Il mirabile e divino discorso detto della montagna, che stiamo per meditare, fu pronunziato da Gesù Cristo dopo altri avvenimenti dei quali parla san Luca (capitolo 4), quindi non si trova in san Matteo secondo l'ordine cronologico. Esso però sta in quell'ordine divinamente logico, col quale il Signore ci traccia la via del cielo, sottraendoci alle funeste illusioni di satana ed al fascino del mondo e della carne.
Dopo il capitolo della tentazione di Gesù nel deserto, sintesi delle insidie con le quali satana cerca sviare la nostra vita, ecco la luce divina di una sapienza nuova, che capovolge tutte le idee effimere che si avevano della felicità, e mostra la vera via di quella beatitudine temporale ed eterna, cui l'uomo aspira.
Satana in fondo aveva tentato di tracciare lui la via del godimento e della gloria, sia nell'Eden col primo Adamo, sia nel deserto col secondo; tutte le sue tentazioni hanno tuttora questo carattere, ed egli vuole apparire come il consigliere della povera umanità, ingannandola con lusinghe che poi finiscono per diventare sorgenti di grande infelicità. Era logico dunque che Gesù Cristo opponesse alle tenebre dello spirito infernale la luce divina d'insegnamenti atti a dissipare dall'anima umana la tentazione che la trascina negli abissi dell'infelicità temporale ed eterna. Diciamo subito che il discorso, che meditiamo, non è raccolto e formato dall'evangelista, coi vari insegnamenti del Redentore, come pretesero alcuni, ma è fluito come si trova dalla bocca del Redentore. Egli anzi dovette ripetere più volte questi suoi insegnamenti, come appare dal Vangelo di san Luca, nel quale il discorso è riportato più sinteticamente, e non è proprio lo stesso di quello di san Matteo. San Luca probabilmente riporta il discorso come fu ripetuto agli apostoli dopo la loro elezione.
Gesù Cristo, seguito da una grande moltitudine che, come s'è visto nel capitolo precedente, accorreva a Lui per essere sollevata nelle sue pene e nelle sue infermità, salì sopra un monte per insegnare quelle novelle verità che dovevano tracciare la via della vera pace e della vera beatitudine. Nel capitolo precedente è detto che Egli curò ogni sorta di malattia e le infermità del popolo (4,23-25), ma ora non si accenna a nessun beneficio temporale, giacché il beneficio spirituale della luce della verità in mezzo alle pene della vita supera qualunque altro.
Come Mosè promulgò la Legge avuta da Dio su un monte, e si ritirò nelle altezze per ascoltare meglio la voce divina, così Gesù Cristo volle promulgare la Legge novella da un monte, e perciò il suo discorso è detto della montagna. Quale sia il monte sul quale si ritirò, non può dirsi con esattezza; secondo una tradizione antica sarebbe il Korne-Hattin, che si eleva a 346 metri sul livello del Mediterraneo, a circa 8 chilometri a Nord-Ovest di Tiberiade. Gli apostoli, i discepoli, il popolo seguirono il Maestro divino, e si disposero intorno a Lui per ascoltarlo. Non attendevano altro in quei momenti preziosi, non domandavano altro.
I grandi condottieri o animatori di folle parlano quasi sempre solleticando gl'interessi materiali o l'orgoglio delle masse; Gesù Cristo invece parla la parola della verità, e quel che è più della verità che più contrasta le terrene aspirazioni, additando come mèta della beatitudine e della gloria quello che comunemente si crede mèta d'infelicità e di obbrobrio. Forse Gesù non poteva mostrare in una maniera più persuasiva e penetrante la sua divinità, poiché solo Dio, che conosce e scruta le reni ed i cuori, poteva proporre una dottrina apparentemente così contraria alle umane tendenze e persuasioni, e nello stesso tempo così profondamente vera.
È questa infatti la caratteristica delle divine parole di Gesù Cristo: esse nella loro dura espressione non sono in armonia con quello che la natura umana, fragile e presuntuosa nel medesimo tempo, crede un bene; eppure additano, anche umanamente parlando, la vera via della beatitudine temporale ed eterna. Approfondite alla luce di Dio, sono un programma dell'eterna conquista, ed approfondite anche alla luce della ragione, sono una filosofia altissima, per così dire, una rivelazione delle vere condizioni alle quali l'uomo può conquistare la libertà interiore e la pace, dominando tutti gli ostacoli che vi si frappongono.
È questo quello che bisogna riflettere nel meditare l'arcana parola di Gesù, perché, oggi specialmente, si ingannano le turbe, facendo loro credere che Gesù Cristo abbia solo promesso ricompense eterne irraggiungibili, ed abbia richiesto sacrifici penosi; s'ingannano i cuori e le menti facendo credere che la dottrina del Redentore è sorpassata, perché dottrina buona solo per anime leziosamente mistiche, incapaci di affrontare i grandi problemi della vertiginosa vita moderna, satura fino all'ebbrezza di desideri e di bisogni di godimenti, carica fino allo scoppio di sentimenti guerrieri, assalita come preda da tutte le belve dell'umana cupidigia, e ringhiante come belva contro tutto ciò che si oppone alle sue brame.
Un'umanità che forma le sue generazioni al passo di marcia, e le riempie di sentimenti di dominio, di violenza e di sopraffazione, un'umanità che apre alle passioni tutti gli sbocchi, demolisce tutte le dighe opposte ai piaceri sensuali, ed è inondata di putredine e di tabe credendola sangue di vita e rigoglio di giovani forze, una generazione che accende, adorandoli paganamente, i fuochi sulle montagne hitleriane, o corre in brache con la fiaccola olimpionica fra gli applausi freneticamente incoscienti dei frenetici adoratori della forza bruta, come potrebbe contentarsi delle parole divine che predicano l'umiltà, la povertà e la pace come segreto di vita?
3. L'apostasia moderna, il... colera e le epatopatie
Forse una delle ragioni più profonde dell'apostasia moderna dalle dottrine del Vangelo sta proprio in questo: si sono prospettate quelle dottrine da un punto di vista solo mistico o trascendente, senza attrarre l'attenzione della ragione sul loro valore divinamente reale anche per la vita temporale; si è mostrato come meta di eroismo quello che è anche meta di logica e di ordine, e si è fatto credere che certe massime sono buone per chi sposa una vita di ozioso ascetismo quasi identificato col fachirismo indiano, non per chi sta nella realtà vorticosa della vita.
