sabato 28 marzo 2015

29.03.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 15 par. 2-6

2. L'ingiusta condanna dell'Innocente divino


I sacerdoti, come si disse, si preoccuparono di dare al loro giudizio una parvenza di legalità, non solo per fare apparire Gesù un condannato e distruggere ogni suo prestigio, ma anche perché ne dovevano dar conto al rappresentante di Roma, potendo lui solo ratificare le sentenze di morte. La sentenza pronunziata nella notte non era legalmente valida, e perciò es si, di buon mattino, ricapitolarono quello che avevano fatto nella notte, e legato Gesù, lo condussero a Pilato sperando che egli non avesse fatto altro giudizio.

Ma a Pilato non erano ignote le male arti dei sacerdoti contro Gesù, perché molte volte essi avevano dovuto fare ricorso contro di Lui; egli sapeva, dice infatti il Sacro Testo, che lo avevano catturato per invidia, e non volle ratificare la loro sentenza senza darsene conto. Domandò a Gesù prima di tutto se Egli era il re dei Giudei.


Evidentemente i sacerdoti avevano cominciato col presentarlo come un fanatico che si proclamava re e diceva di dovere un giorno regnare, e Pilato volle accertarsi se aveva motivi speciali di rivendicazioni politiche. D'altra parte se era veramente il naturale erede della regia potestà in Israele, il popolo avrebbe dovuto sostenerlo, riguardandolo come sua gloria, e Pilato voleva opporre il plebiscito del popolo alle bieche manovre dei sacerdoti.

Questo fu il suo piano per sventare l'insidiosa congiura di quei capi che egli detestava. Essi se ne accorsero; e cominciarono a muovere molte accuse contro Gesù, presentandolo come un agitatore, come ci dice san Luca (23,5). Non era solo un assertore di una nobiltà decaduta, ma un mestatore che cercava di farle valere sollevando il popolo. Pilato s'aspettava da Gesù una difesa ardente, pari alla facondia della sua parola, della quale era giunta a lui certamente notizia; sperava che Egli stesso si sarebbe trionfalmente scagionato; e per questo si meravigliò grandemente del suo imperturbabile silenzio, e cercò di scuoterlo: Non rispondi nulla? Vedi dì quante cose ti accusano?

I sacerdoti, non sapendo come tirare il popolo a partecipare all'accusa contro il Redentore, dovettero attirarlo al pretorio per fargli domandare la liberazione di un prigioniero. Era infatti uso che per la Pasqua fosse liberato un carcerato, in memoria della liberazione d'Israele dall'Egitto. Si formò così un assembramento imponente di gente, che i sacerdoti speravano mutare in una sedizione se il governatore non avesse condannato Gesù.

Pilato cercò di trarre profitto da quella situazione e, senza aspettare la domanda del popolo, propose loro di domandare o la liberazione di Gesù, o quella di un insigne sedizioso, che aveva commesso un omicidio in una pubblica rivolta. Egli così opponeva un tipo autentico di rivoltoso all'innocente pacifico che gli stava davanti, e sperava che lo stridente contrasto avesse indotto il popolo a domandare la liberazione di Gesù, annullando così d'un colpo il tenebroso intrigo dei sacerdoti. Ma questi che avevano già cercato di subornare il popolo, lo istigarono per mezzo dei loro manutengoli, con promesse e col denaro, di domandare la liberazione dell'omicida, e la morte di Gesù.

Così infatti avvenne. A che cosa non è trascinato il popolo quando è ingannato da false promesse ed è lusingato col denaro? Tutti gridarono che volevano la liberazione dell'omicida e la morte di croce per Gesù. Domandarono per Lui la condanna più obbrobriosa, che si dava solo ai peggiori delinquenti, e la domandarono nonostante Pilato ne proclamasse l'innocenza. Ma quando mai il popolo s'era radunato nella Pasqua per domandare la morte di uno? E quando mai aveva tumultuato per imporre in quella festa di liberazione la morte obbrobriosa di un suo connazionale, destinandolo alla croce come uno scellerato? In realtà l'unica voce di morte nella Pasqua era per gli agnelli che venivano immolati, figura dell'Agnello divino, ed il popolo non si accorse che, col suo grido incosciente e malvagio, univa il simbolo alla realtà e faceva compiere l'immolazione del vero Agnello.

Quale mistero si compiva in quel tragico momento! L'omicida sedizioso del quale il popolo reclamava la liberazione si chiamava Barabba, e secondo alcuni codici: Gesù Barabba, cioè, stando all'etimologia della parola: Gesù Figlio del Padre. L'innocente, poi, del quale reclamava a grandi grida la condanna, era Gesù Nazareno, soprannominato il Cristo, Figlio vero del Padre divino.

