sabato 24 dicembre 2016

25.12.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1 par. 2-3

2. Il momento solenne e pacifico della nascita di Gesù Cristo

Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva nascere in Betlem, ed il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria a Betlem.

Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora, senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto, non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma Egli volle escludere dalla nascita di Gesù tutto ciò che poteva sembrare appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni divine nella nascita del Redentore.

Cesare Augusto, primo imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per accertarsi della popolazione dell'impero e dell'obbligo del tributo per tutti i suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu fatto sotto Publio Sulpizio Quirino, che al modo greco è chiamato nel Sacro Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l'uso romano, per il quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma secondo l'uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori delle tribù e delle famiglie, ed un censimento di semplice domicilio non avrebbe dato la vera prospettiva demografica della nazione.

La legge umana è inesorabile e non ammette scuse; bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all'obbedienza alla divina volontà, accettarono l'ordine non come

un'imposizione inopportuna per essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, ed intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlem, loro città di origine perché discendenti di Davide.

E commovente il pensare a questo viaggio intrapreso quando la stagione era già fredda, giacché è tradizione costante nella Chiesa che Gesù sia nato nelFinvemo. Due creature ignote al mondo, ma immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro, nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà, lodando e benedicendo il Signore.

Un asinelio, com'è tradizione e com'è giusto pensare, serviva loro di cavalcatura e portava il loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano tutti e due il quadro vivo della purezza, dell'amore e della pace. L'asinelio doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e, guidato dall'angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino. Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai padroni benefìci e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto. Maria tutta raccolta pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza, aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l'Arca di Dio, perché portava nel seno il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele della divina volontà, col sensibile suo cuore pieno di angustia per il disagio della sua immacolata Sposa.

Nel silenzio della strada deserta, fra la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell'asinelio ed echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli... La natura sembrava un'immagine dell'uomo, intristito dalla colpa, ed il Verbo divino, fatto per amore pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlem, per compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa, carica di colpe e di affanni.

Giunsero in Betlem dove, a causa del censimento, era un gran concorso di gente sia nei pubblici alberghi, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o tempestose, ed ivi procurò d'allestire un poverissimo alloggio, dato che per Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati per quella povera dimora, giacché erano ambedue immersi nella divina volontà, ed amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava con immensa pena e tenerezza al suo Figlio che mancava di tutto nel venire alla luce. S'intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e formavano essi soli l'ornamento fragrante di quella grotta desolata.

La nascita di Gesù

Venne la notte. Era algida ma serena, e brillavano gli astri nel cielo. Un silenzio grande circondava quel luogo, ed una solennità più grande vi regnava, perché l'invisibile corte celeste già veniva in terra a corteggiare il Re divino, e rifulgeva nella sua placida luce spirituale, fatta tutta di conoscenza e di amore. Gli uomini e le cose dormivano, e lontano lontano si vedeva solo qualche bagliore dei fuochi dei pastori che vigilavano il gregge. Gli astri roteavano nel cielo, seguendo le leggi di ordine loro assegnato da Dio, e nel corpo immacolato di Maria si compivano con la stessa precisione le leggi della procreazione. Rutilavano le stelle e rutilava il Sole divino verso l'orizzonte della vita terrena, prossimo a spuntare come raggio attraverso il seno immacolato della Madre.

Il sole è preceduto dall'aurora ed è accompagnato dalla stella più fulgida della notte che sparisce nei suoi raggi. Ora, la bella aurora della nascita del Re d'Amore era Maria nell'elevazione del suo amore, e la stella tremolante in adorazione era san Giuseppe. Maria era tutta un fulgore di contemplazione e di estasi. Bella nella sua innocenza purissima, circondata da un tenue nembo di luce che la delineava nella notte come placida luna nel firmamento, genuflessa, con le mani congiunte e lo sguardo al cielo, era l'immagine del seno del Padre, e rifletteva da sé qualche barlume dell'eterno mistero.

Contemplava.

Si trovava tra l'eternità senza tempo ed i tempi carichi di secoli; mirava nell'eternità il Verbo, termine dell'eterna generazione del Padre, e mirava nel tempo il percorso dei secoli delle promesse che terminavano in Lei con la generazione temporale del Verbo nell'umana carne.

