sabato 10 giugno 2017

11.06.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. III par. 2

2. Il mirabile discorso di Gesù Cristo a Nicodemo

Uno dei dottori della Legge, della setta dei farisei, stimato tanto da essere chiamato il maestro in Israele, come appare dal versetto 10 nel testo greco, andò da Gesù di notte per conversare con Lui, per constatare di persona chi fosse e quale valore avesse la sua dottrina, e per indagare sulle sue intenzioni e sui suoi disegni. Si chiamava Nicodemo e, benché avesse un nome greco, cosa abbastanza comune a quei tempi pur fra gli Ebrei integri e totalitari, che amavano la loro legge ed erano attaccatissimi alle loro aspirazioni.

Si rileva chiaro dal fatto che egli, sospirando al regno di Dio, e constatando i miracoli operati da Gesù Cristo, andò subito a visitarlo per indagare se fosse Lui il Messia, o se fosse almeno il profeta tanto atteso che doveva prepararne la via. Andò di notte sia per non compromettersi eccessivamente innanzi al popolo, e sia per avere un momento di maggiore calma per discutere, data l'affluenza di popolo che si determinava di giorno intomo al Redentore.

Nicodemo, uomo certamente retto, dovette essere favorevolmente impressionato dall'impeto di zelo col quale il Signore cacciò i profanatori dal tempio; gli piacque quell'impeto, fu per lui una rivelazione intema sulla rettitudine e santità di Gesù, ebbe cognizione o assistette ai miracoli da Lui operati in Gemsalemme, e pensò che in Lui doveva esserci qualche cosa di straordinario, sospettando persino, vagamente, che potesse essere proprio il Messia. Andò di notte, e notte era ancora nell'anima sua, titubante fra le correnti ostili che si erano determinate contro il Redentore nel sinedrio, al quale egli stesso apparteneva.

Psicologicamente, volendo introdursi a parlare, non volle mostrarsi personalmente conquiso, né volle compromettersi con qualche atto di deferenza personale; per questo parlò in plurale, quasi parlasse a nome di molti: Maestro, noi sappiamo che sei venuto da Dio per insegnare. E specificò con un certo senso di trepidazione e, inconsciamente, di salvaguardia della propria dignità di maestro, che i miracoli che faceva erano segno che Dio era con Lui.

E un momento psicologicamente sottilissimo del suo animo, che rivela la verità del racconto: a lui, maestro d'Israele per studio e dottrina, ripugnava mostrare d'essere andato per imparare, ed essendo parte del sinedrio, non voleva mostrare una piena adesione al Maestro divino; perciò disse implicitamente che si recava a parlare a Lui come ad un uomo straordinario, affermando però semplicemente che i miracoli che faceva rivelavano solo che Dio era con Lui. Si guardò bene dall'esprimere il suo pensiero che fosse proprio Lui il Messia, ma, salutandolo con quelle parole, avrebbe voluto che Egli stesso si fosse svelato per quello che era. Non è improbabile che Nicodemo fosse stato uno di quelli mandati in commissione da Giovanni Battista per indagare chi fosse, e che, avendo ascoltato dalla sua bocca l'annunzio del Redentore con accento di profonda convinzione, abbia voluto accertarsi di persona anche di Gesù Cristo, del quale sentiva già dire cose mirabili. Nonostante la rettitudine che aveva Nicodemo nell'interrogare Gesù, emergeva in lui la natura e il carattere dei farisei, sospettosi, circospetti, pieni di se stessi, e pieni della prudenza della carne; perciò il Redentore, quasi riflettendogli in pieno volto e nel fondo dell'anima un fascio di luce, rispose: In verità, in verità ti dico che se uno non nasce di nuovo non può vedere il regno di Dio. Queste parole erano divinamente comprensive: rispondevano al desiderio nascosto di Nicodemo di raggiungere il regno di Dio e di avvicinarsi al Messia, desiderio da lui non manifestato; gli facevano intendere che per conoscere la verità doveva come rinascere interiormente ed abbandonare i vani sistemi farisaici d'indagini sulla verità, e gli rivelavano l'essenza stessa della redenzione, che non consisteva in un regno temporale e glorioso d'Israele, ma principalmente in una rinascita spirituale.

Nicodemo, da buon dottore fariseo com'era, prese la frase alla lettera, e per quel senso di prevenzione diffidente che aveva, avendo sentito tante volte mormorare di Gesù come di un essere strano, rispose dottoreggiando, secondo l'indole e l'abitudine sua: Come può un uomo rinascere quando è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e rinascere?

L'insistere di Nicodemo sull'assurdo che gli sembrava essere in quella frase, e lo specificare che un vecchio non poteva rinascere, né alcuno rientrare nel seno materno, rivela la stranezza che egli sospettò nel Signore, e lo sforzo, magari subcosciente, che fece per disingannarlo di quella stranezza. È una profonda sottigliezza psicologica che manifesta l'animo del dottore della Legge, già avanzato negli anni, di fronte alla divina e fulgente giovinezza del Signore.

La scena era mirabile: in una modesta casetta, seduti di fronte, Gesù ed il dottore della Legge, al fioco lume d'una lampada, di notte. Fra le placide ombre che proiettava la lampada spiccava la luce divina nascosta tra le nubi dell'assunta umanità, e si moveva al palpitar della fiammella, sul muro, l'ombra di Nicodemo, quasi fosse egli medesimo il simbolo d'una lampada che si spegneva guizzando, e l'ombra d'un mondo che svaniva innanzi alla Luce divina.

Nicodemo, tutto avvolto nei suoi panni e nelle sue fìlatterie, ammantato di simboli, ed il Signore nello splendore della verità che compiva i simboli e fugava le ombre.

Nicodemo tutto preoccupato della stranezza d'un vecchio che rinasce e d'un parto da favola, e Gesù con la fronte mirabile, aperta agli splendori eterni, tutto compreso della rinascita dell'uomo per la grazia.

Rimasero un istante in silenzio; si guardarono: Gesù spirava amore, il Verbo che lo terminava in unità di persona splendeva dai suoi occhi cerulei; sfolgorava da quel vivo azzurro un lampo creativo, come sfolgorò sul nulla quando lo chiamò all'essere.

E rispose proclamando la nuova legge della nuova vita: In verità, in verità ti dico che se uno non nasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio.

Intorno si dormiva, poiché era già notte profonda; si sentiva forse nel silenzio il respiro di una vita addormentata, tutta ristretta, nel sonno, alla vita fisica della carne; era un respiro che sembrava dominasse la morte, della quale era simbolo il sonno, era la carne che viveva e palpitava incosciente, esalante vapori di corruzione, albergo di un'anima ancora schiava, inerte, brancolante fra quelle tenebre...

Gesù soggiunse guardando l'umanità che dormiva, e si riproduceva nelle ombre della morte: Quello che è generato dalla carne è carne, e quello che è generato dallo spirito è spirito. L'uomo nasce dal padre e dalla madre nella carne, e rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo nello spirito; un principio esterno e materiale, capace di toccare la carne informata dall'anima ed uno interno e spirituale, capace di ridonare la vita, cioè la grazia dello Spirito Santo. Ciò che è generato dalla carne è carne, e sarebbe carne ugualmente se fosse rigenerato rinascendo nella carne; a che gioverebbe rinnovare la vita umana con tutte le sue debolezze e le sue miserie? Potrebbe mai rappresentare una rinascita di giustizia il discendere per la carne dal popolo ebreo? Forse una discendenza naturale può dare il diritto alla vita soprannaturale? O la redenzione può consistere nel glorificare con uno splendore politico la generazione dei discendenti dei patriarchi antichi? Le generazioni del popolo eletto dovevano semplicemente culminare nel Redentore promesso; dopo la sua venuta sarebbe vano ed ozioso un privilegio legato alla carne; doveva cominciare la generazione dello spirito, per la grazia dello Spirito Santo nell'acqua del Battesimo, doveva cominciare la nuova generazione del vero popolo eletto, quello dei figli che nascono da Dio per la grazia, nella Chiesa novella che Egli veniva a fondare.