Il popolo rigettava il vero Figlio di Dio, suo Redentore, condannandolo alla croce, e portava in trionfo un delinquente che si chiamava forse figlio del padre per non avere avuto un'origine nota ed onesta; quel soprannome infatti poteva anche significare: figlio di un padre ignoto. Anche il Padre di Gesù era ignoto al popolo, poiché san Giuseppe era stato solo stimato come tale, e l'eterno divin Padre era per esso sconosciuto.

L'Innocente divino salva il colpevole

Stavano di fronte un colpevole ed un innocente, un omicida ed una vittima, e questa con la propria morte liberava l'omicida. Era un simbolo di quello che in realtà avveniva, poiché il Figlio del Padre morendo liberava l'uomo, e lo restituiva alla dolcissima filiazione che aveva perduto col peccato, rendendolo figlio di adozione del Padre suo. Barabba in fondo fu il primo a usufruire dell'immolazione di Gesù, senza del quale sarebbe stato, sicuramente condannato a morte e fu il primo liberato sulla terra, come il buon ladro sul Calvario fu il primo liberato nel passare all'eternità.

Si compiva un mistero di misericordia, ed il popolo non se ne accorgeva neppure: era logico che si chiedesse la morte della Vittima divina, quando si domandava la liberazione del colpevole, e quel grido incosciente e scellerato era l'eco lontana della divina giustizia che reclamava la riparazione per il colpevole, e della divina misericordia che donava il Liberatore e la Vittima per i peccati di tutti. L'uomo peccatore, in fondo, non era che un sedizioso contro il Signore, un ribelle che nella sedizione aveva ucciso l'anima sua privandola della grazia, e riducendola nella morte; questo sedizioso, che era legato dai ceppi del male e schiavo di satana, fu liberato dalla morte del suo Redentore, e fu sciolto dalle sue obbrobriose catene.

Oh, se lo pensassimo, quale gratitudine avremmo per Gesù Cristo!

Non siamo stati noi a reclamare la morte? Non sono stato io coi miei peccati, o mio Re, a gridare a Dio: non liberare il tuo Figlio ma libera l'anima mia peccatrice? E la mia gratitudine non deve ora invertire il grido dell'ingiustizia e farmi esclamare col cuore contrito: sono io che merito la condanna, io gli obbrobri, io la croce? Come posso ribellarmi alle croci giornaliere della mia vita, sapendo che io sono il colpevole e Tu l'Innocente divino, o mio Gesù?

3. Il grido insano: crocifiggilo! Ma che male Egli ha fatto? Crocifìggilo!

È necessario trattenersi un poco a considerare l'insano grido del popolo contro Gesù, poiché esso è troppo infame, e dolorosamente è stato troppo ripetuto dai popoli della terra. Che cosa si agitava, psicologicamente, nell'animo dei Giudei quando gridavano così, e che cosa credevano di conseguire? Essi sapevano bene quale sarebbe stata la conseguenza di quel grido, e lungi dall'avere pietà per Colui che li aveva sempre beneficati, insistevano furiosamente perché fosse stato condannato alla più obbrobriosa delle morti.

Era incoscienza colpevole o era aberrazione?

In realtà il popolo non sapeva esso stesso che cosa volesse e perché gridava; era sobillato, ed era corrotto dal denaro; gridava quindi come voce di quelli che lo avevano frettolosamente assoldato, e gridava per un guadagno materiale. Gli era stato fatto temere che senza la morte di Gesù sarebbe stato definitivamente distrutto dai Romani, ma questo motivo politico era servito solo per le persone più rappresentative del popolo;

gli altri, la massa cioè, gridava perché così era stato suggerito loro di gridare. Erano quindi assai più colpevoli, e gridando chiamavano sul loro capo la maledizione.

Odiavano Colui che avrebbero dovuto amare, e ne reclamavano la morte come sedizioso, quando essi, proprio essi lo avevano seguito con entusiasmo, domandandogli persino che fosse stato il loro re. Gridavano per gridare, e rinnegavano tutto quello che avevano visto di mirabile coi loro occhi, seguendo più la menzogna dei loro capi che la verità. Pilato invano domandava loro: Che male ha fatto? Essi gridavano da insensati scelleratissimi: Crocifiggilo, senza motivo, unicamente per malvagità, unicamente perché erano stati pagati, e mettevano il loro interesse materiale al di sopra di tutto.

