sabato 14 maggio 2016

15.05.2016 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 14 par. 3-4

3. Se mi aveste conosciuto, dice Gesù, avreste conosciuto anche il Padre mio

La vita spirituale, in tutte le sue attività, si sintetizza in queste parole: Conoscere, amare e servire Dio. Ora per conoscere Dio, i suoi pensieri, la sua volontà, il suo amore, bisogna conoscere Gesù Cristo. È infatti da Lui e per Lui che ci viene la vera conoscenza di Dio. Anche la rivelazione dell'Antico Testamento, essendo ordinata all'incarnazione del Verbo, e concentrandosi in Lui per prometterlo, annunziarlo e figurarlo, si deve al Redentore. Senza il piano della discesa del Figlio di Dio in terra, l'Antico Testamento non avrebbe ragione di essere, anzi non ci sarebbe stato. In esso la figura centrale è Gesù Cristo, e da essa s'irradia la vivida luce che ci fa conoscere Dio. Per questo Gesù, dopo aver detto ai suoi apostoli che Egli era la via, la verità e la vita, e che nessuno poteva andare al Padre se non per Lui, soggiunse: Se voi m 'aveste conosciuto avreste conosciuto anche il Padre mio, e fin da ora lo conoscete e l'avete veduto.

Gli apostoli non conoscevano ancora Gesù per quello che realmente era, Figlio di Dio, consustanziale al Padre; l'avevano qualche volta chiamato Figlio di Dio, ma non avevano ponderato il valore di questa espressione, ed avevano sempre finito per concentrarsi nella sua umanità, e considerarlo praticamente come uomo straordinario, e profeta singolare. Se l'avessero conosciuto come Dio, avrebbero capito che Egli era nel Padre e il Padre in Lui, ed attraverso la sua stessa umanità e la sua vita mortale avrebbero visto risplendere gli attributi di Dio. Egli infatti mostrava di conoscere tutto, passato, presente e futuro, era infinitamente buono, era padrone della creazione, che dominava come voleva, era infinitamente giusto e santo, penetrava il fondo dei cuori e li scrutava, rimetteva i peccati, ed aveva nel suo medesimo tratto una maestà che rivelava in Lui la divinità.

Gesù non aveva una fisionomia semplicemente umana, benché avesse un corpo reale come l'abbiamo noi; i suoi lineamenti rivelavano in Lui non un uomo eccezionale, ma qualche cosa di più grande, d'immensamente più grande, come possiamo controllare anche noi pallidamente sul volto e sul corpo effigiato nella santa Sindone. Ravvivando quei lineamenti statici nella morte, dando ad essi lo splendore dello spirito, rendendoli manifestazione della vita interiore, e dando a quelle labbra le parole della vita, non si ha il volto di un semplice uomo, ma un volto misterioso e divino. Certo nessun artista è stato capace di ravvivare quel volto, riconoscendolo divino anche nel gelo della morte che ne spense la vita umana, ma non poté separarlo dal Verbo che ancora lo terminava.

Gli apostoli per vedere Dio non avrebbero dovuto fare altro che fissare Gesù; ma essi convivevano con Lui senza quasi badarci, solleciti come erano delle loro attività temporali. Sentivano il Maestro divino che parlava del Padre, desideravano di conoscere il Padre, ma nel loro desiderio c'era più un senso di curiosità spirituale che un apprezzamento della consustanzialità del Padre con Lui; per questo essi lo vedevano e non si accorgevano dello splendore divino che rifulgeva da Lui e per questo Egli, leggendo nei loro cuori il desiderio di conoscere il Padre suo con una rivelazione esterna e manifesta ai sensi, disse: Fin da ora voi lo conoscete e l'avete veduto.

