sabato 21 marzo 2015

22.03.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 12 par. 4

4. I pagani vogliono vedere Gesù

Molti pagani, presi dal fascino della verità, si univano come proseliti al popolo ebreo; alcuni osservavano solo pochi precetti della Legge, ed erano chiamati proseliti della porta, quasi rimanessero solo innanzi all'ingresso del regno di Dio, altri invece si sottomettevano a tutte le prescrizioni della Legge, compresa la circoncisione, ed erano chiamati proseliti della giustizia. In occasione delle feste di Pasqua perciò molti pagani accorrevano a Gerusalemme, per adorare Dio nell'atrio che loro era riservato. Vi concorrevano anche quelli che non erano proseliti per un senso di curiosità, in maggioranza uomini d'affari o commercianti, che si trovavano a passare per la Palestina per il disbrigo delle loro faccende.


Il grido di entusiasmo che suscitò nel popolo di Gerusalemme il racconto della risurrezione di Lazzaro, ed il movimento verificatosi nell'ingresso trionfale di Gesù nella città, suscitò la curiosità di alcuni pagani proseliti, che erano venuti per adorare Dio, e fece loro nascere il desiderio di conoscere da vicino Gesù. Essi lo dissero a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, nota il Sacro Testo, forse perché venivano proprio da quei luoghi, e conoscevano o lui o la sua famiglia. Filippo poi doveva avere anche la premura o l'impegno di regolare l'afflusso della folla, come può rilevarsi dal fatto che Gesù, quando moltiplicò i pani ed i pesci, si rivolse a lui per sapere come si poteva dar da mangiare al popolo che lo seguiva. Filippo alla domanda dei pagani non osò rispondere subito, ma si consultò con Andrea, che era il più anziano tra gli apostoli, per sapere se Gesù era disposto a riceverli. Si ricordò che il Redentore aveva proibito di predicare ai pagani, e temette di averne un rifiuto od un rimprovero. Andrea dovette incoraggiarlo a parlarne al Signore, e tutti e due infatti gli si avvicinarono e glielo dissero. Il Sacro Testo non fa capire esplicitamente che Gesù avesse ricevuto i pagani, ma dal contesto può dedursi di sì, giacché Egli vide in quegli uomini come la rappresentanza dei popoli pagani che un giorno si sarebbero uniti alla Chiesa, e nel suo amore esultò pensando che la sua Passione e Morte avrebbe fruttato la salvezza degli uomini. Egli inoltre parlò del valore della vita dello spirito in opposizione a quella del corpo, ed esortò tutti a seguirlo senza restrizioni, pienamente, per il raggiungimento dell'eterna gloria. Ora questi avvertimenti erano proporzionati ai pagani che volevano vederlo, ed Egli dovette rivolgerli ad essi.

Parole di morte e di risurrezione

Li vide, li raccolse, scrutò col suo sguardo divino l'ansia e il desiderio di quei cuori, arse dal desiderio di dar la vita per loro e per quelli dei quali erano rappresentanza, ed esclamò: È venuta l'ora nella quale il Figlio dell'uomo sarà glorificato.

La sua Passione era per Lui l'ora della glorificazione, cioè della fecondità dell'opera che Egli era venuto a compiere.

La sua morte non era la fine di tutto, come speravano quelli che congiurarono contro di Lui, ma era il principio dello sviluppo della sua opera, e doveva produrre nel mondo la fioritura meravigliosa delle anime, nate a vita novella dal suo Sangue prezioso. Le anime poi potevano rinascere in Lui e per Lui solo se si rinnegavano, e se, lungi dal riporre la felicità nella carne e nella vita presente, come facevano i pagani, la riponevano nell'abnegazione di sé. Perciò soggiunse: In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento caduto in terra non muore, resta solo, se poi muore fruttifica abbondantemente. Chi ama la propria vita la perderà, e chi odia la propria vita in questo mondo la salverà per la vita eterna. Chi mi serve mi segua, e dove sono io sarà ancora chi mi serve, e chi servirà me sarà glorificato dal Padre mìo.

Una caligine di tristezza opprime Gesù

Alludendo alle pene che dovevano avere i suoi veri seguaci ed alla piena abnegazione della vita materiale, Gesù Cristo guardò la ripugnanza che gli uomini avrebbero avuto al patire, ed unendosi alla loro debolezza volle sostenerla col suo esempio. La ripugnanza al patire non doveva essere una ragione per credere impossibile ai pagani la vita cristiana, fatta di rinunzie, ma doveva essere un'occasione per abbandonarsi maggiormente alla divina volontà. Ecco, questa ripugnanza la volle sentire Egli stesso, e la manifestò in quel momento dando libero varco alla tristezza ed al timore, e mostrando così di essere veramente uomo, com'era veramente Dio. Egli perciò esclamò: Adesso l'anima mia è turbata, e che cosa dirò io? Padre, liberami da quest'ora?