L'impeto del popolo non fu una sedizione, un ribollimento di passioni improvvise che dilagano senza misura; fu una scenata tanto più empia perché pagata, fu un enorme peccato ad occhi aperti, che impresse su tutta la gente ebrea un marchio di infamia, del quale ancora si vedono le conseguenze.

Il popolo preda facile dei sobillatori

È questo il tipo di tutte le sedizioni contro Dio e contro la Chiesa: il popolo diventa feroce quando è corrotto dai capi perversi, corifei di satana, e va incontro alla rovina perché rifiuta volontariamente la divina misericordia. Che male gli fa Gesù Cristo, che male gli fa la Chiesa? Il giudizio dei secoli è la smentita a tutte le calunnie dette contro la Chiesa, e nonostante questo si grida contro di Lei, volendone ad ogni costo la fine.

È una pena immensa vedere, oggi specialmente, le nazioni apostate da Gesù Cristo, e vederle piene di odio contro di Lui senza alcuna ragione. Quale bene possono esse attendersi dalla loro insania? Le sventure si succedono alle sventure, patrimonio degli empi diventano le lacrime della più nera disperazione.

Al grido insano dei popoli apostati si risponda col grido di apostolato delle comunità di Azione Cattolica, esigendo con tutte le forze dell'amore che Gesù Cristo regni. Non c'è altro grido da opporre all'empietà tracotante. Occorre serrare le fila bene organizzate, e mostrare il proprio amore a Gesù non con le parole ma con l'azione.

Non applaudiamo mai ai Barabba, assassini delle anime e, se siamo posti al bivio tra essi e Gesù, non esitiamo a reclamare il regno di Gesù, l'unico regno di prosperità vera, spirituale e temporale, l'unica oasi di pace vera in mezzo al trambusto delle umane vicende.

4. La corona dell'obbrobrio e la corona regale del Re divino

Pilato non osò resistere al grido del popolo, scambiandolo per una sedizione che avrebbe potuto dargli dei seri grattacapi, e perciò liberò Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo abbandonò nelle mani degli sgherri perché fosse crocifisso. Era il colmo dell'ingiustizia, ma oramai Pilato s'era dato vigliaccamente al popolo, ne era diventato praticamente prigioniero, e credeva di non poter agire diversamente.

Sappiamo, dalla testimonianza autentica della sacra Sindone, quanto sia stata crudele per Gesù quella flagellazione che il Vangelo accenna con una sola parola. Le orme impresse in quel sacro lenzuolo, che sono come una documentazione fotografica del truce tormento, relegano ormai tra le favole la pretesa di quelli che supposero avere Gesù ricevuto solo i trentanove colpi rituali che s'infliggevano agli schiavi condannati alla croce. Il santissimo suo Corpo fu tutto piagato nella maniera più crudele, e fu ridotto veramente come quello di un lebbroso, secondo la parola del profeta.

I soldati della guarnigione romana, avuto in consegna il Redentore per condurlo a morte, mentre si facevano i preparativi per l'esecuzione della sentenza, lo condussero nel pretorio per pigliarsi beffe di Lui nella maniera più crudele. Per colmo della loro barbarie vollero deridere in Lui il titolo di re dei Giudei, che Pilato stesso ripetutamente gli aveva dato. Lo fecero per quella banale crudeltà che era comune ai soldati romani, e lo fecero anche per deridere in Lui il popolo ebreo da essi tenuto in servitù. Essi erano abituati a quei trionfi militari, nei quali i re vinti erano coperti di obbrobrio, e vollero in Gesù schernire un re decaduto, che presumeva, secondo essi, di riconquistare il trono.

Presero perciò uno straccio di porpora, qualche clamide vecchia di soldato, ed intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, calcandogliela violentemente a colpi di canna, e gli sputarono addosso genuflettendo innanzi a Lui e salutandolo re dei Giudei.

Era uno spettacolo terribile di dolore, poiché le spine penetrarono fin dentro il santissimo capo di Gesù, cagionandogli uno spasimo acutissimo. Le spine furono intrecciate intorno ad una corona di giunchi, che si conserva ancora a Parigi, e formavano come una calotta che tormentava tutto il capo.

In tutto il mondo si conservano 69 di queste spine, lunghe, acutissime, robuste, capaci di penetrare come chiodi, e questo ci dà un'idea del tormento che per noi subì il Redentore.