Era tutta avvolta dalla luce dell'eterna armonia, ed era Essa tutta un'armonia di amore. La grazia rigurgitava per così dire in Lei, tanta ne era l'abbondanza, ed essa vi era immersa in un placidissimo riposo.

Contemplava il cielo, ed un sorriso le sfiorava le labbra nella gioia immensa che vi regnava; contemplava nel suo seno il Verbo eterno che vedeva nel Padre, e la sua vita mortale s'illuminava di splendori eccelsi, poiché essa era Madre di Dio. L'Amore eterno, che l'aveva fecondata, la illuminava tutta ed Essa a poco a poco si trasumanava. Sembrava tutta luce e, come un ferro incandescente nel fùoco, brillava, perché traspariva da Lei il Verbo Incarnato.

Il suo corpo immacolato era come spirito, sembrava trasparente, anzi evanescente nella luce del Verbo. L'eterna vita affiorava dalla piccola creatura umana e la passava come raggio che attraversa un cristallo.

Oh, prodigio di Dio! Le madri sentono dolori immani quando un figlio viene alla luce, e sentono strapparsi quasi la vita dalla piccola vita che irrompe nel mondo; Maria invece sentiva una gioia immensa a misura che il momento della sua maternità s'avanzava. L'amore quasi la liquefaceva ed il suo corpo sembrava fluido come una cascata di fulgori placidissimi.

Fu un momento sublime: tratta a Dio si sentì tutta immersa nella conoscenza dell'infinita sua grandezza, la contemplò amandola, e volle applaudirla con una lode proporzionata che avrebbe voluto trarre dal pieno olocausto di se stessa.

Le ritornò sulle labbra il suo cantico: Magnificat anima mea Dominum e, nell'elevarlo innanzi a Dio con tutto l'impeto del suo amore, non eruppe dal suo cuore una parola ma il Verbo, la lode eterna del Padre, e s'adagiò sul terreno come un raggio di luce, lodando il Padre nell'umana carne. Era l'umiliato per amore e vagì.

Il Verbo eterno aveva una voce d'immolazione e penava. Non era avvolto dall'eterna Fiamma che lo congiungeva al Padre, ma l'avvolgeva l'atmosfera gelata della notte e tremava. Non aveva trovato altro sulla terra. L'amore materno ritrasse Maria dall'estasi celeste, e scossa ai vagiti del Figlio divino lo guardò: era perfettissimo, roseo come un bocciolo spuntato nell'inverno, soffuso di bontà, divino, santificante, inondante gioia. Lo adorò, lo prese, lo baciò, lo strinse al cuore, lo avvolse in pannicelli mondi; nell'avvolgerlo si sentì tutta inondata di tenerezza e lo ripose in una mangiatoia, perché non aveva altra culla per il Re del cielo.

Adorò, tacque, ricongiunse le mani, volse al cielo lo sguardo e l'offrì al Padre; era un fiore degno di Lui, era il Figlio suo, ed Essa l'offrì in nome di tutta l'umanità, perché era anche il Figlio del suo seno immacolato.

Il piccolino s'addormentò. Ahimè, era troppo triste la terra senza la luce di Dio, ed Egli era la Vittima dei peccati di tutti. Cominciò allora il palpito amoroso della sua immolazione, e si addormentò offrendosi, come se morisse nascendo, poiché il suo sonno era amorosa offerta di sé come lo era la vita.

San Giuseppe, poco lontano, era stato tutto immerso in una profondissima umiltà. Nessuna creatura sentì mai il proprio nulla come lo sentì lui in quel momento. Non osò avvicinarsi. Sentiva troppo la grandezza della Madre e la divinità del Figlio.

Maria gli fece un cenno e lo avvicinò a Gesù, mediatrice di amore e di misericordia per la prima volta tra Gesù ed una creatura.

San Giuseppe lo guardò, e l'ombra luminosa del Padre lo avvolse; Egli lo rappresentava, ed una grande dignità elevava il povero fabbro ad un'altezza di santità che nessuno mai ebbe in terra, poiché nessuno fù reputato padre del Verbo di Dio Incarnato. Lo prese fra le braccia e baciandolo se ne comunicò, perché in quel bacio sentì ardere il cuore di una tenerezza di amore mai provata; era come la consacrazione del suo grande ufficio di amore. Lo ripose nella greppia e genuflesso rimase in adorazione con Maria...