Quale manifestazione infatti più grande di Dio sulla terra, che il Verbo Incarnato? E quale grazia per essi il trattarlo da vicino, il conversare con Lui ed il vivere con Lui! Essi però non lo capivano, e le parole di Gesù acuivano la loro brama di avere una rivelazione di Dio; e perciò Filippo, in nome di tutti, disse con l'accento di chi esprime un desiderio che da lungo tempo gli ferveva nel cuore: Signore, facci vedere il Padre e ci basta. Faccelo vedere con gli occhi del corpo almeno una volta, e saremo appagati, anzi avremo un argomento pieno e definitivo sulla realtà della tua missione, e sulla verità di quello che tu dici ed operi. Evidentemente le parole di Filippo non erano un atto di fede, anzi svelavano, almeno inconsciamente, una piena incomprensione di ciò che era il Maestro divino; per questo Gesù con dolore rispose a lui per rispondere a tutti quelli che avevano la stessa incomprensione: Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi vede me vede anche il Padre. Ora come fai tu a dire: facci vedere il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?

Negli anni in cui gli apostoli avevano conversato con Gesù avrebbero dovuto accorgersi della sua divinità e capire che Egli era consustanziale al Padre; avrebbero dovuto capire che Egli era persona distinta dal Padre, ma della stessa natura e della stessa divinità; era Figlio di Dio, veramente Figlio e veramente Dio, e perciò il Padre era in Lui ed Egli era nel Padre, essendo le divine Persone strettissimamente presenti l'una all'altra, perché d'una stessa sostanza, e aventi la stessa operazione.

Per illuminarli maggiormente sulla sua unione sostanziale col Padre, Gesù soggiunse: Le parole che io dico non le dico da me stesso, ma il Padre, che è in me, Egli compie le opere. Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me? Essendo una cosa sola col Padre per la natura e la sostanza divina, sono una cosa per l'operazione, e quindi voi, sentendomi parlare, sentite le parole dell'eterna sapienza del Padre, e vedendomi operare soprannaturalmente vedete l'onnipotenza divina che opera. Non avete bisogno perciò di ascoltare la voce del Padre o di vederlo, poiché la mia parola è sua, e le mie azioni sono sue, essendo parole ed operazioni divine. Che siano operazioni divine - soggiunse Gesù - non è difficile capirlo, essendo miracoli strepitosi; ora questi miracoli rivelano che opera Dio nella mia umanità, e che io sono Dio come il Padre, giacché le opere miracolose il Padre le compie per affermare la mia divinità e la mia missione.

Credere in Gesù com'Egli è veramente

Il discorso di Gesù Cristo certo era difficile per gli apostoli, ma non era per loro difficile il constatare la soprannaturalità delle opere che Egli compiva; essi dunque potevano capire che Egli era Dio e come tale era una cosa sola col Padre, consustanziale a Lui. Il ripetere Gesù due volte: Non credete che io sono nel Padre e il Padre è in me? (versetti 10 e 11) mostra chiaro che Egli aveva loro dato tanta luce che avrebbero potuto e dovuto credere. Gesù Cristo stabiliva un fondamento indispensabile a chi vuole seguirlo, credergli ed essere vivificato da Lui, a chi vuole averlo come via, verità e vita, a chi gli si dona interamente perché Egli viva in lui ed operi in lui, e questo fondamento indispensabile è il credere in Gesù com'Egli è veramente, l'apprezzarlo come merita, e il riguardarlo non come il termine o l'oggetto di un sentimento naturale qualunque, ma come vero Dio, le cui parole sono divine, e divine le opere. E in questa luce soltanto che deve vedersi in Lui la via che ci conduce, la verità che ci illumina e la vita che ci vivifica.