Un'improvvisa caligine di tristezza gli oppresse il Cuore, permettendolo Lui stesso; la sua umanità si trovò di fronte alla morte che doveva subire, ne sentì ripugnanza, ne desiderò la liberazione, ed Egli pregò come vero uomo per ottenerla; ma poi subito considerò il fine della sua missione in terra, che era proprio l'immolazione di se stesso, e supplicò il Padre a glorificarsi nel suo sacrificio, accettato pienamente per unirsi alla sua volontà; perciò disse con accento d'immenso amore: Ma io sono venuto proprio per quest'ora. Padre, glorifica il tuo Nome. Nel manifestare la ripugnanza che aveva per la morte che l'attendeva, si mostrava vero uomo, nell'invocare il Padre perché si fosse glorificato in Lui, si mostrava vero Figlio di Dio, Verbo suo eterno, glorificazione sua infinita; ed il Padre volle confermare questa sua asserzione con una testimonianza solenne, facendo udire da tutti una voce del cielo che gridò: L'ho glorificato e ancora lo glorificherò.

La voce fu potentissima, e risuonò lontano avendo eco tra i monti e le valli, tanto che la gente, che era distratta e lontana, e non aveva potuto seguire il discorso di Gesù, la scambiò per un tuono. Quelli però che gli erano più vicino poterono capirne il significato, in relazione col discorso che Egli faceva, e dissero che quella voce veniva da qualche angelo che gli aveva parlato.

All'impressione varia che il popolo manifestava per quella voce, Gesù soggiunse: Questa voce non è venuta per me, ma per voi', è venuta per manifestarvi che io sono il Figlio di Dio, e per farvi intendere in qual modo io glorifico il Padre nella mia assunta umanità. Lo glorifico offrendomi alla sua volontà, lo glorifico nella mia vita mortale, ma più lo glorificherò nella mia immolazione e nella mia morte, vincendo il mondo, cacciandone il demonio, ed attraendone a me tutti i cuori per donarli a Dio.

Perciò Gesù soggiunse: E' venuto il momento nel quale si farà giudizio del mondo, confutandone la falsa sapienza, confondendone lo spirito perverso, ed aprendo agli uomini gli orizzonti della vita eterna. Ora il principe di questo mondo, ossia satana, sarà cacciato fuori. Sarà vinto, non potrà più dichiararsi dominatore dell'uomo, caduto per la sua tentazione nell'Eden, e non potrà più impedire alle anime di buona volontà di ascendere a Dio; ecco, quando io sarò innalzato dalla terra con la crocifissione e morirò sulla croce, trarrò tutto a me con la grazia che meriterò agli uomini, e col fascino soavissimo del mio amore; trarrò tutto a me regnando per la croce su tutte le genti e in tutti i secoli, poiché la mia morte è il titolo del mio dolce dominio di amore.

Egli ciò diceva, soggiunge l'evangelista, per indicare di qual morte stava per morire. Apparentemente sembrò avverarsi proprio l'opposto nella sua morte: Gesù Cristo sembrò vinto dal mondo, satana apparve trionfante su di Lui e, lungi dall'attrarre tutto a sé, tutto gli sfuggì, persino i suoi apostoli, dei quali uno solo si trovò timidamente presente sul Calvario.

In realtà però proprio sul Calvario il mondo fu vinto, satana fu scacciato ed i cuori trovarono, nel Crocifisso per amore, il centro e la meta del loro amore. Quella povertà giunta fino alla nudità della croce sconvolse per sempre lo spirito avido ed avaro del mondo, quella carne divina, martoriata da tanti tormenti, ne confuse la concupiscenza, quell'amore immolato per purissimo amore di Dio ne sgominò e distrusse l'egoismo e attrasse l'uomo al Signore nel desiderio dell'abnegazione e del sacrificio. Satana vide l'albero novello della vita, e da esso il frutto che vi pendeva, frutto che doveva rendere gli uomini simili a Dio nella conoscenza della sua verità eterna, nell'aborrimento del male, nella carità e nell'amore. Vide aperto nuovamente il varco alla grazia rinnovatrice dei cuori, capì che gli sfuggiva il dominio del mondo e fuggì nell'inferno.

