6. La predicazione di Gesù in Galilea
Gesù Cristo, dopo aver vinto la tentazione di satana, cominciò il suo ministero nella Giudea, come dice san Giovanni (2, 3 e 4), e vi fece parecchi prodigi, dei quali furono testimoni alcuni Galilei. Poi, spinto dallo Spirito Santo, andò in Galilea, dove già s'era sparsa la fama dei suoi miracoli e della sua Parola, di modo che cominciò intorno a Lui un concorso grande di popolo che lo seguiva per ascoltarlo nelle sinagoghe dov'Egli insegnava, e lo acclamava. L'acclamazione del popolo ci fa intendere che la divina Parola penetrava il cuore di tutti con fascino straordinario.
Percorrendo le città della Galilea, Gesù andò anche a Nazaret, dov'era stato allevato e che amava come sua patria, e si recò nella sinagoga il sabato per leggervi la Scrittura ed insegnare. Era uso, infatti, nei sabati, di leggere nelle sinagoghe qualche tratto della Legge o dei Profeti, per poi spiegarlo al popolo. Quando era presente nell'adunanza una persona autorevole, si dava ad essa l'incarico di leggere, e le si consegnava il libro, cioè il rotolo di pergamena avvolto intorno ad un asse di legno, sul quale era scritta, da un lato solo, la Parola di Dio, affinché avesse scelto il testo. Chi leggeva rimaneva in piedi per rispetto, e dopo, ripiegato il rotolo, cominciava il suo discorso.
Tratto dalla monumentale opera di dottrina esegetica di ben 30 volumi. Il frutto che si ricava da tale lettura è una maturazione profonda nella fede, una percezione della verità della Parola negli eventi del nostro tempo, una aspirazione santa alle promesse contenute nella Rivelazione.
domenica 24 gennaio 2016
sabato 16 gennaio 2016
17.01.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 2 par. 1
2. Il primo miracolo di Gesù in Cana di Galilea
Da Betania della Perèa, dove aveva chiamato i primi cinque discepoli, Gesù si diresse a Cana di Galilea, identificata oggi col villaggio di Kefir Kenna. La distanza era di circa 90 chilometri, e fu percorsa in tre giorni da Lui insieme ai discepoli. Questa circostanza ci fa capire che camminavano a passo svelto, e per vie campestri, dove il poco concorso rendeva più facile il viaggio. Anche oggi, entrando nel villaggio, vi si vede una fontana ricca di acque, alla quale dovette essere attinta l'acqua del miracolo. La contrada è fertile, ricca di siepi verdeggianti formate di cactus spinoso, con vigne lussureggianti che producono un buon vino rosso.
A Cana si trovava già Maria Santissima, la Madre divina di Gesù, occupata ad aiutare alcuni suoi conoscenti o parenti nella celebrazione della loro festa nuziale. Questa circostanza ci fa intendere la carità di Maria Santissima che, come andò per aiutare sant'Elisabetta appena la seppe incinta, non esitò a recarsi a Cana per le feste nuziali, che ordinariamente duravano più giorni.
La dolcissima Madre si occupò con grande carità della preparazione del banchetto, come appare dal fatto che per prima s'accorse che era venuto meno il vino. Nella sua immacolata modestia Essa dovette esserne l'organizzatrice, perché sapientissima, e placidamente sapeva disporre le cose in un modo perfetto. La veste inconsutile di Gesù che si conserva ancora in Francia ad Argenteil, tessuta dalle sue mani, rivela la sua abilità nel lavoro, e l'accuratezza che vi metteva.
Da Betania della Perèa, dove aveva chiamato i primi cinque discepoli, Gesù si diresse a Cana di Galilea, identificata oggi col villaggio di Kefir Kenna. La distanza era di circa 90 chilometri, e fu percorsa in tre giorni da Lui insieme ai discepoli. Questa circostanza ci fa capire che camminavano a passo svelto, e per vie campestri, dove il poco concorso rendeva più facile il viaggio. Anche oggi, entrando nel villaggio, vi si vede una fontana ricca di acque, alla quale dovette essere attinta l'acqua del miracolo. La contrada è fertile, ricca di siepi verdeggianti formate di cactus spinoso, con vigne lussureggianti che producono un buon vino rosso.