Gesù non ci traccia solo un ideale, non ci parla come un maestro terreno, non appaga solo un nostro vago desiderio di elevazioni spirituali; Egli ci mostra la via dell'eternità, la via che ci porta a Dio, ci rivela le verità divine ed assolute, e ci vivifica con la sua stessa vita nei Sacramenti, e specie nell'Eucaristia. E solo così che Egli può vivere in noi e noi in Lui, e che la nostra miseria può essere come sostituita dalla sua ricchezza. Perciò, con mirabile e profondissimo nesso logico, nel suo stile divinamente sintetico, Egli soggiunse: In verità, in verità vi dico: chi crede in me farà anch'egli le opere che io faccio, e ne farà maggiori di queste, perché io vado al Padre. Io me ne vado, e continuo la mia azione in voi e nella Chiesa; voi, credendo in me, cioè uniti a me che vi vivifico, farete ciò che io ho fatto, ed opere anche maggiori, com'è maggiore la pianta che sboccia dalla semente e cresce in albero maestoso. Non sarete più di me, evidentemente, ma farete per me opere maggiori di quelle che ho fatto io, domandandole al Padre nel mio nome, cioè per la mia gloria. Voi le domanderete al Padre per glorificarmi, ed io opererò in voi per glorificare il Padre; e se voi domanderete a me qualche cosa in mio nome, per glorificarmi, io la farò per glorificare il Padre con la mia gloria che è sua gloria, perché io sono infinita ed eterna sua glorificazione.

Il discorso di Gesù, come si vede, raggiunge qui altissime vette, e ci apre un mirabile orizzonte di santità che solo i santi hanno intuito e seguito per sua grazia. Egli non parla di qualunque preghiera fatta al Padre o a Lui nel suo nome, cioè semplicemente invocandolo, per avere grazie temporali, o qualunque grazia spirituale; è importantissimo il capirlo. Egli parla di quelle grazie che ci uniscono a Lui e lo donano a noi, che lo rendono operante in noi e ci fanno dare a Lui come strumenti della gloria di Dio e della sua gloria; Egli ci dischiude l'orizzonte magnifico della soave schiavitù di amore che, dandoci a Gesù interamente, fa che Egli compia in noi opere maggiori di quelle fatte nella sua vita mortale, elevandoci ad altissima santità per la gloria di Dio, e compiendo in noi e per noi anche opere straordinarie, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio.

Questo Egli l'ha fatto e lo fa nella Chiesa, organismo ammirabile, via degli uomini per la vita eterna, verità che li illumina, e vita che li vivifica per la gloria di Dio, di Gesù Cristo suo Figlio e dello Spirito Santo; questo Egli l'ha fatto nei santi e vuol farlo in ogni fedele; tutto sta da parte nostra, a crederlo per quello che è, e a donarci a Lui perché Egli ci guidi, c'illumini e ci vivifichi.

Gesù non è un mito da adattare alle nostre velleità

E questo un segreto ammirabile di santità ancora inesplorato, un segreto che dobbiamo raccogliere per inaugurare in noi il regno di Dio. Conosciamo Gesù per quello che è veramente, senza presumere di fame un mito, o di adattarlo alle nostre velleità, e diamoci a Lui domandandogli per la gloria di Dio e per la sua gloria che Egli viva in noi, e donandoci a Lui in una piena e soave schiavitù di amore, perché Egli si serva di noi e ci renda strumenti della gloria di Dio. Riconosciamoci nulla, poiché nell'umiltà è più facile che ci doniamo a Lui, e che Egli venga in noi e viva in noi. Comunichiamoci con questa principalissima intenzione ch'Egli sia in noi e noi in Lui; preghiamo con questo ardente desiderio, e toccheremo con mano che la nostra natura viziata e miserabile a mano a mano sparirà, come svapora l'acqua di un pantano ai raggi del sole, e vivrà in noi Gesù Cristo.

4. Credere attivamente osservando la Legge di Dio, farsi vivificare dallo Spirito Santo

Non bisogna supporre che per far vivere in noi Gesù Cristo basti uno sterile atto di fede o una più sterile invocazione fatta a fior di labbra. Per molte anime infatti la vera e profonda pietà potrebbe prendere l'aspetto di una poesia più o meno fantastica, o rivestire il carattere di un idealismo più o meno vaporoso. La pietà vera è via, verità e vita', è via che ci conduce a Dio ed all'eternità, è fondata saldamente sulla verità divina, ed è vita di Gesù Cristo. La nostra vita dev'essere nascosta con Gesù Cristo in Dio, e dobbiamo vivere noi, ma non noi, sebbene Gesù Cristo in noi, come dice in una sintesi mirabile san Paolo.

