lunedì 20 gennaio 2014

20/21.01.2014 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 2 par. 4

4. La vocazione di san Matteo
Cafarnao, città di frontiera e di traffico, aveva molti impiegati, riscuotitori d’imposte, che venivano chiamati pubblicani. La loro funzione era odiosa presso il popolo, e tanto più abominevole in quanto essi rappresentavano nella patria il potere degli oppressori. Gl’imperatori romani appaltavano le imposte ad alcuni ricchi cittadini, i quali avevano in ogni provincia dei riscuotitori, e questi, a loro volta, degl’impiegati subalterni. Era tutta una rete di oppressione e, per i soprusi e le ingiustizie alle quali si davano i riscuotitori, la loro professione era riguardata con odiosità grande, ed essi erano fuggiti come appestati.
Gesù Cristo volle scegliere da questa classe odiata uno dei suoi apostoli, per mostrare che la sua misericordia voleva abbracciare tutti e chiamarli al regno di Dio. Andando verso il mare, vide al banco della gabella un pubblicano, chiamato Levi o Matteo, figlio di Alfeo, e gli disse: Seguimi. Egli immediatamente lasciò tutto a qualche subalterno di ufficio, e andò appresso a Gesù.
Dal banchetto che fece al Maestro divino per festeggiare la sua vocazione si può rilevare che anche Matteo si trovasse in uno di quegli stati di crisi interiori e di scontento per la sua professione, che facilitano la risposta alla divina chiamata; egli poi invitò a pranzo molti dei suoi colleghi, per stabilire tra essi e il Redentore un primo contatto, e zelarne la conversione.
E chiaro che già da tempo Matteo aveva dovuto sentire attrazione verso Gesù, e che più volte aveva dovuto ascoltarne la predicazione; la parola d’invito che ricevette, accompagnata da una spinta intema della grazia, completò il lavorio interiore del suo spirito ed egli prontamente si decise a seguire la nuova via che gli veniva additata. Ai pescatori di uomini, che dovevano un giorno raccogliere nella santa rete dell’amore le anime, Gesù aggregò un gabelliere, acciocché avesse, per così dire, fatto pagare dalle anime al Signore il tributo dell’amore, e ne avesse fatto riconoscere il dominio a tutte le genti. Lo staccò dal banco delle povere ricchezze terrene, per renderlo amministratore delle ricchezze eterne e, da ministro del dominio di oppressione, lo rese ministro del dominio dell’amore soavissimo di Dio.
Gli scribi e farisei, che riguardavano con estremo disprezzo i pubblicani e i peccatori, furono grandemente scandalizzati nel vedere Gesù a tavola con essi, nel banchetto che gli aveva offerto Matteo. Non osarono però fargli direttamente delle rimostranze, ma si rivolsero ai suoi discepoli, sia per non entrare nella sala del banchetto, sia per non farsi troppo notare dagli altri pubblicani, che, come pubblici ufficiali, avrebbero potuto far loro del male, o angariarli nelle tasse.
Gesù sentì le loro rimostranze e, levando la sua voce misericordiosa, disse che egli era come il medico che andava cercando gl’infermi per risanarli, e che non era venuto a chiamare i giusti ma i peccatori. Ammetteva che tra i convitati vi fossero dei peccatori, ma non ammetteva che fossero abbandonati a loro stessi e perissero miseramente; Egli, Redentore di tutti, non poteva farli perdere. Con queste parole di misericordia, Gesù tracciava il programma futuro della Chiesa, la quale è Madre di tutti e specialmente dei traviati e dei peccatori. Egli per il primo rompeva le barriere che i farisei avevano preteso di porre intorno ai traviati, ed apriva le braccia della sua misericordia per riceverli tutti.
Un banchetto non sarebbe sembrato l’ambiente più adatto a promuovere la conversione, ma Gesù lo mutava in banchetto di vita con la sua parola e benediceva il cibo perché avesse sostenuto le forze che dovevano servire Dio, scacciando così satana dai luoghi dove più era solito fare messe di anime. Non gli ripugnava di mutare un banchetto materiale in un convito spirituale, perché un giorno avrebbe raccolto gli uomini nel Banchetto eucaristico come unica famiglia innanzi allo sguardo del Padre.