Passavano in alto gli astri quasi occhieggiando alla terra; la forza infinita che li teneva sospesi in un'armonia perenne era in quell'umile punto smarrito... Sembrò una festa tra le sfere celesti che avevano segnato il primo momento della vita temporale dell'Eterno... Avevano segnato per la prima volta un tempo che non poteva essere fugace e rimaneva negli splendori dell'eterna attualità. Il Signore li aveva sublimati ad una funzione più grande, poiché segnavano ad uno ad uno i palpiti d'una vita mortale di valore infinito. La terra era sublimata ad un'altezza mirabile anch'essa, poiché era divenuta il trono di Dio. La natura si ravvivava, e la pia tradizione che ce la fa vedere tutta rifiorire è tutt' altro che una leggenda, poiché essa ha tante volte fiorito anche alla presenza d'un santo, parte privilegiata del Corpo mistico del Redentore.

Dormivano gli uomini, è vero, ed erano immersi in un torpore di morte, perché ingrati; ma nel compimento della divina promessa fremettero di gioia i patriarchi ed i profeti, e su di essi passò un soffio d'immortale speranza per la prossima liberazione.

Il coro del creato era come nota sommessa che accompagnava le note d'un cantico più bello di amore erompente dal Cuore di Maria e di san Giuseppe: Magnificat anima mea Dominum!

3. L'annunzio ai pastori e la loro visita

Maria rimase in contemplazione, ed implorò certamente da Dio che il suo Figlio fosse conosciuto dagli uomini. Il Sacro Testo lo chiama Figlio primogenito perché così si chiamava anche l'unigenito presso gli Ebrei, ma in realtà Maria nell'avere Gesù aspettava anche l'uomo, e sentiva già la sua universale maternità.

L'uomo peccatore doveva essere il suo secondogenito, rigenerato per virtù dello Spirito Santo. Lo disse un giorno il Redentore a Nicodemo, che era necessario rinascere nell'acqua e nello Spirito Santo; ora nella rinascita non può essere estranea Maria, Madre dei peccatori e Regina di misericordia.

Maria dunque pregava perché gli uomini cominciassero a conoscere il loro Redentore. Non era andata in fretta a casa di sant'Elisabetta per annunziarle la lieta novella e comunicarle la grazia? Il suo Cuore era tutto acceso di zelo, e la sua preghiera apriva nuovamente i cieli alla misericordia, partecipando la lieta novella della nascita del Redentore alle anime che erano più preparate alla grazia.

Gli angeli raccolsero la preghiera della Vergine e, poiché la corteggiavano per lodare il Verbo Incarnato, andarono subito poco lontano a compiere la loro missione di amore. Questo non risulta esplicitamente dal testo, ma può arguirsi, giacché Dio ha voluto Maria mediatrice di tutte le grazie.

Poco lontano dalla grotta c'erano alcuni pastori che vegliavano, facendo la guardia al gregge; la notte serena li faceva stare all'aperto e, probabilmente, attratti dalla bellezza del cielo stellato, essi pregavano.

La prontezza della loro fede ci fa arguire che avevano l'anima predisposta alla grazia, e che, da buoni e semplici Ebrei, sospirassero al compimento delle divine promesse. Esse erano una realtà, oramai, e quella terra benedetta era come circonfusa di spirituale splendore, che inconsciamente rinnovava in loro i desideri dei patriarchi e dei profeti. Il Sacro Testo infatti dice che la gloria di Dio rifulse loro, non solo per l'apparizione degli angeli, ma anche per l'interno splendore che li illuminava, rinnovando in loro la fede nel futuro Redentore.

Un angelo apparve ai pastori

D'improvviso, nelle tenebre si delineò una figura luminosa, che nel primo momento li comprese di grande timore. Era un angelo di Dio, in forma umana, maestoso, dolcissimo, avvolto di luce ed esso stesso tutto luce. Era più fulgido del sole, ma non abbagliava; aveva qualche cosa di veloce e di svelto nelle sue forme splendenti, di modo che dava l'idea di una potenza placidissima cui nulla resiste. La sua statura dava l'idea della spirituale grandezza, il suo sguardo era arcano e rifletteva la sua eterna contemplazione; era tutto gioia composta e raccolta, e splendeva in lui la carità.