Per far vivere in noi Gesù Cristo è necessario amarlo praticamente, osservando i suoi comandamenti, e per far questo è necessaria la grazia. La grazia viene a noi dallo Spirito Santo, e perciò Gesù Cristo, dopo aver parlato del Padre e di Lui stesso, Figlio del Padre, accenna allo Spirito Santo, che realizza la nostra unione con Lui e ci rende glorificazione di Dio. Essendo poi Egli il nostro mediatore presso Dio come Verbo Incarnato, e potendoci Egli solo ottenere la grazia per amarlo e per osservare i suoi comandamenti, soggiunge: Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Paraclito, affinché rimanga sempre in voi lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce; voi però lo conoscerete perché abiterà con voi e sarà in voi. Paraclito significa difensore, avvocato, consolatore, intercessore, esortatore, incitatore,colui che dà l'impulso; ora Gesù Cristo era per gli apostoli e per le anime tutte il difensore perché le liberava dalle insidie di satana, l'avvocato come dice san Paolo perché mediatore loro presso Dio, il consolatore perché effondeva in loro il balsamo della sua carità, l'intercessore, perché sempre vivente in preghiera per loro, l 'esortatore come Maestro divino, l'incitatore e colui che dà l'impulso, come nostro aiuto, nostro esempio e nostra vita. Egli quindi, come primo Paraclito, dovendo andare via dal mondo, e dovendo lasciare gli apostoli, promette loro un altro Paraclito, un'altra persona della Santissima Trinità, cioè lo Spirito Santo, che doveva essere per loro intimamente, e nella Chiesa ch'Egli fondava, difesa, avvocato, consolatore, intercessore, esortatore, incitamento al bene ed impulso di vita novella nelle debolezze della natura.

Gesù Cristo promette questo altro Paraclito perché rimanga nelle anime che lo riceveranno e nella Chiesa ch'Egli vivificherà, e perché sia conservato integro il patrimonio della fede e la Chiesa viva nel perenne splendore dell'infallibile verità.

Lo Spirito di verità che il mondo rifiuta

E questo quello che distinguerà la Chiesa dal mondo e i cristiani dai mondani: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere. Il mondo è spirito di menzogna e di malvagità; odia la verità e non la vuole conoscere; appare per quello che è, ripieno dello spirito satanico aggressivo, violento, crudele, calunniatore, scandalizzatore, ossia diametralmente opposto allo Spirito Santo, e quindi è chiaro che non potrà né vederlo né conoscerlo.

I cosiddetti grandi della terra hanno tutti, più o meno, i caratteri opposti allo Spirito Santo, ed in realtà sono obbrobrio e miseria, nonostante le loro apparenze gloriose; i fedeli invece, i veri fedeli, dovranno essere contrassegnati dallo Spirito di Dio, ed esserne ripieni.

Perché Gesù promise un altro Consolatore?

A primo aspetto sembra quasi che Gesù Cristo prometta agli apostoli un altro Paraclito, per sostituire la sua presenza in mezzo a loro durante la sua assenza; Egli infatti soggiunge: Non vi lascerò orfani, tornerò a voi. Ancora un poco di tempo e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. Intanto è certo che Gesù, anche senza la sua presenza visibile, rimase e rimane nella Chiesa; anzi Egli è in Essa vivo e vero nell'Eucaristia, ed Egli stesso dice: Io vivo e voi vivrete, vivo nell'Eucaristia, e voi vivrete di me in questo Sacramento di amore. Ora se Gesù rimase e rimane nella Chiesa, perché promise un altro Paraclito. E perché disse che non avrebbe lasciato orfani i suoi apostoli, ma sarebbe ritornato a loro?

