2. Gesù istruisce i settantadue discepoli
Avvicinandosi il termine della sua missione, Gesù Cristo volle moltiplicare i ministri della sua parola per divulgarla in tutta la Palestina con maggiore sollecitudine, ed elesse settantadue discepoli, ai quali diede speciali facoltà. Essi non erano al medesimo grado degli apostoli, ma immediatamente inferiori, e poiché gli apostoli erano i primi vescovi del mondo, doti. La gerarchia così cominciò a formarsi sotto la direzione di Gesù stesso: Lui, capo di tutti, san Pietro capo degli apostoli e suo vicario per essi e per la Chiesa, i settantadue discepoli cooperatori immediati suoi e degli apostoli. Egli li mandò, infatti, in ogni città dove stava per andare, per preparare le anime alla sua venuta, e li dispose a questa missione con salutari precetti.
Prima di tutto ispirò loro la sollecitudine per le anime dicendo: La messe è molta e gli operai sono pochi. Essi erano pochi e le anime da curare moltissime, quasi messe che doveva raccogliersi; dovevano perciò avere una grande sollecitudine nel lavorare e non preoccuparsi delle loro comodità. Erano pochi, e perché Gesù non ne aveva eletti di più? Perché la vocazione e l'attitudine ad una missione soprannaturale sono frutto di grazie che non tutti accettano e, per riceverle e corrispondervi, bisogna pregare intensamente.
E il Signore che manda gli operai nella sua vigna, e Gesù stesso elesse gli apostoli ed i discepoli dopo lunghe preghiere al Padre. La preghiera è nelle nostre mani come la nostra onnipotenza, e Dio ce ne rende capaci e la richiede perché anche noi cooperiamo alle grandi opere del suo amore. Egli potrebbe formare anche dalle pietre i figli di Abramo, ma vuole che noi cooperiamo sia all'elezione di quelli che debbono essere ministri della loro formazione, sia alla loro salvezza. Questa grande legge di amore e di fecondità ci mostra quanto Dio ci ami, e quanto delicatamente rispetti la nostra libertà e la grande dignità che Egli ci ha dato.
Come agnelli fra i lupi
I discepoli eletti dovevano andare a predicare la divina Parola non solo per salvare le anime, ma anche per suscitare in esse i continuatori dell'opera loro; per ottenere questo dovevano pregare Dio a moltiplicare la vocazione dei suoi ministri futuri. La Chiesa, infatti, doveva essere tutta un campo di apostolato ed in Essa doveva esserci, più che nelle nazioni, il problema demografico spirituale, per così dire. Non si poteva in Essa fare un'opera santa e lasciarla come un frutto maturo; era necessario farla germinare e continuare, e quindi preoccuparsi di ottenere da Dio chi avesse potuto continuarla.
A che servirebbe seminare un campo e ricavarne il frutto senza la semente? Le anime conquistate alla fede sono i frutti della vigna di Dio, i sacerdoti ne sono come le sementi, poiché essi fanno germinare con l'aiuto di Dio continuamente le nuove piante.
La messe cresce non per la potenza dell'agricoltore, ma per la feracità che Dio ha dato alla terra; però, se l'agricoltore non la coltiva e non la raccoglie, essa marcisce; ora andare in nome di Dio a seminare la divina Parola nelle anime comportava anche il preoccuparsi di conservarne e moltiplicarne il frutto, e perciò Gesù, rivolgendosi non solo ai discepoli, ma alla Chiesa di tutti i secoli disse: Pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe.
Mandando Gesù i suoi discepoli, fece loro ponderare la difficoltà grande del loro ministero, dicendo: Andate, io vi mando come agnelli fra i lupi. Essi non andavano a fare una raccolta pacifica come chi con la falce taglia i covoni del grano: andavano di fronte ad anime colme di miserie ed agitate da passioni. Essi dovevano vincere le loro resistenze non affrontandole con la violenza ma conquidendole con la mansuetudine e la bontà.
E questo un carattere fondamentale e costante nell'apostolato della Chiesa; qualunque deviazione in questo campo produce solo rovina nelle anime.
E l'esperienza quotidiana che lo conferma, ed è mirabile che la Chiesa vi sia stata sempre fedele nei suoi grandi e santi ministri dell'apostolato e della gerarchia.
Le anime traviate hanno in sé veramente qualche cosa di feroce e di terribile, ed il rassomigliarle ai lupi è precisissimo: sono indomabili, avide, aggressive, prepotenti, violente e spesso hanno a loro disposizione i mezzi materiali per resistere anche a mano armata e per spingersi alle più violente aggressioni.