Gesù Cristo parlava con sintesi divina, che a noi può apparire magari oscura, ma che rifulgeva per la sua grazia nell'anima di Nicodemo. È il modo di parlare proprio di Dio. Nicodemo era andato da Lui credendo, come Israelita, di aver diritto al regno di Dio, se gli fosse constato che Gesù era proprio il Messia promesso; Gesù invece gli apre gli orizzonti dello spirito e della generazione nuova nello Spirito Santo, e gli mostra chi può avere ingresso nel regno di Dio, non per diritto ma per la misericordiosa effusione della grazia. Il discorso era veramente divino, ed una solennità grande si diffondeva nella piccola camera semioscura, dalla quale il Verbo Incarnato proclamava la nuova economia della generazione dei giusti.

Gesù annunzia a Nicodemo il suo regno universale, ecumenico

La notte intanto avanzava, e col maggior raffreddamento dell'atmosfera cominciò a spirare prima una brezza e poi un vento. Può supporsi, giacché Gesù soleva prendere le immagini e le analogie del suo discorso dalle scene che si paravano innanzi ai suoi ascoltanti. Il vento sibilava fra le fessure della porta, ma non si scorgeva da qual parte venisse. Gesù soggiunse, confermando il suo altissimo concetto della rinascita spirituale non per diritto di eredità nazionale ma per elargizione gratuita di misericordia: Non ti meravigliare che ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo. Il vento spira dove vuole e ne odi il suono, ma non sai da dove venga né dove vada; così avviene a chi è nato dallo spirito. E voleva dire: Come tu ascolti il sibilare del vento, e non conosci da dove venga né dove vada, poiché esso spira dove vuole, cioè è indipendente dalla tua volontà, e non puoi presumere che obbedisca ad un tuo disegno, così lo Spirito di Dio spira dove vuole, e non è costretto da pretesi diritti di razza.

Con queste parole Gesù Cristo demoliva tutta la mentalità di Nicodemo, rigido conservatore del principio fondamentale del suo popolo, d'essere una stirpe eletta e privilegiata, unica erede delle promesse; il pensiero di Gesù era chiarissimo, ma a Nicodemo sembrò impossibile la sua realizzazione, e perciò, quasi sgomento dall'idea di un regno universale, senza distinzione di razza o di nazioni, esclamò: Come mai può essere questo? Gesù gli rispose: Tu sei maestro in Israele o, secondo il greco, come si disse: Tu sei il maestro in Israele, il maestro per eccellenza, e non lo sai? In più parti delle Scritture, infatti, si parla dell'azione misteriosa dello Spirito Santo (Ez 11,19; 36,25; Zc 13,1, ecc.) ed in più parti si fa allusione al regno di Dio, universale e senza distinzione di razze, che doveva riempire tutta la terra.

A Nicodemo sembrò quasi che Gesù vaneggiasse, tanto gli sembrava utopistica l'idea di un regno universale, fondato non sulla forza e sulla politica, ma sull'azione dello Spirito Santo; rimase quindi perplesso, pensoso, e guardava il Redentore quasi per vedere se fosse in sé; si rileva chiaro dalla risposta di Gesù, il quale, penetrando il suo cuore e la sua mente, soggiunse: In verità, in verità ti dico che noi parliamo di quello che sappiamo, ed attestiamo quello che abbiamo veduto, e voi non accettate la nostra testimonianza. E voleva dire: tanto i profeti che hanno predetto il regno di Dio, quanto io stesso che in questo momento te lo annunzio, parliamo con piena coscienza di quello che diciamo, non solo, ma parliamo attestando quello che abbiamo veduto, cioè, per i profeti, quello che hanno visto per rivelazione divina, e per me quello che io stesso ho visto e vedo nel seno del Padre. Né le profezie, quindi, che ti ricordo né ciò che ti dico è vaneggiamento, ma è la testimonianza più autentica della verità, e ciò nonostante che voi scribi, farisei e dottori della Legge non accettiate la nostra testimonianza. Eppure ciò che ti dico, soggiunse Gesù, non è uno di quei misteri altissimi che si contemplano solo nel cielo, ma è un mistero di grazia che si compie sulla terra, e del quale voi potete vedere nella vostra medesima storia lo svolgimento graduale e mirabile; ora se non credete quando vi parlo delle cose terrene, cioè, secondo il testo greco, di ciò che avviene in terra, come crederete se vi parlerò delle celesti, cioè, secondo il greco, di ciò che è o che avviene in cielo?

Ti stupisci che ti parlo del regno di Dio in terra per la grazia dello Spirito Santo, e ti sembra una cosa incomprensibile, eppure ci sono misteri più grandi dei quali io non parlo, perché non li potresti intendere, misteri che sono nel regno eterno di Dio, come l'eterna generazione del Verbo, l'eterna processione dello Spirito Santo, l'Unità e Trinità di Dio, la gloria eterna e sostanziale di Dio, ecc.

Di questi misteri Gesù non parla a Nicodemo, ma poiché egli è andato da Lui per indagare se veramente è il Messia promesso, Gesù Cristo velatamente gli accenna alla sua divinità, alla sua umanità, all'economia della redenzione, alla necessità della fede per usufruirne ed al giudizio che Egli farà di tutti gli uomini.

Il discorso di Gesù Cristo a noi appare oscuro ed arduo senza una spiegazione, ma per Nicodemo era luminoso, giacché la luce del Signore gli penetrava l'anima e la illuminava. Per noi il discorso è come una lampada che ha bisogno di essere accesa per essere scorta nei suoi particolari, per Nicodemo era una lampada fulgentissima.

Avviene in piccolo anche a noi che comprendiamo od intuiamo perfettamente quello che un valoroso declamatore ci dice, e lo intuiamo, diremmo, non tanto per le parole o per i gesti che fa, quanto perché riflette nel gesto e nelle parole quello di cui egli vive intimamente.

L'attore veramente geniale è tale perché vivendo di ciò che dice, lo riflette fuori di sé, quasi in una proiezione spirituale; l'attore, al contrario, che si sforza di parlare e gesticolare macchinalmente, come trova scritto o come gli viene suggerito, non riesce a formare in noi con le sue parole un'immagine viva. Chi percepisce intensamente, per esempio, le movenze di una tigre, e la imita col gesto, la fa quasi vedere perché nel gesto proietta quasi l'immagine che ha nella fantasia.

È questa una riflessione di grandissima importanza, ed è una meschina analogia che ci fa intendere quale sublime e magnifica luce dovette inondare Nicodemo mentre Gesù gli parlava. Il Redentore non gli proiettava solo nell'anima, per così dire, un'immagine concepita nella fantasia, come può fare un oratore o un attore, ma gli proiettava la luce infinita della sua divinità e la luce soavissima della sua umanità. Per questo non è da stupire che Nicodemo diventasse fin d'allora suo discepolo, e gli fosse fedele anche nella tragedia del Calvario, curando la sepoltura del suo Corpo divino, perché non fosse profanato dai nemici.