Letteralmente Gesù alluse al suo ritorno visibile dopo la sua risurrezione ed alla fine del mondo; consolò gli apostoli della sua morte, dicendo che sarebbe ritornato, e consolò la Chiesa militante, che nelle sue lotte l'avrebbe visto quasi assente, dicendo che sarebbe ritornato vivente nella sua gloria, per darle il possesso solenne della eterna vita: Mi vedrete perché io vivo e voi vivrete. Nella gloria della sua risurrezione gli apostoli l'avrebbero riconosciuto meglio come Dio, ed avrebbero capito ch'Egli è nel Padre, come avrebbero capito che Egli è il Redentore, e gli uomini in Lui trovano la vita, ed Egli in loro dimora per donarla. Nell'ultimo giorno sarebbe apparso evidente il fulgore della sua divinità a tutte le genti, e la Chiesa, suo Corpo mistico, completa nella sua santità e nei suoi eletti, sarebbe apparsa congiunta a Lui come membro al corpo, ed Egli congiunto a Lei come capo al corpo.

Gesù Cristo doveva eclissarsi dagli apostoli con la sua morte e sepoltura, e doveva eclissarsi anche dopo la risurrezione con la sua ascensione al cielo. Gli apostoli non l'avrebbero più avuto come Maestro visibile, e non avrebbero più goduto della sua presenza sensibile, e perciò Egli promette loro lo Spirito Santo come maestro interiore di verità, e come consolatore intimo nel terreno cammino.

Egli parla ad essi e parla a tutta la Chiesa, promette loro il suo ritorno dopo la risurrezione, e promette alla Chiesa il suo ritorno non solo nel giudizio finale, ma in una novella effusione di misericordie e di grazie, in un trionfo grandioso che ne farà sentire la presenza, ne farà apprezzare la grandezza, e farà vivere talmente di Lui Sacramentato, da sentire che Egli è in noi e noi in Lui. In questa grande effusione di grazie e in questo trionfo Egli, sfigurato dagli errori del mondo persino nell'animo di tanti fedeli, sarà riconosciuto come Dio veramente: In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio; e sarà riconosciuto per la maggiore diffusione della vita eucaristica: Conoscerete che voi siete in me ed io in voi. Il trionfo sarà preparato dallo spirito di verità, in opposizione allo spirito del mondo, perché ci sarà grande luce di verità nella Chiesa, una maggiore comprensione della fede per i dottori che la illumineranno di nuovi fulgori, per la grazia dello Spirito Santo.

Una bella predizione?

Questo che diciamo risponde all'attesa della Chiesa fin dai suoi primordi.

La Chiesa, tra le sue pene e le sue prove, ha aspettato sempre ed attende tuttora un trionfo smagliante del suo Redentore anche nel mondo; Essa attende quasi una nuova Pentecoste, una nuova effusione di grazia e di amore, una clamorosa vittoria sul mondo, una grandiosa dilatazione del regno di Dio, che sia pratica glorificazione dei tesori della redenzione nelle anime, e soprattutto dell'Eucaristia. Questa vittoria non sarà un'affermazione di prestigio politico, non deriverà da onori e da beni temporali, ma sarà un'affermazione di vita interiore in unione con Gesù Sacramentato, una potente affermazione della forza che può dare lo Spirito Santo, nelle glorie della santità e del martirio, un fervore nuovo nell'osservanza dei precetti e dei consigli evangelici, uno splendore di smagliante purezza, di umiltà, di carità, di vita interiore e soprannaturale, un rifiorire mirabile della vita religiosa, un ripopolarsi dei chiostri deserti, diventati ora covi di profanatori ladri, di soldati, di uffici pubblici, di ritrovi e persino di case di peccato.

Sarà anche una rifioritura ammirabile della vita mistica, in elevazioni superiori a quelle avute in ogni tempo, e Gesù Cristo si manifesterà alle anime elevate così in uno splendore di luce tanto grande, da renderle monumento vivo di amore e tempio della Santissima Trinità.

E questo il trionfo che la Chiesa attende e che avrà dalla bontà di Dio in mezzo a lotte anche più aspre di quelle sostenute nel passato. Gesù lo espresse in poche parole dicendo: Chi ha i miei comandamenti e li osserva, mi ama. L'amore dunque dovrà essere pratico ed operativo per essere palpito vivo di santità. E chi mi ama sarà amato dal Padre mìo, cioè sarà oggetto di particolari grazie dello Spirito Santo, ch'è Amore infinito. Ed io lo amerò - soggiunse Gesù - e gli manifesterò me stesso; lo amerò comunicandomi a lui nella mia vita di amore eucaristico, e gli manifesterò me stesso nelle elevazioni dell'amore mistico.

