5. L'infanzia. Lo smarrimento di Gesù e la sua vita nascosta
Maria e Giuseppe, dopo aver compiuto tutto ciò che ordinava la Legge, se ne ritornarono nella Galilea, andando a dimorare col Figlio divino nell'umile borgata di Nazaret. Siccome san Giuseppe, quando ritornò dalla fuga in Egitto, voleva fissare il suo domicilio a Betlem (Mt 2,22) si può supporre che, dopo la purificazione, la sacra Famiglia sia andata a Nazaret per un certo tempo, per ritornare poi a Betlem, dove più tardi avvenne l'adorazione dei Magi, e poi la fuga in Egitto ed il definitivo stabilirsi a Nazaret.
In questa dimenticata borgata Maria allevò il suo Bambino, e san Giuseppe cercò di sopperire alle necessità della casa col suo lavoro. L'idea che ebbe più tardi di stabilirsi a Betlem ci fa intendere che a Nazaret il lavoro doveva esservi scarso, e che la vita della sacra Famiglia conoscesse le angustie della povertà; ma in quella povertà splendeva Gesù, tesoro divino, ed era la felicità della casa. Il Sacro Testo dice che egli cresceva e s 'irrobustiva, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era in Lui. Da queste brevi parole, che san Luca attinse dalla bocca di Maria, si può arguire quale fosse la sua vita col Figlio divino. Ogni madre è attratta teneramente a considerare il crescere e l'irrobustirsi fisico del figlio, ed è incantata dalle prime manifestazioni della sua intelligenza e del suo cuore.
Chi alleva un figlio sa quanta gioia si prova nel vederlo sano, forte, intelligente e buono, ossia nel constatarne lo sviluppo fisico e morale. Questa soddisfazione di amore in Maria era immensa, poiché Essa sentiva dalla vita del Redentore una continua comunione di grazie, ed era come immersa nei raggi della sua divinità. Cresceva Gesù e cresceva l'amore di Maria; si irrobustiva il piccolo corpo ed aumentava la sua tenerezza materna; Egli non balbettava ma le parlava da Dio al cuore, e le rivelava i tesori della sua carità.
Maria, quindi, era in continua contemplazione. Nessuna maternità fu più gioiosa della sua. Cresceva e s'irrobustiva Gesù, e quindi cominciava a camminare ed a prestare piccoli servigi in casa e nella bottega di san Giuseppe.
Quale tenerezza e quale esempio l'intimità della casa di Nazaret! Vi regnava sovrana la pace, il raccoglimento, la più intima e pura gioia, e la luce divina la mutava in un tempio. Che cosa era Gesù al petto materno! Con quale umilissimo amore Essa gli continuava a dare nel latte la sua vita, con quale tenerezza si sentiva succhiare la vita! Una delle più tenere funzioni materne è l'allattamento; aprirsi quasi il cuore, donare se stessa, sentirsi leggermente mordere, notare la soddisfazione del piccolo infante, i suoi occhi, la sua stessa avidità commuove le sue viscere. Si sente alleggerita dal suo piccolo, perché si vuota di quella pienezza che il suo amore vuol donare, e quando lo vede staccato dal suo petto, nel sonno, rimane a guardarlo e lo bacia soavemente, lo sfiora con un soffio di amore.
La Chiesa sintetizza questa funzione materna di Maria con una frase ammirabile: Sola virgo lactabat, ubere de coelo pieno-, aveva il petto verginale pieno di cielo perché fecondo per opera dello Spirito Santo. Essa dunque non gli donava solo il latte verginale, ma effondeva in Lui la sua vita di amore, e lo avvolgeva nei profumi della sua purezza e della sua umiltà. Quel petto immacolato era veramente un campo di gigli dove il Diletto suo discendeva per pascolarsi di amore, ed Essa gli donava tutto il suo Cuore Immacolato, attingendo a sua volta da Lui quella grazia della quale era ripieno.
Sapeva benissimo, poi, di avere al petto il Figlio di Dio, e la sua umiltà a quel contatto doveva essere immensa, ineffabile. Lo toccava come un'Ostia consacrata, lo avvolgeva con le sue braccia più dell'angelo dell'Arca, era tutta splendente di amore, era la Madre di Dio, l'unica Madre nella quale questo nome era veramente divino!
Cresceva Gesù e s 'irrobustiva, dando i primi passi, e poi prestando i primi servigi, come s'è detto. Il piccolino dolcissimo camminava per le umili stanze come una visione celeste; perfettissimo di forme, tutto riccioli d'oro, rifulgente nella sua divinità, amabile, soave, e i suoi occhi brillavano di un'intelligenza che costringeva all'adorazione. Era soffuso da una leggera mestizia, perché era, Vittima d'amore, e Maria nel guardarlo penetrava i misteri di quel Cuore infinito e li conservava nel suo Cuore gemendo in un profondo dolore. La profezia di Simeone le era sempre presente, ed il passare degli anni l'avvicinava sempre più al Calvario. Essa lo sapeva, ma si univa tutta alla divina volontà e pregava per gli uomini.
Cresceva Gesù [...] pieno di sapienza, e la grazia di Dio era in Lui. Egli, infatti, possedeva, come uomo, in modo mille volte più perfetto degli angeli e dei santi, la scienza beata e la scienza infusa, ed aveva anche la scienza sperimentale od acquisita proporzionata alla sua età ed alla perfezione ammirabile delle sue facoltà naturali. La sua anima umana era rivestita della pienezza della grazia santificante, e possedeva in sommo grado i doni dello Spirito Santo, le grazie gratis datce e tutte le virtù infuse od acquisite. Era perfettissimo anche nella piccola età, e spirava tale soave maestà da conquidere. Ogni atto suo era divino, e dai piccoli servizi che prestava spirava qualche cosa di solenne, perché Egli faceva tutto adorando, riparando, ringraziando e pregando il Padre per gli uomini che era venuto a redimere. La piccola casa di Nazaret, quindi, risuonava di arcane lodi più che un tempio, ed a quelle lodi divine rispondevano i Cuori di Maria e di Giuseppe, due cuori che palpitavano all'unisono col Verbo Incarnato.
Tratto dalla monumentale opera di dottrina esegetica di ben 30 volumi. Il frutto che si ricava da tale lettura è una maturazione profonda nella fede, una percezione della verità della Parola negli eventi del nostro tempo, una aspirazione santa alle promesse contenute nella Rivelazione.
domenica 27 dicembre 2015
venerdì 25 dicembre 2015
25.12.2015 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 2 par. 2
2. Il momento solenne e pacifico della nascita di Gesù Cristo
Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva nascere in Betlem, ed il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria a Betlem.
Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora, senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto, non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma Egli volle escludere dalla nascita di Gesù tutto ciò che poteva sembrare appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni divine nella nascita del Redentore.
Cesare Augusto, primo imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per accertarsi della popolazione dell'impero e dell'obbligo del tributo per tutti i suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu fatto sotto Publio Sulpizio Quirino, che al modo greco è chiamato nel Sacro Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l'uso romano, per il quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma secondo l'uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori delle tribù e delle famiglie, ed un censimento di semplice domicilio non avrebbe dato la vera prospettiva demografica della nazione.
La legge umana è inesorabile e non ammette scuse; bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all'obbedienza alla divina volontà, accettarono l'ordine non come un'imposizione inopportuna per essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, ed intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlem, loro città di origine perché discendenti di Davide.
E commovente il pensare a questo viaggio intrapreso quando la stagione era già fredda, giacché è tradizione costante nella Chiesa che Gesù sia nato nelFinvemo. Due creature ignote al mondo, ma immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro, nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà, lodando e benedicendo il Signore.
Un asinelio, com'è tradizione e com'è giusto pensare, serviva loro di cavalcatura e portava il loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano tutti e due il quadro vivo della purezza, dell'amore e della pace. L'asinelio doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e, guidato dall'angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino. Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai padroni benefìci e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto. Maria tutta raccolta pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza, aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l'Arca di Dio, perché portava nel seno il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele della divina volontà, col sensibile suo cuore pieno di angustia per il disagio della sua immacolata Sposa.
Nel silenzio della strada deserta, fra la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell'asinelio ed echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli... La natura sembrava un'immagine dell'uomo, intristito dalla colpa, ed il Verbo divino, fatto per amore pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlem, per compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa, carica di colpe e di affanni.
Giunsero in Betlem dove, a causa del censimento, era un gran concorso di gente sia nei pubblici alberghi, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o tempestose, ed ivi procurò d'allestire un poverissimo alloggio, dato che per Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati per quella povera dimora, giacché erano ambedue immersi nella divina volontà, ed amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava con immensa pena e tenerezza al suo Figlio che mancava di tutto nel venire alla luce. S'intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e formavano essi soli l'ornamento fragrante di quella grotta desolata.
Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva nascere in Betlem, ed il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria a Betlem.
Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora, senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto, non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma Egli volle escludere dalla nascita di Gesù tutto ciò che poteva sembrare appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni divine nella nascita del Redentore.
Cesare Augusto, primo imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per accertarsi della popolazione dell'impero e dell'obbligo del tributo per tutti i suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu fatto sotto Publio Sulpizio Quirino, che al modo greco è chiamato nel Sacro Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l'uso romano, per il quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma secondo l'uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori delle tribù e delle famiglie, ed un censimento di semplice domicilio non avrebbe dato la vera prospettiva demografica della nazione.
La legge umana è inesorabile e non ammette scuse; bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all'obbedienza alla divina volontà, accettarono l'ordine non come un'imposizione inopportuna per essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, ed intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlem, loro città di origine perché discendenti di Davide.
E commovente il pensare a questo viaggio intrapreso quando la stagione era già fredda, giacché è tradizione costante nella Chiesa che Gesù sia nato nelFinvemo. Due creature ignote al mondo, ma immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro, nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà, lodando e benedicendo il Signore.