Eppure i soldati crudelissimi non immaginavano di coronare veramente il Re divino di una immortale corona di amore, che doveva renderlo amabile anche ai cuori più induriti, e non pensavano che quella corona si sarebbe mutata in quella di una gloria eterna. Nessun diadema era più saldo di quello, nessuna porpora regale era più perenne, e nessuno scettro più forte di quella fragile canna che gli posero fra le mani. I soldati non si accorsero neppure che in quel Re di dolore era espresso il più grande trionfo dell'amore, e che quegli schemi e quegli sputi stomacosi coi quali lo disprezzavano erano piuttosto l'immagine viva di quello che erano i regni tenebrosi della terra, le cui malefatte il Redentore espiava penosissimamente. I re del mondo, infatti immersi nei loro peccati sono ricoperti non di gloria ma di sputi; ed il loro comando è fragile come una canna. In Gesù, coronato di spine e coperto di obbrobrio, si poteva anche vedere in qual modo il peccato riduca le creature, chiamate alla regale dignità della grazia: esse sono sfigurate, e le loro iniquità sono come spine nel loro capo e nel loro cuore.

Spine pungenti sono le prosperità della terra, e corona immortale di gloria sono le pene e le tribolazioni della vita. Gesù mostra nel suo tormentoso obbrobrio questo doppio aspetto della vita terrena, e poiché Egli ha regnato soffrendo, c'insegna a battere le vie del dolore per conquistare il regno eterno.

Si può dire che intorno all'eterna verità la menzogna non riuscì a formare un alone di finzione, e nei raggi di quel Sole eterno le derisioni diventarono splendenti espressioni di altissime verità, e l'iniqua perversità degli uomini fu confusa nella sua stessa raffinata malizia. Gesù Cristo, benché sfigurato, aveva una regale bellezza e maestà che conquideva, come può vedersi dalle vestigia che di sé ha lasciato nella Sindone; Egli, seduto sul povero sgabello dell'obbrobrio, era glorioso nella luce della sua maestà, ed il dolore lo circondava di un'aureola di amore mille volte più affascinante del misero splendore di un diadema di oro. Brillavano i suoi occhi divini come gemme, pieni dei riflessi dell'eterna carità, e la tranquilla pace del suo atteggiamento paziente era più solenne del silenzio maestoso di una reggia.

I soldati lo maltrattavano, ed ognuno di quegli affronti si mutava in Lui in prezzo di redenzione; era quasi come la rozza pietra, che, gettata nella fornace, si liquefa e dona l'oro che racchiude nelle sue sabbie.

Quante volte ti ho coronato di spine coi miei stolti pensieri o Gesù, e quante volte ti corona così l'orgoglio umano che pretende stare al di sopra di tutti. I pensieri del tuo immenso amore non sono sufficienti a dissipare i miei pensieri e la tua umiliazione non riesce a conquidere l'umana superbia? Se il nostro capo è coronato di spine, come possiamo noi, sue membra, essere coronati delle rose del mondo? O pacifico Re divino, rendici simili a Te, e fa che cerchiamo solo le tue pene per partecipare al tuo amore.

Quando ci duole il capo, quel dolore sia per noi come una spina della tua corona, e quando ci vediamo umiliati, il nostro obbrobrio sia un mezzo per unirci al tuo amore, e guadagnare la corona immortale nei cieli.

O Re pacifico, regna dissipando con le tue pene le nostre illusioni, e rendici in Te novelle creature.

5. Il cammino del dolore, la crocifissione e la morte di Gesù

Dopo avere schernito Gesù, i soldati romani gli rimisero le sue vesti, ed ordinarono il triste corteo per condurlo al Calvario. Gli posero sulle spalle la pesante croce, perché la portasse Egli stesso, e difatti, benché sfinito, la portò per lungo tratto, soccombendo più volte al suo peso. Incontrato poi un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, i soldati lo costrinsero a portarla lui appresso a Gesù, perché Gesù non fosse venuto interamente meno, e non fosse morto per la strada.

L'evangelista accenna con grande semplicità a questo episodio, e fa notare che Simone era padre di Alessandro e di Rufo, due personaggi che dovevano essere conosciuti ed apprezzati presso i Romani, per i quali egli scriveva il Vangelo.

Per Simone fu un affronto essere costretto a portare la croce, e ve lo dovettero costringere; ma, dopo la risurrezione di Gesù Cristo e la sua glorificazione, riguardò come un titolo di grande onore l'averlo potuto aiutare nel cammino doloroso.

Egli non avrebbe mai supposto, quando fu angariato dai soldati, di diventare il simbolo di tutti quelli che prendono le croci della vita e seguono Gesù sul Calvario.