E necessario sfatare questi pregiudizi, e mostrare alla luce della medesima logica e della psicologia umana, che la dottrina di Gesù Cristo è divinamente vera proprio quando la si riguarda in relazione con la oggettiva e dura realtà della vita, della vita guardata come è, non mutilata nei suoi gangli vitali.
E infatti un altro errore funesto nella valutazione della vita reale quella di mutilarla prima, e poi presumere di adattare le dottrine a questa mutilazione. Si capisce che per i mutilati del piede destro non vi sono che scarpe di sinistra, e che una calzoleria che venda ancora scarpe appaiate sembra sorpassata. Si capisce che per i mutilati di un occhio il cristallo zeiss punktal è un anacronismo per l'orbita vuota, dove occorre solo un pietoso cristallo nero che la nasconda. S'intende che tutte le vivande squisite sono inutili per chi ha lo stomaco ulcerato o atrofizzato. Un pranzo non è un enteroclisma Cantan, d'accordissimo, ma solo per i malati di stomaco, che hanno perduto l'uso della bocca non già per i sani. Ora giudicare le dottrine della vita, applicandole ai mutilati o ai morti, e pretendere che sia sorpassata la teoria muscolare sol perché inapplicabile agli stinchi inariditi di un cimitero, è tale stoltezza che muove a compassione profonda.
La moderna generazione crede di essere diversa da quella di una volta, perché stima grandezza di vita reale le sue mutilazioni, o crede funzioni normali della vita le sue infermità. È una delle illusioni più diaboliche. Nel reparto coleroso di un lazzaretto è funzione normale di tutti il recere o il defecare, ma è funzione della vita inferma; nel reparto fegatosi di un ospedale, è normale il colore itterico, ma non è il colore della salute.
Le vertigini della vita moderna non sono vita, sono sintomi di profonde infermità; la gioventù che corre al vizio non è matura ma fradicia; la donna che si mascolizza non è evoluta ma degradata; l'uomo che adultera non è un viveur, come si dice, ma un putrescente avanzo della corruzione, non è un galante ma un avvilito. Non è un anacronismo la scarpa numero 37 per un piede cinese atrofizzato, ma è un anacronismo il piede; non è anormale un cappello per un microcefalo, ma è anormale il microcefalo.
Se l'umanità non conosce più le vie dello spirito che pur la vivifica, può dire anormali le dottrine dello spirito? E se da aquila s'è ridotta come talpa, può condannare il volo che porta sulle vette illuminate? Insistiamo su di questo concetto, perché siamo sicuri che l'apostasia del mondo dal cristianesimo ha la radice tutta in questa incoscienza della vera natura umana, in questo scambiare i mutilati per corpi sani e i malanni per condizioni normali di vita.
La Germania, per esempio, che pur sarebbe Capace di diventare una nazione esemplarmente cristiana, come lo dimostrano le sue falangi cattoliche, è caduta nel delirium tremens hitleriano che gonfia come vesciche tutte le illusioni orgogliose della razza, e fa vedere i giovani negli specchi concavi della vanità, come teste gigantesche alle quali non calza più il cappello cristiano, mentre sono teste ingrandite solo dalla deviazione dei raggi luminosi dal centro della loro riflessione, teste che al calzare il cappellaccio gigantesco costruito per le immagini dello specchio, rimangono soffocate e senza respiro, e si accorgono di essere infinitamente più piccole!
La parola dell'infinita sapienza, che conosce a fondo le sue creature e ne valuta tutte le aspirazioni, non può ascoltarsi con l'incosciente spirito critico di chi vede solo la parte superficiale dei problemi della vita; la parola di Gesù Cristo si ascolta adorando, con la persuasione ferma che è verità, assoluta e relativa, anche quando è incomprensibile all'occhio miope della ragione annebbiata.
È una Parola divina, non bisogna dimenticarlo, che si può ascoltare solo come si ascolta nelle Messe solenni, con la luce della fede accesa da un lato, e la luce della propria stima dall'altro, ritta su di un cuore che vive, tra i profumi incensanti della preghiera e dell'amore, in piedi, con l'anima cioè sollevata dalla polvere terrena e con lo sguardo fisso al cielo, in piedi, nella nobiltà della natura umana che non va carponi sul suolo di tutte le degradazioni.
Come nella famosa grotta detta del cane, nel cratere della Solfatara di Pozzuoli vi soffoca chi va carponi, non chi sta eretto, perché a livello del suolo sono le esalazioni asfissianti, così chi pretende ascoltare il Vangelo carponi, ridotto come bruto, prono su tutte le esalazioni mefitiche dei sensi, non respira la vita, ma è asfissiato dalle proprie stoltezze.
Non si può ascoltare la musica con la testa congestionata dall'emicrania, perché anche le più soavi note allora la martellano né si può sentire il profumo della madia piena di pane caldo, con lo stomaco rivoltato dalla sbornia; è necessario avere un po' in ordine la testa ed il gusto; è necessario nutrirsi di cibo sano e respirare l'aria salubre dei monti.
Come possono intendere il Vangelo quelli che sono abituati alle avvelenate e false atmosfere dei romanzi e dei cinema; come possono intenderne la profondità i cocainomani dello spirito, abituati a sognare fra le irritazioni di ogni eccitamento sensuale?
Risaliamo a galla dal fondo dove siamo caduti, e solo allora intenderemo gli orizzonti di felicità che ci mostra il nostro amabilissimo Re.
4. La beatitudine vera di chi peregrina in terra
La beatitudine è un premio, e come tale suppone la prova; perciò prima di raggiungerla nel Cielo eternamente, noi subiamo la breve e passeggera angustia della vita presente. Quest'angustia tende ad addestrarci alla ricerca di Dio, alla sua conoscenza, al suo apprezzamento ed al compimento della sua volontà.
La vita quindi è più gravosa quanto più è impigliata nell'ambito della terra, ed è più beata quanto più se ne distacca.
