domenica 28 agosto 2016

28.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 14 par. 2

2. La guarigione dell'idropico e la carità. La superbia impedisce la carità

Gesù Cristo entrò in casa di uno dei principi dei farisei in giorno di sabato, per prendervi cibo. Era stato invitato da lui, forse, per aver modo di trovarlo in fallo, giacché è detto nel Sacro Testo che gli tenevano gli occhi addosso.

In una casa di un principe dei farisei non era meraviglia che vi si trovassero molti ostili al Redentore, pronti ad appuntarlo. Essi sapevano che Egli non dava importanza ai loro usi nel mangiare e, per avere di che rimproverarlo, lo invitavano a pranzo.

La sala dei banchetti era aperta a tutti, e fu facile ad un povero idropico penetrarvi e presentarsi a Gesù. Egli non domandò nulla, per timore dei farisei, ricordando forse la raccomandazione del capo della sinagoga (13,14) di non farsi curare in giorno di sabato, ma stette avanti a Gesù ed attese la sua misericordia. Dal contesto si rileva che l'idropico non era stato introdotto nel banchetto dai farisei, e che doveva credere in Gesù, dato che ne fu guarito.

Il Redentore, rivolto ai dottori della Legge che erano presenti ed ai farisei, domandò loro: E lecito guarire in giorno di sabato? Con questa domanda li pose in imbarazzo, giacché essi sapevano che il guarire non era opera servile e sapevano che il riprovare in giorno di sabato un atto di carità era lo stesso che condannarsi. Perciò tacquero. E evidente dalle parole di Gesù che, pur tacendo, essi erano contrari a far guarire uno in giorno di sabato, non tanto per amore della Legge, quanto per ostilità verso il Signore, e vedendo che Egli, difatti, guarì l'idropico, fecero segni di riprovazione, e mormorarono nel loro cuore. Perciò Gesù rispondendo ai loro pensieri disse: Chi di voi, se gli cade l 'asino od il bue nel pozzo il giorno di sabato non lo estrae subito?

I pozzi allora erano senza parapetti, coperti solo da una pietra quando non servivano; era dunque possibile che un asino od un bue vi cadessero dentro. Ora come poteva dirsi lecito salvare una bestia dall'acqua, e credere poi illecito salvare un uomo da un malanno d'idropisia?

I primi posti...
I farisei non poterono rispondergli nulla, ma si mostrarono contrariati di quella umiliazione subita e, mettendosi a tavola, quasi per rifarsene, ebbero cura di prendere i primi posti. E probabile che qualcuno di essi fosse stato invitato, allora stesso, dal capo di famiglia a cedere il posto che spettava ad altri più degni, e che ne avesse fatto lagnanza, perché Gesù rivolse la parola a tutti e cominciò ad esortarli a prendere l'ultimo posto se non per virtù, almeno per non fare una brutta figura innanzi agli altri.

Certo Gesù voleva spingerli a cercare l'ultimo posto per umiltà vera e sentita, ma i suoi commensali non erano capaci di tanto, e si contentò di convincerli almeno con un motivo umano. Con questo volle in certo modo promulgare e sanzionare quelle regole di buona creanza, che sono una certa preparazione e disposizione alla virtù vera, perché rappresentano sempre un dominio sulle proprie debolezze ed un primo abbozzo della carità verso gli altri.

È importante, infatti, anche ai fini della virtù, disciplinare le proprie azioni con la sana educazione e il galateo. La virtù vera produce sempre un modo di agire delicato e gentile, ma quando la virtù manca e non si è ancora formata, il modo delicato e gentile produce nell'anima una disposizione naturale che può facilitare, poi, l'azione della grazia. Gesù Cristo non esorta ad operare per un fine naturale, è evidente, ma a constatare che la mancanza di virtù induce una mancanza di forme esterne che raccolgono il disprezzo degli altri. Ai farisei, del resto, che operavano solo per essere onorati innanzi a tutti, era questo il motivo per indurli a smettere quei loro atteggiamenti tracotanti e superbi, che tanto male tacevano all'anima loro.