Il Redentore aveva già detto che chi vuol essere perfetto deve rinnegare se stesso, prendere la croce e seguirlo, e Simone il Cireneo fu il primo ad esprimere in sé questa grande legge di amore, perché lo seguì anche materialmente caricato della croce. Egli veniva dalla campagna dopo avervi lavorato, ed attratto dal frastuono del triste corteo, vi si avvicinò non supponendo di essere costretto a prendere la croce, e la portò a malincuore borbottando e protestando, immagine viva di quelli che portano la croce giornaliera lamentandosene come se fosse per loro un'ingiusta sopraffazione.

Gli eventi della vita ci costringono tante volte a portare il peso di grandi tribolazioni, e sono come i soldati del Calvario che ci forzano a portare la croce appresso a Gesù; invece di riguardarci come sventurati, pensiamo allora di seguire il Redentore al Calvario per alleggerire le sue pene, e diamogli volentieri il piccolo contributo del nostro amore per la salvezza delle anime.

Giunti sul Calvario, dettero a Gesù, com'era di uso per i condannati, una coppa di vino mescolato con la mirra, affinché avesse sentito meno il tormento della crocifissione, ma Egli non ne volle, perché volle invece bere sino alla feccia il calice del suo immane dolore.

Spogliatolo delle vesti, lo inchiodarono al legno ferale nella maniera più crudele, e sotto i suoi occhi si divisero le sue vesti, sorteggiando fra loro la tunica inconsutile, come ci dice san Giovanni (19, 23-24). Le vesti dei condannati appartenevano ai soldati, ma il giocarle sotto la croce era il colmo del disprezzo e della noncuranza per le immani angosce del Crocifisso.

Il retroscena della croce

Posero sulla croce il motivo della condanna, scritto da Pilato stesso in ebraico, greco e latino su di una tavoletta: re dei Giudei. L'evangelista lo riporta abbreviandolo; la scritta per intero suonava così: Gesù Nazareno, re dei Giudei. Non era l'espressione di un delitto commesso, ma la proclamazione della sua regale dignità, perché in realtà su quella croce Egli era solamente Re; regnava immolandosi, e dava tutto sé stesso per conquistarci come sua eredità. I più grandi misteri di amore si svolgevano e si compivano in mezzo all'infuriare della più grande perversità umana, e Dio si mostrava padrone assoluto degli eventi. Gli uomini più scellerati, che direttamente avevano voluto annientare ogni vita ed ogni prestigio di Gesù, non si accorsero di essere i vili cooperatori dei suoi disegni d'infinito amore.

Così avviene sempre nel mondo quando si consumano certi delitti spaventosi che fanno raccapricciare. Occorre una grande fede in questi frangenti, e bisogna adorare quegli altissimi disegni che noi non vediamo. L'uomo scellerato consuma il delitto, e Dio traccia le linee di una grande opera d'arte, tanto più immensamente grande, quanto meno noi possiamo scorgerla. Sono momenti di grande cimento di fede per noi, senza dubbio, ma dobbiamo essere certi di Dio, e non possiamo supporre che Egli permetta certi orrori oziosamente, o perché impotente ad impedirli. Il retroscena della croce è immensamente e divinamente grande, così immensamente grande è il retroscena di certi delitti che si commettono contro innocenti creature, delitti che sono la continuazione del Calvario nel Corpo mistico del Redentore.

Satana scelleratissimo tenta di screditare Dio in tal modo, e spinge i propri ministri a spaventose raffinatezze di crudeltà, come abbiamo visto in tante eroiche nazioni, e nelle vittime innocenti del pudore e della castità, ma la nostra fede deve confonderlo, ed invece di dubitare di Dio, dobbiamo più profondamente adorarlo, unendoci con le nostre lacrime e la nostra compassione alle misteriose immolazioni delle vittime innocenti.

Certi misteri possiamo conoscere solo nell'eternità, e certe creature che ci appaiono ora supremamente sventurate sono invece le grandi privilegiate della vita, le grandi associate al Redentore nell'espiazione e nella riparazione di quei delitti morali che non appaiono a noi, e sono mille volte più truci dello scempio di un corpo. Oh, se un peccatore, e soprattutto un sacerdote traviato, ponderasse i suoi delitti ed il prezzo del loro riscatto, invece di lacrimare sul Crocifisso o sulle vittime a Lui associate, piangerebbe amaramente sulle proprie iniquità!

Crocifissero con Gesù due ladroni, uno alla sua destra ed uno alla sinistra, perché il suo obbrobrio fosse stato pieno e, secondo la profezia d'Isaia (53,12) Egli fu così annoverato tra i malfattori.