Tutte le raffinatezze della vita del tempo non sono che fili di una rete che tarpa ogni volo dell'anima, e che rende più ardua la conoscenza di Dio e il compimento della sua volontà; esse perciò hanno un segreto di somma infelicità.
E l'esperienza quotidiana che ce ne convince, e bisogna pure avere il coraggio di liberarsi da tutte le menzogne convenzionali, con le quali satana, il mondo e la carne ci trasportano sulle false altezze unicamente per farci precipitare o per farci adorare le brutture dello spirito maligno.
E per convenzionalismo, bisogna riconoscerlo, che noi stimiamo grandi certe altezze della vita terrena, dicendo grande la filosofia, la scienza, la politica, le arti, la letteratura, ma in realtà nessuno oserebbe dire che queste cose rendono beata la vita. Sono alture sulle quali si ascende a grande fatica, e che, raggiunte, fanno scorgere solo i monti impervi che non si raggiungono, e gli abissi che ad ogni passo falso minacciano d'inghiottirci.
Se si vuole essere giusti, bisogna confessare che nel mondo il reparto più colmo d'infelicità è proprio questo che appare come una mèta delle aspirazioni umane. Chi ha raggiunto una vetta scoscesa, strapiombante nell'abisso, sembra un dominatore a chi lo guarda da lontano, ma egli solo conosce le vertigini di quella posizione sulla quale non vorrebbe essere mai giunto. Da quelle altezze non si va oltre, si discende, e la discesa ha sempre le vertigini dell'abisso. Tutto è avvelenato d'assenzio e di amarezze indicibili in questa vita, anche le ricchezze, che sembrano i beni più immateriali e più semplici, mezzi infallibili di novelli beni; tutto come l'ortica, anche quando non appare, dà punture fastidiose. Noi infatti abbiamo, per così dire, due capacità nella vita: una materiale che è limitatissima, e che, ricolma, preme sulle pareti e le strazia, ed una spirituale che esige un vuoto sempre maggiore per essere riempita di ciò che viene da Dio.
Tutto quello che è soverchiante nella materia dà la pena dell'indigestione, e tutto quello che pretende riempire la capacità dello spirito con la materia, dà lo spasimo dell'avvelenamento.
Sono verità che magari non si ha il coraggio di sperimentare, perché si ha l'orecchio assordato dagli inviti del mondo, del demonio e della carne, ma sono verità che si controllano nostro malgrado nella vita quotidiana.
Chi vive nella città, e specialmente nelle fragorose metropoli moderne, riguarda la pace della campagna come un'oasi nel deserto: è attratto dalla rude semplicità primitiva, gli sembrano poeticamente attraenti le pareti disadorne, i piatti di creta, gli orcioli che fanno da bottiglie; i piedi nudi sul terreno brullo sembrano più belli delle calzature eleganti, lo scialle, che incornicia il volto schiettamente sano di una contadina, sembra più attraente di tutte le eleganze mondane; si respira a pieni polmoni, si è come prigionieri liberati per un momento dai ceppi, o come uccelli fuori gabbia che raggiungono trillando i rami. È un momento di felicità relativa, dovuta alla semplicità di una povertà che non è miseria, ma è sazietà più proporzionata alla nostra capacità materiale. Il contadino non capirà magari la superiorità della sua condizione rispetto ai cittadini, come i bambini non intendono la felicità della loro spensierata età, ma non si può negare che quella vita ci fa invidia e fa invidia, molto più a chi è tutto irretito nelle cose del mondo. Non è la povertà vera dello spirito, per l'incosciente scontentezza che l'accompagna, ma in se stessa è un'immagine e, se è accompagnata dalla pienezza spirituale che trae l'anima alle altezze eterne, è un saggio di felicità vera.
5. Beati i poveri di spirito
Si fermò e si pose a sedere, sia per stare più paternamente in mezzo ai suoi figli, sia per invitarli a sedere anch'essi sui sagginali naturali o sull'erba.
Volse lo sguardo su quella moltitudine di anime semplici, la paragonò alle folle orgogliose del mondo; vide l'enorme differenza che v'era fra la vita semplice e quella complicata, vide la bellezza di una vita ancora più semplice, libera dagli impacci superflui della vita presente e tesa tutta verso le grandezze della vita eterna, ed esclamò: Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Egli voleva dire prima di tutto a quei poveri che l'avevano seguito, abbandonando ogni altra preoccupazione della vita materiale, per ascoltare la parola del regno dei cieli, che erano beati, e voleva promulgare solennemente la beatitudine che Egli era venuto a portare sulla terra come Redentore.
Il suo regno non doveva essere formato da grandezze politiche, come si aspettavano gli Ebrei, contorcendo il senso delle Scritture, non si fondava sulle ricchezze o sulla gloria terrena, ma sulla rinunzia ai desideri fugaci della vita e sull'aspirazione ai beni eterni.
I desideri terreni, infatti, sono come bevande gassose, dilatano lo stomaco ma non lo saziano, i desideri celesti invece sono come linfa benefica che si diffonde in tutte le fibre della vita e la fa fiorire.
Povero di spirito è chi è distaccato da tutto, pur possedendo, o chi, non avendo nulla, non desidera altro, e si acquieta nella vita, confidando in Dio solo.
Povero di spirito è chi non ha l'anima infarcita di sapienza umana, ma si apre con semplicità alla luce di Dio.
Povero di spirito è chi volontariamente abbandona i suoi beni, per abbracciarsi senza ostacoli al sommo Bene, chi sopporta con pazienza la perdita dei beni, chi tollera in pace la sopraffazione ingiusta, e spregia i beni che gli vengono rapiti, chi rinunzia alle sue agiatezze per consolare i poveri, e diventa come acquedotto della carità, sempre pieno e sempre vuoto di acque.
Povero di spirito è soprattutto chi confida in Dio solo, e riguarda come nullità le cose presenti, fissando gli occhi sempre alla dolce paternità del Signore, chi si crede nullità e non confida nelle proprie forze, ma fa appello alla bontà ed alla misericordia di Dio.