Un asinelio, com'è tradizione e com'è giusto pensare, serviva loro di cavalcatura e portava il loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano tutti e due il quadro vivo della purezza, dell'amore e della pace. L'asinelio doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e, guidato dall'angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino. Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai padroni benefìci e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto. Maria tutta raccolta pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza, aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l'Arca di Dio, perché portava nel seno il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele della divina volontà, col sensibile suo cuore pieno di angustia per il disagio della sua immacolata Sposa.
Nel silenzio della strada deserta, fra la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell'asinelio ed echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli... La natura sembrava un'immagine dell'uomo, intristito dalla colpa, ed il Verbo divino, fatto per amore pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlem, per compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa, carica di colpe e di affanni.
Giunsero in Betlem dove, a causa del censimento, era un gran concorso di gente sia nei pubblici alberghi, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o tempestose, ed ivi procurò d'allestire un poverissimo alloggio, dato che per Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati per quella povera dimora, giacché erano ambedue immersi nella divina volontà, ed amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava con immensa pena e tenerezza al suo Figlio che mancava di tutto nel venire alla luce. S'intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e formavano essi soli l'ornamento fragrante di quella grotta desolata.
sabato 19 dicembre 2015
20.12.2015 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1 par. 3
3. L'annunzio della miracolosa concezione del Battista. La mancanza di fede che rende senza parola
Al tempo di Erode re della Giudea, dice san Luca, vivevano due santi personaggi, giusti innanzi a Dio ed irreprensibili in tutti i comandamenti ed i precetti del Signore. Erode, detto il grande per i lavori pubblici compiuti nella Giudea, soprattutto restaurando il tempio, era figlio di Antipatro, che, sotto il pontificato d'Ircano, fu nominato da Giulio Cesare procuratore della Giudea. A forza d'intrighi, Erode, succeduto al padre, ottenne dal senato romano il titolo di re, e regnò dal 714 al 750 di Roma.
Sanguinario criminale fino al delirio, regnò fra stragi ed oppressioni di ogni genere, e fu il terrore dei suoi sudditi. La sua vita fu un obbrobrio per i vizi, e sul trono fu più una belva che un uomo; fece uccidere tre dei suoi figli ed un suo fratello, e per i più piccoli sospetti condannò a morte i migliori suoi amici. Ad un tale mostro coronato fa contrasto nel Sacro Testo la pacifica coppia di due santi: Zaccaria ed Elisabetta.
Davide, nell'organizzare il servizio religioso del tempio, aveva diviso i sacerdoti in 24 classi denominate ciascuna dal suo capo. Ogni classe serviva da un sabato all'altro, ed in questo ministero ebdomadario offriva l'incenso ed immolava le vittime, trovando nel fabbricato del tempio medesimo l'alloggio.
Al tempo di Erode re della Giudea, dice san Luca, vivevano due santi personaggi, giusti innanzi a Dio ed irreprensibili in tutti i comandamenti ed i precetti del Signore. Erode, detto il grande per i lavori pubblici compiuti nella Giudea, soprattutto restaurando il tempio, era figlio di Antipatro, che, sotto il pontificato d'Ircano, fu nominato da Giulio Cesare procuratore della Giudea. A forza d'intrighi, Erode, succeduto al padre, ottenne dal senato romano il titolo di re, e regnò dal 714 al 750 di Roma.
Sanguinario criminale fino al delirio, regnò fra stragi ed oppressioni di ogni genere, e fu il terrore dei suoi sudditi. La sua vita fu un obbrobrio per i vizi, e sul trono fu più una belva che un uomo; fece uccidere tre dei suoi figli ed un suo fratello, e per i più piccoli sospetti condannò a morte i migliori suoi amici. Ad un tale mostro coronato fa contrasto nel Sacro Testo la pacifica coppia di due santi: Zaccaria ed Elisabetta.
Davide, nell'organizzare il servizio religioso del tempio, aveva diviso i sacerdoti in 24 classi denominate ciascuna dal suo capo. Ogni classe serviva da un sabato all'altro, ed in questo ministero ebdomadario offriva l'incenso ed immolava le vittime, trovando nel fabbricato del tempio medesimo l'alloggio.
sabato 5 dicembre 2015
06.12.2015 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 3 par. 2
2. La condizione politica della Palestina al tempo del Battista
San Luca, da storico accurato qual'è, prima di parlare dell'apostolato di san Giovanni Battista, accenna alla situazione politica della Palestina, cioè a quelli che la governavano ed ai sommi sacerdoti che la reggevano nella parte religiosa. Non è a caso che lo Spirito Santo glielo fa fare, giacché i governanti stranieri ed il sommo sacerdozio, assoggettato alla politica e decaduto fino al punto da essere dominato da principi pagani e da essere esautorato a loro piacere, dimostravano la pienezza dei tempi predetti per la venuta del Messia, ossia la completa rovina del regno di Giuda.
Tiberio Cesare, figlio di Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone, adottato come figlio dall'imperatore Augusto dopo che questi sposò Livia sua madre, fu prima associato al governo dell'impero e preposto all'amministrazione delle province, e poi, alla morte di Augusto, gli successe e fu imperatore dal 767 al 791 di Roma. San Luca computa gli anni dell'impero di Tiberio non dalla morte di Augusto, ma dalla sua prima assunzione al governo nel 764-765 di Roma; essendo nato Gesù Cristo nel 748-749 di Roma, al quindicesimo anno del governo di Tiberio aveva circa trent'anni, come dice san Luca al versetto 23.
Il governo della Palestina era così costituito: la Giudea, annessa alla provincia della Siria dopo la deposizione e l'esilio di Archelao, era retta da governatori dipendenti dal Preside della provincia. Il primo governatore fu Coponio, il quinto fu Ponzio Pilato, il quale governò dal 26 di Gesù Cristo fino al 36-37. Alla morte di Erode, detto il grande, il suo regno fu diviso in 4 parti, ciascuna delle quali fu detta tetrarchia, cioè governo di 4 persone. La Giudea, la Samaria e l'Idumea toccarono ad Archelao, il quale fu poi deposto, come s'è detto, e la Galilea e la Perea toccarono ad Erode Antipa, il quale regnò dall'anno 4° prima di Gesù Cristo fino all'anno 39-40 di Gesù Cristo. Filippo, figlio di Erode, il grande, ebbe in eredità dal padre l'Iturea, che comprendeva la Bitinia, la Traconitide, l'Auranitide ecc. e sposò Salomè, figlia di Erodiade, moglie di un altro suo fratello, per parte di padre, chiamato anch'esso Filippo Erode, colui al quale Erode Antipa tolse la moglie. Filippo Erode fu diseredato dal padre e visse da privato. La moglie Erodiade, ambiziosissima, si fece sedurre da Erode Antipa e lo seguì sul regno, diventandone moglie adultera ed incestuosa; Filippo il tetrarca poi governò con una certa equità, e fu colui che edificò Cesarea di Filippo ai piedi dell'Ermon, e Betsaida Giulia sulla spiaggia Nord del lago di Tiberiade.
L'Abilene, regione situata tra il Libano e l'Ermon a nord-ovest di Damasco, era governata da un certo Lisania, del quale non si conoscono fatti particolari. Un'iscrizione, trovata recentemente ad Abila, capitale della regione, conferma ciò che dice san Luca, indicando chiaro che al tempo di Tiberio vi era un tetrarca di nome Lisania.
Per ciò che riguardava la religione, il Sacro Testo dice che a capo del Giudaismo v'erano i pontefici Anna e Caifa. Il pontefice presso gli Ebrei era uno solo ed a vita; ma i Romani non tollerarono questa legge e praticamente vollero un pontefice che dipendesse dalla loro autorità, tanto per la nomina quanto per la durata del pontificato. Anna aveva ottenuto il supremo potere religioso dal preside della Siria, Cirino, nell'anno 7 di Gesù Cristo, ma ne fu deposto nel 14 da Valerio Grato. Egli, però, benché deposto, continuò ad avere una grande autorità, ed era riguardato come pontefice insieme a Caifa, suo genero, nominato nell'anno 18 e rimasto pontefice fino al 36 di Gesù Cristo.
San Luca, da storico accurato qual'è, prima di parlare dell'apostolato di san Giovanni Battista, accenna alla situazione politica della Palestina, cioè a quelli che la governavano ed ai sommi sacerdoti che la reggevano nella parte religiosa. Non è a caso che lo Spirito Santo glielo fa fare, giacché i governanti stranieri ed il sommo sacerdozio, assoggettato alla politica e decaduto fino al punto da essere dominato da principi pagani e da essere esautorato a loro piacere, dimostravano la pienezza dei tempi predetti per la venuta del Messia, ossia la completa rovina del regno di Giuda.
Tiberio Cesare, figlio di Livia Drusilla e di Tiberio Claudio Nerone, adottato come figlio dall'imperatore Augusto dopo che questi sposò Livia sua madre, fu prima associato al governo dell'impero e preposto all'amministrazione delle province, e poi, alla morte di Augusto, gli successe e fu imperatore dal 767 al 791 di Roma. San Luca computa gli anni dell'impero di Tiberio non dalla morte di Augusto, ma dalla sua prima assunzione al governo nel 764-765 di Roma; essendo nato Gesù Cristo nel 748-749 di Roma, al quindicesimo anno del governo di Tiberio aveva circa trent'anni, come dice san Luca al versetto 23.