Il galateo, base della virtù
Forse se alle anime principianti nella virtù s'insegnasse il galateo ne guadagnerebbe la stessa virtù; il galateo è come un abito decente posto addosso ad un povero uomo del volgo, è una spinta a cambiare certe abitudini disordinate, contratte a volte dalla nascita, con abitudini più decorose e l'incivilimento della vita che è poi utilizzato dal Signore per l'elevazione dello spirito, è il primo dirozzamento della natura che si dona a Dio, è un tratto di nobiltà insegnato a chi non ha l'abito della gentilezza.

Insegnando a scegliere l'ultimo posto negl'inviti, Gesù notò che alla tavola del fariseo c'erano tutte persone di riguardo, le quali perciò facevano a gara a prendere i primi posti.

Era una vana ostentazione della propria eccellenza, ed un profondersi in cerimonie fatte per pura convenienza. Gesù scrutava i cuori e vedeva il retroscena di quegl'inviti fatti per opportunismo, per disobbligo, per obbligare gli altri, e sentì in quel pranzo tutta l'assenza agghiacciante di ogni fine gentile e soprannaturale; perciò, rivolto al fariseo che lo aveva invitato, lo esortò, per un'altra volta che volesse fare un pranzo, ad invitarvi i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi, per averne merito poi innanzi a Dio nella vita eterna.

Esortandolo così, Gesù gli rendeva un servigio spirituale, e lo indirizzava per la via del vero bene, dandogli Egli stesso un contraccambio prezioso dell'invito che in quel giorno aveva avuto.

I pranzi e le feste
L'esortazione di Gesù al fariseo è preziosissima per noi, e ci guida in quello che è uso comunissimo tra tutte le genti: i pranzi fatti nelle feste e nelle solennità. Gesù non condanna un pranzo, fatto anche per accrescere la letizia di una festa, ma ci esorta a non renderlo una misera speculazione di orgoglio o d'interesse personale. Egli vuole che alle nostre feste partecipino i poveri e gl'infelici, e non dice proprio letteralmente di invitarli a pranzo, il che pure sarebbe lodevole, ma di renderli partecipi della nostra gioia.

Un pranzo non può ridursi, evidentemente, ad una scorpacciata, il che sarebbe cosa indegna; è come un accrescimento della famiglia fatto con persone care ed è un'effusione di generosità, poiché la gioia è naturalmente espansiva.

Ora noi siamo tutti figli del Padre celeste, ed è giusto che facciamo usufruire della nostra generosità quelli che ne hanno più bisogno. Oh, se si capisse quale vantaggio porta la carità e quanta benedizione portano con loro i poveri nelle nostre feste, non faremmo mai mancare in esse la beneficenza e la carità. È così che i pranzi non si riducono ad un più o meno larvato epicureismo, ed è così che la povera gioia della terra si muta in gioia del cielo.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

lunedì 15 agosto 2016

15.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1 par. 5

5. L'incontro con sant'Elisabetta. La fede che dona un linguaggio di vita: Magnificat anima mea Dominum!

Maria si pose in viaggio per le vie deserte dei monti e camminava frettolosamente. Cercava la solitudine, perché aveva un gran bisogno di amare in silenzio, e correva perché era quasi come spirito e non avvertiva il peso del corpo.