A Cana si trovava già Maria Santissima, la Madre divina di Gesù, occupata ad aiutare alcuni suoi conoscenti o parenti nella celebrazione della loro festa nuziale. Questa circostanza ci fa intendere la carità di Maria Santissima che, come andò per aiutare sant'Elisabetta appena la seppe incinta, non esitò a recarsi a Cana per le feste nuziali, che ordinariamente duravano più giorni.
La dolcissima Madre si occupò con grande carità della preparazione del banchetto, come appare dal fatto che per prima s'accorse che era venuto meno il vino. Nella sua immacolata modestia Essa dovette esserne l'organizzatrice, perché sapientissima, e placidamente sapeva disporre le cose in un modo perfetto. La veste inconsutile di Gesù che si conserva ancora in Francia ad Argenteil, tessuta dalle sue mani, rivela la sua abilità nel lavoro, e l'accuratezza che vi metteva.
sabato 9 gennaio 2016
09.01.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 3 par. 4
4. Giovanni rende testimonianza a Gesù
La vita del Battista rappresentava per il popolo un prodigio e, benché egli non facesse mai alcun miracolo, molti pensarono che fosse il Cristo, l'atteso Redentore.
Questo sospetto, lungi dal rappresentare una lusinga per Giovanni, fu per lui una pena, e perciò si affrettò con tutte le sue forze a dissipare l'equivoco, stabilendo nei termini precisi la verità.
Egli battezzava con l'acqua, cioè con un semplice simbolo di penitenza e di umiliazione, mentre il Redentore, più forte di lui perché Dio ed al quale si dichiarava indegno di sciogliere i legacci dei calzari, avrebbe battezzato effondendo la grazia dello Spirito Santo ed il fuoco dell'amore; il suo battesimo sarebbe stato perciò una vera rigenerazione.
Egli minacciava magari i castighi di Dio, ma non aveva alcun potere sulle anime, il Redentore invece avrebbe avuto il ventilabro nella sua mano, cioè sarebbe stato giudice delle anime, avrebbe purificato il suo popolo, ed avrebbe salvato i giusti e condannato i reprobi come inutile paglia, nel fuoco eterno dell'inferno. Non si poteva dunque scambiare il simbolo per la realtà, né il servo per il padrone.
La vita del Battista rappresentava per il popolo un prodigio e, benché egli non facesse mai alcun miracolo, molti pensarono che fosse il Cristo, l'atteso Redentore.
Questo sospetto, lungi dal rappresentare una lusinga per Giovanni, fu per lui una pena, e perciò si affrettò con tutte le sue forze a dissipare l'equivoco, stabilendo nei termini precisi la verità.
Egli battezzava con l'acqua, cioè con un semplice simbolo di penitenza e di umiliazione, mentre il Redentore, più forte di lui perché Dio ed al quale si dichiarava indegno di sciogliere i legacci dei calzari, avrebbe battezzato effondendo la grazia dello Spirito Santo ed il fuoco dell'amore; il suo battesimo sarebbe stato perciò una vera rigenerazione.
Egli minacciava magari i castighi di Dio, ma non aveva alcun potere sulle anime, il Redentore invece avrebbe avuto il ventilabro nella sua mano, cioè sarebbe stato giudice delle anime, avrebbe purificato il suo popolo, ed avrebbe salvato i giusti e condannato i reprobi come inutile paglia, nel fuoco eterno dell'inferno. Non si poteva dunque scambiare il simbolo per la realtà, né il servo per il padrone.
mercoledì 6 gennaio 2016
06.01.2016 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 2 par. 2
2. I Magi, il loro viaggio a Gerusalemme, l'adorazione del nato Redentore
Quando nacque Gesù Cristo regnava nella Giudea Erode, chiamato il grande, si direbbe per una storica ironia, giacché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, ed ottenne il regno a furia d'intrighi col senato romano. L'evangelista fa notare a bella posta che regnava Erode, un Idumeo straniero, che rappresentava per di più l'autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (Gen 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell'Erode, tetrarca della Galilea, che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte infatti il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.
Gesù Cristo nacque in Betlem di Giuda, chiamata pure Efrata, piccola borgata situata a circa due ore di cammino a sud di Gerusalemme. Vi era un'altra Betlem situata nella tribù di Zàbulon in Galilea, e l'evangelista aggiunge al nome della città la regione cui apparteneva, per mostrare che il Redentore era nato nella città di Davide come suo discendente, ed aveva compiuto con la sua nascita la profezia di Michea, ricordata ad Erode stesso dai principi dei sacerdoti.