Gli Ebrei capirono che Gesù alludeva alla sua morte, e ne furono sconcertati proprio quelli che avevano cominciato ad avere in Lui una certa fede, e che speravano che Egli avrebbe ricostituito il regno d'Israele. Per una interpretazione tutta materiale delle profezie riguardanti il Messia, supponevano che Egli dovesse regnare in eterno, e solo politicamente, sulla terra. Ora sentendo dire da Gesù ch'Egli doveva essere innalzato dalla terra, e cioè doveva morire, esclamarono: Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo vive in eterno, e come tu dici: E' necessario che il Figlio dell'uomo sia innalzato dalla terra? Chi è questo Figlio dell'uomo? Non potevano immaginare un Messia mortale, perché sapevano che doveva essere Dio; sapevano pure che Gesù, chiamandosi Figlio dell'uomo, si proclamava Messia; non osarono in quel momento domandargli se Egli era il Messia, perché stavano ancora sotto l'impressione dei grandi miracoli ai quali avevano assistito, ed usarono un'espressione capace di farglielo dire spontaneamente: Chi è questo Figlio dell'uomo?

La loro fede era imperfetta; avevano acclamato Gesù come re d'Israele nel suo ingresso a Gerusalemme, e non volevano smentirsi; intanto le parole di Gesù, alludendo alla sua morte, li sconcertavano; ricadevano nel dubbio, ed avrebbero voluto che Egli stesso li avesse tratti d'impaccio con una dichiarazione più esplicita.

È profondamente psicologico: chi assiste ad un fatto straordinario e se ne impressiona riconoscendolo come un argomento di verità che conferma la missione di un santo, proclama la propria convinzione ad alta voce, e vorrebbe trarre anche gli altri dalla sua parte. La sua fede è più un entusiasmo che una profonda persuasione, ed alle prime tenebre vacilla, anzi si smarrisce. Non osa però manifestare apertamente il proprio smarrimento, per non fare la figura di essere stato superficiale nel credere e vorrebbe ad ogni costo trovare un argomento di conferma al suo entusiasmo passato, magari interrogando il santo, e provocando da lui uno sprazzo di luce.

Camminare nella luce

Gesù Cristo non rispose all'interrogazione fattagli, ma allo stato psicologico di chi gliel'aveva fatta, e perciò profondamente disse: Ancora per poco è in voi la luce. Camminate finché avete la luce affinché non vi sorprendano le tenebre; ora chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Finché avete la luce credete nella luce, affinché siate figli della luce. Egli voleva dire: voi avete ancora un poco di luce, cioè di fede, ed ancora per poco questa fede sarà sostenuta dalle opere gloriose che io compio. Quando sarò innalzato dalla terra, tutto sarà tenebre, e se voi ora già esitate pur stando nella luce, allora piomberete in tenebre fitte. Invece, perciò, di cavillare sui vostri pensieri, pensate piuttosto a conservare quel poco di fede che avete, per potere un giorno, nella luce piena, essere figli della luce, cioè partecipare come figli alla Chiesa novella che io formo ed al regno di Dio. La croce sarebbe stata per loro uno scandalo grave, e per non disorientarsi allora, dovevano cercare ora di rinsaldare la loro poca fede, e camminare nella luce,operando rettamente, facendo il bene, e allontanandosi da quelli che cercavano disorientarli avversandolo e calunniandolo.

La fede, infatti, è proprio come la luce dell'anima, ma se l'anima non vi corrisponde camminando nei suoi raggi, e devia o nei propri pensieri o nelle insinuazioni altrui, la perde, si disorienta e non sa più dove vada. Ciò che prima le era luce che le dava riposo e sicurezza diventa tetro mistero di tenebre che la sconvolge; non capisce più nulla, e cade in uno stato latente di disperazione o di fatalismo che sconcerta ed opprime.

Il bastone sull'acqua...

Dobbiamo essere gelosi della fede, perché è tanto facile che essa si annebbi. Basta leggere una parola stolta, od ascoltare lo stupido motteggio di un miscredente per non vedere più. Chi non vede nella luce della fede in realtà non vede più nulla, cade in tenebre, si smarrisce come in una oscurissima valle.

Qualunque spiegazione tenta darsi dei misteri della vita, non solo non lo appaga ma lo ingarbuglia di più, e satana in queste tenebre cerca di screditargli Dio, la sua sapienza e il suo amore, inoculandogli nel cuore l'odio che egli ha per il suo Creatore.