Il governo della Palestina era così costituito: la Giudea, annessa alla provincia della Siria dopo la deposizione e l'esilio di Archelao, era retta da governatori dipendenti dal Preside della provincia. Il primo governatore fu Coponio, il quinto fu Ponzio Pilato, il quale governò dal 26 di Gesù Cristo fino al 36-37. Alla morte di Erode, detto il grande, il suo regno fu diviso in 4 parti, ciascuna delle quali fu detta tetrarchia, cioè governo di 4 persone. La Giudea, la Samaria e l'Idumea toccarono ad Archelao, il quale fu poi deposto, come s'è detto, e la Galilea e la Perea toccarono ad Erode Antipa, il quale regnò dall'anno 4° prima di Gesù Cristo fino all'anno 39-40 di Gesù Cristo. Filippo, figlio di Erode, il grande, ebbe in eredità dal padre l'Iturea, che comprendeva la Bitinia, la Traconitide, l'Auranitide ecc. e sposò Salomè, figlia di Erodiade, moglie di un altro suo fratello, per parte di padre, chiamato anch'esso Filippo Erode, colui al quale Erode Antipa tolse la moglie. Filippo Erode fu diseredato dal padre e visse da privato. La moglie Erodiade, ambiziosissima, si fece sedurre da Erode Antipa e lo seguì sul regno, diventandone moglie adultera ed incestuosa; Filippo il tetrarca poi governò con una certa equità, e fu colui che edificò Cesarea di Filippo ai piedi dell'Ermon, e Betsaida Giulia sulla spiaggia Nord del lago di Tiberiade.
L'Abilene, regione situata tra il Libano e l'Ermon a nord-ovest di Damasco, era governata da un certo Lisania, del quale non si conoscono fatti particolari. Un'iscrizione, trovata recentemente ad Abila, capitale della regione, conferma ciò che dice san Luca, indicando chiaro che al tempo di Tiberio vi era un tetrarca di nome Lisania.
Per ciò che riguardava la religione, il Sacro Testo dice che a capo del Giudaismo v'erano i pontefici Anna e Caifa. Il pontefice presso gli Ebrei era uno solo ed a vita; ma i Romani non tollerarono questa legge e praticamente vollero un pontefice che dipendesse dalla loro autorità, tanto per la nomina quanto per la durata del pontificato. Anna aveva ottenuto il supremo potere religioso dal preside della Siria, Cirino, nell'anno 7 di Gesù Cristo, ma ne fu deposto nel 14 da Valerio Grato. Egli, però, benché deposto, continuò ad avere una grande autorità, ed era riguardato come pontefice insieme a Caifa, suo genero, nominato nell'anno 18 e rimasto pontefice fino al 36 di Gesù Cristo.
sabato 28 novembre 2015
29.11.2015 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 21 par. 4
4. Noi, nell'attesa delle grandi tribolazioni, del regno di Dio e del giudizio universale
Dopo il terribile annunzio della distruzione di Gerusalemme e della fine del mondo Gesù Cristo si rivolge ai suoi uditori ed agli uomini tutti del mondo, per indicare loro quale dev'essere l'atteggiamento che devono avere nelle grandi tribolazioni delle quali saranno testimoni. Il primo atto da compiere sarà quello di elevare gli occhi al cielo e confidare in Dio, aspettandosi le sue misericordie spirituali: Mirate in alto ed alzate le vostre teste perché si avvicina la vostra redenzione. Ogni castigo ha un fine di misericordia nelle vie di Dio e il castigo finale preluderà al regno del Signore ed al trionfo pieno della Chiesa; dunque, quando incominceranno a verificarsi le parole divine di Gesù l'anima deve confortarsi e sperare nel regno di Dio.
Quando germoglia il fico e produce il suo frutto e quando gli alberi sono carichi, si capisce che l'estate è vicina, ora quando vengono sulla terra le grandi tribolazioni predette è segno che si avvicina il regno di Dio.
La distruzione di Gerusalemme fu il preludio della diffusione del Vangelo nel mondo, prima tappa del regno di Dio; le tribolazioni terribili della conflagrazione universale sono il preludio del regno trionfante di Dio nelle nazioni; le tribolazioni della fine del mondo saranno il preludio del regno glorioso ed eterno di Dio coi suoi eletti del Paradiso.
Gesù Cristo parlò ai secoli di questi tre grandi eventi della storia della redenzione, ma poiché il suo discorso era rivolto agli Ebrei, le sue parole avevano per loro una particolare importanza. La distruzione di Gerusalemme era per gli stessi suoi discepoli una calamità spaventosa, che li ricolmava d'immensa amarezza, e perciò Gesù li confortò, dicendo che era non la distruzione della nazione ebraica, ma il primo principio della sua redenzione, cioè della sua salvezza nell'incorporamento alla Chiesa e nella partecipazione ai frutti della redenzione. E perché non avessero creduto che parlando di Gerusalemme Egli parlasse di eventi lontani, aggiunse, alludendo proprio alla rovina della città santa: Vi dico in verità che non passerà questa generazione prima che tutte queste cose non siano avvenute.
Sarebbe stato esiziale per i suoi discepoli il credere lontano l'evento, perché non avrebbero pensato a mettersi a tempo in salvo, com'Egli aveva loro suggerito, e perciò soggiunse con maggiore energia: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Non c'era dunque da illudersi; ciò che annunziava per Gerusalemme sarebbe avvenuto presto, l'avrebbero veduto essi stessi, ed ai primi segni precursori dell'evento avrebbero dovuto mettersi in salvo sollecitamente.
Rivolgendosi, poi, principalmente agli uomini che avrebbero sofferto nelle grandi tribolazioni del mondo, e per quelle degli ultimi tempi precedenti il giudizio, e parlando anche agli Ebrei che lo ascoltavano, Gesù soggiunse: Badate a voi stessi, perché i vostri cuori non si aggravino per crapule, per ubriachezze, e per cure della vita presente, e perché quel giorno non vi colga all'improvviso, poiché come un laccio verrà sopra coloro che abitano sulla superficie della terra.
Sarà caratteristica, infatti, dei tempi che precederanno le grandi tribolazioni la ricerca dei piaceri e la preoccupazione assillante della vita presente, come noi già vediamo nella nostra generazione. Il mondo è diventato una bettola, un teatro ed un cantiere; si cerca il piacere dei sensi con le maggiori raffinatezze; si distrae la vita nell'ebbrezza del divertimento portato fino a domicilio con la radio e la televisione; si lavora, si lavora, in una preoccupazione così assillante della vita presente da dimenticare completamente quella spirituale. Per chi vive in questa maniera indegna la tribolazione sarà una sorpresa, com'è sorpresa il laccio per gli uccelli che vengono accalappiati.
Non penseranno che è voce di Dio, né penseranno a dover mutare la loro vita, attribuendo gli sconvolgimenti della natura a cause puramente naturali.
Eppure quei tempi dovranno essere tempi di intensa vigilanza e preghiera, perché non si tratterà di tribolazioni comuni, ma di disastri eccezionali, dai quali solo la preghiera ci potrà ottenere uno scampo, e per le tribolazioni degli ultimi tempi saranno cataclismi che preluderanno al giudizio. Chi pensa di dover comparire innanzi al Giudice eterno, come può riguardare con superficialità i terribili fenomeni che ne preannunziano la venuta? E come può esporsi al pericolo di andare impreparato alla sua presenza?
Gesù Cristo medesimo volle darci l'esempio della vigilanza nella preghiera e della preoccupazione di ciò che riguarda lo spirito, e perciò il Sacro Testo soggiunge, non senza una particolare intenzione, che Egli durante il giorno insegnava nel tempio, per guidare le anime al conseguimento dei beni eterni, e la notte usciva per ritirarsi a pregare sul monte Oliveto. La sua sollecitudine nelTistruire il popolo, poi, e la sua divina Parola attraevano talmente la moltitudine che ogni giorno andava di buon mattino al tempio per ascoltarlo.
Questa dev'essere la nostra vita nei momenti delle grandi tribolazioni che incombono già sulla terra e che incomberanno alla fine del mondo: dobbiamo levare lo sguardo a Dio, sospirando al suo regno; dobbiamo zelare la gloria del Signore e il bene delle anime e, senza farsi trascinare dai sensi, dobbiamo mortificarci e pregare. Non si può rimanere indifferenti quando Dio chiama, e se in ogni tempo, come disse Gesù, è necessario pregare, nel tempo della tribolazione è necessario farlo senza intermissione per il proprio bene e per quello degli altri.
Gesù disse di vigilare, pregando di essere fatti degni di schivare tutte le cose terribili che dovranno avvenire; dunque, certe tribolazioni possono evitarsi o per lo meno attenuarsi con la preghiera.
Se nei momenti di sconvolgimenti le nazioni pensassero a promuovere la pubblica preghiera, quanto gioverebbero di più ai popoli anziché con le loro preveggenze materiali, i loro armamenti e la loro tirannica disciplina!
E se le anime consacrate a Dio specialmente pensassero alla loro responsabilità innanzi al popolo, con quanta cura baderebbero a conservarsi sante, mortificate, ed in continua preghiera!
Non si provvede al bene comune con le chiacchiere, ma levando le mani supplichevoli a Dio ed implorando la sua misericordia.
Sac. Dolindo Ruotolo
Dopo il terribile annunzio della distruzione di Gerusalemme e della fine del mondo Gesù Cristo si rivolge ai suoi uditori ed agli uomini tutti del mondo, per indicare loro quale dev'essere l'atteggiamento che devono avere nelle grandi tribolazioni delle quali saranno testimoni. Il primo atto da compiere sarà quello di elevare gli occhi al cielo e confidare in Dio, aspettandosi le sue misericordie spirituali: Mirate in alto ed alzate le vostre teste perché si avvicina la vostra redenzione. Ogni castigo ha un fine di misericordia nelle vie di Dio e il castigo finale preluderà al regno del Signore ed al trionfo pieno della Chiesa; dunque, quando incominceranno a verificarsi le parole divine di Gesù l'anima deve confortarsi e sperare nel regno di Dio.