Sugli errori circa la salvezza e la santificazione

Gli apostoli credevano che Gesù dovesse invece manifestarsi gloriosamente e politicamente al mondo, in un'affermazione di dominio temporale, ed erano certi che tutta l'opposizione che gli faceva il sinedrio si sarebbe conclusa in uno smacco vergognoso. Ora, sentendo parlare di una manifestazione sua all'anima, nel misterioso silenzio dell'amore, se ne stupirono, e perciò Giuda, chiamato Taddeo o Sebbeo, gli domandò a nome di tutti: Signore, come avviene che manifesterai te stesso a noi e non al mondo? Questo apostolo capì che Gesù parlava di una manifestazione interiore alle anime, e non supponendo che potesse parlare di altri fuori che loro, chiese che cosa fosse avvenuto di nuovo per cui Egli riduceva il suo trionfo ad una semplice illuminazione fatta nell'intimità del loro piccolo gruppo.

Per questo Gesù ritornò sul grande concetto di un trionfo interiore di Dio nelle anime, e soggiunse: Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e faremo dimora presso di lui. Ecco in sintesi luminosa l'essenza del trionfo di Dio: abitare da Re trionfante, con la magnificenza della sua gloria, Uno e Trino, nell'anima che amandolo compie la sua volontà e gli si dona.

Dicendo questo, Gesù guardò quegli eretici illusi, che avrebbero preteso di stabilire con Lui e con Dio un'intimità di grazia senza compiere il bene, e che avrebbero preteso glorificarlo con una sterile fede e con una tracotante fiducia; perciò, ad eliminare ogni equivoco soggiunse: Chi non m 'amacosì, non osserva la mia parola, e quindi chi non osserva la mia parola non mi ama; ora la parola mia, che v'impone di amare osservando i miei comandamenti, non è mia ma del Padre che mi ha mandato', non è un modo di vedere qualunque o un'opinione, ma risponde al medesimo disegno di Dio nella salvezza delle anime; è un comando di Dio, una Legge che non può né avere eccezione né essere deformata da pensiero umano.

Rispondendo all'apostolo Giuda Taddeo, Gesù proclamò un grande principio, che da solo basta a dissipare le oscure nebbie degli errori protestanti sulla salvezza e sulla santificazione, e da solo c'impegna ad essere veramente anime amanti di Dio:

Il trionfo di Dio in noi non consiste in uno sterile trionfo di misericordia, che ci trascina, inerti e lerci come siamo, nel suo regno; ma è un trionfo di amore che risponde al nostro amore, e ci rende capaci di operare soprannaturalmente o, come dicono i Teologi, ci abilita a fare atti deiformi. Si noti l'abisso che corre tra la verità e l'errore; questo afferma l'inutilità di operare il bene, anzi l'utilità di operare il male, presumendo così di glorificare la grazia che salva, e la verità invece proclama che Dio, andando incontro all'anima che l'ama ed osserva fedelmente i suoi comandamenti, abita in lei nella gloria della sua Trinità, e produce in lei un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l'anima, l'abilita a fare atti deiformi.

La vita cristiana, infatti, è una partecipazione alla vita stessa di Dio, ed è evidente che Egli solo la può conferire; ora Egli ce la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi affinché possiamo rendergli i nostri ossequi e lasciarci docilmente guidare da Lui a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo. Questa mirabile abitazione della Santissima Trinità in noi si attua quando noi amiamo Gesù, e noi lo amiamo principalmente quando gli chiediamo perdono dei nostri peccati attraverso il sacramento della Penitenza e quando ci comunichiamo eucaristicamente con Lui sacramentato. Andiamo a Lui per amore, e perché lo amiamo il Padre ci ama; siamo da Lui attivati soprannaturalmente, e diventiamo tempio vivo della Santissima Trinità che vivendo in noi rende deiformi le nostre azioni con la grazia. Dio ci adotta come figli, non per una semplice finzione giuridica, com'è l'adozione legale, ma elargendo a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione: Dedìt eis potestatem fìlios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius, diede il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome (Gv 1,12). Questa filiazione non è nominale ma effettiva: Ut fìlii Dei nominemur et simus, affinché siamo chiamati figli di Dio (1Gv 3,1) noi entriamo in possesso della divina natura: divinae consortes naturce. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione e una somiglianza, che fa di noi non degli dèi, ma degli esseri deiformi; ma è anche una realtà, una vita nuova, non uguale, ma simile a quella di Dio.