Non può dirsi con precisione da quanto tempo era nato il Redentore, quando alcuni sapienti dell'Oriente, chiamati perciò con parola generica Magi, vennero a Gerusalemme per adorare il nato Re, essendo stati chiamati alla sua culla da un astro fulgentissimo, che era apparso nel cielo.
Questi Magi studiavano astrologia, e non ignoravano la profezia di Balaam (Nm 24,17), con la quale si annunziava l'apparizione di una novella stella in Giacobbe alla nascita del promesso Messia. All'apparizione della stella, che era come una meteora luminosa, si sentirono internamente ispirati ad andare a Gerusalemme per far ricerca del nato Re, ed intrapresero il lungo viaggio. Essi venivano probabilmente dall'Arabia e, secondo la comune tradizione, erano tre, sapienti e principi, tenuti in grande considerazione nel loro paese. La stella quasi li invitava al viaggio, giacché si librava nell'atmosfera come un segno che indicava la direzione del cammino da intraprendere, e mostrava di muoversi in quella direzione. Non era dunque un astro che aveva un moto circolare, non poteva essere un'illusione, non poteva essere un segno confondibile con un fenomeno sidereo qualunque, era un segno celeste, una chiamata di Dio.
La fede dei Magi fu grande, giacché il viaggio non era facile, e fu grande soprannaturalmente, giacché essi non avrebbero avuto interesse ad andare a conoscere un neonato re, se non avessero sentito e creduto che quel Re era il Salvatore promesso. Era la primizia dei pagani che il Signore chiamava alla fede, come dice la Chiesa, era la rappresentanza del mondo che veniva a rendere omaggio all'Uomo Dio, e veniva a scuotere un poco l'indifferenza con la quale era stato ricevuto nella terra che pur lo aveva aspettato.
E evidente dalla tradizione e dal medesimo contesto del Vangelo, che la stella li accompagnò durante il viaggio, e che si eclissò forse quando entrarono nella terra d'Israele.
Dio che è infinita economia e non fa opere superflue, fece eclissare il segno straordinario dove era possibile essere guidati dai lumi naturali di chi stava al pubblico potere. Potrebbe anche supporsi che le nubi avessero eclissato la meteora e che essa rimanesse solo occultata nell'atmosfera. Checché ne sia, i Magi, non sapendo dove andare, si rivolsero al re Erode, come a colui che avrebbe dovuto essere informato della nascita dell'atteso Messia. Con la semplicità che caratterizzava i popoli orientali, essi domandarono dove fosse nato il re dei Giudei, avendo veduto la sua stella in Oriente. Erode, che tanti delitti aveva consumato per avere e conservare il regno, fu costernato a questa novella, perché sapeva benissimo che gli Ebrei aspettavano un liberatore, e che da tutti si diceva prossimo l'evento. Dissimulò pertanto il suo turbamento, e già nel suo crudele animo fece il piano di sbarazzarsi del nato Re uccidendolo. Chiamò i capi delle classi sacerdotali e i dottori della Legge, e domandò loro con insistenza dove sarebbe dovuto nascere il Cristo. La sua domanda suscitò un turbamento in tutta Gerusalemme, giacché la carovana degli stranieri che vi erano giunti, l'annunzio del compimento delle promesse, e forse soprattutto il timore della crudeltà del tiranno, sconvolto dall'annunzio della nascita del re aspettato, faceva temere al popolo qualche brutta sorpresa. L'ingratitudine umana poi non ha limiti, dolorosamente; il popolo si era adattato al regime di oppressione e, come tutti i popoli decaduti, preferiva rimanere supinamente oppresso, anziché venire in urto con chi lo dominava.
Il Vangelo dice espressamente che Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme-, non fu dunque un movimento di commozione per l'annunzio del nato Re, ma un timore grande di novelle oppressioni da parte del tiranno, e di complicazioni penose che rese il popolo solidale col perfido monarca.
Il prestigio dei Magi non doveva essere indifferente, se Erode prese in tanta considerazione la loro domanda, e la stimò così vera, da radunare il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, per sapere da loro la risposta che avrebbe dovuto dare. Si sapeva che le profezie riguardanti il Redentore erano determinate, e questo non poteva ignorarlo lo stesso Erode; non era dunque difficile rispondere ai Magi facendo capo alle Scritture. Il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, infatti, fu unanime nell'affermare che il Redentore doveva nascere in Betlemme di Giuda, secondo la profezia di Michea.