Quando germoglia il fico e produce il suo frutto e quando gli alberi sono carichi, si capisce che l'estate è vicina, ora quando vengono sulla terra le grandi tribolazioni predette è segno che si avvicina il regno di Dio.
La distruzione di Gerusalemme fu il preludio della diffusione del Vangelo nel mondo, prima tappa del regno di Dio; le tribolazioni terribili della conflagrazione universale sono il preludio del regno trionfante di Dio nelle nazioni; le tribolazioni della fine del mondo saranno il preludio del regno glorioso ed eterno di Dio coi suoi eletti del Paradiso.
Gesù Cristo parlò ai secoli di questi tre grandi eventi della storia della redenzione, ma poiché il suo discorso era rivolto agli Ebrei, le sue parole avevano per loro una particolare importanza. La distruzione di Gerusalemme era per gli stessi suoi discepoli una calamità spaventosa, che li ricolmava d'immensa amarezza, e perciò Gesù li confortò, dicendo che era non la distruzione della nazione ebraica, ma il primo principio della sua redenzione, cioè della sua salvezza nell'incorporamento alla Chiesa e nella partecipazione ai frutti della redenzione. E perché non avessero creduto che parlando di Gerusalemme Egli parlasse di eventi lontani, aggiunse, alludendo proprio alla rovina della città santa: Vi dico in verità che non passerà questa generazione prima che tutte queste cose non siano avvenute.
Sarebbe stato esiziale per i suoi discepoli il credere lontano l'evento, perché non avrebbero pensato a mettersi a tempo in salvo, com'Egli aveva loro suggerito, e perciò soggiunse con maggiore energia: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Non c'era dunque da illudersi; ciò che annunziava per Gerusalemme sarebbe avvenuto presto, l'avrebbero veduto essi stessi, ed ai primi segni precursori dell'evento avrebbero dovuto mettersi in salvo sollecitamente.
Rivolgendosi, poi, principalmente agli uomini che avrebbero sofferto nelle grandi tribolazioni del mondo, e per quelle degli ultimi tempi precedenti il giudizio, e parlando anche agli Ebrei che lo ascoltavano, Gesù soggiunse: Badate a voi stessi, perché i vostri cuori non si aggravino per crapule, per ubriachezze, e per cure della vita presente, e perché quel giorno non vi colga all'improvviso, poiché come un laccio verrà sopra coloro che abitano sulla superficie della terra.
Sarà caratteristica, infatti, dei tempi che precederanno le grandi tribolazioni la ricerca dei piaceri e la preoccupazione assillante della vita presente, come noi già vediamo nella nostra generazione. Il mondo è diventato una bettola, un teatro ed un cantiere; si cerca il piacere dei sensi con le maggiori raffinatezze; si distrae la vita nell'ebbrezza del divertimento portato fino a domicilio con la radio e la televisione; si lavora, si lavora, in una preoccupazione così assillante della vita presente da dimenticare completamente quella spirituale. Per chi vive in questa maniera indegna la tribolazione sarà una sorpresa, com'è sorpresa il laccio per gli uccelli che vengono accalappiati.
Non penseranno che è voce di Dio, né penseranno a dover mutare la loro vita, attribuendo gli sconvolgimenti della natura a cause puramente naturali.
Eppure quei tempi dovranno essere tempi di intensa vigilanza e preghiera, perché non si tratterà di tribolazioni comuni, ma di disastri eccezionali, dai quali solo la preghiera ci potrà ottenere uno scampo, e per le tribolazioni degli ultimi tempi saranno cataclismi che preluderanno al giudizio. Chi pensa di dover comparire innanzi al Giudice eterno, come può riguardare con superficialità i terribili fenomeni che ne preannunziano la venuta? E come può esporsi al pericolo di andare impreparato alla sua presenza?
Gesù Cristo medesimo volle darci l'esempio della vigilanza nella preghiera e della preoccupazione di ciò che riguarda lo spirito, e perciò il Sacro Testo soggiunge, non senza una particolare intenzione, che Egli durante il giorno insegnava nel tempio, per guidare le anime al conseguimento dei beni eterni, e la notte usciva per ritirarsi a pregare sul monte Oliveto. La sua sollecitudine nelTistruire il popolo, poi, e la sua divina Parola attraevano talmente la moltitudine che ogni giorno andava di buon mattino al tempio per ascoltarlo.
Questa dev'essere la nostra vita nei momenti delle grandi tribolazioni che incombono già sulla terra e che incomberanno alla fine del mondo: dobbiamo levare lo sguardo a Dio, sospirando al suo regno; dobbiamo zelare la gloria del Signore e il bene delle anime e, senza farsi trascinare dai sensi, dobbiamo mortificarci e pregare. Non si può rimanere indifferenti quando Dio chiama, e se in ogni tempo, come disse Gesù, è necessario pregare, nel tempo della tribolazione è necessario farlo senza intermissione per il proprio bene e per quello degli altri.
Gesù disse di vigilare, pregando di essere fatti degni di schivare tutte le cose terribili che dovranno avvenire; dunque, certe tribolazioni possono evitarsi o per lo meno attenuarsi con la preghiera.
Se nei momenti di sconvolgimenti le nazioni pensassero a promuovere la pubblica preghiera, quanto gioverebbero di più ai popoli anziché con le loro preveggenze materiali, i loro armamenti e la loro tirannica disciplina!
E se le anime consacrate a Dio specialmente pensassero alla loro responsabilità innanzi al popolo, con quanta cura baderebbero a conservarsi sante, mortificate, ed in continua preghiera!
Non si provvede al bene comune con le chiacchiere, ma levando le mani supplichevoli a Dio ed implorando la sua misericordia.
Sac. Dolindo Ruotolo
sabato 21 novembre 2015
22.11.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 18 par. 5
5. Gesù Cristo davanti a Pilato
Dopo il processo, diciamo così, religioso, fatto a Gesù in casa di Anna e di Caifa, e dopo averlo condannato a morte come bestemmiatore, i Giudei sul fare del mattino lo condussero da Pilato per far ratificare la sentenza. Essi infatti, dopo l'occupazione romana, non potevano eseguire nessuna sentenza capitale senza l'autorizzazione del preside o governatore della nazione. Andarono in massa a bella posta per impressionare Pilato, sicuri che non avrebbe rifiutato la ratifica che domandavano. Siccome per gli Ebrei entrare in una casa pagana era lo stesso che contrarre un'impurità legale, essi, dovendo ancora mangiare la Pasqua, per la quale si richiedeva una grande mondezza, non entrarono nel pretorio per non contaminarsi. Ipocriti e scellerati! Si facevano scrupolo di entrare nel pretorio, e non si facevano scrupolo di domandare la morte d'un innocente, anzi, la morte del Figlio di Dio!
Pilato era già informato del processo che s'era ordito contro Gesù e sapeva bene che il movente principale era stata l'invidia che avevano contro di Lui i sacerdoti, gli scribi e i farisei. Il tribuno poi che aveva accompagnato coi soldati I messi del Sommo sacerdote per catturare Gesù, aveva certamente riferito a Pilato lo scempio che ne avevano fatto, ed egli non era disposto a ratificare un'ingiustizia così manifesta. Egli inoltre aveva dovuto indispettirsi anche del gesto dei Giudei di non entrare nel pretorio come luogo immondo, e perciò uscì fuori, sulla loggia, pronto a dare una lezione a quella canaglia. Si potrebbe aggiungere a questo che, siccome i Romani amministravano la giustizia a prima mattina, Pilato era seccato anche d'essere disturbato dal sonno a quell'ora. Egli perciò con fare secco domandò quale accusa portassero contro Gesù, iniziando così il processo penale.
I Giudei, indispettiti di quella domanda che frustrava tutto il loro piano, risposero con rabbia, mostrandosi offesi: Se non fosse costui un malfattore, non te lo avremmo condotto. E volevano dire: potresti fidarti di noi e della nostra giustizia, poiché non saremmo capaci di presentarti come reo un innocente. Pilato, sapendo già che lo avevano condannato per loro beghe religiose che per lui non avevano alcun'importanza, colse subito l'occasione per liberarsi da quell'increscioso processo; la moglie, infatti, come narra san Matteo (27,19), gli mandò a dire che non s'impicciasse di quel giusto, perché essa era stata molto turbata in sogno a causa di lui. Quest'ambasciata gli mise nell'animo un timore grande, e perciò rispose ai Giudei: Prendetelo voi stessi e giudicatelo secondo la vostra legge. Egli voleva così mutare il processo penale in processo religioso, per il quale i Giudei avrebbero potuto solo scomunicare Gesù e farlo flagellare. Che, se Pilato avesse loro concesso la facoltà di procedere contro di Lui sino alla pena capitale, essi avrebbero potuto lapidarlo come bestemmiatore secondo la loro legge, ma non crocifiggerlo.
Alcuni suppongono che Pilato abbia detto per ironia: Giudicatelo voi secondo la vostra legge, ma dal contesto non appare; egli aveva veramente l'intenzione di liberarsi da quel processo.
I sacerdoti, gli scribi e i farisei, per il loro odio contro Gesù e per togliergli ogni prestigio sul popolo con una morte infamante, avevano deciso nel loro conciliabolo di farlo crocifiggere, e probabilmente avevano già dato ordine di apprestare lo strumento del supplizio. Ad essi non bastava neppure che Pilato desse loro l'autorizzazione di farlo morire; voleva che l'avesse fatto crocifiggere, e questo poteva farlo solo lui. Essi inoltre, con sottile malizia, non vollero addossarsi innanzi al popolo la responsabilità d'una così atroce condanna, perché sapevano quanto Gesù era amato e stimato per le sue grandi opere e per le sue parole; volevano mostrare al popolo che il potere civile l'aveva trovato tanto degno di condanna, da fargli subire il supplizio della croce, come si faceva coi ladroni e coi più grandi malfattori. Ebbero cura anzi, con la scusa dell'imminente ciclo di feste pasquali, di affrettare l'esecuzione capitale di due ladri condannati già alla croce, per accomunare Gesù ai malfattori più tristi. Perciò, alla proposta di Pilato di giudicarlo essi stessi secondo la Legge, risposero che a loro non era lecito di dar la morte a nessuno. Con questo, nota l'evangelista, si adempivano le parole di Gesù, che aveva predetto più volte che sarebbe stato crocifisso (3,14; 8,32; 12,33; Mt 20,19, ecc.). Reclamavano quindi ad ogni costo il giudizio di Pilato non solo perché Gesù fosse stato ucciso, ma perché fosse stato ucciso con la morte di croce.
