sabato 17 ottobre 2015

18.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 5

5. Dio esige che gli rendiamo gloria, perché questo si risolve nella nostra felicità

Le vie degli uomini sono agli antipodi di quelle di Dio, perché l'uomo guarda al proprio interesse momentaneo, e Dio guarda a quello eterno, l'uomo si preoccupa della propria gloria, e Dio guarda l'esigenza della sua gloria, che diventa per le sue creature medesime diffusione di beni e di misericordie.

Il Signore non ha bisogno di noi, ma desidera i nostri omaggi, il nostro amore e la nostra dedizione a Lui, perché tutto questo si risolva nella nostra felicità. La sua gloria diffusa nell'universo ce lo fa conoscere e ci avvicina a Lui; la sua gloria manifestata a noi ci attrae nella sua volontà e ci fa vivere di Lui; la sua gloria rifulgente negli atti stessi della giustizia ci fa sentire che Egli solo è tutto e che a Lui solo dobbiamo tendere. La gloria di Dio ad intra è lo splendore della sua vita, ad extra è lo splendore della sua bontà che si diffonde; i nostri omaggi e la gloria che gli doniamo sono come nubi che si formano in alto e ricadono in pioggia sopra di noi stessi. Ogni concentramento, invece, nella nostra gloria è una perdita, più o meno grave e disastrosa a seconda della nostra stoltezza; la caduta angelica e quella umana sono la documentazione di questa verità. Dio non può avere nel creato delle immagini materiali che lo manifestino, ma si può dire che la sua gloria è la fulgente statua della sua realtà, come la gloria delle creature è l'idolo abbietto che lo sfigura e lo rinnega.

La gloria di Dio, la gloria di Dio, quale armonia di grandezza e di felicità ha questa parola, quale sapore di sazietà ha per l'uomo che la cerca, quale segreto di elevazione ha, e come trae nel suo vortice luminoso la nostra nullità, umiliata innanzi al Signore! L'uomo cade in un abisso di angustiante infelicità quando cerca la propria gloria e i propri interessi.

La via di Gesù Cristo e quella delle umane ambizioni

Il tratto del Vangelo che stiamo meditando ci presenta come in un contrasto eloquente le vedute umane e quelle di Dio, la ricerca dei propri interessi che degradano e quelli della gloria di Dio che elevano: i farisei interrogano Gesù Cristo sul divorzio perché non vedono che l'interesse della carne; vorrebbero che la Legge di Dio si adattasse alle loro passioni, e che la bellezza del connubio, immagine della vita di Dio che si conosce, genera e si ama, si riducesse alla ricerca di un piacere brutale che avvilisce, isterilisce e si consuma nella discordia e nell'odio.

Gli apostoli riguardano come un fastidio i fanciulli e li allontanano da Gesù, mentre essi nella loro innocenza sono templi vivi della divina gloria.

Il giovane che vuol seguire Gesù cerca l'onore ma rifugge dalla rinunzia; Pietro, che con gli apostoli lo segue, domanda a nome suo e di tutti la ricompensa del suo sacrificio.

Eppure la via del Redentore era tanto diversa, ed Egli, a contrastare le vedute terrene dei suoi apostoli, la ricorda loro col fatto e con la parola: si mette in viaggio verso Gerusalemme, la città dove aveva nemici accaniti e potenti, ed annunzia chiaramente che va incontro all'immolazione ed al sacrificio completo. Questa è la sua via. Gli apostoli camminano a malincuore, si stupiscono come mai il Maestro abbia, secondo loro, l'imprudenza di andare in una città tanto pericolosa, e lo seguono timorosi.

Egli li precede, va avanti a tutti perché vuol dare la vita per la gloria del Padre e per la salvezza di tutti. Com'è bella questa scena!

Gesù va avanti, non teme il pericolo perché l'amore lo spinge. Gli apostoli non capiscono ancora e stentano a seguirlo.