Dio ha per noi la premura e la tenerezza di un padre, e si dà a noi abitando nei nostri cuori. Dio ci si dà come amico, ci comunica i suoi segreti, e ci parla non solo per la Chiesa, ma anche interiormente per mezzo del suo Spirito; tutto sta, da parte nostra, nell'acconsentire ad aprire la porte all'Ospite divino.

È delineata molto bene l'opera dello Spirito Santo per cui abbiamo un'azione salvifica perenne determinata da Gesù Cristo nel suo Corpo mistico, organizzato e visibile che è la Chiesa nelle sue divine strutture: magistero, ministero e servizio di guida. Però l'opera dello Spirito Santo non si esaurisce nella Chiesa visibile, ma si estende a tante anime secondo l'espressione del divino Maestro: Lo Spirito agisce dove vuole: Spiritus Dei, ubi vult spirat. Basti ricordare la conversione dell'eunuco della regina Candace (At 8,26-39) e il centurione romano Cornelio (At 10,1-48).

È ciò che ci attesta l'Imitazione di Cristo, quando parla delle frequenti visite dello Spirito Santo alle anime interiori, le sue dolci conversazioni con loro, le consolazioni e le carezze di cui le colma; la pace che fa regnare in loro, e la stupenda familiarità con cui le tratta (Imitazione II libro 1,1). Dio rimane in noi come il più potente collaboratore', opera in noi e supplisce alla nostra impotenza per mezzo della grazia attuale; c'illumina sul nostro ultimo fine e sui mezzi per conseguirlo, ci suggerisce buoni pensieri, ispiratori di opere buone, ci dona la forza e ci rende capaci di volere e di eseguire le nostre risoluzioni, ci fortifica per renderci vittoriosi nelle tentazioni, ci sorregge nelle stanchezze della natura e ci aiuta a perseverare nel bene. Noi non siamo mai soli, anche quando, privi di consolazioni, ci crederemmo abbandonati; la grazia di Dio sarà sempre con noi, a patto che noi consentiamo a lavorare con lei. Appoggiati a Dio, onnipotente collaboratore in noi, saremo invincibili, perché tutto possiamo in Colui che ci conforta.

L'anima deve pregare con le voci liturgiche della Chiesa

Dio, venendo in noi e santificandoci, ci trasforma in un tempio santo, ornato di tutte le virtù. Egli, Uno e Trino, sorgente infinita di vita divina, vuol farci partecipare alla sua santità; l'anima diventa un sacro recinto riservato a Dio, e si santifica, sol che con umiltà e filiale abbandono si lasci portare dalla sua grazia, donandosi a Lui veramente. Essa deve donarsi a Dio in una piena e soave schiavitù di amore, che in realtà è somma libertà, perché infrange d'un colpo tutti i ceppi della natura; deve vivere in Dio adorandolo, umiliandosi e operando per suo amore nel pieno compimento della sua volontà; deve pregare per conversare con Lui, e pregare con le voci liturgiche della Chiesa, che sono come la lingua viva e particolarmente efficace di questa santa città dove abita Dio; deve proclamare il proprio nulla non per avvilirsi nelle opprimenti pene dell'agitato scoraggiamento, ma per abbandonarsi all'infinita misericordia di Dio confidando. L'amore dell'anima a Dio che abita in lei dev'essere penitente nel rammarico di averlo offeso, riconoscente nella gratitudine dei benefìci avuti, intimo nell'amicizia che fa riguardare più che propri gl'interessi della sua gloria, e generoso fino al sacrificio, fino all'oblio di sé ed alla rinunzia della propria volontà, per sottomettersi ai suoi precetti, ai suoi consigli, ed alle sue speciali disposizioni nella nostra vita. Chi pensa a questo solo, ossia che è tempio vivo della Santissima Trinità, veramente, e che ha Dio nel cuore, come può violare questo tempio e peccare? Come può profanare il proprio corpo ed abbrutirsi?