L'evangelista non cita letteralmente la profezia, ma il senso che dà è preciso. Michea dice che Betlem è piccola fra le mille città di Giuda, ma, nascendo da essa il Redentore, è grande; san Matteo dice nel medesimo senso che essa non è la minima tra le città principali di Giuda, perché da essa esce il condottiero che deve reggere il popolo d'Israele.
Avuta la risposta, Erode chiamò a sé i Magi segretamente, perché volle evitare che il popolo li accompagnasse e andasse al nato Messia, e s'informò minutamente del tempo nel quale era loro comparsa la stella. La risposta dei sacerdoti lo aveva anche di più insospettito e preoccupato, giacché essa aveva un grande valore innanzi al popolo, ed avrebbe potuto provocare un sollevamento contro la sua usurpata autorità. Astuto com'era, finse di volersi recare anch'egli ad adorare il nato Re, e mandò i Magi a Betlem perché l'avessero ricercato, e gli avessero riferito minutamente intorno al luogo dove si trovava. Voleva saperlo per poi farlo uccidere, e s'informò del tempo della comparsa della stella, perché al suo animo crudele, abituato alle stragi, già balenava l'idea di non ucciderlo direttamente attirandosi l'odiosità popolare, ma di coinvolgerlo in una strage comune.
Appena udita la risposta del re, i Magi partirono, ed ecco che la stella, veduta nell'oriente ed eclissata ai loro sguardi, riapparve nel cielo con immensa gioia del loro animo, indicò la via da percorrere e si fermò sulla grotta dov'era ricoverato Gesù, è probabile infatti che la Vergine Santissima fosse stata costretta a rimanere in quella grotta, continuando l'affluenza dei forestieri in Betlemme per il censimento. Forse la dolcissima Mamma si fermò perché Gerusalemme era poco distante da Betlem, ed attese il compimento dei giorni legali per presentare al tempio il Bambino; forse fu disposizione di Dio che il Verbo Incarnato rimanesse ancora in quella povertà estrema, per manifestarsi così ai pagani. Il fatto certo è che Maria stava ancora in Betlem all'arrivo dei Magi, e si trovò sola co Bambinello, essendo andato san Giuseppe o a lavorare o a disbrigare faccende.
I Magi non videro nulla di straordinario, ma videro ciò che era immensamente straordinario da ferire l'anima di amore: videro Maria col suo Bambino divino e furono talmente colpiti dalla santità della Madre e dalla maestà del Figlio, che si prostrarono e lo adorarono non a modo di saluto, giacché non avrebbero potuto salutare un infante, ma lo adorarono come Re e come Dio, e gli offrirono doni, come soleva farsi ai re, e doni particolari che si addicevano al Redentore: l'oro, l'incenso e la mirra. Con l'oro lo riconobbero Re, con l'incenso lo confessarono Dio, con la mirra riconobbero la sua condizione di vittima.
Innanzi a Gesù Cristo ed a Maria Santissima si sentirono infiammati di amore, provarono una felicità mai sentita nella loro vita, ed avvertiti in sogno di non ritornare da Erode, temendo di essere vigilati dal tiranno, se ne ritornarono per altra strada segretamente al loro paese.
Sac. Dolindo Ruotolo
Quando nacque Gesù Cristo regnava nella Giudea Erode, chiamato il grande, si direbbe per una storica ironia, giacché se fece molti lavori pubblici, fu un crudelissimo tiranno, ed ottenne il regno a furia d'intrighi col senato romano. L'evangelista fa notare a bella posta che regnava Erode, un Idumeo straniero, che rappresentava per di più l'autorità dei Romani, per far notare che Gesù Cristo, secondo la profezia di Giacobbe (Gen 49,10), era nato quando lo scettro regale era stato tolto a Giuda. Erode era padre di quell'Erode, tetrarca della Galilea, che fece poi decapitare il Battista e schernì Gesù Cristo nella sua Passione. Alla sua morte infatti il regno venne diviso dai Romani in quattro tetrarchie e dato ai suoi figli; terminò così anche quella parvenza di regno che egli era riuscito a conquistare.
Gesù Cristo nacque in Betlem di Giuda, chiamata pure Efrata, piccola borgata situata a circa due ore di cammino a sud di Gerusalemme. Vi era un'altra Betlem situata nella tribù di Zàbulon in Galilea, e l'evangelista aggiunge al nome della città la regione cui apparteneva, per mostrare che il Redentore era nato nella città di Davide come suo discendente, ed aveva compiuto con la sua nascita la profezia di Michea, ricordata ad Erode stesso dai principi dei sacerdoti.