Dopo il processo, diciamo così, religioso, fatto a Gesù in casa di Anna e di Caifa, e dopo averlo condannato a morte come bestemmiatore, i Giudei sul fare del mattino lo condussero da Pilato per far ratificare la sentenza. Essi infatti, dopo l'occupazione romana, non potevano eseguire nessuna sentenza capitale senza l'autorizzazione del preside o governatore della nazione. Andarono in massa a bella posta per impressionare Pilato, sicuri che non avrebbe rifiutato la ratifica che domandavano. Siccome per gli Ebrei entrare in una casa pagana era lo stesso che contrarre un'impurità legale, essi, dovendo ancora mangiare la Pasqua, per la quale si richiedeva una grande mondezza, non entrarono nel pretorio per non contaminarsi. Ipocriti e scellerati! Si facevano scrupolo di entrare nel pretorio, e non si facevano scrupolo di domandare la morte d'un innocente, anzi, la morte del Figlio di Dio!
Pilato era già informato del processo che s'era ordito contro Gesù e sapeva bene che il movente principale era stata l'invidia che avevano contro di Lui i sacerdoti, gli scribi e i farisei. Il tribuno poi che aveva accompagnato coi soldati I messi del Sommo sacerdote per catturare Gesù, aveva certamente riferito a Pilato lo scempio che ne avevano fatto, ed egli non era disposto a ratificare un'ingiustizia così manifesta. Egli inoltre aveva dovuto indispettirsi anche del gesto dei Giudei di non entrare nel pretorio come luogo immondo, e perciò uscì fuori, sulla loggia, pronto a dare una lezione a quella canaglia. Si potrebbe aggiungere a questo che, siccome i Romani amministravano la giustizia a prima mattina, Pilato era seccato anche d'essere disturbato dal sonno a quell'ora. Egli perciò con fare secco domandò quale accusa portassero contro Gesù, iniziando così il processo penale.
I Giudei, indispettiti di quella domanda che frustrava tutto il loro piano, risposero con rabbia, mostrandosi offesi: Se non fosse costui un malfattore, non te lo avremmo condotto. E volevano dire: potresti fidarti di noi e della nostra giustizia, poiché non saremmo capaci di presentarti come reo un innocente. Pilato, sapendo già che lo avevano condannato per loro beghe religiose che per lui non avevano alcun'importanza, colse subito l'occasione per liberarsi da quell'increscioso processo; la moglie, infatti, come narra san Matteo (27,19), gli mandò a dire che non s'impicciasse di quel giusto, perché essa era stata molto turbata in sogno a causa di lui. Quest'ambasciata gli mise nell'animo un timore grande, e perciò rispose ai Giudei: Prendetelo voi stessi e giudicatelo secondo la vostra legge. Egli voleva così mutare il processo penale in processo religioso, per il quale i Giudei avrebbero potuto solo scomunicare Gesù e farlo flagellare. Che, se Pilato avesse loro concesso la facoltà di procedere contro di Lui sino alla pena capitale, essi avrebbero potuto lapidarlo come bestemmiatore secondo la loro legge, ma non crocifiggerlo.
Alcuni suppongono che Pilato abbia detto per ironia: Giudicatelo voi secondo la vostra legge, ma dal contesto non appare; egli aveva veramente l'intenzione di liberarsi da quel processo.
I sacerdoti, gli scribi e i farisei, per il loro odio contro Gesù e per togliergli ogni prestigio sul popolo con una morte infamante, avevano deciso nel loro conciliabolo di farlo crocifiggere, e probabilmente avevano già dato ordine di apprestare lo strumento del supplizio. Ad essi non bastava neppure che Pilato desse loro l'autorizzazione di farlo morire; voleva che l'avesse fatto crocifiggere, e questo poteva farlo solo lui. Essi inoltre, con sottile malizia, non vollero addossarsi innanzi al popolo la responsabilità d'una così atroce condanna, perché sapevano quanto Gesù era amato e stimato per le sue grandi opere e per le sue parole; volevano mostrare al popolo che il potere civile l'aveva trovato tanto degno di condanna, da fargli subire il supplizio della croce, come si faceva coi ladroni e coi più grandi malfattori. Ebbero cura anzi, con la scusa dell'imminente ciclo di feste pasquali, di affrettare l'esecuzione capitale di due ladri condannati già alla croce, per accomunare Gesù ai malfattori più tristi. Perciò, alla proposta di Pilato di giudicarlo essi stessi secondo la Legge, risposero che a loro non era lecito di dar la morte a nessuno. Con questo, nota l'evangelista, si adempivano le parole di Gesù, che aveva predetto più volte che sarebbe stato crocifisso (3,14; 8,32; 12,33; Mt 20,19, ecc.). Reclamavano quindi ad ogni costo il giudizio di Pilato non solo perché Gesù fosse stato ucciso, ma perché fosse stato ucciso con la morte di croce.
sabato 14 novembre 2015
15.11.2015 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 5 par. 3-4
3. Non occorre sapere il tempo della fine del mondo: ma occorre vigilare ed essere pronti al giudizio di Dio
Gli apostoli avevano domandato a Gesù quando sarebbero avvenute la distruzione del tempio e la fine del mondo; ma il Redentore a questa domanda non rispose, dicendo che il giorno e l'ora di quelle catastrofi erano noti solo al Padre. È evidente che Egli come Dio lo sapeva, essendo una sola cosa col Padre, ma come uomo poteva dire d'ignorarlo, giacché il computo del tempo della giustizia finale non sta nelle possibilità umane, dipendendo dall'intreccio di tutte le responsabilità occulte dell'umana coscienza e dell'umana libertà. Solo Dio che guarda dall'alto, ed al quale tutto è manifesto, può valutare quando le umane iniquità raggiungono l'estremo limite, e fanno traboccare il peso della giustizia. L'umana libertà, infatti, può influire sugli eventi della storia e può affrettarli o ritardarli; una sola azione buona può arrestare un castigo, ed una sola iniquità può darvi l'ultima spinta; ciò che succederebbe in questo anno può essere trasportato in un altro o in tempi lontani per l'intreccio di un'azione libera che interferisce gli eventi.
Ora se si tiene presente il numero stragrande degli uomini dal principio del mondo ad oggi, e gl'innumerevoli intrecci delle loro azioni, delle loro responsabilità, e dei loro meriti, se si pensa al coordinamento di queste azioni con tutto l'ordine morale e fisico dell'universo, si capisce che il calcolo del giorno e dell'ora di avvenimenti definitivi nella storia di un popolo od in quella del mondo può farlo solo Dio.
I segni prossimi o remoti, della fine del mondo in particolare, possono distare anche secoli dall'evento, quando qualche anima privilegiata, controbilancia con azioni sante il tracollo della giustizia.
È uno dei tratti delicati della divina provvidenza. Così si spiega come in tante epoche della storia si è creduto di veder i segni della fine del mondo, senza che nulla sia avvenuto dopo. È impressionante che fin dai tempi di san Gregorio Magno si parlasse della fine del mondo come di evento vicino, ed è impressionante che lo stesso santo ne parlasse con convinzione; non è improbabile che allora gli eventi realmente precipitassero, e che le preghiere della Chiesa l'abbiano ritardato. Non è cosa che può sembrare strana, ma è cosa che deve farci essere pensosi, considerando che noi abbiamo sul capo questa spada di Damocle.
Gesù Cristo ci esorta ad essere attenti, a vigilare ed a pregare perché, questo interessa all'anima nostra. Gli eventi li regola il Signore, ed il conoscerli anticipatamente con certezza potrebbe anche essere per la nostra malizia un pretesto od un'occasione di maggiore spensieratezza. L'incertezza angosciosa che in ogni secolo può determinarsi sull'imminenza della fine può spingerci più facilmente a pensare ai beni eterni, ed a distaccare l'anima da tutto quello che è vana illusione della vita del mondo.
Chi può convergersi, fino a dimenticare l'anima nelle stesse discipline della vita presente che appaiono ideali? Arte, scienze, lettere, dominio, monumenti grandiosi, che cosa sono di fronte all'eternità?
Vale la pena di affannarsi tanto nelle cose della vita, quando si sa che esse periscono? Dobbiamo, sì, compiere la missione che Dio ci ha assegnato, dobbiamo operare per la sua gloria, ma non possiamo farci assorbire talmente dalle idealità terrene da trascurare quelle eterne.
Chi potrebbe essere così stolto da consumarsi per fare un'opera d'arte con una materia che si disfa? Le opere dello spirito rimangono in eterno; quelle della materia periscono, e quelle del tempo fugace sono vanità; dobbiamo, dunque, nell'operare tener presente la fine di tutto per fissare il nostro pensiero al fine ultimo della nostra vita.
Un uomo - disse Gesù - partito per lontano paese lasciò la casa, e diede ai suoi servi il potere di far tutto, ed ordinò al portinaio di vigilare. Ecco l'immagine del mondo: il Signore è il padrone di ogni cosa e, quasi fosse assente, lascia agli uomini la libertà di operare come vogliono, costituendo sulla loro vita un portinaio che vigila. Questi è il Papa ed il Sacerdozio, e la loro attività è preziosa per tutelare le anime. Occorre però che ciascuno vigili, affinché, al ritorno del Padrone, possa trovarsi pronto per dargli il rendiconto.