Il Redentore non li illude con falsi miraggi; anzi li chiama in disparte, e parla loro in tono profetico delle grandi pene che lo aspettano, della sua Morte e della sua Risurrezione. In disparte Egli può parlare loro più confidenzialmente, può effondere il suo amore e confortarli, ma gli apostoli non approfondiscono il suo discorso e, sentendolo parlare di risurrezione, immaginano che alluda al suo regno glorioso ed al suo trionfo sui nemici, e passano dallo scoraggiamento alle fantastiche speranze. Indice di questo stato d'animo è la domanda fatta da san Giacomo e da san Giovanni: essi si avanzano e, come è detto in san Matteo, interpongono anche la mediazione della loro madre (Mt 20,20-27), per essere più sicuri di essere esauditi, e vogliono in certo modo impegnare la parola di Gesù dicendo: Vogliamo che qualunque cosa ti domanderemo, Tu ce lo conceda. Gesù Cristo sapeva bene quello che volevano domandargli, ma li interrogò, perché avessero riflettuto a quello che presumevano di avere. Certe aspirazioni fantastiche, infatti, quando vengono espresse, perdono quel fascino particolare che hanno e quando vengono dette innanzi agli altri possono incontrare una speciale opposizione che le sfata, o per lo meno danno un senso di pudore. Giacomo e Giovanni non esitarono, e domandarono un posto privilegiato a destra ed a sinistra nella sua gloria.

In un momento nel quale Gesù parlava della sua Passione, Egli considerava chi sarebbe stato alla sua destra ed alla sua sinistra; sul Calvario, che era come il trono del suo vero regno di amore, Egli doveva essere, ahimè, messo a livello dei malfattori, e stare fra due ladri. Forse a questo alludeva quando disse loro: Non sapete quello che domandate: Potete voi bere il calice che io bevo, ed essere battezzati col battesimo col quale sono battezzato?

Egli non poteva andare nel regno della sua gloria senza passare per il Golgota, e se gli apostoli avessero voluto stargli a destra ed a sinistra nella sua gloria, avrebbero dovuto stargli vicini anche nella Passione e Morte. Essi invece erano tanto lontani in quel momento da volerlo seguire nel dolore! Risposero, è vero, risolutamente che potevano bere il calice del Maestro, ma non sapevano quello che significasse, e forse capirono di dovergli fare da coppieri o da servi nel suo regno, dandogli la coppa per bere e l'acqua per lavarsi.

Gesù soggiunse con un senso di tristezza, guardando il futuro, che essi avrebbero certamente bevuto il suo calice e ricevuto il suo battesimo di sacrificio quando sarebbero stati martirizzati, ma che il sedere alla sua destra od alla sua sinistra non stava a Lui il concederlo, ma era per quelli ai quali era stato preparato.

Dalle meschine aspirazioni di un posto privilegiato in un regno temporale Gesù trasporta i suoi apostoli alla visione del regno eterno, e dice che Egli non può concedere là un posto di onore particolare a chiunque lo domanda, perché nel Cielo tutto è ordine e gerarchia dipendente dalle disposizioni di Dio e non dal capriccio delle creature.

È evidente che Gesù non risponde ai due apostoli come Dio, ma come Redentore e come Re, giacché essi avevano fatto appello al suo regno; ora come Redentore Egli era mediatore tra Dio e l'uomo, e non poteva disporre ma intercedere; come Re poi, in quanto uomo, Egli non poteva prescindere dalla divina volontà. Il Padre lo avrebbe fatto Re dell'universo anche in quanto uomo, ma il suo regno sarebbe stato il regno della divina volontà sugli uomini e su tutte le creature.

All'orgogliosa ambizione dei due apostoli Gesù oppone la sua umiltà e, parlando in quanto uomo, interamente sottomesso alla volontà del Padre, dichiara che Egli non può assegnare i posti di onore nel suo regno. Dicendo poi, com'è riferito da san Matteo, che quei posti li avrebbero avuti quelli ai quali erano stati preparati dal Padre suo, allude alla giustizia con la quale viene distribuito nel Cielo ogni premio, e che non basta desiderare un privilegio, ma bisogna meritarlo con le opere buone.