Non può dirsi con precisione da quanto tempo era nato il Redentore, quando alcuni sapienti dell'Oriente, chiamati perciò con parola generica Magi, vennero a Gerusalemme per adorare il nato Re, essendo stati chiamati alla sua culla da un astro fulgentissimo, che era apparso nel cielo.
Questi Magi studiavano astrologia, e non ignoravano la profezia di Balaam (Nm 24,17), con la quale si annunziava l'apparizione di una novella stella in Giacobbe alla nascita del promesso Messia. All'apparizione della stella, che era come una meteora luminosa, si sentirono internamente ispirati ad andare a Gerusalemme per far ricerca del nato Re, ed intrapresero il lungo viaggio. Essi venivano probabilmente dall'Arabia e, secondo la comune tradizione, erano tre, sapienti e principi, tenuti in grande considerazione nel loro paese. La stella quasi li invitava al viaggio, giacché si librava nell'atmosfera come un segno che indicava la direzione del cammino da intraprendere, e mostrava di muoversi in quella direzione. Non era dunque un astro che aveva un moto circolare, non poteva essere un'illusione, non poteva essere un segno confondibile con un fenomeno sidereo qualunque, era un segno celeste, una chiamata di Dio.
La fede dei Magi fu grande, giacché il viaggio non era facile, e fu grande soprannaturalmente, giacché essi non avrebbero avuto interesse ad andare a conoscere un neonato re, se non avessero sentito e creduto che quel Re era il Salvatore promesso. Era la primizia dei pagani che il Signore chiamava alla fede, come dice la Chiesa, era la rappresentanza del mondo che veniva a rendere omaggio all'Uomo Dio, e veniva a scuotere un poco l'indifferenza con la quale era stato ricevuto nella terra che pur lo aveva aspettato.
E evidente dalla tradizione e dal medesimo contesto del Vangelo, che la stella li accompagnò durante il viaggio, e che si eclissò forse quando entrarono nella terra d'Israele.
Dio che è infinita economia e non fa opere superflue, fece eclissare il segno straordinario dove era possibile essere guidati dai lumi naturali di chi stava al pubblico potere. Potrebbe anche supporsi che le nubi avessero eclissato la meteora e che essa rimanesse solo occultata nell'atmosfera. Checché ne sia, i Magi, non sapendo dove andare, si rivolsero al re Erode, come a colui che avrebbe dovuto essere informato della nascita dell'atteso Messia. Con la semplicità che caratterizzava i popoli orientali, essi domandarono dove fosse nato il re dei Giudei, avendo veduto la sua stella in Oriente. Erode, che tanti delitti aveva consumato per avere e conservare il regno, fu costernato a questa novella, perché sapeva benissimo che gli Ebrei aspettavano un liberatore, e che da tutti si diceva prossimo l'evento. Dissimulò pertanto il suo turbamento, e già nel suo crudele animo fece il piano di sbarazzarsi del nato Re uccidendolo. Chiamò i capi delle classi sacerdotali e i dottori della Legge, e domandò loro con insistenza dove sarebbe dovuto nascere il Cristo. La sua domanda suscitò un turbamento in tutta Gerusalemme, giacché la carovana degli stranieri che vi erano giunti, l'annunzio del compimento delle promesse, e forse soprattutto il timore della crudeltà del tiranno, sconvolto dall'annunzio della nascita del re aspettato, faceva temere al popolo qualche brutta sorpresa. L'ingratitudine umana poi non ha limiti, dolorosamente; il popolo si era adattato al regime di oppressione e, come tutti i popoli decaduti, preferiva rimanere supinamente oppresso, anziché venire in urto con chi lo dominava.
Il Vangelo dice espressamente che Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme-, non fu dunque un movimento di commozione per l'annunzio del nato Re, ma un timore grande di novelle oppressioni da parte del tiranno, e di complicazioni penose che rese il popolo solidale col perfido monarca.
Il prestigio dei Magi non doveva essere indifferente, se Erode prese in tanta considerazione la loro domanda, e la stimò così vera, da radunare il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, per sapere da loro la risposta che avrebbe dovuto dare. Si sapeva che le profezie riguardanti il Redentore erano determinate, e questo non poteva ignorarlo lo stesso Erode; non era dunque difficile rispondere ai Magi facendo capo alle Scritture. Il consiglio dei sacerdoti e degli scribi, infatti, fu unanime nell'affermare che il Redentore doveva nascere in Betlemme di Giuda, secondo la profezia di Michea.