Non tutti ci troveremo presenti agli ultimi eventi del mondo, ma tutti compariremo innanzi a Gesù Cristo, giudice eterno; non si può dunque prendere alla leggera la vita, e bisogna vigilare per essere pronti alla chiamata di Dio.
Gli apostoli avevano domandato a Gesù quando sarebbero avvenute la distruzione del tempio e la fine del mondo; ma il Redentore a questa domanda non rispose, dicendo che il giorno e l'ora di quelle catastrofi erano noti solo al Padre. È evidente che Egli come Dio lo sapeva, essendo una sola cosa col Padre, ma come uomo poteva dire d'ignorarlo, giacché il computo del tempo della giustizia finale non sta nelle possibilità umane, dipendendo dall'intreccio di tutte le responsabilità occulte dell'umana coscienza e dell'umana libertà. Solo Dio che guarda dall'alto, ed al quale tutto è manifesto, può valutare quando le umane iniquità raggiungono l'estremo limite, e fanno traboccare il peso della giustizia. L'umana libertà, infatti, può influire sugli eventi della storia e può affrettarli o ritardarli; una sola azione buona può arrestare un castigo, ed una sola iniquità può darvi l'ultima spinta; ciò che succederebbe in questo anno può essere trasportato in un altro o in tempi lontani per l'intreccio di un'azione libera che interferisce gli eventi.
Ora se si tiene presente il numero stragrande degli uomini dal principio del mondo ad oggi, e gl'innumerevoli intrecci delle loro azioni, delle loro responsabilità, e dei loro meriti, se si pensa al coordinamento di queste azioni con tutto l'ordine morale e fisico dell'universo, si capisce che il calcolo del giorno e dell'ora di avvenimenti definitivi nella storia di un popolo od in quella del mondo può farlo solo Dio.
I segni prossimi o remoti, della fine del mondo in particolare, possono distare anche secoli dall'evento, quando qualche anima privilegiata, controbilancia con azioni sante il tracollo della giustizia.
È uno dei tratti delicati della divina provvidenza. Così si spiega come in tante epoche della storia si è creduto di veder i segni della fine del mondo, senza che nulla sia avvenuto dopo. È impressionante che fin dai tempi di san Gregorio Magno si parlasse della fine del mondo come di evento vicino, ed è impressionante che lo stesso santo ne parlasse con convinzione; non è improbabile che allora gli eventi realmente precipitassero, e che le preghiere della Chiesa l'abbiano ritardato. Non è cosa che può sembrare strana, ma è cosa che deve farci essere pensosi, considerando che noi abbiamo sul capo questa spada di Damocle.
Gesù Cristo ci esorta ad essere attenti, a vigilare ed a pregare perché, questo interessa all'anima nostra. Gli eventi li regola il Signore, ed il conoscerli anticipatamente con certezza potrebbe anche essere per la nostra malizia un pretesto od un'occasione di maggiore spensieratezza. L'incertezza angosciosa che in ogni secolo può determinarsi sull'imminenza della fine può spingerci più facilmente a pensare ai beni eterni, ed a distaccare l'anima da tutto quello che è vana illusione della vita del mondo.
Chi può convergersi, fino a dimenticare l'anima nelle stesse discipline della vita presente che appaiono ideali? Arte, scienze, lettere, dominio, monumenti grandiosi, che cosa sono di fronte all'eternità?
Vale la pena di affannarsi tanto nelle cose della vita, quando si sa che esse periscono? Dobbiamo, sì, compiere la missione che Dio ci ha assegnato, dobbiamo operare per la sua gloria, ma non possiamo farci assorbire talmente dalle idealità terrene da trascurare quelle eterne.
Chi potrebbe essere così stolto da consumarsi per fare un'opera d'arte con una materia che si disfa? Le opere dello spirito rimangono in eterno; quelle della materia periscono, e quelle del tempo fugace sono vanità; dobbiamo, dunque, nell'operare tener presente la fine di tutto per fissare il nostro pensiero al fine ultimo della nostra vita.
Un uomo - disse Gesù - partito per lontano paese lasciò la casa, e diede ai suoi servi il potere di far tutto, ed ordinò al portinaio di vigilare. Ecco l'immagine del mondo: il Signore è il padrone di ogni cosa e, quasi fosse assente, lascia agli uomini la libertà di operare come vogliono, costituendo sulla loro vita un portinaio che vigila. Questi è il Papa ed il Sacerdozio, e la loro attività è preziosa per tutelare le anime. Occorre però che ciascuno vigili, affinché, al ritorno del Padrone, possa trovarsi pronto per dargli il rendiconto.
Non tutti ci troveremo presenti agli ultimi eventi del mondo, ma tutti compariremo innanzi a Gesù Cristo, giudice eterno; non si può dunque prendere alla leggera la vita, e bisogna vigilare per essere pronti alla chiamata di Dio.
sabato 7 novembre 2015
08.11.2015 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 12 par. 8
8. L'essenza dell'amore a Dio ed al prossimo
Gli Ebrei si riguardavano come popolo prediletto di Dio, e si gloriavano di appartenergli, ma il loro cuore, generalmente parlando, mancava di amore verso di Lui, e per questo era insensibile alla carità verso il prossimo. Deve notarsi che nelle epoche della loro storia più bella, quando i patriarchi elevavano a Dio un cuore infiammato e sincero, essi si distinguevano per gli uffici più delicati di ospitalità e di carità, e che quando le relazioni verso Dio si ridussero ad un formalismo senza spirito, il loro cuore s'agghiacciò nell'egoismo, a somiglianza dei pagani.
Amare Dio, infatti, non significa solo prestargli un omaggio di culto esterno, ma significa apprezzarlo sopra tutte le cose, orientando a Lui il cuore, donandogli l'anima, sottomettendogli la mente e la ragione, ed indirizzandogli tutte le attività della vita.
L'amore, quindi, è la forza che orienta l'anima a Dio, come l'ago magnetico della bussola si volge al polo. L'amore impone silenzio a tutte le pretese della propria natura, ed è innanzi a Dio come un olocausto del cuore, dell'anima, della mente, e delle forze; si apprezza Dio per donarglisi, e gli si dona tutto il proprio essere per operare secondo la sua volontà; è essenziale perciò alla pratica dell'amore l'osservanza della Legge, l'unione alla divina volontà, e l'ossequio pieno alla sua verità.
Chi lo ama vive di Lui, vive con Lui, vive per Lui, e non ha altro amore fuori di Lui. Non si contenta di dire con le labbra: Ti amo, ma glielo dice con la vita. Perciò teme di offenderlo, e fugge dal peccato come dalla morte più penosa, vigilando perché nulla nel cuore prenda il posto di Dio. È come l'amore della sposa per lo sposo, che non è solo attrazione ma è esclusione piena di tutto quello che disgusta lo sposo, ed è fusione profonda con la sua vita.
Gli Ebrei si riguardavano come popolo prediletto di Dio, e si gloriavano di appartenergli, ma il loro cuore, generalmente parlando, mancava di amore verso di Lui, e per questo era insensibile alla carità verso il prossimo. Deve notarsi che nelle epoche della loro storia più bella, quando i patriarchi elevavano a Dio un cuore infiammato e sincero, essi si distinguevano per gli uffici più delicati di ospitalità e di carità, e che quando le relazioni verso Dio si ridussero ad un formalismo senza spirito, il loro cuore s'agghiacciò nell'egoismo, a somiglianza dei pagani.
Amare Dio, infatti, non significa solo prestargli un omaggio di culto esterno, ma significa apprezzarlo sopra tutte le cose, orientando a Lui il cuore, donandogli l'anima, sottomettendogli la mente e la ragione, ed indirizzandogli tutte le attività della vita.
L'amore, quindi, è la forza che orienta l'anima a Dio, come l'ago magnetico della bussola si volge al polo. L'amore impone silenzio a tutte le pretese della propria natura, ed è innanzi a Dio come un olocausto del cuore, dell'anima, della mente, e delle forze; si apprezza Dio per donarglisi, e gli si dona tutto il proprio essere per operare secondo la sua volontà; è essenziale perciò alla pratica dell'amore l'osservanza della Legge, l'unione alla divina volontà, e l'ossequio pieno alla sua verità.
Chi lo ama vive di Lui, vive con Lui, vive per Lui, e non ha altro amore fuori di Lui. Non si contenta di dire con le labbra: Ti amo, ma glielo dice con la vita. Perciò teme di offenderlo, e fugge dal peccato come dalla morte più penosa, vigilando perché nulla nel cuore prenda il posto di Dio. È come l'amore della sposa per lo sposo, che non è solo attrazione ma è esclusione piena di tutto quello che disgusta lo sposo, ed è fusione profonda con la sua vita.
sabato 31 ottobre 2015
01.11.2015 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 5 par. 7-16
7. Il dominio della bontà
Non c'è forza più dominatrice quanto quella della mansuetudine, perché conquide l'anima e soggioga la volontà; torna conto dunque usare mansuetudine e carità con tutti, e pensare che è meglio subire in pace e per amore, che subire per forza e per sopraffazione.
Bisogna essere mansueti di cuore e di parole con tutti; vincere l'ira altrui con risposte placide e serene, sopportare le ingiurie che ci vengono fatte, anzi esultare in esse per la somiglianza che ci danno col Redentore, e vincere il male col perdono e col bene.
Chi non direbbe che le vittorie dei Romani siano state fratto della forza brutale delle armi? Eppure è detto nel libro primo dei Maccabei (capitolo 8) che essi possedettero ogni regione col consiglio e con la pazienza. La stessa potenza militare non poté essere efficace che con la calma riflessione e con la pazienza. Con l'irruenza si può vincere una volta su cento la volontà altrui, con la mansuetudine si può perdere una volta su cento la battaglia.