Gli altri apostoli considerarono la domanda di Giacomo e di Giovanni come una pretesa che poteva manomettere i loro diritti, e contrastava le loro ambizioni; ognuno di essi aveva in cuore un desiderio ed un progetto da far valere nel regno di Gesù Cristo, concepito da essi come un regno temporale, ed ognuno credette di essere danneggiato dalla proposta dei due loro compagni.

L 'indignazione che ebbero rivela questo loro stato psicologico: quando, infatti, si prospetta da un capo la possibilità di mutamenti nell'ordine sociale, i suoi seguaci fanno immediatamente i progetti di quello che essi possono farvi, e con la

fantasia assegnano a loro stessi ed a ciascuno gli uffici, proporzionandoli non al merito ma all'ambizione. In queste concezioni fantastiche tutto quello che sembra contrastarle cagiona un'indignazione, perché la fantasia eccitata confina con la pazzia e questa non tollera né contrasti né opposizioni.

Giacomo e Giovanni, domandando di sedere uno a destra ed uno a sinistra nel regno di Gesù Cristo, pensavano di esercitare un dominio sui loro compagni, o per lo meno questi interpretarono così il loro desiderio, e se ne indignarono, perciò, grandemente; si rileva dalla esortazione che loro fece Gesù per pacificarli. Ognuno presume di avere qualità eccellenti per stare a capo, ed ognuno aspira al comando perché al proprio orgoglio ripugna l'obbedire. Tutti gli apostoli credevano occultamente di poter comandare sugli altri, ed il vedere che due di essi pretendevano una preminenza li indignò.

Evidentemente cominciarono fra loro a discutere animatamente; perciò Gesù li chiamò a sé, evitando con questo che la discussione degenerasse. Li chiamò, e fece loro sentire che Egli era il loro capo amorosissimo con quel gesto di invito paterno, troncando nel loro cuore d'un tratto quel senso d'indipendenza e di comando che li aveva presi, e manifestò quale doveva essere nella sua Chiesa il concetto del comando e del dominio.

Egli additava così un'altra delle sue vie contrastanti quelle del mondo: i prìncipi della terra dominano sui loro sudditi, ed esigono di essere serviti; invece i capi della Chiesa dovevano essere come servi di tutti, poiché chi comanda per beneficare e per salvare deve dare e non ricevere, deve sacrificarsi e non soggiogare, e dev'essere come immagine viva del Redentore venuto sulla terra per servire le anime e per dare la sua vita per la redenzione di molti, cioè di tutti come tesoro di meriti, e di molti, ossia di quelli che effettivamente avessero voluto usufruire del comune tesoro di salvezza.

Per chi sta a capo

Se le autorità del mondo sapessero intendere questo grande precetto, non ridurrebbero il comando ad una tirannia, né avrebbero tanta ambizione di rimanere ad ogni costo al potere. Chi sta a capo è come un padre di famiglia, e deve provvedere al bene degli altri; questo importa un continuo e vero sacrificio della propria vita, ed un servire gli altri. Quando si ha questo concetto della propria responsabilità, invece d'imporsi con orgogliosa prepotenza si cerca di conciliare i cuori con la carità, e l'autorità diventa elemento vero di ordine, di prosperità e di pace.

Il cieco di Gerico

Gesù Cristo mostrò subito agli apostoli quale doveva essere la natura della loro potestà e come dovevano esercitarla. Stando nei pressi di Gerico un cieco di nome Bartimèo, sentendo che passava Gesù Nazareno, cominciò a gridare a gran voce implorando pietà. San Matteo dice che erano due ciechi, e noi a suo luogo spiegammo la difficoltà che presenta questa differenza nei due racconti. Nell'armonia del quadro evangelico quest'unico cieco che grida è l'immagine e la rappresentanza dell'umanità addolorata che implora pietà dal Redentore, e che, cieca, immiserita, impotente a salvarsi da sé, si rivolge a Colui che può salvarla. Il popolo sgrida il cieco e vuol farlo tacere, come il mondo cerca di tacitare con la forza il grido degli afflitti, perché lo stima un fastidio. Le grandi civiltà non riescono ad eliminare le afflizioni del popolo, ma lo fanno tacere con le leggi repressive, acuendone l'esasperazione e le sofferenze. Gesù Cristo, invece, va incontro ai miserabili, li chiama al suo Cuore, li consola, e dona loro la misericordia e la pace. Anche in questo le vie del mondo sono essenzialmente diverse da quelle di Dio.