Beati sono ancora i poveri di beni materiali, che mutano la loro povertà in ricchezza spirituale, uniformandosi alla divina volontà e confidando nel Signore. La fiducia toglie l'angustia che cagiona la povertà materiale, poiché Dio interviene sempre per soccorrere chi gli si abbandona, e rende non solo sopportabile ma beata la condizione di chi non ha niente. Questi, infatti, non è angariato dalle tasse, non teme i ladri, non ha preoccupazioni amministrative, non è circuito da quei troppo affettati ammiratori che sperano carpirgli le ricchezze; è povero di affetti terreni e ricco di amore celeste; è operaio della vigna del Signore che vive alla giornata, ed è anche capace in certi momenti di godere più che i medesimi ricchi dei piccoli beni della vita. Il rammendarsi un abito lacero è per un povero una soddisfazione incomparabilmente superiore a quella di un ricco che rinnova un abito nuovo fra i molti che possiede; il mettersi un indumento nuovo, il mettere due scarpe che calzano meglio, il fare un pranzetto in una festa, sono piccole ma sincere gioie della vita pellegrina, ignote ai ricchi, soffocati e annoiati dalla loro stessa abbondanza, purché siano condite con lo spirito, col ringraziamento e la gratitudine al Signore.
Possiamo affermare con sicurezza che nessuno, per quanto istruito, onorato e ricco, possa emulare un'ora sola della gioia di san Francesco d'Assisi, quando depose i suoi abiti, si vestì di sacco, esponendosi alle beffe dei suoi contemporanei. Egli allora possedette il regno dei cieli, perché possedette l'intima amicizia di Dio, la ricchezza spirituale della grazia, e la sovrabbondante gioia della pace dell'anima.
Chi si distacca da tutto, e molto più chi abbraccia la povertà volontaria, entra nel vestibolo dell'eterna vita, poiché non tende che ai beni eterni, anticipa il distacco da tutto prima che la morte ve lo costringa, si trova libero e leggero nelle mani di Dio, per essere tutto ricolmato di grazie e di benedizioni. Forse chi viaggia non stima una grande ventura portare solo un piccolo bagaglio o non portarne addirittura? La povertà volontaria o di spirito è precisamente l'alleggerimento del bagaglio della vita; è la libertà del volo dato allo spirito; è il possesso del regno dei cieli promesso a chi abbandona tutto per amore di Dio. Il mondo appesantisce terribilmente la vita, e rende la morte un tormento spaventoso. È penosissimo il dover guardare la fossa angusta quando sembrarono angusti i castelli e il doversi spogliare di tutto senza portare con sé neppure uno spicciolo!
Beati i poveri di spirito anche per questo: essi guardano serenamente al passo supremo, non debbono distaccarsi da nulla, sono già spogli ed aspirano al volo supremo nelle braccia di Dio.
6. Beati i mansueti, poiché essi possederanno la terra
Si crede che sia un segno di forza l'adirarsi, mentre è un segno di estrema debolezza. Si rifrigge dalla stessa placida rassegnazione nei dolori della vita, quasi fosse segno di estrema inettezza, mentre è segno di placido dominio sugli eventi umani.
E così che la vita è amareggiata, e diventa praticamente un inferno, sia nelle relazioni familiari, sia in quelle sociali. Forse è una delle sofferenze maggiori proprio lo stare in contatto con caratteri puntigliosi ed impossibili, come non c'è gioia che più dilati il cuore quanto il poter trattare con una persona di dolci maniere.
Gesù Cristo addita ai suoi figli peregrinanti in terra un'altra via di tranquilla beatitudine temporale, ed un altro sentiero per il possesso dell'eterna vita, esclamando: Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra; la possederanno dominando i cuori con la bontà, la possederanno rassegnandosi ai voleri di Dio con la pazienza, la possederanno perché ne sentiranno meno il disagio, e possederanno al termine della vita anche la vera terra promessa, cioè il Paradiso, frutto di pazienza, di perdono e di carità.
A che cosa servono i gridi? A nulla; anzi servono a complicare le situazioni. L'esperienza dimostra che di fronte alla ribelle volontà umana si deve finire sempre per capitolare; non si riesce a dominare neppure un bambino quando assolutamente non vuole una cosa. E allora, invece di capitolare dopo per forza di eventi, non è più bello capitolare prima con la carità?
7. Il dominio della bontà
Bisogna essere mansueti di cuore e di parole con tutti; vincere l'ira altrui con risposte placide e serene, sopportare le ingiurie che ci vengono fatte, anzi esultare in esse per la somiglianza che ci danno col Redentore, e vincere il male col perdono e col bene.
Chi non direbbe che le vittorie dei Romani siano state fratto della forza brutale delle armi? Eppure è detto nel libro primo dei Maccabei (capitolo 8) che essi possedettero ogni regione col consiglio e con la pazienza. La stessa potenza militare non poté essere efficace che con la calma riflessione e con la pazienza. Con l'irruenza si può vincere una volta su cento la volontà altrui, con la mansuetudine si può perdere una volta su cento la battaglia.
Il mansueto ha la possibilità di penetrare i cuori e persuaderli,
l'irruente suscita le reazioni e non vince mai in profondità.
Il mansueto è come un raggio di sole che penetra placidamente ed è accolto con gioia,
l'irruente è un lampo di tempesta che spaventa.
Il mansueto è come aura refrigerante o pioggia placida che penetra fino alle radici,
l'irruente è come uragano che schianta a travolge tutto.
La terra non germina tra le tempeste, il mare non si attraversa tra i marosi, il cielo non si percorre tra i cicloni...
Tutto quello che si fa di bene in qualunque campo è condito dalla mansuetudine.
Anche l'artista possiede la materia che lavora con la pazienza e la calma, ed ha bisogno di mansuetudine serena contro le difficoltà che incontra e le resistenze che trova; se irrompe rovina tutto, e un atto di irruenza può distruggere il paziente lavoro di anni.
Anche quando è necessaria la forza, bisogna temperarla con la mansuetudine, non facendosi mai guidare dall'ira ma solo dalla giustizia e dall'equità. L'ira non dà il possesso di nulla; è un esplosivo che sconquassa e divelle, lasciando solo frantumi. La forza equilibrata della giustizia invece è come scalpello che incide e lavora.