I sacerdoti, gli scribi ed i farisei procurarono in tutti i modi di amareggiare Gesù e di fargli perdere ogni prestigio in mezzo al popolo; perciò dovettero brigare essi stessi, perché fosse posto fra due ladroni, nel mezzo, come il più cattivo

malfattore, e passando scrollavano il capo in segno di profondo disprezzo, facendo notare, secondo essi, la vanità delle sue parole e la sua impotenza a discendere dalla croce.

Quelle ingiurie furono penosissime al Cuore di Gesù, perché cagionavano un profondo scandalo nelle anime, ed Egli pregò, pregò perché non si fossero interamente disorientate, invocando il perdono sui suoi carnefici.

Forse per questo Dio mandò sulla terra fitte tenebre, che atterrirono il popolo e gli fecero balenare l'idea che Colui che moriva era il Figlio di Dio.

Quelle tenebre in realtà furono come una luce per tante anime, nelle quali rimaneva ancora un filo di rettitudine.

Gesù affannava, poiché si approssimava l'ora della morte. Tre ore stette in agonia, ma la sua agonia era solo spasimo di morte; Egli era in perfettissima coscienza, e guardava i secoli.

Affannava. Sospeso ai chiodi, il suo corpo era preda di un tormento indicibile, ed il suo Cuore era martoriato da pene ineffabili.

Affannava. La sua umanità stanca cercava in Dio un momento di riposo, e l'anima sua anelava a grandi espansioni di amore. Ma le stesse pene che soffriva in tutto il corpo rendevano estremamente penose le sue attività interiori.

Affannava e cercava nei cieli la luce; ma i cieli erano chiusi, perché doveva aprirli Egli stesso con la sua morte. Non aveva dunque un solo spiraglio di consolazione, e perciò esclamò a Dio: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Era il supremo sacrificio dell'anima sua, poiché Egli volle dare tutto quello che aveva, anche la gioia interiore dell'amicizia di Dio. Era questo il prezzo che pagava perché la misericordia di Dio non avesse abbandonato mai gli uomini nell'ultimo momento della vita.

A quel grido di supremo dolore, alcuni dei circostanti, forse sacerdoti e scribi cominciarono a deriderlo, dicendo che Egli chiamava in aiuto Elia. Evidentemente come si rileva dal contesto, Egli gridò più forte nel dire: Eloi, Eloi, e le altre parole le disse più a bassa voce; quelli che lo schernirono erano più lontani, e sentirono solo le due prime parole, supponendo che chiamasse Elia; tanto è vero che uno di essi corse verso la croce, dove c'era l'aceto per i condannati, ed inzuppatone una spugna, gliela porse sull'estremità di una canna, dicendo: Aspettate, stiamo a vedere se venga Elia a tirarlo giù. Ascoltando quel grido, suppose che domandasse aiuto ad Elia, e poiché Gesù aveva detto di aver sete (Gv 19,28), volle prestargli quel piccolo atto di pietà, porgendogli l'aceto. Nel darglielo i sacerdoti dovettero mostrarsene contrariati, perché la loro barbara crudeltà non aveva limiti, e dovettero mormorare contro colui che dava l'aceto, quasi fosse un discepolo del moribondo Signore. Egli allora, preso da rispetto umano, e per stornare da sé una taccia che gli sembrava sommamente infamante, si unì al coro degli schernitori, e disse: Aspettate, stiamo a vedere se venga Elia a tirarlo giù.

Ma Gesù non sembrò che ascoltasse quegli ultimi insulti; era tutto compreso dalla solennità della morte, alla quale concedeva di troncare la sua vita, ed era tutto teso al Padre in quegli estremi momenti. Raccolse l'ultimo suo anelito, diede un gran grido abbandonando l'anima sua a Dio, e chinato il capo, spirò.

Che cosa immensamente solenne quel ultimo anelito! Gesù chinò il capo verso la terra per dare agli uomini una novella vita, e come Dio spirò sul fango il suo alito creatore e lo rese anima vivente, Egli spirò sull'uomo il suo soffio di Redentore, e lo rese capace di una novella vita di grazia. Spirò, ed abbandonato maggiormente al peso del suo corpo, sembrò girarsi da un lato, rimanendo solennemente immobile.

Era là, in un atteggiamento di profonda pace, sempre unito alla Persona divina, e poiché era terminata la redenzione, traspariva dal suo volto non l'umiliazione del condannato, ma la placida maestà del Re d'Amore.

Quell'immenso Cuore s'era spento, non palpitava più, non amava più ma era come un tempio solenne, tutto profumato d'incenso nel silenzio che subentra ad una solenne funzione, era un Cuore profumato di carità e di preghiera, monumento e testimonianza di quell'amore che l'aveva condotto fino alla suprema immolazione. Il Cuore morto di Gesù, quale mistero! Era ancora ripieno di carità e sentì il bisogno di aprirle un varco; si fece squarciare per aprire alle anime le porte della misericordia, e diede l'acqua del pericardio e le ultime stille di Sangue, per dire che s'era esaurito per amore!