Rivolto ai pastori sbigottiti, disse loro: Non temete, perché io vi reco una novella di grande allegrezza per tutto il popolo:

è nato a voi oggi il Salvatore che è il Cristo Signore, nella città di David.

L'angelo parlava di una grande letizia del popolo, mentre tutti dormivano e pochi in seguito conobbero la grande grazia ricevuta; ma, evidentemente, egli guardava al futuro, alla gioia dei secoli, alla gioia della futura Chiesa, popolo di Dio, rallegrato dalla redenzione. Quanta solennità in quelle parole: È nato a voi oggi il Salvatore che è il Cristo Signore!

Il cuore freme ancora di amore a ricordarle, eppure è un cuore tanto meschino! Sulla bocca dell'angelo erano parole luminose, dilatate, per così dire, nei secoli passati e nei futuri, che univano le promesse, le figure e le profezie alla realtà, e prospettavano come in un lampo l'unità ammirabile del disegno di Dio. Terminavano da quel momento i sospiri dell'aspettazione, cominciava la gioia, ed i popoli tutti cominciavano oramai una novella vita, che a mano a mano doveva svilupparsi fino a formare tutti, nell'unità della fede e dell'Amore, il regno di Dio.

È mirabile il segno che l'angelo dà ai pastori per riconoscere il Redentore, poiché a primo aspetto esso sembrerebbe più atto a disconoscerlo che a confessarlo nella sua reale grandezza: Troverete un Bambino, avvolto in fasce, giacente in una mangiatoia.

Tre connotati così opposti alla grandezza di Dio Uno e Trino; la debolezza, un bambino; la costrizione, avvolto in fasce; l'umiliazione e la povertà, giacente in una mangiatoia. Appariva debole, incapace di pensare e di operare, in un trono di estrema povertà, nel gelo.

Ed erano questi i segni del Dio Incarnato?

È una cosa che stupisce. Eppure erano segni inconfondibili, poiché non poteva trovarsi un bambino allora nato in simili condizioni di annientamento e di povertà, e non poteva confondersi la grazia che diffondeva col fascino dell'innocenza infantile.

Egli era Dio, e qualunque segno di umana grandezza lo avrebbe diminuito, non illuminato; gli ori, le gemme, i drappi e la sontuosa dimora avrebbero tutto al più mostrato un principe, non un Dio.

Egli era luce ed ornamento a se stesso, e la sua vera e splendida corte erano Maria e Giuseppe.

I pastori non dovevano guardarlo in una luce umana, ma in una gran luce di fede, ed era logico che Egli non avesse alcun segno umano che ne proclamasse la grandezza. D'altra parte, se il Verbo Incarnato doveva venire, come era predetto, Vittima di amore, quale segno maggiore di amore che la sua umiliazione, la sua povertà e la sua amabilità? Egli doveva stringere una novella alleanza col popolo suo, e nacque in una grotta di animali, deposto in una mangiatoia, piccolo ma immenso nella fiamma del suo amore, che passava, per così dire, tra due animali non uccisi ma vivi, come passò fiamma divina tra gli animali morti, immolati da Abramo (Gen 15,17).

La tradizione costante ci presenta nella grotta un bue ed un asinelio, che col fiato ne attenuavano il gelo; essi ricordavano l'alleanza di Abramo, rinnovata non nella morte ma nella vita. Uno era animale da sacrificio, l'altro no, ma erano uniti vicino a Gesù, fiamma d'amore del suo cuore, perché Egli veniva a chiamare il popolo sacro ed il popolo pagano. Era predetto che doveva discendere come rugiada sul vello, ed ecco che di notte era venuto in una dimora di bestie. Era Agnello di Dio, e stava in una grotta adibita proprio a custodia di agnelli, dove riposava aspettando l'immolazione.

Era predetto che doveva essere il Figlio d'una madre vergine, e bastava vedere Maria, appena dopo il parto, genuflessa, adorante, con gli splendori della sua verginale purezza, per capire che era intatta Vergine; bastava vedere Giuseppe nella sua profonda umiltà, per intendere che non aveva avuto parte alcuna in quel frutto meraviglioso. Un padre vero, infatti, è il primo ad effondersi in tenerezze sul suo figlio, e mostra nella sua fragorosa gioia la sua paternità.