A volte ci sentiamo soddisfatti dopo una sfuriata, e ci sembra che ci siamo finalmente imposti, invece non c'è sintomo più certo di una battaglia perduta quanto questa soddisfazione.
Se scrivi una lettera e vi metti frasi energiche, che dopo ti lasciano un compiacimento, cancellale immediatamente, perché sono frasi che ti fanno sconfiggere. È l'esperienza che lo dimostra. Quelle frasi tu le ricordi, le ripeti nel tuo interno, ti sembrano tutta la tua lettera, ti sembrano dardi infallibili al segno, ed invece sono dardi che ritornano a te.
Se avverti in te un irruento desiderio di reagire, di mettere le cose a posto, di far valere le tue ragioni, non parlare, taci e prega, perché è proprio allora che metti le cose fuori sesto e non hai ragione.
Se ti viene nell'animo il desiderio di una ripicca, o peggio di fare un dispetto, pensa che allora sei sopraffatto da te stesso, e getti in alto un masso che ti ricade sul capo.
Segnati nel cuore la Parola divina che non fallisce mai perché risponde alla realtà: Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra.
Come nella legge fisica dell'inerzia un urto non si arresta e può produrre un disastro, così nel tuo cuore un urto può trasportarti dove non vuoi. Il vagone, spinto sulla china, slitta, e il cuore tuo, spinto dall'ira, slitta fino al precipizio. Se il fieno non s'aggancia più, il vagone si sfascia, eppure a chi sta lontano sembra che vada trionfante nella sua corsa vertiginosa. Così sei tu quando non sai frenare i tuoi nervi: sembri trionfante e sei vinto; sembri forte e sei debole; sembri soddisfatto e sei amareggiato; sembri placato ed invece hai accumulato in te un novello esplosivo. L'impazienza genera l'impazienza e la ingigantisce fino al punto che non tollera più freni, ed esplode ad ogni piccola occasione. Non ti rendere schiavo di te fino a questo punto, possiedi il tuo sistema nervoso e dominalo, perché esso non ti leghi fra ceppi penosissimi.
Non dire che devi sfogarti se no crepi. Il tuo sfogo non serve che ad accrescere la prepotenza dei nervi, e tu in realtà ti prepari novelle angustie. Sfogati con Gesù, deponi nel suo Cuore le tue pene e prega. Non c'è mansuetudine più bella è più forte della preghiera, perché essa penetra i cuori, li conquide, li vince e li trasforma con la grazia.
Prega e parlerai all'anima: se gridi parli solo alle orecchie, e martelli i nervi senza giungere al cuore. L'irruenza chiude tutte le valvole, per così dire, della ragione, della volontà, del cuore, e suscita solo reazioni nei nervi e agitazioni nel sangue. Prega e chiuderai i freni dei nervi; prega e possederai anche questa terra umana, carica di tempeste.
Quando non riesci a convincere, e t'accorgi che il tuo fratello s'è irrigidito, a che più lo sferzi con le tue parole? Occorre il messaggio della carità per ricondurre il movimento della ragione in lui. Pensa che ogni irruzione violenta è, in fondo, un momento di pazzia, e che di questi momenti disgraziati ne hanno tutti; vuoi tu contendere col pazzo? Anche il pazzo si conquide più con la bontà che con la camicia di forza. I tuoi gridi possono avere solo il segreto di accrescere e prolungare il momento di pazzia, facendo congestionare il capo, o producendo una ipertensione nervosa.
Non credere alle massime del mondo; credi al tuo Signore; poni la tua gloria nel farti amare anziché nel farti temere, e fa che ogni amarezza versata in te sia dolcificata subito dalla tua dolcezza e dalla tua carità.
La beatitudine della nostra vita peregrinante in terra sta nella pace; non c'è prezzo per custodirla, ed ognuno deve fare di tutto per non turbarla negli altri e per averla in sé come tesoro.
8. Sii mansueto anche con te stesso e... con Dio
9. Beati quelli che piangono, poiché essi saranno consolati
10. Il pianto del mondo
Eppure esso piange. E tutto il suo riso apparente è pianto disperatamente convulso; piange nel fondo del cuore ulcerato dal peccato; piange nel profondo dell'anima inaridita e senza grazia; piange per i suoi sensi insoddisfatti nell'orgia che dovrebbe saziarli; piange per le schiavitù orribili che si crea e per le necessità che gl'impongono, piange nella vita insulsa e senza scopo, che fluisce nella morte come rigagnolo putrescente nell'abisso; piange innanzi all'orrore del sepolcro ed alle tenebre eterne, dove precipita per piangere eternamente la propria stoltezza e i beni perduti!
Il mondo ama, ma l'amor suo sta tutto nei sensi e distilla pianto amarissimo. Il suo cuore non può compenetrarsi con un altro, ma al contatto lo brucia e ne è bruciato, fluendo nei sensi come tabe cadaverica.
Oh, se si potessero raccogliere tutte le lacrime dell'amore umano! Se ne formerebbe un pelago di amarezze! Il mondo gode nei piaceri della gola, ma è soffocato subito dall'orgia, ed anche il suo piacere stilla lacrime. Corre appresso agli spettacoli per aumentare la sua brama e per accrescere la sua fame; piange, piange in ogni sua manifestazione di attività che è fermento di putrefazione. Non sono queste le lacrime che Gesù Cristo chiama beate, come non è il mondo che, piangendo disperatamente, può intendere la felicità del pianto del pellegrino che va verso il cielo!
11. Il pianto dei figli di Dio
Non c'è pianto più soave, più dolce, più fecondo poiché attrae nell'anima il perdono di Dio come un bacio d'ineffabile amore. Chi ha avuto la sorte di convertirsi sinceramente, e di deporre nel cuore sacerdotale le proprie colpe piangendo, sa che nulla può paragonarsi a quella soavità ineffabile. L'anima, quasi liquefatta dal pianto, fluisce nell'infinita bontà di Dio, e Dio, quasi rispondendo al pianto col pianto di amore, fluisce in Lei vivificandola con la grazia; quel pianto è il primo abbraccio del prodigo col Padre amorosissimo, è il ritrovarsi di un amore che s'era perduto, equivale ad un epitalamio, ad una fioritura, ad un raggio di sole che s'effonde attraverso le nubi ancora stillanti, come annunzio di pace. Forse le lacrime più dolci della vita sono proprio quelle del pentimento, perché sono come gocce di rugiada che riaprono il fiore intristito dalla siccità, e lo espandono al bacio dell'eterno Sole!
