolo saldamente lo condussero nella stessa notte a casa del principe dei sacerdoti. Lo condussero prima da Anna (Gv 18,12) che era il sommo sacerdote a vita, e poi da Caifa (Mt 26,57; Me 14,53ss) che era il sacerdote di ruolo, e subito fecero un processo che diremmo informativo. San Luca accenna appena a questo processo, nel quale si fece scempio di Gesù, forse perché essendo fatto di notte non aveva valore legale, e parla più diffusamente di quello fatto al mattino, epilogo legale di quello fatto nella notte.

Pietro rinnega Gesù
Con la sobrietà che gli è propria, il Vangelo accenna appena ai maltrattamenti subiti da Gesù nella notte; ma essi furono oltremodo crudeli ed umilianti. Si trovava in un ambiente che gli era ferocemente ostile; quelli che lo circondavano lo credevano un pericoloso innovatore e volevano ad ogni costo sbarazzarsene; irruppero quindi contro di Lui, e lo sottoposero ad ogni sorta di schemi. Gesù taceva e pregava. Uno solo avrebbe potuto rendergli testimonianza favorevole, e questi non solo non parlò ma lo rinnegò!

Pietro dopo la cattura del Maestro divino fuggì come gli altri; ma l'amore che gli portava lo spingeva verso di Lui e, non avendo il coraggio di seguire il triste corteo che lo accompagnava, si mise a distanza per vedere come andassero a finire le cose. Lo seguiva da lontano, veramente, poiché l'anima sua già non era più vicina al Signore. Era cominciata in lui quella crisi di timore, di dubbi e di scoraggiamento che doveva condurlo sino al rinnegamento. Più che seguire Gesù con vero amore lo seguiva nell'ansia dell'umana preoccupazione di vedere che cosa fosse di Lui. Gli era dunque veramente tanto lontano!

Quando il corteo entrò nel palazzo del sommo sacerdote, Pietro ottenne di entrare anche lui, ma si guardò bene dal manifestarsi per quello che era e si confuse con la moltitudine che era nel cortile, sperando di rimanervi inosservato. Debole com'era, impreparato al cimento, perché invece di pregare nell'orto aveva dormito, egli si espose ad una grande tentazione, dalla quale uscì vinto e malconcio. Per entrare nel cortile, Giovanni, noto alla casa del pontefice, lo aveva raccomandato alla portinaia (Gv 18,17). Questa l'aveva fatto entrare, ma, da accorta nel mestiere, aveva notato in lui un inceppamento nel tratto ed un aspetto sconvolto che la mise in sospetto. Perciò, quando per il freddo fu acceso nel cortile il fuoco, e Pietro per dissimularsi ancora si pose con gli altri intorno alla fiamma, essa che non lo aveva perduto di vista, trovandolo nella luce che dava il fuoco, poté meglio vederlo e, squadratolo da capo a piedi con furba insistenza, disse agli astanti sicura di sé: Anche questi era con Lui. Spontaneamente tutti gli occhi degli astanti si rivolsero a Pietro, ed egli, affettando indifferenza, rispose: Donna io non lo conosco. Passò poco tempo, ed un altro, accostandosi al fuoco e vedutolo, credette di riconoscerlo e per accertarsene disse: Anche tu sei uno di quelli. Pietro nuovamente affettò indifferenza per non tradirsi e rispose: O uomo, non lo sono.

Tanto la donna però quanto quell'uomo non rimasero convinti, e dovettero manifestare anche agli altri il loro sospetto; perciò un altro, dopo circa un'ora, attratto dalla curiosità e squadratolo, disse con insistenza a tutti: Certo anche questi era con Lui, poiché pur egli è galileo. Pietro rispose confuso e mostrandosi annoiato: O uomo, non so quello che tu dici. Ma, vistosi oramai scoperto, nella speranza di salvarsi, cominciò a giurare ed a mandare imprecazioni, affermando recisamente così che non l'aveva mai conosciuto (Mt 27,74).

In quel momento il gallo cantò; aveva cantato anche prima (Me 14,68), ma Pietro non vi aveva fatto caso, perché non ricordava le parole di Gesù; forse le aveva interpretate male, come un semplice richiamo per dirgli che prima di farsi giorno l'avrebbe rinnegato.

La seconda volta però che il gallo cantò, Gesù Cristo, che dalle stanze del pontefice era stato condotto nel cortile per esservi schernito, si rivolse a lui e lo guardò. Che cosa ineffabile fu quello sguardo e come dovette ferire profondamente il cuore dell'apostolo infedele!

Fu uno sguardo che gli disse tutto, uno sguardo di lamento e di misericordia, uno sguardo di rimprovero e di perdono.

Pietro si ricordò allora delle parole che gli aveva detto Gesù e, non potendo frenare amarissimo pianto, se ne uscì fuori per dare libero sfogo al suo dolore.