Così avvenne nella nazione ebraica, così in quelle pagane, quando cominciò a propagarsi il cristianesimo, e così nelle nazioni moderne più o meno apostate da Dio, e tante volte più barbare, feroci ed aggressive di quelle pagane.
La Chiesa non conosce per esse l'irruenza e la forza, anche a costo di apparire sopraffatta o vinta, anche a costo di alienarsi l'animo di quelli che amerebbero vedere in Lei i colpi di forza.
Essa contrasta diametralmente con le moderne generazioni, abituate dalla tenera età alla violenza; rimane fedele al precetto fondamentale e, diremmo, costituzionale del suo divino Fondatore, ed avanza sempre come agnella tra i lupi.
E poi, una gloria della Chiesa la pacata e solenne voce del Papa nei momenti più tragici internazionali, e la serena oggettività della diplomazia vaticana. Il mondo di fronte a Lei è certamente un lupo, ed un lupo rapace e sanguinario, ma è un fatto che alla fine rimane sempre vinto dalla mansueta e dignitosa calma della Chiesa.
Per i missionari, povertà, semplicità, fiducia nella provvidenza
Dopo aver determinato con una parola sinteticamente divina la natura della missione dei discepoli, e quindi della Chiesa, Gesù Cristo fa loro delle raccomandazioni riguardanti l'atteggiamento che dovevano avere nella scelta dei mezzi di azione. Egli esemplifica secondo la mentalità che avevano i discepoli, ed in fondo vuole che essi prescindano da tutto ciò che è prestigio umano o speranza nelle proprie forze: Non portate né sacca, né bisaccia, né calzari, e per la strada non salutate nessuno, cioè non andate in giro come mercanti o come viaggiatori di ventura, provvisti di bagaglio, né vi soffermate a chiacchierare con gli altri come chi va a diporto; andare poveramente, raccolti e silenziosi, come chi sa di andare a compiere una missione sacra.
I discepoli avevano ancora una semplicità primitiva, e Gesù dice loro, con esempi, di non portare nulla di superfluo, com'è evidente dal contesto, né oggetti di ricambio, affidandosi completamente alla provvidenza. È chiaro che essi potevano portare quello che avevano addosso come uso personale, e che potevano salutare per carità o per cortesia, senza attaccare ciarle inutili, quelli che avrebbero incontrati.
Se si mette a confronto il modo povero col quale i missionari cattolici intraprendono i loro viaggi e quello ricercato dei propagandisti settari, si capisce anche meglio il senso profondo delle esortazioni del Signore. Il missionario viaggia come un poverello e porta con sé il tesoro delle divine ricchezze. Gli altri viaggiano da gran signori e portano con sé il misero bagaglio dei loro errori e della loro avversione alla Chiesa. Viaggiano come turisti, portano con sé mogli e figli, ricercano tutte le comodità della vita; questo solo dovrebbe bastare a distinguerli dai veri messaggeri della verità e del Vangelo.
Gesù Cristo vuole che i suoi discepoli vadano come apportatori di pace e con un programma di bontà. Essi, infatti, vanno a salvare le anime, a riconciliarle con Dio ed a ridonare loro la pace della coscienza. Tutto il sacro ministero si risolve in una questione di pace ed il suo frutto è frutto di pace. Chi lo rifiuta, rifiuta la pace, e questa logicamente ritorna al banditore della verità, il quale può rimanere tranquillo di aver fatto il suo dovere, e contento di averne avuto il merito.
L'espressione di Gesù, un po' oscura in apparenza, è invece profondissima e psicologica: chi compie una missione naturale e col fine della gloria o del vantaggio temporale, cerca, logicamente, di riuscirvi, e si accora, o addirittura si dispera dell'insuccesso. Tutto quello che dà o tutto quello che compie è perduto quando non raggiunge il fine che si è proposto; egli allora, benché senza sua colpa, sa di meritare solo una nota di biasimo e si riguarda come un fallito.
Nel sacro ministero, invece, non è così: chi vi lavora, lo fa principalmente per la gloria di Dio, e conseguentemente per la salvezza delle anime. Il suo lavoro di pace diventa frutto salutare per quelle che ne profittano, e rimane in loro. Se esse non ne fanno conto e lo rifiutano, il lavoro non è perduto, perché rimane come merito in chi lo compie, e si può dire veramente che ritorna a lui. Egli non è un fallito né ha motivo di riguardarsi come un inutile ingombro nella casa di Dio: voleva principalmente lavorare per Lui, e l'ha glorificato; voleva obbedire al mandato avuto, e l'ha compiuto, per quanto stava in lui; voleva anche, legittimamente, guadagnarsi un merito per la vita eterna, e l'ha guadagnato; non gli rimane, dunque, che rimanere nella pace, pur accorandosi della ripulsa avuta dalle anime che avrebbe voluto salvare.