L'evangelista non cita letteralmente la profezia, ma il senso che dà è preciso. Michea dice che Betlem è piccola fra le mille città di Giuda, ma, nascendo da essa il Redentore, è grande; san Matteo dice nel medesimo senso che essa non è la minima tra le città principali di Giuda, perché da essa esce il condottiero che deve reggere il popolo d'Israele.
Avuta la risposta, Erode chiamò a sé i Magi segretamente, perché volle evitare che il popolo li accompagnasse e andasse al nato Messia, e s'informò minutamente del tempo nel quale era loro comparsa la stella. La risposta dei sacerdoti lo aveva anche di più insospettito e preoccupato, giacché essa aveva un grande valore innanzi al popolo, ed avrebbe potuto provocare un sollevamento contro la sua usurpata autorità. Astuto com'era, finse di volersi recare anch'egli ad adorare il nato Re, e mandò i Magi a Betlem perché l'avessero ricercato, e gli avessero riferito minutamente intorno al luogo dove si trovava. Voleva saperlo per poi farlo uccidere, e s'informò del tempo della comparsa della stella, perché al suo animo crudele, abituato alle stragi, già balenava l'idea di non ucciderlo direttamente attirandosi l'odiosità popolare, ma di coinvolgerlo in una strage comune.
Appena udita la risposta del re, i Magi partirono, ed ecco che la stella, veduta nell'oriente ed eclissata ai loro sguardi, riapparve nel cielo con immensa gioia del loro animo, indicò la via da percorrere e si fermò sulla grotta dov'era ricoverato Gesù, è probabile infatti che la Vergine Santissima fosse stata costretta a rimanere in quella grotta, continuando l'affluenza dei forestieri in Betlemme per il censimento. Forse la dolcissima Mamma si fermò perché Gerusalemme era poco distante da Betlem, ed attese il compimento dei giorni legali per presentare al tempio il Bambino; forse fu disposizione di Dio che il Verbo Incarnato rimanesse ancora in quella povertà estrema, per manifestarsi così ai pagani. Il fatto certo è che Maria stava ancora in Betlem all'arrivo dei Magi, e si trovò sola co Bambinello, essendo andato san Giuseppe o a lavorare o a disbrigare faccende.
I Magi non videro nulla di straordinario, ma videro ciò che era immensamente straordinario da ferire l'anima di amore: videro Maria col suo Bambino divino e furono talmente colpiti dalla santità della Madre e dalla maestà del Figlio, che si prostrarono e lo adorarono non a modo di saluto, giacché non avrebbero potuto salutare un infante, ma lo adorarono come Re e come Dio, e gli offrirono doni, come soleva farsi ai re, e doni particolari che si addicevano al Redentore: l'oro, l'incenso e la mirra. Con l'oro lo riconobbero Re, con l'incenso lo confessarono Dio, con la mirra riconobbero la sua condizione di vittima.
Innanzi a Gesù Cristo ed a Maria Santissima si sentirono infiammati di amore, provarono una felicità mai sentita nella loro vita, ed avvertiti in sogno di non ritornare da Erode, temendo di essere vigilati dal tiranno, se ne ritornarono per altra strada segretamente al loro paese.
Sac. Dolindo Ruotolo
domenica 3 gennaio 2016
03.01.2016 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 1 par. 2-6
2. In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio
La povera sapienza umana brancola nelle tenebre e, per trovare i segreti dell'armonia e della vita dell'universo, striscia nella polvere e scruta la materia. Se giunge a sollevarsi un poco da terra, si trova nei cieli agghiacciati dei calcoli matematici, o in quelli nebulosi delle proprie idee. Non esce e non può uscire da queste strette: o viene in contatto con la materia, o ne considera l'armonia tra le aride formule e i risucchianti calcoli astratti, o congettura con la sua mente svolacchiando qua e là come farfalla dal volo indeciso e claudicante.
Oggi si è fatta ardita, ed ha creduto sondare ogni abisso; s'è lanciata sopra le nubi, su su fino ed oltre la stratosfera, ed ha trovato un cielo di tenebre; è discesa nel mare ed ha trovato anche là tenebre, s'è lanciata persino nel misterioso mondo degli atomi, e s'è trovata di fronte a formidabili forze che l'hanno atterrita. È sempre schiacciata da milioni e miliardi di atmosfere, per così dire, ogni volta che tenta di navigare nel mondo materiale ed in quello spirituale.