Alla morte di Gesù il velo del tempio che chiudeva il Santo dei Santi si squarciò in due, dall'alto in basso, poiché terminava l'Antico Patto e l'Arca non aveva più ragione di essere. Si squarciò perché una violenta scossa di terremoto spostò i pilastri che lo reggevano, ma il terremoto fu ministro della potenza di Dio che apriva i tesori delle sue misericordie e proclamava con quello squarcio di non essere più lontano dall'uomo.

Il centurione che stava sul Golgota, ascoltato il grido di Gesù, ne fu talmente scosso che riconobbe in esso un segno della divinità dell'ucciso, ed esclamò: Veramente quest'uomo era Figlio di Dio. Quel grido rivolto al Padre ebbe dunque tale accento di verità, e mostrò tale profonda intimità col Padre, che solo un vero Figlio avrebbe potuto lanciarlo nell'atto di lasciare la vita corporale. Le pie donne, presenti sul Calvario, stavano da lontano a vedere, non potendo avvicinarsi alla croce; lo avevano seguito e servito nelle sue peregrinazioni ed ora rimanevano impietrite dal dolore, per la morte del loro Maestro amato e per l'impossibilità di rendergli il più piccolo servizio.

I nemici discesero dal monte, e molti si percuotevano il petto, si sentiva ancora e solo l'affannare dei due ladri crocifissi, che non erano ancora morti, ma che dovevano essere entrati anch'essi in agonia. Quale spettacolo quelle tre croci sullo sfondo del cielo ancora semioscurato!

Sul Calvario c'era Maria Santissima, solenne nel suo dolore, unica adoratrice della Persona divina del Verbo in quel Corpo divino. Aveva le mani conserte, lo sguardo alla croce, il cuore trapassato e pregava. Certamente pregava per i peccatori perdonandoli. Ella, Corredentrice del genere umano, aveva raccolto nel suo Cuore la grande ricchezza della redenzione, e la serbava intatta per dispensarla poi agli uomini.

Pregava. Avrebbe voluto morire in quel momento medesimo, ma sapendo che non era volontà di Dio, rimaneva in terra come lampada accesa innanzi al trono della grazia e della misericordia.

6. La sepoltura di Gesù Cristo

Era già passata qualche ora dalla morte di Gesù e calava la sera. Se fosse scoccata l'ora del riposo sabbatico; sarebbe stato impossibile levare il Corpo divino dalla croce, e perciò gli stessi sacerdoti, per evitare che nella solennità pasquale fossero rimasti esposti i corpi dei condannati, dovettero sollecitare le guardie a finire i ladri a colpi di mazze ferrate, ed a gettare i tre corpi nella fossa comune, insieme agli strumenti del loro supplizio, com'era d'uso, essendo riguardati come sommamente maledetti.

Nicodemo, ch'era parte del consiglio del sinedrio, fu certamente informato di tutto, e ne parlò a Giuseppe d'Arimatea per concertarsi sulla maniera d'impedire l'ultimo scempio al Sacratissimo Corpo. Giuseppe non pose tempo in mezzo e si recò da Pilato domandando in grazia d'avere egli in consegna il corpo di Gesù per seppellirlo onoratamente in un proprio sepolcro, nuovo, scavato nella roccia. Egli era un nobile decurione, dice il Sacro Testo, cioè era membro del sinedrio secondo il testo greco. Pilato si stupì che Gesù fosse già morto, perché i crocifissi stavano spesso più giorni vivi sulla croce; perciò non diede il permesso senza prima essersi informato dal centurione. Saputo che era morto veramente, autorizzò Giuseppe a togliere il Corpo divino dal patibolo ed a seppellirlo come voleva.

La giornata declinava e Giuseppe aiutato da Nicodemo dovette affrettare la sepoltura. Non poté imbalsamare il Corpo come avrebbe voluto, ma l'avvolse in una sindone bianca e, fasciatolo secondo l'uso, lo ripose nel sepolcro, e chiuse la caverna con un grande masso che rotolò all'imboccatura; il macigno, infatti, aveva la forma di una macina da mulino.

Maria Maddalena, dice il Sacro Testo, e Maria madre di Joses, seguirono il corteo e notarono dove riponevano il Corpo divino, evidentemente per ritornarci, passata la festa, e cospargerlo di oli aromatici. Col masso col quale fu chiuso il sepolcro, si può dire che fu chiuso anche il cuore dei discepoli e delle stesse pie donne.