Stavano di fronte Gesù e Nicodemo, e questi, al rimprovero fatto da Lui all'umana incredulità, dovette avere un sentimento di rammarico per la propria diffidenza, ed all'accenno di Lui alle cose celesti, dovette sentire un desiderio di conoscerle e scrutarle, perché spirava dal volto di Gesù qualche cosa di arcano, che faceva intuire l'arcano splendore dei cieli etemi. Nicodemo, al vedere in quel volto divino riflessa la luce celeste, dovette dire fra sé: che cosa vi sarà nel regno eterno? E chi è colui al quale io parlo? Non gli sembrava in quel momento solo il Messia promesso, ma qualche cosa di immensamente più grande; egli però non giungeva ancora a capire che il Messia era Dio stesso, l'eterno Verbo Incarnato, e patibolo, ammantato della veste del colpevole, guinosa degli uomini peccatori, come il serpente di bronzerei, immagine dei serpenti velenosi che mordevano gli Ebrei. Il mondo tutto, bruciato dalle piaghe del peccato, doveva volgere lo sguardo alla Vittima divina, doveva credere, incorporarsi a Lei, operare per Lei il bene, arricchirsi di meriti, e conseguire la vita eterna. Era questa l'economia della redenzione.

Nicodemo, come dottore della Legge, non ignorava certo l'episodio ricordatogli da Gesù, ma per l'interna luce che Egli gli comunicava nell'anima si sentì come in un mondo nuovo, capì il mistero di quella figura profetica, e ne fu sorpreso, ne godette, come gode chi vede risplendere la verità da poche parole semplici, e tacque pieno di ammirazione. Le parole dei profeti riguardanti l'immolazione del Redentore risuonarono nel suo cuore; guardò Gesù con grande compassione, intuendo che voleva immolarsi, e lo amò intensamente perché sentì in quelle parole che gli aveva detto tutto l'amore che lo comprendeva. Gesù, infatti, parlando velatamente del suo sacrificio, manifestò dal volto una tenerezza infinita, che avvolse Nicodemocome in un calore di misericordia e lo conquise. Egli però aveva un concetto severo di Dio, non immaginava tanta misericordia in tanta grandezza, non pensava che l'esigenza della sua giustizia potesse armonizzarsi con la sua pietà; perciò Gesù, rispondendo al suo pensiero, soggiunse che la redenzione era frutto dell'infinito amore di Dio, di un amore che era giunto fino a fargli donare il suo Figlio Unigenito, per dare la vita eterna a quanti avrebbero creduto in lui, riconoscendolo, accettandone la dottrina e praticandone i precetti.

Ma come si concilia questa misericordia universale col Dio della Sacra Scrittura, severissimo con gli empi pagani?

Nicodemo pensò allora ai pagani che opprimevano il popolo ebreo, pensò alle scelleratezze da essi commesse, ed al non intendeva ancora l'economia della redenzione; la sua fede stava ai confini della verità ma non li aveva ancora oltrepassati.

Gesù Cristo lo illuminò solo con un lampo di luce, in modo da gettare in lui il germe della verità senza forzarne la mente; il germe sarebbe a suo tempo spuntato. Se gli avesse detto in quel momento, apertamente: Io sono il Figlio sostanziale di Dio, Nicodemo si sarebbe smarrito; perciò, rispondendo all'intimo desiderio che aveva avuto di conoscere le cose celesti, soggiunse: Nessuno è salito in cielo e, secondo il testo greco che usa il passato, nessuno è stato in cielo all'infuori di colui eh'è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo che sta nel cielo. Delle cose celesti ed eterne, che non si svolgono su questa terra, voleva dirgli, può parlartene solo Colui che è stato nel cielo ab eterno, è disceso dal cielo, facendosi uomo, e sta nel cieloperché non cessa di essere Dio.

Non disse altro Gesù su questo grande argomento, ma Nicodemo sentì nell'anima sua lo splendore della luce divina, poiché chi gli parlava era proprio il Verbo eterno disceso dal cielo, il Verbo Incarnato per la salvezza di tutti. Questo era il concetto vero che doveva avere del Messia. Il Messia non era un profeta, e tanto meno un principe politico; era invece il Verbo di Dio Incarnato, vero Dio e vero uomo, esaltato non su di un trono di gloria, ma su di un patibolo d'immolazione per salvare le anime e dare loro l'eterna vita.

Gesù Cristo per gettare nell'anima di Nicodemo anche il germe di questa verità, gli ricordò il simbolo e la figura più ardua della redenzione, cioè il serpente di bronzo elevato da Mosè nel deserto per ordine di Dio, quando i figli d'Israele furono, per castigo, aggrediti da velenosi serpenti che li mordevano (Nm 21,9). Essi allora levavano gli occhi al serpente elevato su una specie di croce e, contemplando solo la figura di Colui che doveva immolarsi per tutti, erano guariti.

Il Verbo Incarnato sarebbe stato elevato non su di un trono, come pensavano allora i dottori della Legge, ma su di un giudizio terribile che meritavano, e dovette domandarsi internamente: come si concilia questa misericordia universale col giudizio severo promesso agli empi nelle Sacre Scritture? Il suo spirito, abituato a considerare i pagani come una massa dannata, e il popolo ebreo come l'unico erede della promessa, abituato a concepire il Messia come un re terribile e inesorabile, che doveva schiacciare ed annientare i nemici d'Israele, non sapeva capire come potesse attuarsi la redenzione senza una condanna inesorabile del mondo. Fu un pensiero che gli dovette sorgere in mente come un lampo, e può arguirsi dalla risposta di Gesù:

Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per condannarlo, ma perché il mondo per mezzo di Lui sia salvato.

Il giudizio severo ci sarà non contro le altre stirpi o nazioni, ma contro chi non crede in Lui', e non sarà neppure un giudizio fatto con apparati esterni di grandezza o di forza, poiché chi non crede nel Figlio di Dio, non usufruendo della sua misericordia, può dirsi già giudicato, perché rimane nel suo peccato e da se stesso si condanna, non avendo in sé la forza di risorgere e vivere la vita eterna.

Il giudizio, soggiunge Gesù per stabilire definitivamente l'esclusione assoluta di ogni principio di razza o di nazionalismo dal concetto della redenzione, non riguarda più la massa umana decaduta, perché la redenzione la rialza; riguarda gli uomini singolarmente che, avendo la luce, preferiscono le tenebre alla luce ed operano il male. Gli ignoranti, e quelli che senza loro colpa non hanno la luce ed operano naturalmente il bene, troveranno un giudizio di misericordia, i cui limiti li conosce Dio solo, ma quelli che facendo il male odiano la luce, e non vi si accostano, positivamente, per non sentire rimorso e non sentirsi rimproverare, saranno già giudicati, trovandosi fuori del regno di Dio. Chi opera secondo verità,cioè secondo la legge naturale posta da Dio nel cuore umano, s'accosta alla luce appena la vede e non ne ha timore, perché cerca il bene, simile a colui che, operando onestamente, non teme, come i ladri, la luce del giorno, ed anzi ha piacere di essere veduto nelle opere buone che fa.

La redenzione non è un trionfo politico...

E questa dunque la retta idea del Messia e l'economia della redenzione, espressa dal discorso di Gesù a Nicodemo: non si tratta di un trionfo politico esterno, riservato al solo popolo ebreo, ma di una rinascita spirituale nell'acqua del Battesimo e nello Spirito Santo, possibile a tutti gli uomini. Le idee di un diritto al regno di Dio conseguente alla generazione della carne e alla discendenza naturale dal popolo ebreo non reggono poiché il vero popolo eletto sarà quello formato dallo Spirito Santo per la grazia, sarà la Chiesa universale.

