4. La parabola del ricco epulone
Per imprimere meglio nei cuori il capovolgimento che avviene innanzi a Dio di ciò che il mondo stima grandezza e ricchezza e per mostrare più efficacemente quale uso deve farsi delle ricchezze, Gesù raccontò una parabola bellissima che è una vera rivelazione sul mistero della vita futura in ordine alla vita che meniamo in terra.
C'era un uomo ricco, tanto ricco che vestiva come un re, di porpora e di finissimo lino di Egitto, chiamato bisso. Era un gaudente, ed ogni giorno faceva splendidi banchetti. Alla porta del suo sontuoso palazzo v'era un povero, chiamato Lazzaro, abbreviatura di Eleazaro, il quale era piagato, sfinito ed affamato e, sentendo il profumo delle vivande del ricco, desiderava almeno di averne i residui e nessuno gliene dava. Venivano a lui i cani a leccargli le piaghe, forse i cani del palazzo stesso del ricco, il che dimostra che vi erano riguardati più del povero. Lazzaro non aveva neppure la forza di allontanarli, e forse aveva da essi soltanto un sollievo al prurito delle sue piaghe.
Ecco una vita splendida ed una vita infelicissima innanzi al mondo; ma innanzi a Dio la cosa era immensamente diversa. Morì infatti il povero e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, cioè nel Limbo, dove i giusti, in compagnia di Abramo, attendevano che il Redentore aprisse loro le porte del cielo. Era un luogo di felicità e di pace naturale, immensamente superiore a qualunque stato di terrena felicità. Dopo poco tempo morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno. La sua vita dissoluta aveva prodotto il suo frutto di morte, ed egli tra le fiamme dell'inferno soffriva orribili tormenti.
Dal luogo della sua perdizione, così permettendolo Dio, vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno, cioè in sua felice compagnia. Quale contrasto con la vita misera che quel povero aveva condotto, e con la vita tormentosa che il ricco attualmente viveva! Questi sperò almeno un minimo sollievo fra le pene che soffriva, e rivolgendosi ad Abramo, quale capo del popolo cui apparteneva, lo supplicò di mandargli Lazzaro perché avesse intinto la punta del dito nell'acqua e gli avesse refrigerato la lingua, giacché bruciava nelle fiamme. Abramo gli rispose con una sentenza che non ammetteva repliche: egli aveva ricevuto beni nella vita mortale e non aveva fatto opere sante; Lazzaro aveva ricevuto tribolazioni e le aveva sofferte in pace per amore di Dio. Ora la situazione s'era capovolta irrimediabilmente, perché lo stato dell'eternità è immutabile, e non poteva mai avvenire che Lazzaro avesse potuto sollevarlo, per l'abisso incolmabile che separava lo stato di salvezza e quello della perdizione.
Il povero ricco, non potendo avere egli un sollievo, si preoccupò di cinque fratelli che aveva e supplicò Abramo di mandare Lazzaro ad avvertirli, giacché conducevano vita sontuosa pure essi, e non voleva che avessero la stessa sorte.
Abramo non disse che Lazzaro non sarebbe potuto andare da essi, ma replicò che avevano già Mosè ed i profeti, e potevano alla luce delle loro parole salvarsi. Il ricco insistette che se avessero avuto l'avviso salutare da un morto avrebbero fatto penitenza; Gli sembrò che l'apparizione di un'anima felice come quella di Lazzaro e l'avviso della propria perdizione li avrebbero scossi. Ma Abramo gli disse recisamente che se non credevano a Mosè ed ai profeti, non avrebbero prestato fede neppure ad un morto risuscitato.
Tratto dalla monumentale opera di dottrina esegetica di ben 30 volumi. Il frutto che si ricava da tale lettura è una maturazione profonda nella fede, una percezione della verità della Parola negli eventi del nostro tempo, una aspirazione santa alle promesse contenute nella Rivelazione.
sabato 24 settembre 2016
sabato 17 settembre 2016
18.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 16 par. 2
2. Il fattore infedele ed il buon uso che si deve fare delle ricchezze per la vita eterna
Con la parabola del fìgliol prodigo Gesù aveva mostrato quale rovina morale e materiale poteva produrre l'abuso delle ricchezze; con questa del fattore infedele mostra come esse possano utilizzarsi in bene. L'argomento del Signore è dal meno al più: se un fattore infedele, con una ricchezza che gli era stata solo affidata, poté provvedere al suo avvenire con un poco di accortezza e di generosità, benché fatta fraudolentemente, quanto più può provvedere al proprio eterno avvenire chi si serve delle ricchezze ricevute dal Signore per formarsi degli amici nell'eternità per mezzo delle opere di carità!