I pastori, forse, non erano capaci di fare questi ragionamenti, ma il cuore semplice è il più sintetico di tutti, ed intuisce di un colpo la verità che scaturisce dalle prove; per essi, dunque, la condizione del neonato era un vero segno di verità. Pastore, poi, in quei tempi non significava ignoranza nelle cose sacre, perché anche i benestanti curavano il loro gregge, ricchezza principale della famiglia, e le verità sul futuro Messia erano familiari a tutti gli Ebrei, soprattutto in quel periodo di soggezione e di sopraffazione che acuivano il desiderio di una liberazione.

Ma se fosse mancato ogni altro segno di verità per riconoscere nel nato Bambino il Messia, bastava la presenza dell'angelo ed il grandioso concerto che intonò una schiera di spiriti celesti che cantavano gioiosi: Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà.

Fu un momento solenne: l'angelica schiera, invisibile, si fece visibile; era un coro di luce che splendeva nella notte fino ai confini, dell'orizzonte. Erano figure fulgenti come folgore e placidissime come un'aurora; avevano gli occhi al cielo ed il loro corpo era tutto un ammanto di gloria. Si muovevano come un cielo stellato, in un ordine massimo, e cantavano. Oh, chi può immaginare che cosa era quel canto? Non erano note squillanti nella materia, sarebbero state troppo meschine; erano note di potenza, di sapienza e di amore che formavano un accordo magnifico; che diventavano apprezzamento di Dio, lode a Lui, amore acceso come un olocausto magnifico, e poi si spandevano come fiumana di grazie sulla povera umanità. Erano parole vive, che risuonavano, nel loro significato, delle eterne armonie e ritornavano come onda d'amore al Signore Uno e Trino.

La Chiesa forse ha qualche cosa di quelle note angeliche nei suoi canti di lode, ma questi sono modulati dalle corde vocali e quelli erano gorgheggi dello spirito beato che s'espande, adora, si lancia, si piega, si slancia sulle ali dell'amore, contempla, tace, gode, fruisce, si sazia, vive di Dio.

Saremmo quasi tentati di tradurre in note gregoriane queste armonie dello spirito beato; ma, per quanto esse possano avere di grazia, non potranno mai esprimere la dolcezza e la potenza di un angelico concento. E poi qual voce può riprodurre la voce dello spirito? Le nostre povere note sono come gocce pesanti d'una cascata che precipita nel gorgo della morte, e le note angeliche sono come effluvi di timiama che salgono in alto, nell'azzurro eterno; il nostro amore è come vampata di legna fumose, e quello degli angeli è fiamma purissima, tutta spirito.

Fateci cantare, angeli santi, le vostre note con le squillanti voci della Chiesa, che sono voci brillanti nel Sangue divino che le vivifica, acciocché non siamo estranei per un momento alla vostra gioia! Quel canto non si è estinto: la Chiesa lo ripete ogni giorno fra le tenebre del suo pellegrinaggio, affinché ogni giorno rifulga la gloria di Dio nella sua vita e la pace nel cuore dei suoi figli:

Le dolcissime voci si dileguarono, e gli angeli sparirono nelle altezze dei cieli. La notte, che sembrava sparita per un momento, ritornò col suo ammanto di ombre. Brillava il firmamento, ma le stelle non sembravano stelle; erano come placidi occhi di pace che miravano la terra estasiati. Passavano rutilanti sulla grotta beata come in una danza d'amore; si sarebbe detto che riconoscevano lontano lontano la voce potente che le creò, ed intonavano un cantico di ordine all'eterna sapienza Incarnata che le aveva armonizzate.

I pastori adorano Gesù

I pastori rimasero per un momento estatici anch'essi, colmi di gioia, sazi d'amore, e di comune concerto stabilirono di andare ad adorare il nato Bambino nei pressi di Betlem. Si mossero; correvano, l'amore li sospingeva, il desiderio di vedere il Messia li animava; andavano dritti verso le grotte di rifugio, perché solo là poteva esservi una mangiatoia. Si avanzarono titubanti alla grotta; Maria già lo sapeva, perché li aveva chiamati con la sua preghiera. Si soffermarono un poco, proni per terra; esultavano, il cuore balzava loro quasi dal petto. Lo rapiva l'Infante divino.