Il Signore compatisce l’umana debolezza
Ai farisei abituati a digiunare ed a predicare un’austerità tutta esterna, e ai discepoli di Giovanni che s’ispiravano alla vita penitente del loro Maestro sembrava un disordine la vita dei discepoli di Gesù, aliena da queste pratiche di penitenza esteriore, e se ne lamentarono con Lui; ma Egli li difese dolcemente, mostrando un altro aspetto dei conviti ai quali si degnava intervenire: quando si fanno le nozze gli amici dello Sposo non digiunano, perché il banchetto è parte integrante della cerimonia nuziale; ora, Egli era venuto precisamente a sposare l’umanità e ad incorporarla a sé; i banchetti ai quali partecipava coi suoi discepoli erano come banchetti di queste nozze, da Lui mutati in occasioni di apostolato e di benedizione per tanti cuori.
Egli così veniva incontro alla debolezza dei suoi apostoli, non forzandoli a penitenze straordinarie, ma addestrandoli poco per volta alla vita di rinunzie alla quale li chiamava.
Nessuno può cucire un pezzo di panno nuovo su di un vestito vecchio senza sdrucirlo, e nessuno può mettere il vino nuovo in un otre vecchio senza romperlo; Egli voleva formare degli apostoli novelle creature per la grazia dello Spirito Santo, ed allora essi avrebbero digiunato e fatto penitenza senza reazioni pericolose della debole natura.
Gesù con queste parole stabiliva un principio di prudenza e di sobrietà nella guida delle anime; non si può forzare la natura ancora fragile e debole ad atti eroici sproporzionati alle sue forze; i principianti debbono essere condotti gradatamente alla virtù, e debbono essere prima santificati e rafforzati interiormente dalla grazia.
Esigere per esempio da un novizio un atto di eroismo, senza averlo prima addestrato a superare la propria debolezza con atti elementari di rinunzia, significa turbarlo ed impedirne la formazione o, peggio, significa formarlo ad una virtù apparente e farisaica. Le anime si formano al Banchetto della vita, avvicinandole allo Sposo divino, e facendo loro sentire il suo amore; è così che esse si rafforzano e sono capaci di rinnovarsi interamente.
V’è, poi, nelle vie dello spirito un digiuno più penoso di tutti gli altri, ed è quello spirituale, quello delle prove, delle tenebre e delle aridità, quando l’anima sembra una smarrita e si trova disorientata nella sua desolazione interiore.
Questo avviene per l’assenza dello Sposo divino, il quale mostra di eclissarsi per purificare l’anima da tutte le miserie e debolezze della natura.
Il principio della vita spirituale è quasi sempre pieno di gioie e proprio come un banchetto; l’anima si nutre, si sazia, si consola, e spesso crede così di essere giunta a grande perfezione. Tutta quella gioia invece, pur essendo un bene del quale bisogna essere riconoscentissimi a Dio, è il banchetto dell’Amore che sposa l’anima, è frutto del Signore, non è testimonianza della nostra fedeltà a Lui.
Quando ci opprimono le prove, allora siamo noi che possiamo rispondere all’amore di Gesù Cristo e rendergli il vero omaggio della nostra fedeltà. È Dio medesimo che non mette un panno nuovo sul vecchio, o il vino nuovo nell’otre già usato e consumato. Egli segue con patema bontà le anime; le conforta, le consola, e non dona loro le grandi prove se non quando sono già provette nelle sue vie. Bisogna dunque consolarsi nelle stesse aridità inteme, ed offrirsi a Gesù perché Egli ci formi col suo dolcissimo amore, nel disegno della sua volontà.