Chi ha provato un momento d'intimo amore con Dio sa quanta vita esso trasfonde in tutto il corpo, rendendolo più sottomesso all'anima, più docile strumento dello spirito; questa vita dovette essere immensa in Maria, tutta avvolta dalla fiamma dell'eterno Amore. Non poggiava quasi sul suolo e, come colomba librata al volo, divorava la via. Correva senza affannare, spinta come da un vento, giacché la creazione le faceva quasi riverenza, e l'aria stessa s'apriva innanzi a Lei, per non opporre resistenza ai suoi passi. Correva esultando nel suo spirito, con passo sicuro e senza timore, giacché la gioia pura dell'anima dà anche al corpo un novello vigore ed una maggiore decisione nei suoi movimenti. I suoi sentimenti si arguiscono da quelli espressi a sant'Elisabetta, espressione magnifica dell'anima sua benedetta: glorificava Dio, esultava in Lui Salvatore, vivente nel suo seno, si umiliava e considerava la sua grande missione nei secoli, attribuiva al Signore tutta la propria grandezza, e considerava le conseguenze della misericordia fatta da Dio alla terra, la dispersione dei superbi, l'umiliazione dei grandi e l'elevazione degli umili. Era piena di Dio, conversava con Lui, lo amava d'intenso amore, piena di riconoscenza per il compimento delle promesse fatte da Lui ad Abramo ed alla sua discendenza; cantava nell'esultanza del suo spirito, ed esplose nella pienezza del suo amore innanzi alla santa cugina.

sabato 13 agosto 2016

14.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 12 par. 5

5. Amore vero e sacrifìcio eroico nella carità profonda e nel perdono

Molti hanno poetato sul nome di Roma, dicendo che è un nome di amore: Roma = Amor. Essi non pensano però che, considerata, nella sua vita pagana, Roma è un amore rovesciato, che equivale all'odio implacabile. Roma imperiale, specialmente, ha disseminato il mondo di rovine e di stragi, asservendo tutto al suo imperialismo tiranno ed alla fatua gloria di pochi capi. Tutte le storie, del resto, delle umane conquiste hanno questa triste eredità di odio e di sangue.

Gesù Cristo si proclama invece conquistatore di amore per il suo sacrificio cruento e pone come base del carattere cristiano l'amore, il sacrificio eroico e la carità. Egli è venuto a portare sulla terra il fuoco, non quello della distruzione ma quello della carità e desidera solo che esso si accenda; è venuto a portarlo sottomettendosi Egli al completo sacrificio ed ai dolori che dovevano inondarlo come un battesimo, e l'amor suo glieli fa desiderare con ansia vivissima, che lo tiene in angustia fino a che non li abbia tutti subiti. Questo amore e questo sacrificio Egli li lascia come bella eredità anche ai suoi seguaci, poiché la conversione del mondo importerà per essi il subire persecuzioni e dolori persino dalle persone più care di famiglia.

Non c'è dunque da illudersi; la predicazione del Vangelo, contrastando le umane passioni, produrrà reazioni violente, che saranno causa di gravi dolori agli apostoli della divina Parola ed a quelli che li seguiranno.

Questo fu già annunziato dai profeti ed il vederne il compimento dev'essere per tutti un argomento di verità. Gli scribi e farisei si condannavano da se stessi rifiutando la verità, poiché sapevano distinguere gli aspetti del cielo dalle nubi o dal soffiare dei venti e non volevano distinguere i segni inconfondibili della venuta del Messia, nelle stesse persecuzioni che muovevano a Lui ed ai suoi discepoli. Compivano essi stessi i vaticini dei profeti, e non si accorgevano che il loro avveramento era il segno della maturità delle divine promesse.

L'allusione all'ostinazione degli scribi e farisei nel rinnegare la verità è come un inciso al discorso di Gesù, ed Egli subito dopo continua il suo annunzio profetico delle grandi persecuzioni che avrebbero sofferte i suoi seguaci, esortandoli alla mansuetudine, alla prudenza ed alla carità. Era questa l'unica e grande forza alla quale dovevano fare appello per difendersi, poiché il cristiano è figlio di pace e messaggero di carità. Deve cercare in tutto l'accordo, la tranquillità e la carità, evitando con la prudenza quello che può inasprire gli avversari e renderli più violenti.