Maria fece loro un cenno; entrarono. Senza di Maria non sarebbero mai entrati, poiché sempre Essa dona il Cristo alle anime. Si prostrarono, credettero, adorarono. Non avevano bisogno di prove; la prova sta tutta in quelle poche parole del Sacro Testo: Trovarono Maria, Giuseppe e il Bambino, e vistolo si persuasero di quello che era stato detto loro di quel Bambino. Era logico che si persuadessero, poiché Egli era la Verità, Maria la Sede della Sapienza, Giuseppe ne era il custode fedele.

Videro il Bambino: era piccolino, roseo, bellissimo. Aveva la piccola chioma d'oro, come un nembo, la fronte come luce di arcana sapienza, gli occhi brillanti di bontà e di amore, le labbra sorridenti di amore.

Si moriva d'amore innanzi a Lui, si inteneriva l'anima, si piangeva. Che pace da quella mangiatoia! Era nato in Betlem, la casa del pane, e come Pane di vita stava in una mangiatoia. Attirava. Lo si sarebbe veramente mangiato di baci. Quale bellezza delicata e potente, dolcissima e maestosa, piccolina e più grande dei cieli. Egli parlava sommessamente alle anime loro. Quale colloquio di amore! Lo sentivano nel fondo del cuore e si sentivano rigenerati. Respiravano la grazia, l'anima si dilatava. Che amore! Non potevano staccarsi da quella grotta. Nessuna reggia era più bella.

Sollevarono gli occhi alla Mamma: era la misericordia dolcissima; a san Giuseppe, era la bontà vivente. Parlarono loro? La gioia li soffocava. Piansero, e sparsero le lacrime come perle fluenti sul volto del Bimbo; erano come la fusione dell'uomo peccatore col Redentore. Tacevano. Le ore passavano, ma erano istanti; la gioia le fugava, perché stava quasi ai confini eterni tanto era immensa. Nel cielo non vi sono le ore, poiché neppure i secoli possono misurarne gl'istanti.

Albeggiava, dovettero partire. Ritornarono e le pecorelle belavano, non di pena, ma perché le invadeva una calma serenità.

Il loro istinto quasi diventava ragione tanto erano in pace, come non mai.

I pastori si sparsero per quella terra arrecando la lieta novella; erano già apostoli e da pastori di pecorelle erano diventati come pastori di anime; Dio sceglie sempre gli umili per i grandi annunzi del suo amore. Essi annunziavano le meraviglie che avevano udite e vedute, e Maria le conservava nel suo Cuore e le meditava.

Che cosa grande era questa meditazione della Vergine Santissima! Essa considerava i misteri che si svolgevano, l'avveramento delle profezie, il lavoro della grazia nelle anime, e ne benediceva Dio nel suo Cuore. Considerava anche, gioendo, le parole che le aveva detto l'angelo, e le metteva in relazione con quello che vedeva, rinnovando la sua fede ed il suo abbandono in Dio. Le dava poi grande gioia il vedere che il suo Figlio divino era riconosciuto almeno da alcuni, e gli onori che gli rendevano attenuavano le angustie dell'anima sua per la sconoscenza umana.

Meditava in silenzio, nel suo Cuore, e con queste poche parole l'evangelista ci dà il carattere della Madre di Dio, placido, ponderato, raccolto; parlava poco, e la sua grande vita di amore era tutta nel suo interno. Taceva e parlava con Dio, perché il suo desiderio preponderante era quello di nascondersi, all'opposto di noi che parliamo e sperperiamo nel turbine della vanità spirituale tanti doni di Dio.

Il Sacro Testo soggiunge che i pastori se ne andarono glorificando e lodando Dio; rimaneva in loro l'esultanza piena dello spirito, e la fede si rinnovava nei loro cuori pensando a quello che avevano udito e veduto, com 'era stato loro detto. Dunque, il Bambino divino li aveva conquisi con la sua profonda umiliazione, e quelle fasce che lo avvolgevano nell'umile mangiatoia erano state per loro luce di verità per vedere in Lui il Salvatore del mondo.