E questo ciò che hanno annunziato i profeti, ed è questo che annunzia Gesù, portando sulla terra, piena e completa la luce di Dio. Egli non è semplicemente Un uomo eletto e privilegiato, è Colui che era in principio presso Dio, è disceso in terra facendosi uomo, e non ha cessato di essere in cielo, essendo anche vero Dio. È disceso in terra per immolarsi ed essere innalzato sulla croce, e per salvare col suo sacrificio tutti gli uomini. Egli non limita il suo sacrificio ad alcuni soltanto, ma dà la pienezza della redenzione e dei meriti a tutti; tocca agli uomini usufruirne, credendo in Lui ed incorporandosi a Lui nella sua Chiesa. Dio, invece di colpire il mondo con un giudizio ed una condanna inesorabile, confesso meriterebbe, gli dà la massima testimonianza di amore, donandogli il suo Figlio, e glielo dona perché sia salvato credendo in Lui, operando per Lui il bene ed osservando i suoi precetti.

La redenzione quindi non è un giudizio di condanna ma un dono di misericordia; solo chi non l'accetta si condanna da se stesso.

Chi non conosce la redenzione senza sua colpa è già un redento poiché il Redentore ha salvato tutti ed ha pagato per tutti, virtualmente, il prezzo del riscatto. Se opera il bene, anche naturalmente, e vive secondo i dettami della legge naturale, appartiene all'anima della Chiesa e trova misericordia. Perisce chi, conoscendo la luce, preferisce ad essa le tenebre e vive da malvagio, odiando la luce per non lasciare la vita perversa che conduce.

Come si vede il discorso di Gesù non è involuto, è completo nella sua mirabile sintesi, degna della sua mente divina. Egli poi, parlando, come abbiamo detto, lo illuminava della sua luce e penetrava profondamente l'anima di Nicodemo.

Il Sacro Testo non ci dice che cosa abbia detto Nicodemo in fine del discorso, ma questa medesima reticenza ci fa capire che rimase in silenzio profondo, tutto compreso della verità che lo illuminava. Per la prima volta da che approfondiva la legge, aveva avuto un'idea chiara sul Messia e sulla sua divina Missione. L'anima sua ardeva in quel momento, poiché un mondo nuovo gli si era aperto davanti. Egli allora non seguì materialmente Gesù, ma gli rimase attaccato, e si propose di osservare attentamente come si sviluppasse la sua missione. Quando il sinedrio decise di far catturare Gesù ed ucciderlo, egli insorse per difenderlo, protestando che, secondo la Legge, non lo si poteva condannare senza ascoltarlo (7,50-51). Era ancora impressionato dal discorso di quella notte, e sperava che il sinedrio, parlandogli direttamente, si sarebbe ricreduto sul suo conto.

Rimase sempre... di notte, è vero, non osando apertamente schierarsi per il Redentore, ma lo fece con animo retto, stimando che, come parte dell'autorità suprema, egli non poteva impegnare il proprio giudizio in un fatto che aveva tanti aspetti di innovazione religiosa. Credette di attendere in un prudente riserbo, ed il Signore lo compatì, nella sua misericordia. Ma quando seppe che Gesù era stato crocifisso, e lo vide pendente dalla croce, allora certamente si ricordò delle solenni parole ascoltate nella beata notte nella quale gli aveva parlato: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così è necessario che sia innalzato il Figlio dell'uomo, la sua fede si scosse, germinò, fiorì, e volle egli insieme a Giuseppe d'Arimatea togliere il Corpo divino dalla croce, diventando subito un seguace aperto del Maestro divino (19,39-41). Staccando il Corpo divino dalla croce ne contemplò le piaghe, e commovendosi si sdegnò contro il sinedrio che l'aveva così martoriato, ne contemplò la calma divina, ravvisò in quel volto l'amore col quale gli aveva parlato in quella notte e, staccandosi definitivamente dal sinedrio, si unì alla Chiesa nascente.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

sabato 3 giugno 2017

04.06.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. XX par. 4

4. Gesù Cristo appare agli apostoli

Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po' di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l'alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d'un ramo spezzato dalla tempesta. Questo po' di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.

Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione né ricordavano ciò che in proposito aveva loro detto Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s'erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.

Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro inconsciamente quasi il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all'incanto ed al fascino di ciò che in tre anni avevano visto ed ascoltato.

La paura è sempre una pessima consigliera, e quando diventa panico cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell'episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (23,13-35). Il timore s'accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c'era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro, e fermatosi disse: La pace sia con voi.

Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in essi a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate ed il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, ed avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.

sabato 27 maggio 2017

28.05.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. XXVIII par. 5

    5. Gli apostoli mandati da Gesù ad evangelizzare il mondo

Mentre i sacerdoti, gli scribi e i farisei cercavano con la più stupida calunnia di impedire il propagarsi della buona novella, Gesù Cristo con la sua divina autorità, investiva gli apostoli della loro missione e solennemente li mandava ad annunziare la verità a tutte le genti di buona volontà, battezzandole nel nome della Santissima Trinità, ed incorporandole al suo Corpo mistico. Egli mandandoli non li fece ministri di una vana eloquenza, ma ordinò loro di istruire le genti e di insegnare ad osservare tutto ciò che aveva loro comandato. La predicazione evangelica è perciò eminentemente didascalica, e non può perdersi in vane parlate, che servirebbero più a magnificare l'oratore che a dilatare il regno di Dio. L'esposizione delle verità, del resto, è l'eloquenza più bella che possa desiderarsi, poiché è luce che illumina la mente, ed è calore che riscalda il cuore e la vita. L'oratoria non è mai apostolato, anzi molte volte diventa vera causa dell'ignoranza che affligge l'anima cristiana. Bisogna darle definitivamente il bando, e ritornare alle forme di omelia e di catechesi che avevano le prediche nella Chiesa primitiva.

Mandando gli apostoli in tutto il mondo, Gesù Cristo, fece ad essi ed ai fedeli di tutti i secoli la consolante promessa di essere con la Chiesa e con loro fino alla consumazione dei secoli. Egli difatti è con noi vivo e vero, nella Santissima Eucaristia, ed è con l'autorità che regge la Chiesa, di modo che non può mai avvenire che la verità e la vita della Chiesa possano venir meno nel corso dei secoli. La promessa dell'indefettibilità del Corpo mistico del Re divino esclude nella maniera più categorica la fandonia di quelli, i quali affermano con tracotanza che la Chiesa ha deviato dal suo cammino. E un assurdo che contrasta con l'essenza della promessa del Redentore e con la testimonianza della storia. Se la Chiesa avesse deviato, Gesù non sarebbe stato con Lei e non l'avrebbe assistita; se avesse smarrito la verità, sarebbe perita, perché la sua vita sta tutta nella verità e nel bene. Ringraziamo Dio che Essa è invece più rigogliosa che mai, e cantiamo al Signore un inno di amore riconoscente, perché si è degnato di conservarci nel suo seno.

Per la presenza di Gesù Cristo, la vita della Chiesa è una meraviglia di luce, di fecondità e di forza spirituale, che trascende ogni umana immaginazione; per la presenza eucaristica, fiorisce nel suo seno l'eroismo più puro, ed Essa ascende sempre dalla povera valle dove peregrina fino al godimento eterno.