Quante volte anche noi tradiamo e rinneghiamo Gesù!

Giuda tradì Gesù con un bacio, mutando il segno dell'amore in segno di odio; e noi quante volte offendiamo Dio con i nostri peccati, mutando in gravissima ingiuria contro di Lui quelle attività che egli ci ha dato per glorificarlo! Ci sembra scellerato e vile l'atto di Giuda, e non ci sembra vile quel che facciamo noi? Quando ci rivolgiamo alle creature allontanandoci da Dio, noi diamo a Lui, nelle sue creature, un bacio di tradimento, ed effondendoci con esse diamo Lui alla morte, nell'anima nostra!

Pietro, volendo difendere Gesù, levò la spada e tagliò l'orecchio al servo del sommo sacerdote; poi se ne fuggì e, volendo seguire Gesù, si tenne lontano da Lui, per non compromettersi. È questa l'immagine viva della fatua fedeltà di certe anime: combattono con le passioni ma per poco, e si contentano di piccoli tagli; friggono quando il rispetto umano fa loro intravedere un pericolo, e si contentano di seguire Gesù da lontano, senza compromettersi col mondo. Ma difendere e seguire in tal modo Gesù è lo stesso che consegnarlo alla morte. Se amiamo Gesù, come possiamo cedere al maledetto rispetto umano e fingere di non conoscerlo? Il rinnegamento di Pietro lo rinnoviamo dolorosamente ogni giorno, quando dissimuliamo la nostra fede e la nostra pietà e quando mostriamo di vergognarci della fedeltà alla Legge di Dio.

Di fronte a quelli che, vedendoci un poco più morigerati, c'interrogano con gli occhi maligni e beffardi: tu sei uno dei servi di Dio? Noi rispondiamo partecipando alla vita del mondo e condiscendendo al male, che non lo conosciamo neppure! Ogni volta che canta il gallo anche noi dovremmo ricordarci di avere tante volte rinnegato Gesù con la vita, e dovremmo anche noi incontrarci col suo sguardo appassionato, per uscire fuori dagli atri del mondo e piangere amaramente le nostre colpe!

Consoliamo Gesù almeno col pentimento sincero, e ripariamo le nostre infedeltà al suo amore con lacrime amare. Pietro, uscendo fuori, pianse amaramente. Se non usciamo dagli ambienti del mondo come potremmo piangere? Anche il pentimento e la riparazione, dolorosamente, sono avvinti dal rispetto umano, e non erompono dal cuore, se esso non si apparta dalle occasioni e non rimane, solo con Dio.

7. Gesù è schernito ed è condannato dal sinedrio

Gesù Cristo subì un primo processo nella notte alla presenza del sinedrio e del sommo sacerdote, del quale san Luca non fa cenno. Essendo un processo legalmente nullo perché fatto di notte, il santo evangelista non lo ricorda, giacché è piuttosto sommario nella narrazione.

La Passione di Gesù era la cosa che meno ignoravano i cristiani, le bastava un accenno per rinnovare loro il ricordo. Forse in queste reticenze dell'evangelista potrebbe esserci anche qualche ragione psicologica o di ambiente, o di circostanze speciali, per cui egli scrisse più sommariamente, volendo terminare il racconto. In generale avviene che quando si è lavorato più a lungo si cerca di abbreviare quel che viene dopo; Dio nella sua bontà segue la sua creatura in queste circostanze speciali e non la forza. Egli poi non fa opere superflue, ed essendoci già il racconto del primo processo (Mt 26,59ss; Me 14,55ss), lasciò che san Luca non ne parlasse.

Dopo il primo processo, nel quale Gesù proclamò solennemente la sua divinità, dovendosi attendere il mattino per ratificare la sentenza di morte che contro di Lui era stata data tumultuariamente, gli sgherri, e tra essi anche membri del sinedrio, lo condussero nell'atrio per fame scempio. La spettacolosa riprovazione del sommo sacerdote, che s'era lacerate le vesti, proclamandolo bestemmiatore aveva lasciato nell'animo di tutti un grande disprezzo verso di Lui, e poiché ormai era condannato, invece di rispettarne il dolore, incominciarono ad inveire contro di Lui ed a schernirlo percuotendolo e malmenandolo. Egli si era proclamato Figlio di Dio, quindi più che profeta, ed essi gli bendarono gli occhi, e percuotendolo gli domandavano beffandolo chi l'avesse percosso.

Quanti misteri d'immenso dolore ci sono nelle brevi parole del Testo, e quanta psicologia penosissima!

Per la turba, Gesù non era più un uomo, ma un verme; il disprezzo che avevano per Lui era profondissimo e la luce che rifulgeva dalla sua pazienza non aveva per essa alcun valore. Infierivano, anzi, nella speranza di vederlo reagire e pigliarne occasione di divertirsi!