Sorge allora nel cuore una falsa tenerezza e una falsa carità verso quelle creature che sembrano come colpite da un crudele destino; si presume di scrutare gli altissimi misteri della provvidenza, e di scrutarli col proprio debole giudizio, anzi con la propria sensibilità, e si cade negli abissi dell'infedeltà, dell'avversione a Dio e della miscredenza.

Il povero Leopardi, in tutta la creazione e nella vita, non vedeva che orrori e crudeltà fatali di un destino a lui completamente ignoto; quanto sarebbe stato più bello per lui il non perdere l'ultimo raggio di fede ereditato dai suoi cari, e quanto è salutare per noi il pensare che dei misteri della creazione è, per così dire, responsabile Dio, non noi; Egli che è certamente infinito amore! Quello che a noi può apparire una disarmonia nella creazione e nella provvidenza, è certamente amore e bontà, ordine e sapienza, osservato da noi da una falsa visuale, da un punto deformante di proiezione, che non ce lo fa scorgere nella sua realtà o, in ultima analisi, è uno di quei disordini causati proprio dal peccato del primo uomo e dai nostri stessi peccati.

Chi non direbbe storto un bastone posto nell'acqua? Eppure esso appare tale per un semplice fenomeno di rifrazione.

Quante volte satana o la nostra stoltezza, o i ragionamenti unilaterali della nostra stupidissima ragione, formano delle nebbie accecanti, nelle quali tutto si deforma, e l'ordine dell'amorosa provvidenza di Dio appare destino crudele che si diverte a tormentare, e che è avido di veder soffrire! Oh, se pensassimo allora questo solo: chi sono io che posso giudicare della divina provvidenza? Chi sono io che ardisco valutare ciò che non conosco? E forse affidata a me la gestione del mondo? Non sono io un piccolo e stupido figlio di famiglia nell'immensa casa del Padre celeste? Se pensassimo questo solo, chiuderemmo gli occhi, curveremmo la fronte adorando Dio con immenso amore, ed attenderemmo tranquilli la rivelazione della sua gloria infinita nell'eternità!

Noi, i consiglieri di Dio??

E un punto sul quale insistiamo, perché noi creature dimentichiamo troppo facilmente di essere creature, e presumiamo entrare in contesa col Creatore infinito, ed esserne i consiglieri, noi piccoli atomi e piccoli vermi ! Basterebbe vedere solo la mirabile fattura di un insetto, e l'arte con la quale sono scolpite le sue forme; basterebbe pensare al mistero di armonia e di ordine di tante miriadi di creature diverse, per cadere in adorazione innanzi a Dio, riconoscendo la piccolezza del nostro intendimento! Basterebbe pensare che le sterminate varietà delle creature sono come le lettere di un alfabeto misterioso e mirabile, che formano un poema grandioso di potenza, di sapienza e di amore per lasciare a Dio, diremmo quasi, il ritmare questi canti, e non presumere noi, suonatori strimpellanti di cocci rotti, di segnargli il tempo e di suggerirgliene l'andamento.

Considerando per esempio, solo la silenziosa vita degli insetti, dei coleotteri, degl'imenotteri, delle farfalle, dei ditteri, dei neurotteri, considerando quelle forme perfette, ordinate, mirabili capolavori d'arte, e studiando le loro abitudini, che sono come piccole faville, e lucciole erranti di notte, che riflettono la luce di un pensiero mirabile di sapienza che le ha armonizzate, chi può ardire di giudicare Dio, o di valutarne le manifestazioni di potenza, di sapienza e di amore?

Perché le antenne del Carabo rosso rame (Carabus con- cellatus) hanno undici articolazioni e non più? Perché la Cicindèla campestre (Cicindela campestris) è verde macchiata di bianco? Perché il maggiolino (Meloloutha vulgaris) che pur vive tra le piante è invece di colore nero? A che serve, e che dice la svariatissima forma delle farfalle? Perché la Catòcala rossa (Catocola nupta) ha quattro ali: due rosse mirabilmente ornate, e due cinerine turchinicce, mentre Valùcita esadattila (Alùcita hexadactyla) ha quattro ali, ciascuna divisa in sei divisioni penniformi?

Basta porsi questi elementarissimi e semplici problemi per capire che innanzi ai misteri della provvidenza di Dio siamo un nulla, e che nelle oscurità delle tentazioni dobbiamo solo umiliarci ed adorare, camminando nei raggi luminosi della fede.

O fede, o fede, quale mirabile dono di Dio sei tu per un'anima pellegrina!

Sac. Dolindo Ruotolo

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