Nel suo mortale cammino è sempre assalita e combattuta, perché segue il suo Re appassionato, ma il sapere che Egli è con Lei, il constatarlo, il viverne è tale conforto, che muta tutte le sue battaglie in trionfi, e le fa godere nelle stesse angustie la pace più profonda. La frase del poeta venosino che il sole non ha visto mai nulla di più grande di Roma può applicarsi solo nella Chiesa se si vuol dare ad essa il valore del vaticinio. Roma pagana infatti in mezzo alle grandezze militari offrì uno spettacolo di tale miseria morale, da potersi dire che il sole non abbia visto nulla di più turpe; Roma pagana oggi è solo un insieme di rovine, che sono archeologicamente interessanti e rivelano una grandezza passata, ma che in fondo sono ruderi informi. Solo la Chiesa ha reso Roma il centro dell'impero del Re divino; solo la Chiesa, nonostante le inevitabili debolezze degli uomini che ne fanno parte, offre lo spettacolo di un impero di verità, di bene e di amore, dove la potestà che comanda non cerca la gloria ma il bene, non opprime ma guida, non sfrutta ma dona, e dona le ineffabili ricchezze spirituali che Essa possiede.

Quale società e quale istituzione può avere vivo in lei il suo fondatore? I mausolei e i monumenti più grandiosi non sono che pietre, e i resti mortali degli uomini illustri sono putredine e cenere. Solo la Chiesa possiede il suo Re risorto e immortale, lo possiede vivo e vero, l'adora, gli parla, gli si unisce, ne beve la vita, e si consola in Lui. Il sacro Tabernacolo eucaristico è più che un monumento; è l'Arca dov'Egli vive, ci si dona, e regna.

Per l'Eucaristia il dono della sua Parola diventa vita, immaginare il Vangelo senza il Tabernacolo eucaristico è come immaginare una statua senza movimento e senza respiro, o come il pretendere che un erbario possa essere lo stesso che la feconda campagna. Gesù Cristo è sempre con la Chiesa, e vi continua la sua vita ammirabile, riproducendola nel suo Corpo mistico, e comunicandola attraverso i Sacramenti; Egli è veramente con noi, perché ci genera, ci alimenta, ci istruisce, ci guida, ci sostiene, e ci porta alla vita eterna.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

sabato 20 maggio 2017

21.05.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. XIV par. 4

4. Credere attivamente osservando la Legge di Dio, farsi vivificare dallo Spirito Santo

Non bisogna supporre che per far vivere in noi Gesù Cristo basti uno sterile atto di fede o una più sterile invocazione fatta a fior di labbra. Per molte anime infatti la vera e profonda pietà potrebbe prendere l'aspetto di una poesia più o meno fantastica, o rivestire il carattere di un idealismo più o meno vaporoso. La pietà vera è via, verità e vita', è via che ci conduce a Dio ed all'eternità, è fondata saldamente sulla verità divina, ed è vita di Gesù Cristo. La nostra vita dev'essere nascosta con Gesù Cristo in Dio, e dobbiamo vivere noi, ma non noi, sebbene Gesù Cristo in noi, come dice in una sintesi mirabile san Paolo.

Per far vivere in noi Gesù Cristo è necessario amarlo praticamente, osservando i suoi comandamenti, e per far questo è necessaria la grazia. La grazia viene a noi dallo Spirito Santo, e perciò Gesù Cristo, dopo aver parlato del Padre e di Lui stesso, Figlio del Padre, accenna allo Spirito Santo, che realizza la nostra unione con Lui e ci rende glorificazione di Dio. Essendo poi Egli il nostro mediatore presso Dio come Verbo Incarnato, e potendoci Egli solo ottenere la grazia per amarlo e per osservare i suoi comandamenti, soggiunge: Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Paraclito, affinché rimanga sempre in voi lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede né lo conosce; voi però lo conoscerete perché abiterà con voi e sarà in voi. Paraclito significa difensore, avvocato, consolatore, intercessore, esortatore, incitatore,colui che dà l'impulso; ora Gesù Cristo era per gli apostoli e per le anime tutte il difensore perché le liberava dalle insidie di satana, l'avvocato come dice san Paolo perché mediatore loro presso Dio, il consolatore perché effondeva in loro il balsamo della sua carità, l'intercessore, perché sempre vivente in preghiera per loro, l 'esortatore come Maestro divino, l'incitatore e colui che dà l'impulso, come nostro aiuto, nostro esempio e nostra vita. Egli quindi, come primo Paraclito, dovendo andare via dal mondo, e dovendo lasciare gli apostoli, promette loro un altro Paraclito, un'altra persona della Santissima Trinità, cioè lo Spirito Santo, che doveva essere per loro intimamente, e nella Chiesa ch'Egli fondava, difesa, avvocato, consolatore, intercessore, esortatore, incitamento al bene ed impulso di vita novella nelle debolezze della natura.

Gesù Cristo promette questo altro Paraclito perché rimanga nelle anime che lo riceveranno e nella Chiesa ch'Egli vivificherà, e perché sia conservato integro il patrimonio della fede e la Chiesa viva nel perenne splendore dell'infallibile verità.

Lo Spirito di verità che il mondo rifiuta

E questo quello che distinguerà la Chiesa dal mondo e i cristiani dai mondani: lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere. Il mondo è spirito di menzogna e di malvagità; odia la verità e non la vuole conoscere; appare per quello che è, ripieno dello spirito satanico aggressivo, violento, crudele, calunniatore, scandalizzatore, ossia diametralmente opposto allo Spirito Santo, e quindi è chiaro che non potrà né vederlo né conoscerlo.

I cosiddetti grandi della terra hanno tutti, più o meno, i caratteri opposti allo Spirito Santo, ed in realtà sono obbrobrio e miseria, nonostante le loro apparenze gloriose; i fedeli invece, i veri fedeli, dovranno essere contrassegnati dallo Spirito di Dio, ed esserne ripieni.

sabato 13 maggio 2017

14.05.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. XIV par. 2

2. Il luogo di eterna pace che Gesù ci dona e la via per giungervi. Gesù è la via, la verità e la vita. Il vero cammino di santità e la schiavitù d'amore

Gli apostoli erano rimasti turbati e sconvolti da quello che Gesù aveva loro detto, che sarebbe stato con loro solo per poco, e che l'avrebbero cercato, ma non avrebbero potuto seguirlo dov'Egli sarebbe andato allora (13,33).

Il loro turbamento era tanto più profondo, in quanto che ad essi sembrava svanissero di un tratto tutte le speranze che avevano concepito, e gli ideali che avevano sognato. Speravano ancora che Gesù avesse dovuto trionfare clamorosamente e politicamente dei nemici d'Israele, e inaugurare un regno glorioso, nel quale essi avrebbero avuto posti eminenti; speravano che questo dovesse presto avverarsi, e pregustavano forse, fantasticamente, la confusione che avrebbero avuto i suoi nemici; ora il sentir parlare di tradimento, ed implicitamente di morte, li turbava e disorientava. Per questo Gesù rincuorandoli disse: Il vostro cuore non si turbi, abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me; cioè: abbiate fede in Dio che saprà compiere le sue promesse, ed abbiatela anche in me, che non vi lascerò delusi nella speranza che avete riposta in me.

Al dolore per la mancata realizzazione delle loro speranze e dei loro sogni si univa, negli apostoli, quello per essi anche più penoso della separazione dal loro amatissimo Maestro. Le sue parole, infatti, erano un annuncio di prossima morte, ed essi pensavano angosciati che non l'avrebbero più veduto. Per questo Gesù soggiunse che Egli se ne andava per preparare loro il posto, giacché nella Casa del Padre suo c'erano molte dimore. Se non fosse così - soggiunse - ve lo avrei detto, cioè mi sarei licenziato da voi definitivamente; ma io verrò di nuovo, vi prenderò con me, e sarete anche voi dove io sarò.