Chi può contare tutti gl'insulti, gli sputi, le percosse e le derisioni che raccolse in quella notte? Ed Egli taceva, riparava e pregava.

In Lui era tutta l'umanità ed erano quegli stessi che lo maltrattavano; Egli portava sulle sue spalle il peso del nostro orgoglio e della nostra vanità, portava le blasfeme affermazioni dell'orgoglio dei grandi del mondo, che si credono poco meno che Dio, e la vanità dei falsari che hanno gli occhi dello spirito bendati e si proclamano veggenti....

O mio Gesù, che pena il pensare che in quella terribile notte io gravai sul tuo Cuore coi miei peccati e che rammarico è per me l'averti tanto offeso! Non permettere che io abbia gli occhi bendati, fammi vedere la mia estrema miseria e fammi apprezzare il tuo amore!

Appena fattosi giorno si radunò nuovamente il sinedrio e fece condurre Gesù alla sua presenza. Nella notte si erano cercate false testimonianze contro di Lui; ma nel mattino questo non fu necessario; l'accusa era ben determinata e sufficiente per condannarlo a morte; si trattò solo di confermarla. Perciò tutti, uno dopo l'altro ed anche tumultuando, gli domandarono se Egli era il Cristo. Non lo domandarono per conoscere la verità ma per opprimerla, non per renderle giustizia ma per conculcarla, e perciò Gesù rispose: Anche se ve lo dico non mi crederete, e se vi farò delle domande non mi risponderete né mi rilascerete, Ma d'ora innanzi, cioè passato questo tempo di umiliazione, dopo la morte e la risurrezione, il Figlio dell'uomo sarà assiso alla destra della potenza di Dio. Si chiamò, come faceva sempre, Figlio dell'uomo, ossia Messia, e quindi Figlio di Dio; la sua espressione lungi dall'escludere che fosse vero Dio lo affermava ancora una volta solennemente; il sinedrio non la interpretò diversamente e, all'unanimità, tutti gli dissero: Tu dunque sei il Figlio di Dìo?

Temevano che Egli smentisse l'affermazione fatta nella notte e non volevano ricominciare un processo di testimonianze, perché avevano premura di andare da Pilato; perciò furono pieni di satanica gioia quando capirono che Egli non si smentiva. Gridarono tutti nell'impeto della loro malizia, gridarono, perché ognuno, per moto primo, avrebbe voluto strappargli l'agognata dichiarazione.

Erano tesi verso di Lui come l'onda minacciosa del mare, quando irrompe e sosta un istante prima di riversarsi; aspettavano la risposta per travolgerlo in un impeto di odio, ma questa volta dissimulavano l'odio per dargli un aspetto di legalità.

Fu un momento di sospensione di animi, un momento nel quale l'inferno stesso stava in attesa per vomitare il suo odio e spingere quei facinorosi suoi ministri a negare il Figlio di Dio. Gesù rispose con grande calma e maestà: Voi stesso lo dite, io lo sono. Cioè: proprio come pensate voi che io lo affermi, nel senso stesso che voi date alla vostra domanda, io lo sono. Essi in realtà non dicevano questo di Lui, ma lo credevano un blasfemo mestatore; però la loro domanda era chiaramente determinata, ed essi senza volerlo dicevano la verità: Voi stessi lo dite, io lo sono. Gesù dette alle sue parole l'accento della verità assiomatica che non ammette dubbio: Io lo sono.

Se quei perfidi avessero per poco riflettuto a quel volto divino, ed avessero indagato la verità a base delle testimonianze di Dio, e non di quelle false che avevano prima affannosamente cercate, avrebbero visto la verità. Ma, come Gesù stesso aveva detto, non erano disposti a ragionare: Se vi farò delle domande non mi risponderete, e perciò esclamarono: Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? L'abbiamo noi stessi udito dalla sua propria bocca!

Non ammettevano neppure lontanamente che Egli potesse essere il Messia promesso, proprioquando facevano essi avverare in Lui i vaticini più caratteristici che lo avevano annunziato; partivano dal preconcetto, carico di odio cieco, che Egli fosse un mestatore ed un mestatore pericoloso, e prima d'indagare sulla verità l'avevano già condannato.

Così sono le indagini dei miscredenti e degli empi riguardo al Redentore ed alla sua Chiesa; non ragionano per conoscere ma per negare, e non indagano la scienza e la storia per affermare ma per condannare; le loro conclusioni sono tutte negative perché non cercano la verità, ma cercano i cavilli per sostenere quello che pensano.

Oggi che il mondo echeggia sinistramente di voci di stupidissima miscredenza leviamo la voce della nostra fede e gridiamo a Gesù con san Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo! Mostriamo la nostra fede nelle opere, perché se la contraddiciamo con la vita noi condanniamo a morte Gesù nel nostro cuore.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

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