Il ministro della divina Parola, per conseguenza, deve avere sempre e costantemente il pensiero ed il desiderio di glorificare Dio nel suo apostolato, se non vuole perdere il tempo; né deve agitarsi dell'insuccesso pratico in certe anime, contentandosi di pregare intensamente per esse, affinché la misericordia di Dio le conquida e le salvi.
Le anime oppongono mille ostacoli e difficoltà alla loro salvezza, e l'illuminarle o rinnovarle è un problema veramente arduo, ed una lotta veramente epica. L'orgoglio le spinge a resistere all'invito della grazia, l'ignoranza ostinata o la mala fede le rende illogicamente resistenti; le fisime personali, e ne hanno tante, le rende a volte imprendibili. Se si parla loro quando sono prese da un impeto di passione, in qualunque campo, e soprattutto in quello dell'impurità o dell'ira, sono irriducibili, e giungono fino alla resistenza violenta; se si vuole indurre in loro il desiderio di un atto di perfezione, vi ripugnano in tutti i modi quando non coincide con le loro inclinazioni. Hanno a volte l'intelletto deviato da uno squilibrio e non ammettono ragioni, la volontà pietrificata in un'aspirazione falsa e non tollerano contraddizioni, il cuore impigliato in una rete d'inganni e non vogliono esserne districate; sono schiave e vogliono rimanere tali. Allora la premura per salvarle le urta, l'insistenza le adira, la bontà sembra loro peggiore dell'inimicizia, disprezzano tutto quello che si fa per loro e fuggono dalle vie della salvezza.
In questi combattimenti ardui, che sarebbero capaci di consumare l'anima ed il corpo di un ministro di Dio o di uno dedicato all'apostolato, la parola di Gesù è di sommo conforto: quello che si fa non si perde, anzi, nell'economia della grazia, ritorna a chi opera il bene; ritorna, nel più stretto senso, come esperienza, come spinta ad una maggiore vigilanza su di sé, come incitamento maggiore a pregare, a mortificarsi, a vincersi, ed anche a ritentare la prova; ritorna come un'attività più preparata per altre anime da evangelizzare.
Pellegrini di Dio, nell'apostolato
È impossibile fare l'apostolato ricercando i propri comodi, o portando con sé un bagaglio di abitudini e di fìsime personali, inconciliabili con la vita provvisoria, pellegrina e, diremmo, eminentemente e necessariamente elastica ed adattabile a tutto, che è propria di chi peregrina per fare il bene. Come è inconcepibile la vita di un soldato complicata da esigenze individuali, così, e molto più, è inconcepibile la vita di apostolato subordinata alle esigenze della propria natura. Perciò Gesù Cristo soggiunge: Rimanete nella medesima casa che vi ha ospitati, senza andare girando di casa in casa, come chi cerca diversivi, amicizie terrene o maggiori comodità, e mangiate e bevete quello che hanno, senza pretendere particolarità o cose peregrine, poiché l'operaio è degno della sua mercede. Dovunque vi accolgano, continua Gesù, mangiate quello che vi sarà messo davanti, e guarite gl'infermi che vi sono, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio.
Quanta profonda sapienza in queste parole, e come sono atte a produrre nella vita e nelle relazioni sociali di un
apostolo quel giusto equilibrio che non distrae le sue attività dalla missione che ha!
Chi è ospitato, infatti, può cadere in un doppio eccesso: o crede continuamente d'essere di fastidio, o pretende di essere riguardato come un principe.
Può eccedere nella cerimoniosità che infastidisce, o nella prepotenza che disgusta; può calcolare al centesimo quello che consuma, e può esigere tali riguardi speciali, da credere poco tutto quello che gli si fa. In generale, il cibo ricevuto gratuitamente sembra spesso insufficiente o poco gradito a chi è esigente, e sembra un bolo alimentare pesante un quintale a chi è pieno di sé, e vorrebbe piuttosto dare che ricevere, per ostentare indipendenza e superiorità.
La giusta regola è la santa semplicità accoppiata allo spirito di penitenza: chi lavora è degno di essere sostenuto da quelli per i quali lavora, e chi lavora per Dio riguarda come dono di Dio quello che riceve, senza troppo sottilizzare e senza troppo calcolare.
E parola di Gesù, e come tale è capace da sola di stroncare tutte le risorse che o l'orgoglio dissimulato da riguardo e generosità, o l'egoismo palliato da esigenza e necessità trovano per intralciare il lavoro fatto per la gloria di Dio.