La schiacciano i cieli, la sconcertano le onde furenti e i glauchi abissi, la inebetiscono le formidabili potenze dell'infinitesimale, la confondono i misteri dello spirito, e corre agitata come folle sulla sua brevissima orbita, quasi bolide che precipitando nel vuoto s'infiamma, splende per un istante, e si dilegua senza lasciare traccia di sé, mentre l'universo continua il suo cammino nell'ordine, lodando il Signore.
La povera sapienza umana, quando non ha la sorte di essere associata alla fede, non ha guida alcuna; asserisce e non può sapere se la sua asserzione ha eco nella realtà, grida nella solitudine immensa e non sente eco che le risponda.
Quante voci da lei date, che sembravano formidabili ai contemporanei, sono per i posteri ciance d'infanti che muovono a riso, e quante vanterie della nostra pretesa sapienza faranno ridere i posteri.
Che pena fa questa povera sapienza, senza bussola, senza un astro di riferimento sicuro, senza una voce infallibile che le indichi il cammino, incerta nel suo incedere, falsa nelle sue deduzioni, folle nelle sue induzioni!
Vuole conoscere Dio e ne prescinde, vuole indagare le leggi dello spirito e finge d'ignorarlo, vuole essere positiva e rifugge dal fondamento d'ogni cosa reale che è l'infinita realtà, vuole elevarsi nei cieli ideali, ma se li vuol formare lei, come i bimbi che su di un lembo di tavolo sporco, allineano i loro eserciti di carta, o elevano i loro edifici di cocci, di stracci e di rifiuti.
La sapienza umana senza luce divina, accigliata quando dice panzane, e buffa quando tocca sdegnosa i margini della verità, e ne rifugge; gettata a capofitto nell'abisso quando crede di ascendere, e travolta dai flutti quando è certa di navigare, non sa che per ascendere deve avere le ali, e le ali gliele dona la fede.
Se dal leggio del suo presuntuoso ambone non toglie il suo sillabario, o il calepino delle sette trombe e vi pone aperto il Vangelo, con la sua luce di splendente verità che la guida, l'uomo si atrofizzerà negli occhi e, come talpa, si sprofonderà nella terra formandovi vie di tenebre e tane di umidore! I cieli della sapienza umana sono sempre foschi senza la luce di Dio; anche quando sono una vera altezza, sono cieli carichi di nubi di procella, dai quali scroscia la pioggia impetuosa, che penetra la povera carne e l'assidera. L'acqua che danno non feconda, travolge, e corre impetuosa come torrente predante, che porta sui suoi glauchi flutti i relitti della vita!
A che serve? L'anima non ne ricava nulla, e nell'impetuoso imperversare di quelle acque non beve, e se vi accosta le avide labbra affoga.
A che serve? Se moltiplica le risorse della civiltà, moltiplica quelle della morte, che avanza con la falce spietata e recide milioni di vite, portando superba in trionfo qualche intristito trofeo di vittoria sulla materia, senza accorgersi che dominandola se n'è fatta schiava!
San Giovanni oltrepassa la materia e l'universo e fissa lo sguardo in Dio: In principio era il Verbo...
Com'è solenne in questo tenebrìo di morte la parola della verità che d'un tratto ci trasporta oltre i cieli, nelle profondità di Dio: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Mosè, dando uno sguardo alla creazione, ascese al di sopra della materia, e fissò il suo punto di origine e di partenza: In principio Dio creò il cielo e la terra, ma soggiunse subito: E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano l'abisso (Gen 1,2).
San Giovanni con volo di aquila oltrepassò la materia e l'universo e, fissando lo sguardo in Dio stesso, contemplò l'eterno Verbo per cui tutto fu fatto, e nei cui abissi di semplicissima luce erano i prototipi di quanto fu fatto, esclamando: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
La povera sapienza umana brancola nelle tenebre e, per trovare i segreti dell'armonia e della vita dell'universo, striscia nella polvere e scruta la materia. Se giunge a sollevarsi un poco da terra, si trova nei cieli agghiacciati dei calcoli matematici, o in quelli nebulosi delle proprie idee. Non esce e non può uscire da queste strette: o viene in contatto con la materia, o ne considera l'armonia tra le aride formule e i risucchianti calcoli astratti, o congettura con la sua mente svolacchiando qua e là come farfalla dal volo indeciso e claudicante.