Il modo di operare di Dio

È una cosa importantissima questa per considerare i modi di operare di Dio, tanto diversi dalle nostre abitudini e dai nostri pensieri. Dio opera per ciò che all'occhio umano appare più spregevole; si direbbe che la sua onnipotenza, avendo creato tutto dal nulla, cerchi quello che più si avvicina al nulla, per manifestarsi più splendidamente. Attraverso l'estrema umiliazione della grotta e della mangiatoia rifùlgeva la gloria del Verbo Incarnato nelle anime dei pastori, ed attraverso le fasce nelle quali era stretto, si manifestava loro la sua potenza; l'enorme sproporzione tra il mezzo di cui Dio si servì e l'effetto che produsse era già un argomento di verità per i pastori e lo è tuttora per noi.

Quante volte crediamo di riuscire nelle opere sante e miseramente falliamo, perché ci atteniamo ai mezzi umani! A volte constatiamo fino all'evidenza che, anche, nelle opere ordinarie di apostolato, fallisce tutto quello che ci sembra più brillante, ed ottiene l'effetto la parola più umile detta con pieno abbandono al Signore. A volte una sola interferenza della nostra natura o del nostro orgoglio può rovinare un disegno di grazia in un'anima, e può rendere vana l'attività delle più belle opere di bene!

I pastori vegliano il gregge ed appare loro l'angelo di Dio, annunziando la lieta novella della nascita del Redentore; così avviene anche ai pastori delle anime: la loro vigilanza nella preghiera e nello zelo li rende degni delle divine misericordie ed essi nella notte del mondo vedono Gesù nato nelle anime, per liberarle dal peccato e ricolmarle di pace.

Imitiamo i pastori nell'andare sollecitamente a Dio, appena ci chiama con le sue interne ispirazioni, e non frapponiamo indugi alla sua grazia. La prontezza nel rispondere alla sua voce ci fa trovare la via del cielo e ci fa raggiungere la meta che Egli assegna al nostro terreno pellegrinaggio. Chiamaci, o Gesù, perché ti seguiamo, e salvaci nella tua infinita misericordia!

Gli angeli cantarono: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà', sintetizzarono così in poche parole gli effetti della redenzione: dare a Dio una gloria infinita, e riconciliare con Lui le creature, le quali, avvolte ed elevate dalla divina benevolenza, avrebbero avuto pace con Dio e pace in loro.

Stando al testo greco, gli uomini di buona volontà sono quelli che sono oggetto della divina benevolenza, ossia che sono in grazia di Dio. È dunque vano aspettare la pace senza la grazia. Il mondo, anche dopo la redenzione, non trova pace, perché non è oggetto della divina benevolenza, rifuggendo da Dio col maledetto peccato. È necessario cooperare alla pace del cuore ed a quella del mondo conservando la divina grazia e fuggendo il peccato.

Più il mondo si carica di peccati e più si sconvolge; se oggi è diventato un cantiere di guerra, questo avviene perché è una bolgia di orribili peccati.

Potremmo dire senza esagerare che a ogni peccato corrisponde una novella arma per distruggere la pace, e che le moderne invenzioni di guerra, in fondo, sono come la rassegna delle nostre iniquità. Come s'inalbera l'orgoglio s'innalzano gli aeroplani distruttori e come si asfissia l'anima senza Dio, così si asfissia il corpo con le bombe. Quando lo scandalo rovina i cuori con le manifestazioni della falsa scienza e della falsa letteratura, irradiando la morte, sorge il raggio della morte la novella scoperta che paralizza, abbatte ed uccide a distanza. Per avere la pace non bastano le conferenze o i colpi di forza; occorre la sincera conversione a Dio degli individui e delle nazioni. È una verità innegabile. Gli uomini marciano verso la morte quando marciano verso la perdizione, e poiché i fanciulli oggi cadono spesso nei peccati degli adulti, eccoli anch'essi, benché mocciosi al mille per mille, col moschetto in spalla . Si può presentare come si vuole, con le roboanti parole dell'eroismo e della forza l'armamento delle nazioni; la verità vera è che esso è indice dei loro peccati e della loro degradazione morale. Mai si è parlato tanto di pace quanto oggi, e mai il mondo è stato un cantiere di guerra come oggi. Se non si dà gloria a Dio, come viene la pace? Sono due parole che non possono dividersi, e che gli angeli apposta cantarono insieme: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà.

Sac. Dolindo Ruotolo
 

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