Si lavora per il Signore con ilarità, con lo spirito di pellegrini e col cuore di penitenti; si prende con semplice umiltà quello che ci viene dato, e si ripaga con la generosità spirituale la generosità materiale. Gesù Cristo disse a modo di esempio due cose: Guarite gl'infermi, e dite: Si è avvicinato a voi il regno dì Dio, ossia fate del bene a chi soffre, e suggerite pensieri di spirituale felicità a chi tende al Signore; guarite le infermità delle anime bisognose di aiuto spirituale, e aiutate ad ascendere nella via della santità chi vi tende; ripagate spiritualmente quello che vi si dà corporalmente.
I discepoli avevano da Gesù il potere di guarire le infermità corporali, ed Egli, logicamente, li esorta a servirsene; anzi,
esortandoli, lo comunica loro per quella particolare missione; noi abbiamo il grande potere di impetrare grazie per chi ci fa del bene ed aiuta il nostro apostolato, e dobbiamo servircene. Se si pondera l'immensa superiorità di un beneficio spirituale, non si rimane più impacciati nel riceverne uno corporale per la gloria di Dio.
È evidente, poi, che Gesù parla dell'ospitalità che si riceve da estranei, e non di quella che troviamo tra fratelli; quelli che appartengono ad una stessa famiglia spirituale, debbono sentirsi in casa loro quando sono ricevuti in una delle case del proprio ordine religioso; sempre però con lo spirito di semplicità e di mortificazione che non complica la propria vita in inutili impacci o di cerimonie o di esigenze esagerate.
Con chi rifiuta la parola della verità, come regolarsi
Gesù Cristo prevenne i suoi discepoli sul modo come regolarsi con le città che non li avessero ricevuti, ed anche in questa esortazione li tenne nel giusto equilibrio. Essi avrebbero potuto o mostrarsi indifferenti alla ripulsa, quasi che non si fossero curati della salvezza delle anime, o tanto contrariati da invocare contro di esse i castighi del Signore; Gesù li esorta invece a rendere testimonianza pubblicamente del loro dolore, per tentare, almeno così, di eccitarle al pentimento, e di mostrare che con la loro ripulsa si esponevano ai più gravi castighi. Dovevano scuotere anche la polvere delle città infedeli attaccatasi ai loro piedi, non per invocare su di esse un castigo, ma per rendere testimonianza che essi le avevano evangelizzate; e perciò Gesù soggiunge che dovevano annunziare ancora una volta la verità nel partirsene, pensando che quelle città nel gran giorno del giudizio, sarebbero state trattate più duramente di Sodoma.
Un apostolo non può rimanere indifferente verso chi rifiuta la Parola di Dio, e non vuole convertirsi; deve mostrare il proprio dolore ed insistere fino all'ultimo, pur non potendo,
evidentemente, insistere tanto da forzarlo. Se è ricacciato se ne va, ma protestando, e gli dice un'ultima parola di bene per poterne vincere l'ostinazione; poi tace e rimette tutto alla preghiera.
Gesù Cristo mostra col suo esempio il dolore che gli cagionano le città da Lui predilette, infedeli alla sua misericordia, ed apostrofa con immensa pena Corazin, Betsaida e Cafarnao, predicendo il giudizio severo che avrebbero avuto e la loro totale rovina; poi per suggellare in modo divinamente autorevole la missione dei discepoli e quella dei loro successori, e per significare il perché le città che li avessero ricacciati sarebbero state punite, esclama: Chi ascolta voi ascolta me e, chi disprezza voi disprezza me; chi poi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato.
Rifiutare quindi il sacerdote, significa rifiutare Gesù stesso e rifiutare Gesù significa rifiutare Dio. È un monito severo non solo a tutti gli uomini, ma anche alle famose civiltà: quando una nazione disprezza la Chiesa, in un modo od in un altro, finisce sempre per disprezzare il Redentore, e quando disprezza il Redentore cade nell'ateismo teoretico o pratico e va alla rovina.
Le parole terribili di Gesù contro Corazin, Betsaida e Cafarnao si applicano con la stessa ragione contro le moderne città che furono cristiane e sono apostate, eretiche o paganeggianti.
Oggi le nazioni sono invasate da una vera manìa di grandezza, e pretendono sollevarsi fino al cielo con le prepotenze e le rapine, prescindendo da ogni legge di moralità o di giustizia, ma, a somiglianza di Cafarnao, saranno depresse sino all'inferno, cioè nelle più gravi umiliazioni e sciagure.
L'umanità si persuaderà con la propria triste esperienza che non si può impunemente prescindere dalla Chiesa, dal Redentore e da Dio, e vedrà passare l'aratro sulle grandi città di oggi, come ora v'è passato sulle tre città di Corazin, Betsaida e Cafarnao, delle quali nulla più rimane.