Il mansueto ha la possibilità di penetrare i cuori e persuaderli,
l'irruente suscita le reazioni e non vince mai in profondità.
Il mansueto è come un raggio di sole che penetra placidamente ed è accolto con gioia,
l'irruente è un lampo di tempesta che spaventa.
Il mansueto è come aura refrigerante o pioggia placida che penetra fino alle radici,
l'irruente è come uragano che schianta a travolge tutto.
La terra non germina tra le tempeste, il mare non si attraversa tra i marosi, il cielo non si percorre tra i cicloni...
Tutto quello che si fa di bene in qualunque campo è condito dalla mansuetudine.
Anche l'artista possiede la materia che lavora con la pazienza e la calma, ed ha bisogno di mansuetudine serena contro le difficoltà che incontra e le resistenze che trova; se irrompe rovina tutto, e un atto di irruenza può distruggere il paziente lavoro di anni.
Anche quando è necessaria la forza, bisogna temperarla con la mansuetudine, non facendosi mai guidare dall'ira ma solo dalla giustizia e dall'equità. L'ira non dà il possesso di nulla; è un esplosivo che sconquassa e divelle, lasciando solo frantumi. La forza equilibrata della giustizia invece è come scalpello che incide e lavora.
A volte ci sentiamo soddisfatti dopo una sfuriata, e ci sembra che ci siamo finalmente imposti, invece non c'è sintomo più certo di una battaglia perduta quanto questa soddisfazione.
Se scrivi una lettera e vi metti frasi energiche, che dopo ti lasciano un compiacimento, cancellale immediatamente, perché sono frasi che ti fanno sconfiggere. È l'esperienza che lo dimostra. Quelle frasi tu le ricordi, le ripeti nel tuo interno, ti sembrano tutta la tua lettera, ti sembrano dardi infallibili al segno, ed invece sono dardi che ritornano a te.
Se avverti in te un irruento desiderio di reagire, di mettere le cose a posto, di far valere le tue ragioni, non parlare, taci e prega, perché è proprio allora che metti le cose fuori sesto e non hai ragione.
Se ti viene nell'animo il desiderio di una ripicca, o peggio di fare un dispetto, pensa che allora sei sopraffatto da te stesso, e getti in alto un masso che ti ricade sul capo.
Segnati nel cuore la Parola divina che non fallisce mai perché risponde alla realtà: Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra.
Come nella legge fisica dell'inerzia un urto non si arresta e può produrre un disastro, così nel tuo cuore un urto può trasportarti dove non vuoi. Il vagone, spinto sulla china, slitta, e il cuore tuo, spinto dall'ira, slitta fino al precipizio. Se il fieno non s'aggancia più, il vagone si sfascia, eppure a chi sta lontano sembra che vada trionfante nella sua corsa vertiginosa. Così sei tu quando non sai frenare i tuoi nervi: sembri trionfante e sei vinto; sembri forte e sei debole; sembri soddisfatto e sei amareggiato; sembri placato ed invece hai accumulato in te un novello esplosivo. L'impazienza genera l'impazienza e la ingigantisce fino al punto che non tollera più freni, ed esplode ad ogni piccola occasione. Non ti rendere schiavo di te fino a questo punto, possiedi il tuo sistema nervoso e dominalo, perché esso non ti leghi fra ceppi penosissimi.
Non dire che devi sfogarti se no crepi. Il tuo sfogo non serve che ad accrescere la prepotenza dei nervi, e tu in realtà ti prepari novelle angustie. Sfogati con Gesù, deponi nel suo Cuore le tue pene e prega. Non c'è mansuetudine più bella è più forte della preghiera, perché essa penetra i cuori, li conquide, li vince e li trasforma con la grazia.
Prega e parlerai all'anima: se gridi parli solo alle orecchie, e martelli i nervi senza giungere al cuore. L'irruenza chiude tutte le valvole, per così dire, della ragione, della volontà, del cuore, e suscita solo reazioni nei nervi e agitazioni nel sangue. Prega e chiuderai i freni dei nervi; prega e possederai anche questa terra umana, carica di tempeste.
Quando non riesci a convincere, e t'accorgi che il tuo fratello s'è irrigidito, a che più lo sferzi con le tue parole? Occorre il messaggio della carità per ricondurre il movimento della ragione in lui. Pensa che ogni irruzione violenta è, in fondo, un momento di pazzia, e che di questi momenti disgraziati ne hanno tutti; vuoi tu contendere col pazzo? Anche il pazzo si conquide più con la bontà che con la camicia di forza. I tuoi gridi possono avere solo il segreto di accrescere e prolungare il momento di pazzia, facendo congestionare il capo, o producendo una ipertensione nervosa.
Non credere alle massime del mondo; credi al tuo Signore; poni la tua gloria nel farti amare anziché nel farti temere, e fa che ogni amarezza versata in te sia dolcificata subito dalla tua dolcezza e dalla tua carità.
La beatitudine della nostra vita peregrinante in terra sta nella pace; non c'è prezzo per custodirla, ed ognuno deve fare di tutto per non turbarla negli altri e per averla in sé come tesoro.
Non c'è forza più dominatrice quanto quella della mansuetudine, perché conquide l'anima e soggioga la volontà; torna conto dunque usare mansuetudine e carità con tutti, e pensare che è meglio subire in pace e per amore, che subire per forza e per sopraffazione.
Bisogna essere mansueti di cuore e di parole con tutti; vincere l'ira altrui con risposte placide e serene, sopportare le ingiurie che ci vengono fatte, anzi esultare in esse per la somiglianza che ci danno col Redentore, e vincere il male col perdono e col bene.
Chi non direbbe che le vittorie dei Romani siano state fratto della forza brutale delle armi? Eppure è detto nel libro primo dei Maccabei (capitolo 8) che essi possedettero ogni regione col consiglio e con la pazienza. La stessa potenza militare non poté essere efficace che con la calma riflessione e con la pazienza. Con l'irruenza si può vincere una volta su cento la volontà altrui, con la mansuetudine si può perdere una volta su cento la battaglia.
Il mansueto ha la possibilità di penetrare i cuori e persuaderli,
l'irruente suscita le reazioni e non vince mai in profondità.
Il mansueto è come un raggio di sole che penetra placidamente ed è accolto con gioia,
l'irruente è un lampo di tempesta che spaventa.
Il mansueto è come aura refrigerante o pioggia placida che penetra fino alle radici,
l'irruente è come uragano che schianta a travolge tutto.
La terra non germina tra le tempeste, il mare non si attraversa tra i marosi, il cielo non si percorre tra i cicloni...
Tutto quello che si fa di bene in qualunque campo è condito dalla mansuetudine.
Anche l'artista possiede la materia che lavora con la pazienza e la calma, ed ha bisogno di mansuetudine serena contro le difficoltà che incontra e le resistenze che trova; se irrompe rovina tutto, e un atto di irruenza può distruggere il paziente lavoro di anni.
Anche quando è necessaria la forza, bisogna temperarla con la mansuetudine, non facendosi mai guidare dall'ira ma solo dalla giustizia e dall'equità. L'ira non dà il possesso di nulla; è un esplosivo che sconquassa e divelle, lasciando solo frantumi. La forza equilibrata della giustizia invece è come scalpello che incide e lavora.
A volte ci sentiamo soddisfatti dopo una sfuriata, e ci sembra che ci siamo finalmente imposti, invece non c'è sintomo più certo di una battaglia perduta quanto questa soddisfazione.
Se scrivi una lettera e vi metti frasi energiche, che dopo ti lasciano un compiacimento, cancellale immediatamente, perché sono frasi che ti fanno sconfiggere. È l'esperienza che lo dimostra. Quelle frasi tu le ricordi, le ripeti nel tuo interno, ti sembrano tutta la tua lettera, ti sembrano dardi infallibili al segno, ed invece sono dardi che ritornano a te.
Se avverti in te un irruento desiderio di reagire, di mettere le cose a posto, di far valere le tue ragioni, non parlare, taci e prega, perché è proprio allora che metti le cose fuori sesto e non hai ragione.
Se ti viene nell'animo il desiderio di una ripicca, o peggio di fare un dispetto, pensa che allora sei sopraffatto da te stesso, e getti in alto un masso che ti ricade sul capo.
Segnati nel cuore la Parola divina che non fallisce mai perché risponde alla realtà: Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra.
Come nella legge fisica dell'inerzia un urto non si arresta e può produrre un disastro, così nel tuo cuore un urto può trasportarti dove non vuoi. Il vagone, spinto sulla china, slitta, e il cuore tuo, spinto dall'ira, slitta fino al precipizio. Se il fieno non s'aggancia più, il vagone si sfascia, eppure a chi sta lontano sembra che vada trionfante nella sua corsa vertiginosa. Così sei tu quando non sai frenare i tuoi nervi: sembri trionfante e sei vinto; sembri forte e sei debole; sembri soddisfatto e sei amareggiato; sembri placato ed invece hai accumulato in te un novello esplosivo. L'impazienza genera l'impazienza e la ingigantisce fino al punto che non tollera più freni, ed esplode ad ogni piccola occasione. Non ti rendere schiavo di te fino a questo punto, possiedi il tuo sistema nervoso e dominalo, perché esso non ti leghi fra ceppi penosissimi.
Non dire che devi sfogarti se no crepi. Il tuo sfogo non serve che ad accrescere la prepotenza dei nervi, e tu in realtà ti prepari novelle angustie. Sfogati con Gesù, deponi nel suo Cuore le tue pene e prega. Non c'è mansuetudine più bella è più forte della preghiera, perché essa penetra i cuori, li conquide, li vince e li trasforma con la grazia.