Come padre amoroso, per non scoraggiarli, prospettò l'epilogo del loro pellegrinaggio ed il premio che avrebbero avuto un giorno, ma certo questo epilogo di gioia non sarebbe avvenuto né presto né senza lunghe e penose prove, delle quali tante volte aveva loro parlato, e delle quali dava l'esempio, e perciò soggiunse: Voi sapete dove io vado e ne sapete la via. Non volle parlar esplicitamente del cammino della croce, ma si richiamò con una sola espressione a quello che tante volte aveva detto, per non disorientarli in quel momento di angoscia. Tommaso prese l'espressione di Gesù in senso materialmente letterale e, immaginando che Gesù volesse fare un viaggio lontano, disse: Signore, noi non sappiamo dove tu vada, e come possiamo conoscerne la via? Con una parola sublime Gesù rispose a lui, aprendo all'umanità un orizzonte magnifico di ascensioni, e disse: Io sono la via la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per me. Egli è la via, l'unica via di salvezza, perché coi suoi meriti riconcilia gli uomini con Dio, li muove con la sua grazia, li illumina e li dirige coi suoi esempi e con la sua dottrina.

Egli non traccia solo la via della salvezza, ma è la via della salvezza, di modo che nessuno può andare a Dio se non per Lui, incorporandosi a Lui, e lasciandosi portare da Lui.

La via è un tratto immobile, che congiunge due termini lontani. Napoli, per esempio, è lontana da Roma, e nessuno stando in questa città può trovarsi a Roma. La via congiunge questi due luoghi, e rappresenta il prolungamento dell'uno verso l'altro. La via partecipa quindi dei due luoghi che congiunge: Roma - Napoli e Napoli - Roma.

Gesù Cristo è Dio e uomo, e congiunge in sé questi due termini infinitamente distanti; chi va a Lui Redentore, si avanza verso Dio, ed a misura che più si stacca da sé e più si congiunge a Lui, più si trova vicino a Dio e più lo raggiunge. La perfezione è in fondo un progredire in questa unione di amore, un perdere di vista sempre più se stesso, ma congiungersi maggiormente a Lui, fino quasi a combaciare col punto di arrivo cui Egli ci porta.

Gesù Cristo è la verità prima ed essenziale, poiché è l'infinita ed eterna sapienza, conoscenza sostanziale ed infinita del Padre. Dio è colui che è; è la verità, l'unica verità dalla quale dipendono tutte le altre, l'unico assioma infinitamente vivente. Chi va a Dio deve conoscerlo per amarlo, e non può conoscerlo fuori di Gesù Cristo, che ce lo rivela in tutte le verità che ci annunzia. Noi non siamo capaci di conoscere l'eterna verità senza di Lui, e non possiamo quindi ascendere a Dio, conoscendolo ed apprezzandolo sopra tutte le cose, che unendoci a Gesù Cristo con una pienissima fede.

Gesù Cristo come Dio è la vita per essenza, e come uomo è la causa meritoria della vita soprannaturale che ci viene comunicata per mezzo della grazia e della gloria.

Egli ci vivifica, e da Lui dobbiamo attingere la vita, comunicandoci di Lui.

sabato 6 maggio 2017

07.05.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. X par. 2

2. La soave parabola dell'ovile è della pecorella. Gesù Cristo è la porta

Gesù Cristo, addoloratissimo perché i capi del sinedrio avevano cacciato fuori della sinagoga il cieco nato da Lui guarito, volle mettere in guardia il popolo contro quelli che si arrogavano il diritto di guidarlo, non per nutrirlo spiritualmente, ma per sfruttarlo ed allontanarlo dalle fonti della grazia.

Era infatti terribile la situazione delle anime proprio in quel tempo nel quale il Signore compiva le promesse fatte nel corso di tanti secoli, e nel quale si apprestavano loro i pascoli abbondanti della verità e della grazia. Quelli che avrebbero dovuto condurle a questi pascoli, e Che avrebbero dovuto far loro riconoscere il Redentore alla luce delle profezie, delle promesse e delle figure che in Lui si compivano, le allontanavano da Lui con tutte le arti più scellerate, tradendo così il mandato avuto da Dio. Essi attribuivano a fanatismo il movimento del popolo verso Gesù, e credevano che Egli lo sobillasse; rifiutavano qualunque luce e, lungi dal commuoversi di fronte a miracoli strepitosi, ne pigliavano occasione per invelenire di più contro il Redentore, e per bistrattare quelli che lo seguivano. Avrebbero dovuto per i primi accoglierlo, ricevere da Lui il mandato di pascolare il gregge e condurlo nelle vie della salvezza ai pascoli eterni; invece lo rinnegavano, e perciò stesso rappresentavano degl'intrusi.

Essi non avevano più il mandato da Dio di guidare le anime, dal momento che rifiutavano di ricevere Colui del quale avrebbero dovuto essere come i precursori ed i rappresentanti, e poiché cercavano di conquistare le loro cariche con intrighi, anche per questo erano degl'intrusi, e rappresentavano per le anime un pericolo.

Gli scribi e i farisei avevano cacciato il cieco guarito dalla sinagoga, solo perché non si era prestato a svalutare il miracolo ricevuto, ed aveva proclamato Gesù un profeta, cercando di dimostrarlo proprio col miracolo ricevuto; avevano preteso con questo di esercitare la loro autorità, senza pensare che dal momento che s'erano compiute le promesse, le figure e le profezie in Gesù, essi non avevano più il diritto di pascolare le anime se non per suo mandato. Qualunque autorità che non faceva capo a Lui, pastore divino del popolo, era un'intrusione e si riduceva ad un massacro di anime. Questa grande e scottante verità Gesù Cristo la espresse con una parabola tratta dagli usi che i pastori avevano nel custodire e pascolare le pecorelle.

In Oriente gli ovili erano dei vasti recinti chiusi o da palizzate o da mura rozzamente elevate, che servivano a difendere il gregge dagli animali feroci o dai ladri. Una porta immetteva in questi recinti, dove la sera si radunavano le pecorelle di vari pastori, i quali, andando a dormire, vi lasciavano un vigilante custode per la notte. Al mattino ciascuno ritornava a rilevare le proprie pecorelle, ed esse, riconoscendo la voce del proprio pastore, lo seguivano, ed uscivano con lui per andare ai pascoli. Un ladro, che avesse voluto rubare una pecorella, non entrava certo dalla porta, ma scavalcava il muro o la palizzata, e le pecorelle, non riconoscendone la voce, lungi dal seguirlo se ne spaventavano e lo fuggivano. Gesù perciò disse: Chi non entra per la porta dell'ovile, ma vi sale per un 'altra parte, è ladro ed assassino. Chi invece entra per la porta è il pastore delle pecore. A lui apre il guardiano, e le pecorelle ne ascoltano la voce, ed egli chiama per nome le sue pecore e le conduce fuori. E quando ha fatto uscire le proprie pecorelle cammina innanzi ad esse, e le pecorelle lo seguono perché ne conoscono la voce. Ma non vanno dietro a uno straniero, anzi lo figgono, perché non conoscono la voce degli estranei.