Avvicinandosi il termine della sua missione, Gesù Cristo volle moltiplicare i ministri della sua parola per divulgarla in tutta la Palestina con maggiore sollecitudine, ed elesse settantadue discepoli, ai quali diede speciali facoltà. Essi non erano al medesimo grado degli apostoli, ma immediatamente inferiori, e poiché gli apostoli erano i primi vescovi del mondo, doti. La gerarchia così cominciò a formarsi sotto la direzione di Gesù stesso: Lui, capo di tutti, san Pietro capo degli apostoli e suo vicario per essi e per la Chiesa, i settantadue discepoli cooperatori immediati suoi e degli apostoli. Egli li mandò, infatti, in ogni città dove stava per andare, per preparare le anime alla sua venuta, e li dispose a questa missione con salutari precetti.
Prima di tutto ispirò loro la sollecitudine per le anime dicendo: La messe è molta e gli operai sono pochi. Essi erano pochi e le anime da curare moltissime, quasi messe che doveva raccogliersi; dovevano perciò avere una grande sollecitudine nel lavorare e non preoccuparsi delle loro comodità. Erano pochi, e perché Gesù non ne aveva eletti di più? Perché la vocazione e l'attitudine ad una missione soprannaturale sono frutto di grazie che non tutti accettano e, per riceverle e corrispondervi, bisogna pregare intensamente.
E il Signore che manda gli operai nella sua vigna, e Gesù stesso elesse gli apostoli ed i discepoli dopo lunghe preghiere al Padre. La preghiera è nelle nostre mani come la nostra onnipotenza, e Dio ce ne rende capaci e la richiede perché anche noi cooperiamo alle grandi opere del suo amore. Egli potrebbe formare anche dalle pietre i figli di Abramo, ma vuole che noi cooperiamo sia all'elezione di quelli che debbono essere ministri della loro formazione, sia alla loro salvezza. Questa grande legge di amore e di fecondità ci mostra quanto Dio ci ami, e quanto delicatamente rispetti la nostra libertà e la grande dignità che Egli ci ha dato.
Come agnelli fra i lupi
I discepoli eletti dovevano andare a predicare la divina Parola non solo per salvare le anime, ma anche per suscitare in esse i continuatori dell'opera loro; per ottenere questo dovevano pregare Dio a moltiplicare la vocazione dei suoi ministri futuri. La Chiesa, infatti, doveva essere tutta un campo di apostolato ed in Essa doveva esserci, più che nelle nazioni, il problema demografico spirituale, per così dire. Non si poteva in Essa fare un'opera santa e lasciarla come un frutto maturo; era necessario farla germinare e continuare, e quindi preoccuparsi di ottenere da Dio chi avesse potuto continuarla.
A che servirebbe seminare un campo e ricavarne il frutto senza la semente? Le anime conquistate alla fede sono i frutti della vigna di Dio, i sacerdoti ne sono come le sementi, poiché essi fanno germinare con l'aiuto di Dio continuamente le nuove piante.
La messe cresce non per la potenza dell'agricoltore, ma per la feracità che Dio ha dato alla terra; però, se l'agricoltore non la coltiva e non la raccoglie, essa marcisce; ora andare in nome di Dio a seminare la divina Parola nelle anime comportava anche il preoccuparsi di conservarne e moltiplicarne il frutto, e perciò Gesù, rivolgendosi non solo ai discepoli, ma alla Chiesa di tutti i secoli disse: Pregate il padrone della messe che mandi operai per la sua messe.
Mandando Gesù i suoi discepoli, fece loro ponderare la difficoltà grande del loro ministero, dicendo: Andate, io vi mando come agnelli fra i lupi. Essi non andavano a fare una raccolta pacifica come chi con la falce taglia i covoni del grano: andavano di fronte ad anime colme di miserie ed agitate da passioni. Essi dovevano vincere le loro resistenze non affrontandole con la violenza ma conquidendole con la mansuetudine e la bontà.
E questo un carattere fondamentale e costante nell'apostolato della Chiesa; qualunque deviazione in questo campo produce solo rovina nelle anime.
E l'esperienza quotidiana che lo conferma, ed è mirabile che la Chiesa vi sia stata sempre fedele nei suoi grandi e santi ministri dell'apostolato e della gerarchia.
Le anime traviate hanno in sé veramente qualche cosa di feroce e di terribile, ed il rassomigliarle ai lupi è precisissimo: sono indomabili, avide, aggressive, prepotenti, violente e spesso hanno a loro disposizione i mezzi materiali per resistere anche a mano armata e per spingersi alle più violente aggressioni.
Così avvenne nella nazione ebraica, così in quelle pagane, quando cominciò a propagarsi il cristianesimo, e così nelle nazioni moderne più o meno apostate da Dio, e tante volte più barbare, feroci ed aggressive di quelle pagane.