Oggi le nazioni apostate, accecate dagli errori, seggono lungo le vie della vita terrena e non vedono nulla; sentono solo la loro miseria e cercano l'elemosina di un sollievo. Ma chi può darlo loro? Da quanti anni il povero cieco cercava l'elemosina senza che alcuno avesse potuto sollevarlo veramente nella sua principale infelicità! Solo Gesù poté risuscitargli la fede, chiamarlo a sé e guarirlo; solo gridando a Gesù, Re universale, le povere nazioni apostate possono ritrovare la fede, avvicinarsi al Redentore e riconquistare la vista dello Spirito e con la vista la tranquillità e la pace.

L'umanità grida oggi tra gli spasimi di una povertà morale mai conosciuta, perché è cieca! Elemosina lungo la via e non ha alcuna speranza di risorgere; elemosina il suo stentato sostentamento, ed è come abbandonata! Gesù la chiama quando tutti, opprimendola con l'inganno, tentano di strapparle il grido della preghiera, ed abbrutirla.

Essa deve ascoltare solo il suo Redentore e gridare più forte, perché la voce della preghiera le ottenga la grazia di una rinascita spirituale. Sta' di buon animo, dissero al cieco quando Gesù lo chiamò, alzati, Egli ti chiama. E quegli, gettato via il mantello, balzò in piedi, e andò da Lui. L'umanità sembra perduta, ma le si può dire veramente: Sta ' di buon animo, alzati, Egli ti chiama, perché veramente il Signore chiama coi suoi flagelli. Essa deve gettare via il mantello delle iniquità che la ricoprono, deve balzare in piedi per un impeto di fede e deve andare da Gesù con la ferma fiducia di guarire.

Il grido del mondo

Chi poteva considerarsi più privo di ogni speranza come il povero cieco? Quando la pupilla s'è spenta nessuna forza umana può riattivarla. Eppure Gesù riaprì quegli occhi, e riaprendoli attrasse a sé quell'infelice, che lo seguì per la strada. Nessuna speranza può considerarsi fallita quando si va da Gesù con vera fede, perché Egli è onnipotente. Anche oggi lo stato del mondo non è senza speranza, perché Iddio ha fatto sanabili le nazioni', occorre solo che esse, accecate dall'apostasia e ridotte in estrema miseria, elevino il grido del loro cuore a Gesù, e vadano a Lui che chiama gettando via con coraggio quel manto di falsa civiltà e di più falsa libertà che le ha ridotte nell'impossibilità di vedere.

Ci lamentiamo di certi cataclismi che succedono nel mondo, e ci sembrano inutili; eppure essi sono permessi o voluti da Dio per strappare alle umane generazioni quel manto di barbarie morale che si mostra come manto di civiltà e di progresso.

E inutile illudersi: certe forme di progresso sono spaventoso regresso; le grandi industrie, per esempio, hanno portato nel mondo la grande miseria, e l'hanno depravato fino all'idolatria della macchina e del lavoro, come è avvenuto in Russia.

La vita moderna, coi suoi complessi ingranaggi che sempre più si moltiplicano, rende impossibile la vita dello spirito, abbrutisce gli operai, opprime, toglie ogni libertà, rende nevrastenici ed immorali, e questo non è civiltà, ma barbarie.

Gettiamo via le pesanti sovrastrutture che la stoltezza umana e l'insidia diabolica hanno fatto sull'ordine della vita, e gridiamo a Gesù che ci viene incontro nella sua grande misericordia: Signore fa che vediamo.

Vediamo il cielo attraverso le nebbie della materia, vediamo Dio attraverso la creazione, vediamo Gesù attraverso i veli Eucaristici, vediamo le meraviglie della Chiesa cattolica e, con gli occhi aperti alla verità, seguiamo Gesù nelle povere vie della nostra vita.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

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