Beati quelli che piangono umiliandosi innanzi a Dio, quando sono avvolti dalla sua grandezza, e misurano nella sua luce la propria nullità. Le lacrime che fluiscono dal cuore sono allora come un cantico di apprezzamento della magnificenza di Dio, sono armonie che lo esaltano, ed alle quali Egli risponde guardando l'umiltà dei suoi figli, ed effondendo in loro i doni della sua grandezza.
Oh, come sono soavi le lacrime della santa umiltà, e come restringono l'anima in se stessa dolcemente, per espanderla in Dio! Sfugge in questo impiccolimento ogni miseria di orgoglio, si vuota il cuore di ogni presunzione e di ogni vanità, e l'anima si sente piena dell'unzione dello Spirito Santo. Se sapessimo piangere sempre sulle nostre miserie, quante consolazioni profonde raccoglieremmo nella vita!
Beati quelli che piangono sotto la mano purificante di Dio, che li chiama ad una vita di maggiore perfezione. Piange l'anima nel castigo dei suoi peccati o delle sue imperfezioni, e si sente liberata dalle sue grandi o piccole schiavitù, con grande sua consolazione. Piange nell'aridità che le purifica l'amore, e sente accrescersi la sete di Dio; piange per gli assalti diabolici che la tormentano, ma in queste lotte li vince e si addestra al maggiore apprezzamento di Dio; piange nelle angustie della vita, e si consola perché tende con maggiore impeto al sommo Bene.
Ogni giornata di angustie penose le fa sentire dopo la dolce frescura di una rinnovazione interiore che la distacca sempre più da se stessa e dal mondo, e le dà la sensazione di essere più libera nei voli del divino amore. Piange l'anima quando Dio la conduce per le più alte vie della contemplazione, purificandola prima nei sensi e poi nello spirito, con pene profonde, che hanno una soavità ineffabile, perché conducono l'anima nella dolcezza della pace e di una più profonda unione con Dio. S'ottenebra l'intelletto, sembrano legate tutte le potenze dell'anima, sembra inerte il cuore, insulsa la stessa direzione spirituale, ma l'anima si eleva, e benché non se ne accorga nelle sue pene, vola più alto e fiorisce mirabilmente.
Se con un microfono sensibilissimo si potessero raccogliere i movimenti e gli attriti di un seme che sboccia dalle profondità della terra, si sentirebbero lamenti e gemiti indistinti, quasi fossero le voci angosciate di chi soffre. Eppure quei lamenti sarebbero indice di una novella vita, e il contadino ne esulterebbe. Le pene della creatura che è elevata ad un più alto grado di perfezione, e le lacrime che distillano dalle sue prove sono precisamente il cantico della novella vita spirituale che sboccia al bacio di Dio eterno Amore!
12. Il pianto delle anime immolate nel dolore
E un fatto che le anime immolate dall'amore di Dio non vorrebbero mai uscire dal loro stato di angustia e, quando spuntano per esse giorni più sereni e si sentono libere dal peso della loro croce, la vanno ricercando ansiosamente. Sono belle anche le immagini che riproducono le immolazioni delle vittime di amore: un giglio tra le spine, una colomba ferita che vola al tabernacolo, una strada deserta fiancheggiata da roveti, una verginella carica di pesante croce, un'altra con le braccia aperte nell'offerta generosa, un orto devastato dalla tempesta... Tutto questo è bello perché è la poesia dell'amore immolato. Quale gioia più grande quanto quella di rassomigliare a Gesù e di seguire la Mamma Addolorata? Quale soddisfazione più profonda che essere l'oggetto della compiacenza di Dio? Il manometro della vita interiore, tesa verso gli eterni ideali, è il dolore; se la lancetta sale è segno che la vita sale, e la pressione dell'Amore divino è altissima.
13. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati
Le pene sono passeggere e sono il segreto della gioia, anche nelle cose più umili: la sete ti dà il sollievo nel bere, la fame nel mangiare, la stanchezza nel riposare, il freddo nel riscaldarti, il caldo nel refrigerarti; ora il Signore ci fa sentire per poco il dolore per rendere più soave la pace eterna e l'incommensurabile ricchezza di beni che raccoglie.
Il dolore ha poi un'aureola di nobiltà che non ci è data da nessuna grandezza umana; è un diadema insostituibile, com'è insostituibile la corona di spine del Re d'Amore. La corona di oro non gli sta, sembra un ornamento inutile; mentre la corona di spine lo aureola di sofferenza e di amore, e lo rende Re veramente, Re di tutti i cuori.
La grandezza umana suscita l'invidia e l'emulazione, il dolore invece ispira rispetto, simpatia e compassione.
L'invidia è un'ombra livida che ci perseguita, la compassione è un'aura di carità che ci avvolge; dalla grandezza spuntano le spine pungenti, dal dolore spuntano i fiori olezzanti della Passione.
Se dunque il dolore ci tocca, prostriamoci in adorazione di ringraziamento innanzi al Signore, e non ci facciamo sfuggire uno solo di questi gioielli preziosissimi, che sono stipendi di eterna felicità.
14. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia... Beati i misericordiosi...
Tutti amano la giustizia, persino quelli dati alla delinquenza. Due ladri, per esempio, che si dividono la refurtiva, e che hanno consumato una grande ingiustizia rubando, vengono alle mani con impeto malvagio quando uno dei due si crede defraudato dall'altro in quello che sembra suo diritto.