La Chiesa non conosce per esse l'irruenza e la forza, anche a costo di apparire sopraffatta o vinta, anche a costo di alienarsi l'animo di quelli che amerebbero vedere in Lei i colpi di forza.
Essa contrasta diametralmente con le moderne generazioni, abituate dalla tenera età alla violenza; rimane fedele al precetto fondamentale e, diremmo, costituzionale del suo divino Fondatore, ed avanza sempre come agnella tra i lupi.
E poi, una gloria della Chiesa la pacata e solenne voce del Papa nei momenti più tragici internazionali, e la serena oggettività della diplomazia vaticana. Il mondo di fronte a Lei è certamente un lupo, ed un lupo rapace e sanguinario, ma è un fatto che alla fine rimane sempre vinto dalla mansueta e dignitosa calma della Chiesa.
Per i missionari, povertà, semplicità, fiducia nella provvidenza
Dopo aver determinato con una parola sinteticamente divina la natura della missione dei discepoli, e quindi della Chiesa, Gesù Cristo fa loro delle raccomandazioni riguardanti l'atteggiamento che dovevano avere nella scelta dei mezzi di azione. Egli esemplifica secondo la mentalità che avevano i discepoli, ed in fondo vuole che essi prescindano da tutto ciò che è prestigio umano o speranza nelle proprie forze: Non portate né sacca, né bisaccia, né calzari, e per la strada non salutate nessuno, cioè non andate in giro come mercanti o come viaggiatori di ventura, provvisti di bagaglio, né vi soffermate a chiacchierare con gli altri come chi va a diporto; andare poveramente, raccolti e silenziosi, come chi sa di andare a compiere una missione sacra.
I discepoli avevano ancora una semplicità primitiva, e Gesù dice loro, con esempi, di non portare nulla di superfluo, com'è evidente dal contesto, né oggetti di ricambio, affidandosi completamente alla provvidenza. È chiaro che essi potevano portare quello che avevano addosso come uso personale, e che potevano salutare per carità o per cortesia, senza attaccare ciarle inutili, quelli che avrebbero incontrati.
Se si mette a confronto il modo povero col quale i missionari cattolici intraprendono i loro viaggi e quello ricercato dei propagandisti settari, si capisce anche meglio il senso profondo delle esortazioni del Signore. Il missionario viaggia come un poverello e porta con sé il tesoro delle divine ricchezze. Gli altri viaggiano da gran signori e portano con sé il misero bagaglio dei loro errori e della loro avversione alla Chiesa. Viaggiano come turisti, portano con sé mogli e figli, ricercano tutte le comodità della vita; questo solo dovrebbe bastare a distinguerli dai veri messaggeri della verità e del Vangelo.
Gesù Cristo vuole che i suoi discepoli vadano come apportatori di pace e con un programma di bontà. Essi, infatti, vanno a salvare le anime, a riconciliarle con Dio ed a ridonare loro la pace della coscienza. Tutto il sacro ministero si risolve in una questione di pace ed il suo frutto è frutto di pace. Chi lo rifiuta, rifiuta la pace, e questa logicamente ritorna al banditore della verità, il quale può rimanere tranquillo di aver fatto il suo dovere, e contento di averne avuto il merito.
L'espressione di Gesù, un po' oscura in apparenza, è invece profondissima e psicologica: chi compie una missione naturale e col fine della gloria o del vantaggio temporale, cerca, logicamente, di riuscirvi, e si accora, o addirittura si dispera dell'insuccesso. Tutto quello che dà o tutto quello che compie è perduto quando non raggiunge il fine che si è proposto; egli allora, benché senza sua colpa, sa di meritare solo una nota di biasimo e si riguarda come un fallito.
Nel sacro ministero, invece, non è così: chi vi lavora, lo fa principalmente per la gloria di Dio, e conseguentemente per la salvezza delle anime. Il suo lavoro di pace diventa frutto salutare per quelle che ne profittano, e rimane in loro. Se esse non ne fanno conto e lo rifiutano, il lavoro non è perduto, perché rimane come merito in chi lo compie, e si può dire veramente che ritorna a lui. Egli non è un fallito né ha motivo di riguardarsi come un inutile ingombro nella casa di Dio: voleva principalmente lavorare per Lui, e l'ha glorificato; voleva obbedire al mandato avuto, e l'ha compiuto, per quanto stava in lui; voleva anche, legittimamente, guadagnarsi un merito per la vita eterna, e l'ha guadagnato; non gli rimane, dunque, che rimanere nella pace, pur accorandosi della ripulsa avuta dalle anime che avrebbe voluto salvare.