I discepoli colgono le spighe e le mangiano in giorno di sabato
Poco dopo il banchetto fatto in casa di san Matteo, Gesù passò coi discepoli per i campi biondeggianti di messe, in giorno di sabato, ed essi cominciarono ad inoltrarsi nel seminato, a cogliere le spighe ed a mangiarle. Questo era lecito secondo la Legge, ma ai farisei, sembrò una violazione del sabato, per il lavoro che, secondo essi, dovevano fare i discepoli per sgranellare le spighe; perciò se ne lamentarono col Signore. Psicologicamente si può dire che i discepoli, difesi da Gesù nel banchetto, avessero preso una certa maggior libertà nel mangiare, e forse per questo si posero a sgranellare le spighe; è naturale, infatti, che l’anima abusi facilmente della bontà con la quale viene trattata, e che ecceda nella spregiudicatezza quando è stata caritatevolmente scusata nelle sue debolezze. Si può dire forse che una certa mancanza di mortificazione e di sobrietà in loro abbia attratto su di essi il linguaggio malefico dei farisei, poiché spesso nelle vie dello spirito le nostre colpe, anche occulte, generano negli altri un’avversione inconscia per noi, e li muovono a criticarci od a farci guerra.
Gesù però difese i suoi discepoli, e poiché Egli li aveva voluti come compagni della conquista del suo regno di amore, riguardò il loro atto non in se stesso, ma nella cornice delle alte cose che si realizzavano sotto i loro occhi.
Egli era il vero Davide che andava per la Palestina odiato e perseguitato, e che nell’angustia grande del suo Cuore andava conquistando il suo regno; Egli era il Re supremo, padrone di tutte le leggi, anche del sabato; in Lui si compivano le figure del passato, e gli apostoli, benché non lo capissero, erano anch’essi avvolti da questa luce. Essi allora non erano più magari i trasgressori di un uso legale, ma, completando il compimento del tipo profetico, erano come i compagni del vero Davide divino, ed in certo modo, per la luce che li avvolgeva, il loro atto non rivestiva più il carattere di una colpa.
Quello che facevano ricordava quel che fecero i compagni di Davide, autorizzati dal sommo sacerdote a mangiare persino i pani sacri.
Egli era il vero sommo sacerdote, non rimproverandoli del loro atto, li autorizzava a mangiare non solo per completare l’avveramento della figura, ma perché ogni potere gli era, stato dato dal Padre.
L’evangelista dice che fu il sacerdote Àbiatar a permettere a Davide e ai suoi di mangiare i pani sacri; invece questo avvenne sotto il pontificato di Achimelec padre di Abiatar. Letteralmente l’evangelista nomina solo Abiatar perché questo aiutava Achimelec e gli successe nel pontificato; ma può dirsi che non è senza misteri questo scambio di nomi. Abiatar infatti significa padre eccelso, padre suo, ora Gesù autorizzava i suoi discepoli a cogliere le spighe di sabato, perché gli era stato dato ogni potere dal Padre eccelso che era Padre suo, e per questo disse che Egli era padrone anche del sabato.
Il sabato è stato fatto per l’uomo - disse Gesù - non l’uomo per il sabato e con queste parole volle condannare lo spirito farisaico che badava alle osservanze esterne, e non si curava dello spirito col quale bisognava compierle. A che cosa serviva l’osservanza scrupolosa del riposo se lo spirito era lontano da Dio? Il riposo è stato dato dal Signore per l’uomo, per dargli cioè modo di sentirsi affrancato e, nella libertà dello spirito, elevarsi ai beni eterni. La legge è per l’uomo, perché deve guidarlo al bene, non l’uomo per la legge, perché la legge non è fine ma mezzo. Lo scrupolo rende la legge fine della vita e per questo attanaglia l’anima nelle sue spire.
Dio non è mai oppressione, è liberazione della sua creatura; non le impone una legge per restringerla, ma per darle modo di spaziare liberamente in orizzonti più vasti; il mondo invece, satana, la carne, e tutto ciò che deriva da questi nemici terribili della nostra vita è oppressione e schiavitù. Anche in questo capitolo del Vangelo rifulge che Dio solo è vera libertà per noi.
Ecco, Gesù libera l’anima ed il corpo del paralitico dai ceppi che lo avvincevano; libera Matteo dalla schiavitù del suo penoso e spregiato ufficio, rendendolo apostolo; libera i peccatori e i pubblicani dall’obbrobrio che li copriva, onorandoli con la sua presenza; libera gli apostoli dalle oppressioni del fariseismo, e li restituisce alla qualità di figli di Dio.
Oh, se intendessimo quale libertà ci dona Dio, se lo intendesse il mondo apostata, non sarebbe così vile da rinunziare al Signore, e da chiamare padre i suoi tiranni!
Nella storia moderna passerà come sommo obbrobrio l’idolatria dei tiranni e l’apostasia da Dio: Lenin, questo despota vile e sanguinario, è stato adorato come liberatore; Stalin, quest’uomo diabolico, carico di spaventosi delitti, è stato chiamato potente padre e contrapposto a Dio stesso. Si potrebbe fare una lista interminabile di questi idoli scellerati che, come Moloch, hanno divorato i loro adoratori, gli adoratori della feccia umana in nome della libertà mutata in spaventosa tirannide.
Non stiamo più a credere agli scellerati che hanno tradito il popolo; rifugiamoci nelle braccia di Dio e in quelle della Chiesa; ormai tutta la storia vissuta da noi stessi ci dice con sanguinante eloquenza che non c’è salvezza altrove che in Dio e nella Chiesa, Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana!

Sac. Dolindo Ruotolo

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