Gesù non volle proporre come modello un'azione ingiusta, com'è evidente, ma, raccontando la bella parabola, volle indirettamente mostrare anche che le ricchezze portano quasi sempre il marchio dell'ingiustizia e dell'iniquità, perché o sono frutto o strumento di iniquità. Per questo le chiamò mammona iniquitatis, e non fece distinzione fra ricchezze giuste od ingiuste. Se si facesse la genealogia del denaro, infatti, si troverebbero sempre sulle sue linee ascendenti o discendenti dei delitti. Noi non pensiamo che quel denaro che abbiamo in tasca forse è stato il prezzo di un peccato o di amarissime lacrime, e che per non farlo essere pestifero dobbiamo sempre quasi riconsacrarlo con la carità. Potremmo portare in tasca anche il prezzo di un'impurità o di un omicidio, e quel denaro, pur passato a noi lecitamente, porta una terribile infezione con sé. Quanti si lavano le mani quando maneggiano il denaro, e fanno bene, perché è la cosa fisicamente più sporca che vi sia, passando per tante mani; ma prendendo il denaro dovrebbero anche fare un atto di riparazione a Dio, e serbarne una percentuale, sia pur minima, alla carità, per disinfettarlo spiritualmente.
Con la parabola del fìgliol prodigo Gesù aveva mostrato quale rovina morale e materiale poteva produrre l'abuso delle ricchezze; con questa del fattore infedele mostra come esse possano utilizzarsi in bene. L'argomento del Signore è dal meno al più: se un fattore infedele, con una ricchezza che gli era stata solo affidata, poté provvedere al suo avvenire con un poco di accortezza e di generosità, benché fatta fraudolentemente, quanto più può provvedere al proprio eterno avvenire chi si serve delle ricchezze ricevute dal Signore per formarsi degli amici nell'eternità per mezzo delle opere di carità!
Gesù non volle proporre come modello un'azione ingiusta, com'è evidente, ma, raccontando la bella parabola, volle indirettamente mostrare anche che le ricchezze portano quasi sempre il marchio dell'ingiustizia e dell'iniquità, perché o sono frutto o strumento di iniquità. Per questo le chiamò mammona iniquitatis, e non fece distinzione fra ricchezze giuste od ingiuste. Se si facesse la genealogia del denaro, infatti, si troverebbero sempre sulle sue linee ascendenti o discendenti dei delitti. Noi non pensiamo che quel denaro che abbiamo in tasca forse è stato il prezzo di un peccato o di amarissime lacrime, e che per non farlo essere pestifero dobbiamo sempre quasi riconsacrarlo con la carità. Potremmo portare in tasca anche il prezzo di un'impurità o di un omicidio, e quel denaro, pur passato a noi lecitamente, porta una terribile infezione con sé. Quanti si lavano le mani quando maneggiano il denaro, e fanno bene, perché è la cosa fisicamente più sporca che vi sia, passando per tante mani; ma prendendo il denaro dovrebbero anche fare un atto di riparazione a Dio, e serbarne una percentuale, sia pur minima, alla carità, per disinfettarlo spiritualmente.
sabato 10 settembre 2016
11.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 15 par. 2
2. L'infinita misericordia di Dio nel ricercare i peccatori e nell'accoglierli, in uno sguardo generale alle parabole di Gesù
Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani per ascoltarlo. Il testo greco dice che gli si avvicinavano tutti i peccatori ed i pubblicani, per far rilevare che tutti erano attratti dalla bontà di Gesù, anche quelli che poi non si convertivano per loro colpa.
C'era, infatti, nel Redentore una potente attrattiva, perché Egli era venuto in terra per rigenerarli ed aveva in sé la delicatezza di una mamma, la premura di un pastore e l'espansione di un affettuosissimo padre. I peccatori, poi, standogli vicino, si sentivano migliori, perché in quell'immensa luce di santità l'anima loro spontaneamente si umiliava.