Siamo tempio vivo della Santissima Trinità

Non sapete - dice san Paolo (1Cor 3,16-17) - che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà, poiché santo è il tempio di Dio che siete voi. Bastano queste parole a raccogliere in Dio la nostra vita, a farci desiderare la perfezione che è il decoro del nostro tempio vivo, ed a tenerci stretti nella carità, poiché tutti siamo come cappelle del tempio di Dio, uniti, per così dire, dalle linee d'una stessa architettura, dalle linee luminose dei disegni del suo amore. Che cosa orribile è un'anima in disgrazia di Dio, che cosa ripugnante è un tempio vivo insozzato dall'impurità!

Nessuno concepisce un tempio senza pulizia, senza decorazioni, senza altare, deserto, desolato, privo di campane, di organo, di voci osannanti nella preghiera, di lampade, di ceri, di fiori. Tanto meno può concepirsi un tempio diruto, sporco, profanato, dove risuonano frastuoni assordanti, bestemmie, ire, risse e dove si fa scempio della Legge di Dio.

Non sarebbe un tempio ma un covo.

Ora guardiamo l'anima nostra, tempio vivo della Santissima Trinità, e vediamo se possiamo macchiarla di peccato, tenerla muta nella preghiera, desolata nell'offerta quotidiana di quanto ha, senza fiori di virtù, senza cantici di amore a Dio, senza luce di fede e senza splendori di speranze eterne, che sono come le grandi finestre aperte in alto sul limpido azzurro del cielo. Basta questa sola considerazione per renderci vigilanti ed accorti, e per impedire qualunque profanazione volontaria dell'anima nostra. Se viene satana a tentarci di orgoglio, l'anima nostra pensi con amore alla preghiera del pubblicano, e dica dal fondo del suo tempio vivo: Sii propizio a me povero peccatore. Se satana ci tenta di avarizia, pensiamo che dobbiamo essere generosi con Dio nel tempio consacrato alla sua gloria. Se ci tenta d'impurità, consideriamo che siamo consacrati dal Battesimo e dai Sacramenti, e che ogni colpa è come un cumulo di lordure gettate nel luogo santo. Se ci scuote il sistema nervoso e ci spinge ad irrompere contro il prossimo, pensiamo al silenzio di pace e di carità che è richiesto dal luogo santo che è in noi. Se ci tenta di gola, consideriamo quale orrore sarebbe gozzovigliare nella casa di Dio, accanto all'altare. Se ci spinge all'invidia o cerca d'immobilizzarci nell'accidia, pensiamo che il tempio è luogo di carità e di preghiera, è luogo che unisce tutti innanzi a Dio col vincolo dell'amore, e che ci unisce al Signore col vincolo della religione. Il pensiero che siamo tempio di Dio può farci santi veramente, eliminando da noi il peccato, facendoci elevare in alto sino a Dio, e spingendoci nelle grandi vie della perfezione e dell'amore. Questo pensiero è il più atto ad offrirci a Dio in una perfetta schiavitù di amore, poiché niente è più direttamente e completamente dedicato a Lui quanto un tempio. Che cosa ammirabile potersi mettere la mano sul cuore e dire: sono tempio della Santissima Trinità, tutto dedicato alla sua gloria! Sono di Dio, debbo esserlo sempre, non posso dissacrare una volta sola il mio cuore dedicato a Lui! Egli è il mio dolce padrone, io sono il suo servo, io sono il suo schiavo d'amore, ma la mia servitù mi nobilita e la mia schiavitù mi rende figlio della piena libertà, e dà all'anima mia un volo grande di amore.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

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