Quello che più cimenta la mansuetudine è l'ingiustizia; il sistema nervoso è scosso come da una violenta corrente di fronte alla menzogna, alla sopraffazione, alla prepotenza. Persino i santi non resistono all'ingiustizia, e diventano estremamente severi nel riprovarla; la loro mansuetudine sembra scuotersi, il loro carattere sembra infiammarsi, e resistono alla malvagità con forza. Logicamente perciò, Gesù Cristo, avendo parlato della beatitudine dei mansueti, dominatori della terra nella dolcezza, parla della beatitudine di chi ha fame e sete della giustizia, promettendo il pieno appagamento di questo impellente desiderio.
Egli vuole opporre una diga al dilagare dell'irruenza e della forza, perché il suo mansuetissimo Cuore vuole come base del carattere cristiano la mansuetudine e la dolcezza, la remissività e la pace; perciò assicura, con la sua divina autorità, la piena soddisfazione e il pieno appagamento del desiderio della giustizia che consuma gli uomini ed è in loro un bisogno impellente come la fame e la sete. È necessario approfondire questa verità per placare l'irruenza del cuore umano, e porre una base granitica alla mansuetudine piena e costante, virtù ardua e veramente difficile nella vita presente, tanto da sembrare a volte un'utopia.
La vita infatti è un combattimento continuo, e noi ci troviamo sempre in contrasto coi pensieri, coi desideri, con gli apprezzamenti e con la volontà altrui. Siamo tenacissimi nei nostri pensieri, e ci troviamo di fronte ad una tenacia invincibile; crediamo giuste le nostre vedute e ci troviamo di fronte a quelli che credono giuste le loro. La reazione la troviamo persino nei piccoli, ed a volte più tenace ed invincibile la troviamo nelle persone più care, che sembrano dimenticare i vincoli del sangue, la possiamo trovare nelle stesse anime buone e sante, e tanto più grande quanto più credono di schierarsi dalla parte della verità e della giustizia.
Di fronte a questa resistenza ed alla lotta che ne segue, chi potrebbe ricondurre gli animi nella pace, se ognuno crede di difendere i diritti della giustizia e della verità? Gesù Cristo con ammirabile e divina sapienza dirime la questione nelle fondamenta, salva i diritti dell'amore della giustizia, conciliandoli con quelli della mansuetudine e della carità ed esclama: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché essi saranno saziati; beati i misericordiosi, perché essi troveranno misericordia.
Il mondo è pieno d'ingiustizia, anzi la prova più penosa dei figli di Dio è proprio il subirla da parte dei perversi, ma la giustizia non verrà sopraffatta, ed un giorno sarà ristabilita da Dio con tanta solennità da saziarne quelli che l'hanno amata, seguendo le vie della santità. Essi saranno saziati; è un'espressione mirabile, poiché l'appagamento, che ci dà la giustizia e la verità, ha un senso di vera sazietà per l'intelletto e per il cuore. Il popolo dice spontaneamente che ingrassa nel vedere ristabiliti i diritti della giustizia, proprio perché se ne sente sazio.
Bisogna amare la giustizia ma senza pretendere d'imporla noi, giacché il Signore ha stabilito il giorno del rendiconto per tutti; bisogna amarla per conservarsi giusti, giacché la santità è giustizia che rende a Dio ciò che è di Dio, ed al prossimo ciò che è del prossimo, ma bisogna anche essere misericordiosi con gli altri e compatire le loro debolezze, per ottenere misericordia da Dio nelle nostre miserie e nelle violazioni della giustizia delle quali ci rendiamo rei.
La misericordia tempera la giustizia e mantiene nell'anima l'equilibrio della mansuetudine; la speranza della futura giustizia resa da Dio, soddisfa la fame e la sete che si sente di vederla ristabilita, e placa quei sentimenti di reazione che in noi sono irresistibili di fronte ad una cosa storta, e l'anima rimane tranquilla, senza avere necessità di stare in continuo allarme. Essa rimette l'ordine e la pace quando lo può, e lo rimette con la dolcezza dove può giungere la propria attività; si guarda bene dall'irruenza che non giova a nulla, e rimette alla giustizia di Dio il ristabilimento del diritto e della pace, aspettando da pellegrina il giorno del Signore.
Il carattere della Chiesa cattolica sta in queste due virtù altissime. Essa ama la giustizia e la verità, ed è sempre inclinata alla misericordia; la sua santità la rende intransigente col male e con l'ingiustizia, ma la missione che ha di salvare le anime la rende piena di misericordia per i poveri peccatori. Essa, la perenne perseguitata dal mondo, cammina peregrinando fra continue sopraffazioni, ma non si turba ed attende serena il giorno di Dio, nel quale sarà saziata di giustizia vedendosi eternamente glorificata, e vedendo soprattutto ristabiliti i diritti di Dio e la gloria del suo Redentore innanzi a tutte le nazioni raccolte nel giudizio universale.
Non crediamo dunque che sia impossibile conservarsi mansueti nelle lotte della vita.
La fortezza, temperata dalla bontà, ristabilisce l'ordine dov'è possibile; la speranza nella giustizia di Dio placa l'impeto che nasce contro l'ingiustizia, e la misericordia copre di un velo di carità le miserie e le debolezze altrui. È così che si può evitare tanto l'irruenza contro i cattivi, quanto la convivenza col male.
Del resto anche nel campo della giustizia, chi può vantarsi di essere irreprensibile?
Tutti abbiamo le nostre miserie, e se vogliamo essere compatiti dobbiamo compatire; tutti siamo peccatori, e se vogliamo ottenere misericordia da Dio dobbiamo usare misericordia col prossimo. Allarghiamo il cuore nella carità se non vogliamo irrigidirlo nella durezza, e guardiamo al cielo, dove dobbiamo desiderare di giungere e di vedervi giungere i nostri fratelli.
15. Beati i puri di cuore, poiché essi vedranno Dio
Padre amorosissimo nel fondo dell'anima; non ammette perciò un qualunque altro ideale di felicità, e non può tollerare un concentramento nell'amore sensuale, che affoga l'anima nei putrescenti abissi della carne.