I farisei e gli scribi non potevano tollerare la bontà di Gesù, perché contrastava troppo con la loro durezza; premurosi com'erano della loro fama e della loro gloria, disprezzavano i peccatori per ostentare anche così la loro pretesa giustizia e riprovavano l'atteggiamento di Gesù, non tanto perché loro dispiacesse, ma per far rimarcare al popolo che Egli non era giusto come loro. Credevano che la sua familiarità coi peccatori dipendesse per lo meno da superficialità e volevano far rilevare che Egli non sapeva conoscerli, e quindi non era profeta.
Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani per ascoltarlo. Il testo greco dice che gli si avvicinavano tutti i peccatori ed i pubblicani, per far rilevare che tutti erano attratti dalla bontà di Gesù, anche quelli che poi non si convertivano per loro colpa.
C'era, infatti, nel Redentore una potente attrattiva, perché Egli era venuto in terra per rigenerarli ed aveva in sé la delicatezza di una mamma, la premura di un pastore e l'espansione di un affettuosissimo padre. I peccatori, poi, standogli vicino, si sentivano migliori, perché in quell'immensa luce di santità l'anima loro spontaneamente si umiliava.
I farisei e gli scribi non potevano tollerare la bontà di Gesù, perché contrastava troppo con la loro durezza; premurosi com'erano della loro fama e della loro gloria, disprezzavano i peccatori per ostentare anche così la loro pretesa giustizia e riprovavano l'atteggiamento di Gesù, non tanto perché loro dispiacesse, ma per far rimarcare al popolo che Egli non era giusto come loro. Credevano che la sua familiarità coi peccatori dipendesse per lo meno da superficialità e volevano far rilevare che Egli non sapeva conoscerli, e quindi non era profeta.
domenica 4 settembre 2016
04.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 14 par. 3
3. La grande cena preparata da Dio alle sue creature nella redenzione e la via per giungervi
Quando Gesù esortò il fariseo a invitare a pranzo i poveri, gli storpi, gli zoppi ed i ciechi, pensò certamente al grande invito del Padre celeste alle sue creature nella redenzione, e parlò con tanta profonda tenerezza che uno dei commensali ne fu colpito, intuì il suo pensiero ed esclamò: Beato colui che mangerà il pane nel regno di Dio.
Egli aveva dovuto sentire altre volte Gesù parlare del regno eterno come di un convito (Mt 22,1-14), ed ascoltandolo ora, se ne ricordò, e con quella esclamazione glielo ricordò per ascoltare ancora dalle sue labbra una bella parabola. È profondamente psicologico, giacché noi amiamo sentir ripetere da quelli che sanno parlare i discorsi nei quali trasfondono maggiormente la loro vita, e quelli che più li interessano. Gesù che sapeva d'essere venuto a dare agli uomini un banchetto celeste, non poteva parlare di questo soggetto senza sentire nel Cuore e trasfondere nelle parole tutta la sua tenerezza.
Egli lesse nel cuore del commensale il desiderio di riascoltare il racconto, ed esclamò: Un uomo fece una grande cena ed invitò molti. Stando a tavolar la parabola prendeva un carattere più vivo e Gesù la raccontò volentieri per trarre da quel banchetto un insegnamento salutare.
Gl'inviti ad un pranzo, presso gli Ebrei, si facevano molto tempo prima; quando, poi, si avvicinava l'ora del convito e tutto era pronto, si mandavano i servi ad avvertire e ad accompagnare i commensali. Perciò Gesù soggiunse che il padrone della casa all'ora della cena mandò un servo a chiamare gl'invitati, dicendo loro che il desinare era pronto. Tutti però molto scortesemente cominciarono a scusarsi; s'erano così poco dato pensiero del banchetto, che avevano proprio in quel giorno stabilito di dar corso ai loro affari, e uno di essi addirittura di sposare.
Uno disse che aveva comprato un podere e doveva andare a vederlo, un altro che aveva comprato cinque paia di buoi ed aveva necessità di provarli, un terzo disse più recisamente e più scortesemente che aveva preso moglie e perciò non poteva venire. Gli altri usarono una certa forma nel rifiutare, e dissero al servo: Di grazia, abbimi per scusato, ma chi aveva preso moglie, frastornato come era ed impegnato al suo banchetto nuziale, disse recisamente che non poteva venire.