Il ministro della divina Parola, per conseguenza, deve avere sempre e costantemente il pensiero ed il desiderio di glorificare Dio nel suo apostolato, se non vuole perdere il tempo; né deve agitarsi dell'insuccesso pratico in certe anime, contentandosi di pregare intensamente per esse, affinché la misericordia di Dio le conquida e le salvi.
Le anime oppongono mille ostacoli e difficoltà alla loro salvezza, e l'illuminarle o rinnovarle è un problema veramente arduo, ed una lotta veramente epica. L'orgoglio le spinge a resistere all'invito della grazia, l'ignoranza ostinata o la mala fede le rende illogicamente resistenti; le fisime personali, e ne hanno tante, le rende a volte imprendibili. Se si parla loro quando sono prese da un impeto di passione, in qualunque campo, e soprattutto in quello dell'impurità o dell'ira, sono irriducibili, e giungono fino alla resistenza violenta; se si vuole indurre in loro il desiderio di un atto di perfezione, vi ripugnano in tutti i modi quando non coincide con le loro inclinazioni. Hanno a volte l'intelletto deviato da uno squilibrio e non ammettono ragioni, la volontà pietrificata in un'aspirazione falsa e non tollerano contraddizioni, il cuore impigliato in una rete d'inganni e non vogliono esserne districate; sono schiave e vogliono rimanere tali. Allora la premura per salvarle le urta, l'insistenza le adira, la bontà sembra loro peggiore dell'inimicizia, disprezzano tutto quello che si fa per loro e fuggono dalle vie della salvezza.
In questi combattimenti ardui, che sarebbero capaci di consumare l'anima ed il corpo di un ministro di Dio o di uno dedicato all'apostolato, la parola di Gesù è di sommo conforto: quello che si fa non si perde, anzi, nell'economia della grazia, ritorna a chi opera il bene; ritorna, nel più stretto senso, come esperienza, come spinta ad una maggiore vigilanza su di sé, come incitamento maggiore a pregare, a mortificarsi, a vincersi, ed anche a ritentare la prova; ritorna come un'attività più preparata per altre anime da evangelizzare.
Pellegrini di Dio, nell'apostolato
È impossibile fare l'apostolato ricercando i propri comodi, o portando con sé un bagaglio di abitudini e di fìsime personali, inconciliabili con la vita provvisoria, pellegrina e, diremmo, eminentemente e necessariamente elastica ed adattabile a tutto, che è propria di chi peregrina per fare il bene. Come è inconcepibile la vita di un soldato complicata da esigenze individuali, così, e molto più, è inconcepibile la vita di apostolato subordinata alle esigenze della propria natura. Perciò Gesù Cristo soggiunge: Rimanete nella medesima casa che vi ha ospitati, senza andare girando di casa in casa, come chi cerca diversivi, amicizie terrene o maggiori comodità, e mangiate e bevete quello che hanno, senza pretendere particolarità o cose peregrine, poiché l'operaio è degno della sua mercede. Dovunque vi accolgano, continua Gesù, mangiate quello che vi sarà messo davanti, e guarite gl'infermi che vi sono, e dite loro: Si è avvicinato a voi il regno di Dio.
Quanta profonda sapienza in queste parole, e come sono atte a produrre nella vita e nelle relazioni sociali di un
apostolo quel giusto equilibrio che non distrae le sue attività dalla missione che ha!
Chi è ospitato, infatti, può cadere in un doppio eccesso: o crede continuamente d'essere di fastidio, o pretende di essere riguardato come un principe.
Può eccedere nella cerimoniosità che infastidisce, o nella prepotenza che disgusta; può calcolare al centesimo quello che consuma, e può esigere tali riguardi speciali, da credere poco tutto quello che gli si fa. In generale, il cibo ricevuto gratuitamente sembra spesso insufficiente o poco gradito a chi è esigente, e sembra un bolo alimentare pesante un quintale a chi è pieno di sé, e vorrebbe piuttosto dare che ricevere, per ostentare indipendenza e superiorità.
La giusta regola è la santa semplicità accoppiata allo spirito di penitenza: chi lavora è degno di essere sostenuto da quelli per i quali lavora, e chi lavora per Dio riguarda come dono di Dio quello che riceve, senza troppo sottilizzare e senza troppo calcolare.
E parola di Gesù, e come tale è capace da sola di stroncare tutte le risorse che o l'orgoglio dissimulato da riguardo e generosità, o l'egoismo palliato da esigenza e necessità trovano per intralciare il lavoro fatto per la gloria di Dio.