Oramai ogni speranza per loro era tramontata come un'illusione. Non potevano negare la bontà di Gesù, lo amavano ancora, ma non credevano di poter sperare altro da Lui. È probabile che le pie donne presenti al Calvario abbiano risentito in loro profondamente le parole di scherno dei sacerdoti, ed al loro grido ipocrita: Scenda adesso dalla croce affinché vediamo e crediamo, abbiano fatto eco con ardenti desideri che fosse veramente disceso. Forse glielo dicevano nel loro cuore con un impeto di straziante amore: Scendi, scendi, mostra la tua potenza, e facevano ardenti preghiere perché fosse avvenuto un grande miracolo. Questo può rilevarsi dalla stessa psicologia della loro fedeltà, giacché se i discepoli erano fuggiti, esse avevano avuto il coraggio di andare fino al Calvario. Speravano ancora, ma la loro fede era come quei raggi di sole che al tramonto diventano sempre più scialbi, fino a confondersi con le tenebre; più passava il tempo e meno credevano; la morte del Maestro divino le schiantò e le fece rimanere come inebetite; esse stavano veramente a vedere da lontano, poiché non capivano più nulla dei disegni di Dio.

La sepoltura estinse in loro l'ultimo raggio di speranza nel loro cuore, e con le tenebre della sera si ottenebrò anche il loro cuore;

Certo fu un cimento grandissimo, ma, se avessero avuto fede nelle parole di Gesù e nelle predizioni dei profeti, avrebbero ancora sperato almeno fino al terzo giorno. Il Redentore aveva detto: Risusciterò il terzo giorno; ma chi poteva più prestare fede a queste parole, dopo tanto clamoroso insuccesso? Esse pensavano che quella promessa era come tante altre che sembravano fallite, e satana soffiava nel fuoco, per disorientarle ancora di più.

Solo Maria Santissima conservò la sua mirabile fede ed attese fiduciosa la risurrezione pur essendo angosciata fino alla morte. Si conciliavano in Lei benissimo la fede ed il dolore, come si concilia la notte col brillare delle stelle.

La fede era nel profondo nell'anima sua e nelle altezze della sua fedeltà a Dio, il dolore era tra le pieghe del cuore ottenebrato e trapassato dal dolorosissimo distacco.

Essa era Regina e guardava lontano ancora, presentendo il sopraggiungere del Re tra fulgori di gloria novella; era madre e si sprofondava nel suo immane dolore, perché era priva del Figlio divino.

Il macigno rotolò sul cuore delle donne e vi estinse l'ultima fosforescenza di fede, rotolò sul Cuore di Maria e lo schiacciò nell'immane peso della maternità orbata del Figlio.

Tra questi contrasti vivi s'infittivano le tenebre, ed una pace arcana avvolgeva la tomba ed il non lontano Calvario. Anche i corpi dei ladri erano stati tolti e sepolti. Tutti s'erano dileguati, e la città sottostante rumoreggiava dei preparativi della grande solennità. Gerusalemme, a vederla dall'alto, era come avvolta in una ombra ferale nella sua stessa animazione. Era una città rea, sulla quale pesava la maledizione dell'immane delitto commesso. Maria pregava; vicino alla tomba si effondeva ancora in accenti di amore ed adorava.

Era l'unico cuore vivo che palpitava per Gesù di vero amore, e sperava, ringraziando il Figlio suo d'averci redenti. Poi venne la guardia a custodire il sepolcro, e dovette andar via gemendo, ma il suo Cuore addolorato era tutto pieno di riflessi di vita.

La gloria del Figlio le rifulgeva già nello spirito; lo vedeva sui cieli, lo contemplava vittorioso, lo chiamava perché trionfasse anche sulla terra.

Ripassava per la strada dolorosa; era tutta in silenzio, ma era come un viale di gigli e di rubini e come una strada di campi profumati, poiché era cosparsa delle gocce del Sangue divino.

O mio Gesù, quando ti eclisserai da me, e le tribolazioni m'angosceranno sino alla morte, quando mi sembrerà che le tue parole siano fallite, e vedrò lo sconcerto o nell'anima mia o nel mondo, mi unirò alla fede di Maria e spererò. Tu vinci certamente, e le tue parole sono verità; lo credo!

Tutta questa immane passione della Chiesa finirà nel tuo trionfo: lo spero! E tendo a Te con tutte le forze anche nelle mie tenebre angoscianti: ti amo!

Sac. Dolindo Ruotolo

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