Il padrone ne fu sdegnato. Chi prepara con amore un banchetto fa spese insolite e si stanca in un maggior lavoro, ha quindi piacere che si mangi. A volte prepara anche qualche sorpresa, qualche cibo ricercato, e sta tutto preoccupato di riceverne gli elogi e di vederlo gustare. Nel suo dispiacere, non volendo che si perdesse ciò che aveva preparato, disse al servo di andare per le piazze e per le contrade della città e raccogliere i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi, invitandoli a venire essi a mangiare; solo questi infelici, infatti, all'ora di pranzo potevano trovarsi in bisogno a trattenersi sulle pubbliche vie in cerca di carità.
Il servo li chiamò, ma, essendovi ancora posto, il padrone gli ordinò di andare a raccogliere per le strade di campagna, fiancheggiate dalle siepi, altri poveri abbandonati, e forzarli con modi affettuosi a venire al banchetto. Lungo le siepi, infatti, ci potevano essere solo i poveri più abbandonati, i quali avevano vergogna di comparire in pubblico, o temevano di essere vessati per qualche loro malanno, ed essi dovevano essere sforzati ad entrare.
Così si riempì la sala del banchetto, e il padrone protestò che nessuno di quelli che avevano rifiutato l'invito avrebbe assaggiato la sua cena.
Questa sua protesta potrebbe apparire inutile dato che essi avevano già rifiutato, ma Gesù volle dire che chi rifiuta il banchetto della vita, nel giudizio universale si accorge di avere errato, inutilmente desidera allora di prendervi parte, giacché allora sarà per sempre finito il tempo della prova.
La chiusa della parabola riguarda la sua applicazione spirituale, e l'applicazione Gesù non la fece, perché altre volte l'aveva fatta, e per non urtare i farisei che erano presenti.
L'uomo che fece la grande cena è il Dio che preparò grandi grazie ai suoi fedeli con la redenzione, e v'invitò prima di tutto il popolo eletto. Ma Israele, distratto dalle sue aspirazioni materiali, dai beni terreni e dalle aspirazioni sensuali, non ricevette l'invito e rifiutò le grazie. Dio allora mandò i suoi apostoli per tutta la terra tra i pagani, poveri di grazie, storpi nella vita, ciechi perché privi della verità, e zoppi perché incapaci di muoversi soprannaturalmente, a raccogliere fra essi i novelli invitati alla grande cena.
I pagani risposero all'invito, ma, poiché vi sarà ancora luogo per completare il numero degli eletti, Dio manderà i suoi servi negli ultimi tempi a chiamare alla fede i popoli più poveri e più lontani, i selvaggi che abitano nelle foreste e le genti più abbandonate, e li raccoglierà nella Chiesa, banchetto di vita, e nel suo regno, banchetto di eterna Gloria. Dio li sforzerà ad entrare non con la violenza ma con grandi grazie, e li farà entrare non contro la loro volontà, ma conquidendoli con la misericordia e con la carità.
Quando Gesù esortò il fariseo a invitare a pranzo i poveri, gli storpi, gli zoppi ed i ciechi, pensò certamente al grande invito del Padre celeste alle sue creature nella redenzione, e parlò con tanta profonda tenerezza che uno dei commensali ne fu colpito, intuì il suo pensiero ed esclamò: Beato colui che mangerà il pane nel regno di Dio.
Egli aveva dovuto sentire altre volte Gesù parlare del regno eterno come di un convito (Mt 22,1-14), ed ascoltandolo ora, se ne ricordò, e con quella esclamazione glielo ricordò per ascoltare ancora dalle sue labbra una bella parabola. È profondamente psicologico, giacché noi amiamo sentir ripetere da quelli che sanno parlare i discorsi nei quali trasfondono maggiormente la loro vita, e quelli che più li interessano. Gesù che sapeva d'essere venuto a dare agli uomini un banchetto celeste, non poteva parlare di questo soggetto senza sentire nel Cuore e trasfondere nelle parole tutta la sua tenerezza.