L'impurità è il peccato che rende l'uomo più infelice, perché lo concentra su di un oggetto di basso amore che gli inaridisce il cuore, e lo strazia in mezzo a tempeste di brame insaziate. L'impuro è in continua agitazione, si degrada, si rende schiavo, desidera liberarsi dalle sue schiavitù e, quasi sommerso dalle sabbie mobili o dal greto di un fiume, più si agita e più vi si sprofonda. Sente tutta la debolezza della propria volontà, ed è indispettito perché non è capace di mantenere i suoi propositi; sente tutto il peso della carne, e ci si sente sempre più invischiato, vorrebbe pregare, e la sua preghiera è inerte, giacché non riesce ad isolarsi dalle sue miserie; invidia la pace dei puri, ma non sa rompere le catene che insidiano la sua pace, sembra un gaudente ed è un grande infelice!
Beati i puri di cuore, esclama Gesù Cristo, perché in realtà è un'incomparabile gioia liberarsi dalle agitazioni dei sensi; beati... poiché essi vedranno Dio, essendo la vera e profonda beatitudine dell'anima pura, in un'attitudine maggiore a percepire e godere della presenza di Dio. Oh, se gl'impuri, che formano una massa così grande nel mondo, potessero intendere la gioia che riserva loro la purezza! Oh, se sapessero rinunziare almeno ad uno solo dei loro effimeri diletti! Una vittoria anche minima, riportata in questo campo è sempre una gioia profonda, ed apre uno spiraglio alla luce di Dio nell'anima. Da una piccola vittoria, sia pure la mortificazione di uno sguardo curioso su di un oggetto illecito, può venire all'anima la vittoria sulle miserie più gravi, ed essa può ritrovare la sua libertà interiore e fissare lo sguardo in Dio.
Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio; l'impurità è dunque una grande infelicità; è una febbre delirante che rende l'anima infelice nella brama e la ottenebra tutta nel conseguimento del tormentante piacere; è un'infelicità che le esaurisce immediatamente il supposto piacere, e lo sostituisce con la vergogna dell'abbrutimento e con la puntura del rimorso; nel soddisfarsi muore e nel morire rinasce come delirio che cerca novelli abissi, nei quali trova novelli vuoti. Cerca la pace dei sensi e trova la tempesta; cerca la luce dell'ideale e trova il disinganno; cerca l'amore e trova l'egoismo; cerca la bellezza e trova le brutture; va come folle alla ricerca di un'emozione sempre nuova e si stufa delle sue insoddisfatte brame, s'idolatra e si avversa; idolatra le creature e le avversa; è senza luce interiore perché non vede più Dio, e con Dio non vede più le vere elevazioni dell'anima e non gode pace. Vorrebbe lusingarsi di non essere un avvilito, un degradato, uno schiavo, e cerca complici nelle sue miserie, le eleva a legge di vita, schernisce, come fatua, la vita di quelli che si conservano puri, e cade sempre più in basso. O dolcissimo Signore, conservaci puri e liberaci da qualunque schiavitù della carne; attraici nelle serene altezze della purezza e mostraci il tuo volto, poiché tu solo sei la gioia vera dell'anima.
16. Beati i pacifici... Beati i perseguitati...
La pace però in questo terreno esilio non può trovarsi nel mondo ma nel cuore, perché il mondo è un campo di continue lotte, e queste si accaniscono maggiormente contro i buoni; bisogna essere superiori alle lotte ed alle sopraffazioni del male contro il bene, riguardandole come occasioni per potere attestare a Dio la propria fedeltà, e mezzi di merito per l'eterna vita. Le persecuzioni sofferte per amore di Dio, purificano il cuore, lo distaccano dalla terra, lo spingono ai desideri celesti, lo aprono alla grazia e all'unzione dello Spirito Santo, e lo rendono beato nell'intima amicizia con Dio. Gesù Cristo perciò unisce l'amore della pace alla beatitudine di chi soffre persecuzioni per la giustizia, perché anche in mezzo alle più aspre lotte subite per amore di Dio, si può conservare la pace rassegnandosi, e godendo nel dare al Signore una testimonianza di vero ed eroico amore.
È un onore essere perseguitati dai cattivi, non sapendo essi odiare che il bene; è un maggiore isolamento dalle lusinghe del mondo ed un maggiore concentramento in Dio; è il titolo più autentico di una grande ricompensa eterna, ed è un titolo di autentica nobiltà spirituale che ci avvicina a quella dei più grandi santi.
Per questo Gesù Cristo dicendo: Beati quelli che soffrono persecuzioni per la giustizia, si rivolge in modo particolare ai suoi apostoli, come a quelli che per amor suo dovevano essere esposti alle maledizioni ed alle calunnie del mondo, e li esorta ad esultare ed a rallegrarsi pensando alla ricompensa che avranno nell'altra vita, superiore ad ogni loro aspettazione. Il Redentore non parla delle persecuzioni in un senso generale, ma di quelle che si subiscono per la giustizia, cioè per amore della verità e del bene, e soprattutto per amore della somma Verità e del sommo Bene.
C'è una grande felicità nel dare, col sacrificio di se stessi, una testimonianza di fedeltà a Dio; c'è il segreto di una profonda pace nel guardare a Dio solo ed appellarsi a Lui, quando gli uomini dicono ogni male contro di noi, mentendo; c'è il segreto di una grande unzione di grazia nelle irrisioni che ci fa il mondo, ed un'immensa soddisfazione nel vedersi sulla medesima via che percorsero Gesù Cristo, la Vergine Santissima Addolorata e i santi. Le parole del Redentore sono incomprensibili a chi non ha provato la profonda pace che Dio diffonde nel cuore di quelli che soffrono veramente per suo amore. Sono gioie che trovano una pallida immagine nella soddisfazione dell'eroismo, e diciamo pallida, perché non c'è eroismo più grande di quello che rinunzia ad ogni bene esterno della vita per amore di Dio. La persecuzione è come una forza che costringe l'anima a volare, librandola in un orizzonte nuovo, dal quale scorge novelle ascensioni; è un colpo di maglio su tutte le catene che ancora l'avvincevano al rispetto umano ed alla schiavitù della terra, è la conquista della più alta libertà, quella dello spirito, contro la quale nulla possono neppure i cannoni, è soprattutto il sentire la paternità di Dio, ed il correre a Lui come unico rifugio, unica difesa, unico testimone infallibile delle proprie azioni.
Sac. Dolindo Ruotolo
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