Gli scribi e farisei che lo ascoltavano non compresero di che cosa parlasse loro, perché erano tanto lontani dal considerarsi come pastori delle anime, ed ancora più lontani dall'intendere che da allora nessuno poteva più pascolare le anime senza riceverne da Gesù il mandato. Perciò Gesù soggiunse: In verità, in verità vi dico che io sono la porta delle pecorelle. Quanti sono venuti prima di me sono tutti ladri ed assassini e le pecorelle non li hanno ascoltati. E voleva dire: Io sono la porta che introduce le pecorelle nell'eterno ovile, e che per introdurvele le conduco ai pascoli salutari; tutti quelli che sono venuti a reggere le anime senza guardare a me, promesso da Dio come salvezza o a me venuto in terra come Redentore, non sono stati pastori, ma ladri ed assassini di anime. Quanti sono venuti, e il greco aggiunge: prima di me, cioè senza sospirare a me o credere in me, hanno strappato alle anime la fede, hanno fatto loro sognare un regno temporale, e perciò le hanno uccise eternamente, allontanandole dai pascoli della vita. Per insistere sul suo concetto e per estenderlo agli uomini di tutti i tempi, Gesù Cristo soggiunse: Io sono la porta. Chi entrerà per me sarà salvo, ed entrerà ed uscirà e troverà pascoli. Entrerà nel mio ovile trovandovi il riposo, uscirà ai pascoli nella mia Chiesa, e li troverà abbondanti, entrerà nel regno eterno, e si dilaterà nell'eterna felicità, trovando ogni diletto.

Ritornando ai pastori che entrano nell'ovile non per condurre al pascolo le pecorelle ma per sfruttarle, Gesù soggiunse che essi sono ladri e vengono per rubare, uccidere e disperdere il gregge. Rubano loro la fede, ne uccidono l'anima, e le disperdono nella via dell'eterna rovina. Egli invece è porta delle pecorelle e porta per la quale entrano i veri pastori, perché unico supremo pastore delle anime, è venuto in terra perché esse abbiano la vita e l'abbiano abbondantemente.

sabato 22 aprile 2017

23.04.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. XX par. 4-5

4. Gesù Cristo appare agli apostoli

Dopo che Pietro e Giovanni tornarono dal sepolcro, e dopo il messaggio delle pie donne e della Maddalena, cominciò a nascere negli apostoli un po' di fede. Non era la fede profonda e completa di chi crede a Dio che rivela, riguardando come somma ragione la sua autorità, ma era come l'alba di questa fede, era come il rinascere di una speranza che sembrava già morta, era come il primo rinverdirsi d'un ramo spezzato dalla tempesta. Questo po' di fede, più naturale che soprannaturale in quel momento, fu la disposizione che rese loro possibile la grazia della rivelazione del Signore.

Essi erano in buona fede, in fondo, poiché non avevano capito i tratti della Scrittura che parlavano della risurrezione né ricordavano ciò che in proposito aveva loro detto Gesù; non rifiutavano di credere alla Parola di Dio positivamente, ma s'erano come smarriti nel labirinto delle loro idee e delle loro aspirazioni.

Il timore poi dei Giudei aveva fatto nascere in loro inconsciamente quasi il desiderio di sottrarsi, se fosse stato possibile, all'incanto ed al fascino di ciò che in tre anni avevano visto ed ascoltato.

La paura è sempre una pessima consigliera, e quando diventa panico cerca ogni scappatoia per sottrarsi al pericolo; se non in tutti gli apostoli e discepoli, almeno in alcuni subentrò un desiderio occulto di non pensare più al passato, di abbracciare un tenore comune di vita, e ritornare alle loro occupazioni; ne abbiamo un esempio nell'episodio dei discepoli di Emmaus, del quale parla san Luca (23,13-35). Il timore s'accrebbe negli apostoli per le stesse notizie che riguardavano la risurrezione. Certamente il Corpo di Gesù non c'era più nel sepolcro, e questo fece loro temere che le autorità li accusassero di averlo essi sottratto, iniziando contro di loro una persecuzione; perciò stavano guardinghi e tenevano ben chiuse le porte dove erano congregati. Ora mentre erano insieme, nella sera della stessa domenica della risurrezione, Gesù Cristo, senza bisogno di farsi aprire, entrò improvvisamente in mezzo a loro, e fermatosi disse: La pace sia con voi.

Nella sua misericordia e nel suo amore veniva per troncare la loro diffidenza, e per mostrare la realtà della sua risurrezione. Perciò, passato il primo momento di sbigottimento che si generò in essi a quella vista, li invitò ad avvicinarsi a Lui, e mostrò loro le mani piagate ed il costato aperto, affinché avessero avuto un argomento sensibile della realtà del suo Corpo, ed avessero constatato che quello era proprio il Corpo crocifisso tre giorni prima sul Calvario.

domenica 16 aprile 2017

16.04.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. XX par. 2

Il primo giorno dopo il sabato, cioè la Domenica, Maria Maddalena si recò al sepolcro all'alba mentre era ancora buio. Era partita dalla sua casa o dal luogo dov'erano chiusi gli apostoli, ch'era quasi notte ancora e non era sola ma accompagnata dalle pie donne (Mt 28,1; Me 16,1-2; Le 24,1) con le quali giunse al sepolcro allo spuntare del sole (Me 16,2). San Giovanni nomina solo Maria Maddalena, sia perché completa le narrazioni dei Sinottici, e sia perché essa, più ardente di tutte, pigliò l'iniziativa e raccolse le altre donne. Essa poi fu quella che corse per prima ad avvisare Pietro e Giovanni dello stato in cui aveva trovato la tomba.

Mentre le donne camminavano avvenne la risurrezione, ed esse avvertirono il terremoto che la seguì allorché l'angelo discendendo dal cielo, rovesciò la pietra. Maria Maddalena, nel vedere di lontano il sepolcro aperto, ben lungi com'era dal credere alla risurrezione, suppose che avessero rubato il Corpo di Gesù, e corse per avvertirne gli apostoli più rappresentativi, Pietro e Giovanni; le altre pie donne giunsero fino alla tomba ed ebbero la visione degli angeli; Maria Maddalena poi tornò di nuovo sola al sepolcro per tentare di rintracciare essa il sacro Corpo. Non sapeva credere che fosse risorto, e non sapeva rassegnarsi che l'avessero rubato; voleva ad ogni costo rendergli gli ultimi attestati di venerazione ed era desolata di non poterlo fare. Ella era stata più vicina al Signore nella Passione, ed aveva constatato l'odio dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei, ed appena vide la pietra del sepolcro ribaltata pensò che avessero voluto fare al suo Signore l'ultimo oltraggio, e corse per vedere che cosa si fosse potuto fare per impedirlo o ripararlo.

sabato 8 aprile 2017

09.04.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. XXVI par. 2-10

2. L'annunzio della prossima morte del Redentore, dato da Lui stesso, dal sinedrio e dall'atto di pietà della Maddalena

Si avvicinava la Pasqua solenne, nella quale dovevano compirsi i simboli, le figure e le profezie del passato, la Pasqua nella quale doveva essere immolato il vero Agnello, e proclamarsi la nuova alleanza tra Dio e l'uomo. Gesù stesso volle darne avviso ai suoi apostoli perché si fossero predisposti al momento solenne, che doveva essere per loro di suprema prova; il suo avviso era profetico, perché riguardava un futuro che umanamente non poteva sapersi, ed Egli nel darlo mostrava non solo di conoscerlo ma di dominarlo.

La Passione e la Morte non lo colpirono all'improvviso, ma Egli che tutto prevedeva, liberamente l'accoglieva per compiere la volontà del Padre e i disegni ammirabili della sua misericordia.