Egli lesse nel cuore del commensale il desiderio di riascoltare il racconto, ed esclamò: Un uomo fece una grande cena ed invitò molti. Stando a tavolar la parabola prendeva un carattere più vivo e Gesù la raccontò volentieri per trarre da quel banchetto un insegnamento salutare.
Gl'inviti ad un pranzo, presso gli Ebrei, si facevano molto tempo prima; quando, poi, si avvicinava l'ora del convito e tutto era pronto, si mandavano i servi ad avvertire e ad accompagnare i commensali. Perciò Gesù soggiunse che il padrone della casa all'ora della cena mandò un servo a chiamare gl'invitati, dicendo loro che il desinare era pronto. Tutti però molto scortesemente cominciarono a scusarsi; s'erano così poco dato pensiero del banchetto, che avevano proprio in quel giorno stabilito di dar corso ai loro affari, e uno di essi addirittura di sposare.
Uno disse che aveva comprato un podere e doveva andare a vederlo, un altro che aveva comprato cinque paia di buoi ed aveva necessità di provarli, un terzo disse più recisamente e più scortesemente che aveva preso moglie e perciò non poteva venire. Gli altri usarono una certa forma nel rifiutare, e dissero al servo: Di grazia, abbimi per scusato, ma chi aveva preso moglie, frastornato come era ed impegnato al suo banchetto nuziale, disse recisamente che non poteva venire.
Il padrone ne fu sdegnato. Chi prepara con amore un banchetto fa spese insolite e si stanca in un maggior lavoro, ha quindi piacere che si mangi. A volte prepara anche qualche sorpresa, qualche cibo ricercato, e sta tutto preoccupato di riceverne gli elogi e di vederlo gustare. Nel suo dispiacere, non volendo che si perdesse ciò che aveva preparato, disse al servo di andare per le piazze e per le contrade della città e raccogliere i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi, invitandoli a venire essi a mangiare; solo questi infelici, infatti, all'ora di pranzo potevano trovarsi in bisogno a trattenersi sulle pubbliche vie in cerca di carità.
Il servo li chiamò, ma, essendovi ancora posto, il padrone gli ordinò di andare a raccogliere per le strade di campagna, fiancheggiate dalle siepi, altri poveri abbandonati, e forzarli con modi affettuosi a venire al banchetto. Lungo le siepi, infatti, ci potevano essere solo i poveri più abbandonati, i quali avevano vergogna di comparire in pubblico, o temevano di essere vessati per qualche loro malanno, ed essi dovevano essere sforzati ad entrare.
Così si riempì la sala del banchetto, e il padrone protestò che nessuno di quelli che avevano rifiutato l'invito avrebbe assaggiato la sua cena.
Questa sua protesta potrebbe apparire inutile dato che essi avevano già rifiutato, ma Gesù volle dire che chi rifiuta il banchetto della vita, nel giudizio universale si accorge di avere errato, inutilmente desidera allora di prendervi parte, giacché allora sarà per sempre finito il tempo della prova.
La chiusa della parabola riguarda la sua applicazione spirituale, e l'applicazione Gesù non la fece, perché altre volte l'aveva fatta, e per non urtare i farisei che erano presenti.
L'uomo che fece la grande cena è il Dio che preparò grandi grazie ai suoi fedeli con la redenzione, e v'invitò prima di tutto il popolo eletto. Ma Israele, distratto dalle sue aspirazioni materiali, dai beni terreni e dalle aspirazioni sensuali, non ricevette l'invito e rifiutò le grazie. Dio allora mandò i suoi apostoli per tutta la terra tra i pagani, poveri di grazie, storpi nella vita, ciechi perché privi della verità, e zoppi perché incapaci di muoversi soprannaturalmente, a raccogliere fra essi i novelli invitati alla grande cena.
I pagani risposero all'invito, ma, poiché vi sarà ancora luogo per completare il numero degli eletti, Dio manderà i suoi servi negli ultimi tempi a chiamare alla fede i popoli più poveri e più lontani, i selvaggi che abitano nelle foreste e le genti più abbandonate, e li raccoglierà nella Chiesa, banchetto di vita, e nel suo regno, banchetto di eterna Gloria. Dio li sforzerà ad entrare non con la violenza ma con grandi grazie, e li farà entrare non contro la loro volontà, ma conquidendoli con la misericordia e con la carità.
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