È questo il programma della Chiesa, al quale Essa rimane fedele nei secoli: di fronte alla brutalità dei suoi nemici che vorrebbero soffocarla cerca sempre l'accordo e la pace, e la sua diplomazia è sempre ispirata all'onore di Dio ed al bene delle anime.

Dev'essere questo lo spirito di ogni suo ministro e di ogni suo fedele, poiché l'accordo con gli avversari, o almeno la prudenza nel trattarli, quando si mostrano incapaci di un accordo, salva il bene dall'estrema distruzione. Dalla parabola che Gesù dice (versetti 58 e 59) è evidente che Egli non vuole che i suoi seguaci siano amanti di liti, poiché nelle liti ci sono le dissensioni, le avversioni, gli odi, e questo sta agli antipodi del bene che bisogna fare alle anime. Anche quando si ha ragione, in una lite che non compromette l'anima o la coscienza, bisogna cedere per non correre rischio di incontrare impedimenti nel fare il bene, e per evitare d'averne la peggio anche innanzi ai giudici, come spesso avviene.

sabato 6 agosto 2016

07.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 9 par. 6

6. La trasfigurazione di Gesù Cristo

Le lotte contro Gesù aumentavano sempre, di giorno in giorno, poiché i sacerdoti, gli scribi e i farisei, non ammettendo in Lui una missione divina, credevano insopportabile che Egli insegnasse e facesse proseliti. Queste lotte, prima latenti, cominciarono a diventare più manifeste e sfacciate, scrollando anche la fede degli apostoli, già abbastanza fiacca. Era necessario perciò, per la gloria stessa di Dio, mostrare almeno un raggio di quella divina Maestà che tutto avvolgeva il Signore e che dovrà un giorno risplendere della sua santissima Umanità innanzi a tutte le genti.

Con la divina sobrietà che distingue tutto ciò che viene da Dio, Gesù credette opportuno mostrarsi innanzi a tre testimoni soltanto della terra, ed a due testimoni del cielo: Pietro, Giacomo e Giovanni in rappresentanza degli uomini, Mosè ed Elia in rappresentanza di quanti avevano sospirato alla redenzione nell'Antico Patto. La Legge diceva, infatti, che nella bocca di due o tre testimoni stava la verità.

Se Gesù si fosse svelato innanzi a tutti gli apostoli, si sarebbe determinato un movimento di entusiasmo che Egli voleva evitare, ed i nemici ne avrebbero preso pretesto per intensificare la lotta. D'altra parte, se i tre testimoni prescelti capirono poco della grandiosa manifestazione, la massa ne avrebbe capito ancora meno, e nell'entusiasmo del momento avrebbe reso vano l'altissimo scopo per il quale Gesù Cristo si svelava.

San Pietro voleva stabilirsi sul monte e farvi tre tabernacoli, gli apostoli ed i discepoli sarebbero andati più in là ed avrebbero provocato un movimento capace d'intralciare tutto il piano di Dio. Gesù, poi, agiva per la Chiesa, principalmente per la Chiesa, e voleva lasciare nella Chiesa una testimonianza della sua divina gloria, affinché nei secoli futuri si fosse meglio capito che se Egli era veramente uomo, era anche veramente Dio. Bastavano perciò tre testimoni capaci un giorno di riflettere sulla grande manifestazione, intenderne il significato, e trasmetterne la testimonianza alla Chiesa.

Prese, dunque, Gesù con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e salì sopra un monte per pregare. Siccome Egli pregava quasi sempre di notte, deve supporsi che era già calata la sera quando vi s'incamminò coi suoi. È chiaro anche dal fatto che gli apostoli furono aggravati dal sonno: dopo una giornata di movimentata attività, nella calma solitudine del monte, per la stessa umidità dell'ambiente, si capisce che poterono essere presi dal sonno. Essi però, essendo andati con Gesù per pregare, si sforzavano di tenersi desti, come può ricavarsi dal testo greco, il quale dice che stavano svegli malgrado il sonno e poterono accorgersi della grandiosa scena che si svolse sul monte.