Si lavora per il Signore con ilarità, con lo spirito di pellegrini e col cuore di penitenti; si prende con semplice umiltà quello che ci viene dato, e si ripaga con la generosità spirituale la generosità materiale. Gesù Cristo disse a modo di esempio due cose: Guarite gl'infermi, e dite: Si è avvicinato a voi il regno dì Dio, ossia fate del bene a chi soffre, e suggerite pensieri di spirituale felicità a chi tende al Signore; guarite le infermità delle anime bisognose di aiuto spirituale, e aiutate ad ascendere nella via della santità chi vi tende; ripagate spiritualmente quello che vi si dà corporalmente.
I discepoli avevano da Gesù il potere di guarire le infermità corporali, ed Egli, logicamente, li esorta a servirsene; anzi,
esortandoli, lo comunica loro per quella particolare missione; noi abbiamo il grande potere di impetrare grazie per chi ci fa del bene ed aiuta il nostro apostolato, e dobbiamo servircene. Se si pondera l'immensa superiorità di un beneficio spirituale, non si rimane più impacciati nel riceverne uno corporale per la gloria di Dio.
È evidente, poi, che Gesù parla dell'ospitalità che si riceve da estranei, e non di quella che troviamo tra fratelli; quelli che appartengono ad una stessa famiglia spirituale, debbono sentirsi in casa loro quando sono ricevuti in una delle case del proprio ordine religioso; sempre però con lo spirito di semplicità e di mortificazione che non complica la propria vita in inutili impacci o di cerimonie o di esigenze esagerate.
Con chi rifiuta la parola della verità, come regolarsi
Gesù Cristo prevenne i suoi discepoli sul modo come regolarsi con le città che non li avessero ricevuti, ed anche in questa esortazione li tenne nel giusto equilibrio. Essi avrebbero potuto o mostrarsi indifferenti alla ripulsa, quasi che non si fossero curati della salvezza delle anime, o tanto contrariati da invocare contro di esse i castighi del Signore; Gesù li esorta invece a rendere testimonianza pubblicamente del loro dolore, per tentare, almeno così, di eccitarle al pentimento, e di mostrare che con la loro ripulsa si esponevano ai più gravi castighi. Dovevano scuotere anche la polvere delle città infedeli attaccatasi ai loro piedi, non per invocare su di esse un castigo, ma per rendere testimonianza che essi le avevano evangelizzate; e perciò Gesù soggiunge che dovevano annunziare ancora una volta la verità nel partirsene, pensando che quelle città nel gran giorno del giudizio, sarebbero state trattate più duramente di Sodoma.
Un apostolo non può rimanere indifferente verso chi rifiuta la Parola di Dio, e non vuole convertirsi; deve mostrare il proprio dolore ed insistere fino all'ultimo, pur non potendo,
evidentemente, insistere tanto da forzarlo. Se è ricacciato se ne va, ma protestando, e gli dice un'ultima parola di bene per poterne vincere l'ostinazione; poi tace e rimette tutto alla preghiera.
Gesù Cristo mostra col suo esempio il dolore che gli cagionano le città da Lui predilette, infedeli alla sua misericordia, ed apostrofa con immensa pena Corazin, Betsaida e Cafarnao, predicendo il giudizio severo che avrebbero avuto e la loro totale rovina; poi per suggellare in modo divinamente autorevole la missione dei discepoli e quella dei loro successori, e per significare il perché le città che li avessero ricacciati sarebbero state punite, esclama: Chi ascolta voi ascolta me e, chi disprezza voi disprezza me; chi poi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato.
Rifiutare quindi il sacerdote, significa rifiutare Gesù stesso e rifiutare Gesù significa rifiutare Dio. È un monito severo non solo a tutti gli uomini, ma anche alle famose civiltà: quando una nazione disprezza la Chiesa, in un modo od in un altro, finisce sempre per disprezzare il Redentore, e quando disprezza il Redentore cade nell'ateismo teoretico o pratico e va alla rovina.
Le parole terribili di Gesù contro Corazin, Betsaida e Cafarnao si applicano con la stessa ragione contro le moderne città che furono cristiane e sono apostate, eretiche o paganeggianti.
Oggi le nazioni sono invasate da una vera manìa di grandezza, e pretendono sollevarsi fino al cielo con le prepotenze e le rapine, prescindendo da ogni legge di moralità o di giustizia, ma, a somiglianza di Cafarnao, saranno depresse sino all'inferno, cioè nelle più gravi umiliazioni e sciagure.
L'umanità si persuaderà con la propria triste esperienza che non si può impunemente prescindere dalla Chiesa, dal Redentore e da Dio, e vedrà passare l'aratro sulle grandi città di oggi, come ora v'è passato sulle tre città di Corazin, Betsaida e Cafarnao, delle quali nulla più rimane.
Sac. Dolido Ruotolo
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