La Pasqua era la principale solennità degli Ebrei, la quale ricordava la liberazione dall'Egitto, figura a sua volta della liberazione dal peccato. Le si dava principio la sera del 14 di Nisan, cioè verso i primi giorni di aprile, con la cena dell'agnello, e durava otto giorni. Quando il 14 cadeva di venerdì, la sera della cena veniva a coincidere col principio del sabato, ed allora si anticipava l'immolazione e la cottura dell'agnello al giorno 13, non potendosi fare questo in giorno di sabato.

Gesù Cristo annunziò la sua imminente morte due giorni prima della grande solennità, e quasi contemporaneamente al suo annunzio si adunò il sinedrio per decidere come catturarlo con inganno ed ucciderlo. Per mantenere il segreto fu scelto come luogo dell'adunanza non la solita sala dei consigli, ma l'atrio della casa di Caifa, principe dei sacerdoti. Data poi l'affluenza dei pellegrini, si stabilì di catturarlo dopo i giorni di festa, per evitare una possibile sollevazione popolare.

Due annunzi della Passione del Signore, uno dato da Lui stesso che volontariamente si offriva come vittima, un altro dato dal sinedrio che malignamente ne tramava la morte; uno dato dall'amore l'altro dall'odio implacabile.

L'evangelista aggiunge a questi annunzi quello dato misticamente da una donna in casa di Simone il lebbroso, quasi inconsciamente. Questa donna, identificata generalmente per Maria Maddalena, entrò nella stanza dove si tratteneva Gesù, e gli versò sul capo un prezioso unguento di nardo, in segno di rispetto e di amore. Era costume di ungere con unguenti il capo e la barba degli ospiti, per testimoniare loro rispetto e deferenza, ma l'atto della Maddalena trascendeva quello di una semplice considerazione, era fatto per una particolare mozione di grazia che la spinse, per delicatezza, ad anticipare al Corpo del Redentore quegli uffici di rispetto e di venerazione che non potè rendergli dopo la morte. Lo disse Gesù Cristo medesimo, difendendola contro le mormorazioni degli apostoli, i quali videro in quella effusione un vano sciupio di denaro; Egli anzi affermò categoricamente che quell'atto sarebbe stato ricordato in tutti i secoli, nella predicazione del Vangelo.

Gesù Cristo annunziò la sua Passione e Morte per stabilire implicitamente questa verità fondamentale nel grande dramma che stava per svolgersi, e proclamare che nessuno avrebbe potuto togliergli la vita, senza che Egli l'avesse voluto. Il sinedrio manifestò tutta la propria malignità nel congiurare, e la Maddalena l'amore immenso che le ardeva nel cuore. Erano i tre capisaldi della Passione: l'amore che si dona, la perversità che lo immola, l'amore che risponde all'amore.

Quale potenza avrebbe potuto sopraffare l'Onnipotente?

Potrebbe mai un fiotto di acqua spegnere il sole? Se per ipotesi potesse raggiungerlo, sarebbe all'istante svaporizzato dall'immensa fiamma. L'atomo non potrebbe neppure lontanamente pensare di poter abbattere la salda roccia, né l'insettuccio di conquidere il gigante.

Ci volle tutta l'onnipotenza dell'amore per permettere all'odio insano di andargli contro e sopraffarlo; si direbbe anzi che l'amore abbia volto contro di sé quella malignità, che in caso opposto sarebbe stata meno di un fiotto d'acqua contro il sole, di un atomo contro la roccia, o di insettuccio contro un gigante. Che meraviglia è l'amore di Gesù che s'immola!

Nella vita cristiana anche noi, immagine di Gesù Cristo, ci sentiamo annunziare le angustie che ci purificano; il futuro ci serba sempre sorprese d'immolazioni penose, necessarie al conseguimento dell'eterna gloria. Dio ci prova per amore; la malignità umana ci perseguita per odio, e la carità dei buoni tempera le nostre pene con le sue delicatezze, che sono come unguento preziosissimo sulle nostre piaghe.

E necessario accogliere le prove di Dio col fìat della rassegnazione amorosa a Lui che è Padre e non può volere che il nostro bene; è indispensabile accogliere perdonando le pene che ci vengono dall'umana malizia, e ricevere con molta riconoscenza il sollievo che ci dona la carità.

La vita è un cammino di dolorosa passione, ma è breve; dopo un po' di combattimento si raggiunge la meta, e la meta è l'eterna felicità. Consideriamo con gioia questa brevità: di qui a poco meneremo albana, per così dire, come vecchi indumenti sdruciti, quello che ci tormentargli occhi, il cuore, il fegato, lo stomaco, le membra che ci danno pena non ci serviranno più; ce ne libereremo come si libera li bruco e la crisalide della sua forma per mettere le ali; voleremo per la croce alla luce!

sabato 1 aprile 2017

02.04.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. XI par. 2

2. Il mirabile racconto della risurrezione di Lazzaro nelle sue circostanze storiche e psicologiche

Pochi racconti nella medesima Sacra Scrittura hanno la vivezza storica e psicologica del miracolo che meditiamo. San Giovanni ne fu certamente testimone oculare, e la commozione grandissima che provò innanzi ad un prodigio così grande, glielo impresse indimenticabilmente nell'anima.

Non si può leggere questo racconto senza sentirsi presenti al fatto e senza piangere. La tenerezza di Gesù commuove, il dolore delle sorelle del defunto fa fremere, l'atteggiamento della folla dei visitatori ci fa vivere nella casa di Marta e di Maria, desolata dalla morte e movimentata dalle premure della carità. Tutto nel racconto è naturale e spontaneo come avvenne, e tutto è vivo come se il fatto si rinnovasse innanzi a chi lo legge.

Lazzaro, abbreviativo di Eleazaro, abitava con due sue sorelle, nel villaggio e castello di Betania, distante circa tre chilometri da Gerusalemme. Era un benestante, come appare dal contesto, ed era, con le sue sorelle, devotissimo a Gesù, che lo amava con particolare predilezione. Forse questa sua devozione dovette avere origine o per lo meno intensificarsi per la conversione di sua sorella Maria. Il Sacro Testo ricorda infatti non senza ragione la circostanza più bella di questa conversione, e cioè l'unzione che la povera peccatrice fece ai piedi di Gesù, quando in casa di Simone andò a domandargli perdono e misericordia.

Per una famiglia onorata e benestante Maria Maddalena era stata una vergogna grandissima, e la sua conversione aveva stabilito col Redentore dei rapporti di grande, amorosa gratitudine da parte di tutti, ed in particolare forse di Lazzaro, che, come uomo e come capo di casa, aveva dovuto essere il più sdegnato dall'indegna condotta della sorella. In Betania, da non confondersi con la Betania della Perea, la famiglia di Lazzaro per la sua signorilità era tenuta in deferente considerazione, come appare dal concorso di gente che affluì nell'occasione del lutto sofferto; il modo stesso come mandarono a pregare Gesù quando il fratello si ammalò, e il modo come si lamentarono della mancata visita confermano questa signorilità, che nel pregare si contentò di un accenno, e nel lamentarsi usò un'espressione piena di rispettosa deferenza. Da queste circostanze poi si deduce anche la fede che tutta la famiglia aveva in Gesù Cristo, vero Figlio di Dio. Nella preghiera, infatti, che gli fecero non gli dissero di andare subito dall'infermo, non lo premurarono a guarirlo in distanza, non lo pressarono con espressioni accorate, ma gli esposero solo il caso doloroso, e fecero appello al suo Cuore: Ecco, colui che ami è infermo.