Oggi si è fatta ardita, ed ha creduto sondare ogni abisso; s'è lanciata sopra le nubi, su su fino ed oltre la stratosfera, ed ha trovato un cielo di tenebre; è discesa nel mare ed ha trovato anche là tenebre, s'è lanciata persino nel misterioso mondo degli atomi, e s'è trovata di fronte a formidabili forze che l'hanno atterrita. È sempre schiacciata da milioni e miliardi di atmosfere, per così dire, ogni volta che tenta di navigare nel mondo materiale ed in quello spirituale.
La schiacciano i cieli, la sconcertano le onde furenti e i glauchi abissi, la inebetiscono le formidabili potenze dell'infinitesimale, la confondono i misteri dello spirito, e corre agitata come folle sulla sua brevissima orbita, quasi bolide che precipitando nel vuoto s'infiamma, splende per un istante, e si dilegua senza lasciare traccia di sé, mentre l'universo continua il suo cammino nell'ordine, lodando il Signore.
La povera sapienza umana, quando non ha la sorte di essere associata alla fede, non ha guida alcuna; asserisce e non può sapere se la sua asserzione ha eco nella realtà, grida nella solitudine immensa e non sente eco che le risponda.
Quante voci da lei date, che sembravano formidabili ai contemporanei, sono per i posteri ciance d'infanti che muovono a riso, e quante vanterie della nostra pretesa sapienza faranno ridere i posteri.
Che pena fa questa povera sapienza, senza bussola, senza un astro di riferimento sicuro, senza una voce infallibile che le indichi il cammino, incerta nel suo incedere, falsa nelle sue deduzioni, folle nelle sue induzioni!
Vuole conoscere Dio e ne prescinde, vuole indagare le leggi dello spirito e finge d'ignorarlo, vuole essere positiva e rifugge dal fondamento d'ogni cosa reale che è l'infinita realtà, vuole elevarsi nei cieli ideali, ma se li vuol formare lei, come i bimbi che su di un lembo di tavolo sporco, allineano i loro eserciti di carta, o elevano i loro edifici di cocci, di stracci e di rifiuti.
La sapienza umana senza luce divina, accigliata quando dice panzane, e buffa quando tocca sdegnosa i margini della verità, e ne rifugge; gettata a capofitto nell'abisso quando crede di ascendere, e travolta dai flutti quando è certa di navigare, non sa che per ascendere deve avere le ali, e le ali gliele dona la fede.
Se dal leggio del suo presuntuoso ambone non toglie il suo sillabario, o il calepino delle sette trombe e vi pone aperto il Vangelo, con la sua luce di splendente verità che la guida, l'uomo si atrofizzerà negli occhi e, come talpa, si sprofonderà nella terra formandovi vie di tenebre e tane di umidore! I cieli della sapienza umana sono sempre foschi senza la luce di Dio; anche quando sono una vera altezza, sono cieli carichi di nubi di procella, dai quali scroscia la pioggia impetuosa, che penetra la povera carne e l'assidera. L'acqua che danno non feconda, travolge, e corre impetuosa come torrente predante, che porta sui suoi glauchi flutti i relitti della vita!
A che serve? L'anima non ne ricava nulla, e nell'impetuoso imperversare di quelle acque non beve, e se vi accosta le avide labbra affoga.
A che serve? Se moltiplica le risorse della civiltà, moltiplica quelle della morte, che avanza con la falce spietata e recide milioni di vite, portando superba in trionfo qualche intristito trofeo di vittoria sulla materia, senza accorgersi che dominandola se n'è fatta schiava!
San Giovanni oltrepassa la materia e l'universo e fissa lo sguardo in Dio: In principio era il Verbo...
Com'è solenne in questo tenebrìo di morte la parola della verità che d'un tratto ci trasporta oltre i cieli, nelle profondità di Dio: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Mosè, dando uno sguardo alla creazione, ascese al di sopra della materia, e fissò il suo punto di origine e di partenza: In principio Dio creò il cielo e la terra, ma soggiunse subito: E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano l'abisso (Gen 1,2).
San Giovanni con volo di aquila oltrepassò la materia e l'universo e, fissando lo sguardo in Dio stesso, contemplò l'eterno Verbo per cui tutto fu fatto, e nei cui abissi di semplicissima luce erano i prototipi di quanto fu fatto, esclamando: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
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