Prega e parlerai all'anima: se gridi parli solo alle orecchie, e martelli i nervi senza giungere al cuore. L'irruenza chiude tutte le valvole, per così dire, della ragione, della volontà, del cuore, e suscita solo reazioni nei nervi e agitazioni nel sangue. Prega e chiuderai i freni dei nervi; prega e possederai anche questa terra umana, carica di tempeste.
Quando non riesci a convincere, e t'accorgi che il tuo fratello s'è irrigidito, a che più lo sferzi con le tue parole? Occorre il messaggio della carità per ricondurre il movimento della ragione in lui. Pensa che ogni irruzione violenta è, in fondo, un momento di pazzia, e che di questi momenti disgraziati ne hanno tutti; vuoi tu contendere col pazzo? Anche il pazzo si conquide più con la bontà che con la camicia di forza. I tuoi gridi possono avere solo il segreto di accrescere e prolungare il momento di pazzia, facendo congestionare il capo, o producendo una ipertensione nervosa.
Non credere alle massime del mondo; credi al tuo Signore; poni la tua gloria nel farti amare anziché nel farti temere, e fa che ogni amarezza versata in te sia dolcificata subito dalla tua dolcezza e dalla tua carità.
La beatitudine della nostra vita peregrinante in terra sta nella pace; non c'è prezzo per custodirla, ed ognuno deve fare di tutto per non turbarla negli altri e per averla in sé come tesoro.
01.11.2015 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 5 par. 2-6
2. La grande via della felicità, opposta alle tentazioni di satana. Idea fondamentale per intendere le parole di Gesù
Il mirabile e divino discorso detto della montagna, che stiamo per meditare, fu pronunziato da Gesù Cristo dopo altri avvenimenti dei quali parla san Luca (capitolo 4), quindi non si trova in san Matteo secondo l'ordine cronologico. Esso però sta in quell'ordine divinamente logico, col quale il Signore ci traccia la via del cielo, sottraendoci alle funeste illusioni di satana ed al fascino del mondo e della carne.
Dopo il capitolo della tentazione di Gesù nel deserto, sintesi delle insidie con le quali satana cerca sviare la nostra vita, ecco la luce divina di una sapienza nuova, che capovolge tutte le idee effimere che si avevano della felicità, e mostra la vera via di quella beatitudine temporale ed eterna, cui l'uomo aspira.
Satana in fondo aveva tentato di tracciare lui la via del godimento e della gloria, sia nell'Eden col primo Adamo, sia nel deserto col secondo; tutte le sue tentazioni hanno tuttora questo carattere, ed egli vuole apparire come il consigliere della povera umanità, ingannandola con lusinghe che poi finiscono per diventare sorgenti di grande infelicità. Era logico dunque che Gesù Cristo opponesse alle tenebre dello spirito infernale la luce divina d'insegnamenti atti a dissipare dall'anima umana la tentazione che la trascina negli abissi dell'infelicità temporale ed eterna. Diciamo subito che il discorso, che meditiamo, non è raccolto e formato dall'evangelista, coi vari insegnamenti del Redentore, come pretesero alcuni, ma è fluito come si trova dalla bocca del Redentore. Egli anzi dovette ripetere più volte questi suoi insegnamenti, come appare dal Vangelo di san Luca, nel quale il discorso è riportato più sinteticamente, e non è proprio lo stesso di quello di san Matteo. San Luca probabilmente riporta il discorso come fu ripetuto agli apostoli dopo la loro elezione.
Gesù Cristo, seguito da una grande moltitudine che, come s'è visto nel capitolo precedente, accorreva a Lui per essere sollevata nelle sue pene e nelle sue infermità, salì sopra un monte per insegnare quelle novelle verità che dovevano tracciare la via della vera pace e della vera beatitudine. Nel capitolo precedente è detto che Egli curò ogni sorta di malattia e le infermità del popolo (4,23-25), ma ora non si accenna a nessun beneficio temporale, giacché il beneficio spirituale della luce della verità in mezzo alle pene della vita supera qualunque altro.
Come Mosè promulgò la Legge avuta da Dio su un monte, e si ritirò nelle altezze per ascoltare meglio la voce divina, così Gesù Cristo volle promulgare la Legge novella da un monte, e perciò il suo discorso è detto della montagna. Quale sia il monte sul quale si ritirò, non può dirsi con esattezza; secondo una tradizione antica sarebbe il Korne-Hattin, che si eleva a 346 metri sul livello del Mediterraneo, a circa 8 chilometri a Nord-Ovest di Tiberiade. Gli apostoli, i discepoli, il popolo seguirono il Maestro divino, e si disposero intorno a Lui per ascoltarlo. Non attendevano altro in quei momenti preziosi, non domandavano altro.
I grandi condottieri o animatori di folle parlano quasi sempre solleticando gl'interessi materiali o l'orgoglio delle masse; Gesù Cristo invece parla la parola della verità, e quel che è più della verità che più contrasta le terrene aspirazioni, additando come mèta della beatitudine e della gloria quello che comunemente si crede mèta d'infelicità e di obbrobrio. Forse Gesù non poteva mostrare in una maniera più persuasiva e penetrante la sua divinità, poiché solo Dio, che conosce e scruta le reni ed i cuori, poteva proporre una dottrina apparentemente così contraria alle umane tendenze e persuasioni, e nello stesso tempo così profondamente vera.
È questa infatti la caratteristica delle divine parole di Gesù Cristo: esse nella loro dura espressione non sono in armonia con quello che la natura umana, fragile e presuntuosa nel medesimo tempo, crede un bene; eppure additano, anche umanamente parlando, la vera via della beatitudine temporale ed eterna. Approfondite alla luce di Dio, sono un programma dell'eterna conquista, ed approfondite anche alla luce della ragione, sono una filosofia altissima, per così dire, una rivelazione delle vere condizioni alle quali l'uomo può conquistare la libertà interiore e la pace, dominando tutti gli ostacoli che vi si frappongono.
È questo quello che bisogna riflettere nel meditare l'arcana parola di Gesù, perché, oggi specialmente, si ingannano le turbe, facendo loro credere che Gesù Cristo abbia solo promesso ricompense eterne irraggiungibili, ed abbia richiesto sacrifici penosi; s'ingannano i cuori e le menti facendo credere che la dottrina del Redentore è sorpassata, perché dottrina buona solo per anime leziosamente mistiche, incapaci di affrontare i grandi problemi della vertiginosa vita moderna, satura fino all'ebbrezza di desideri e di bisogni di godimenti, carica fino allo scoppio di sentimenti guerrieri, assalita come preda da tutte le belve dell'umana cupidigia, e ringhiante come belva contro tutto ciò che si oppone alle sue brame.
Un'umanità che forma le sue generazioni al passo di marcia, e le riempie di sentimenti di dominio, di violenza e di sopraffazione, un'umanità che apre alle passioni tutti gli sbocchi, demolisce tutte le dighe opposte ai piaceri sensuali, ed è inondata di putredine e di tabe credendola sangue di vita e rigoglio di giovani forze, una generazione che accende, adorandoli paganamente, i fuochi sulle montagne hitleriane, o corre in brache con la fiaccola olimpionica fra gli applausi freneticamente incoscienti dei frenetici adoratori della forza bruta, come potrebbe contentarsi delle parole divine che predicano l'umiltà, la povertà e la pace come segreto di vita?
Il mirabile e divino discorso detto della montagna, che stiamo per meditare, fu pronunziato da Gesù Cristo dopo altri avvenimenti dei quali parla san Luca (capitolo 4), quindi non si trova in san Matteo secondo l'ordine cronologico. Esso però sta in quell'ordine divinamente logico, col quale il Signore ci traccia la via del cielo, sottraendoci alle funeste illusioni di satana ed al fascino del mondo e della carne.
Dopo il capitolo della tentazione di Gesù nel deserto, sintesi delle insidie con le quali satana cerca sviare la nostra vita, ecco la luce divina di una sapienza nuova, che capovolge tutte le idee effimere che si avevano della felicità, e mostra la vera via di quella beatitudine temporale ed eterna, cui l'uomo aspira.
Satana in fondo aveva tentato di tracciare lui la via del godimento e della gloria, sia nell'Eden col primo Adamo, sia nel deserto col secondo; tutte le sue tentazioni hanno tuttora questo carattere, ed egli vuole apparire come il consigliere della povera umanità, ingannandola con lusinghe che poi finiscono per diventare sorgenti di grande infelicità. Era logico dunque che Gesù Cristo opponesse alle tenebre dello spirito infernale la luce divina d'insegnamenti atti a dissipare dall'anima umana la tentazione che la trascina negli abissi dell'infelicità temporale ed eterna. Diciamo subito che il discorso, che meditiamo, non è raccolto e formato dall'evangelista, coi vari insegnamenti del Redentore, come pretesero alcuni, ma è fluito come si trova dalla bocca del Redentore. Egli anzi dovette ripetere più volte questi suoi insegnamenti, come appare dal Vangelo di san Luca, nel quale il discorso è riportato più sinteticamente, e non è proprio lo stesso di quello di san Matteo. San Luca probabilmente riporta il discorso come fu ripetuto agli apostoli dopo la loro elezione.
Gesù Cristo, seguito da una grande moltitudine che, come s'è visto nel capitolo precedente, accorreva a Lui per essere sollevata nelle sue pene e nelle sue infermità, salì sopra un monte per insegnare quelle novelle verità che dovevano tracciare la via della vera pace e della vera beatitudine. Nel capitolo precedente è detto che Egli curò ogni sorta di malattia e le infermità del popolo (4,23-25), ma ora non si accenna a nessun beneficio temporale, giacché il beneficio spirituale della luce della verità in mezzo alle pene della vita supera qualunque altro.
Come Mosè promulgò la Legge avuta da Dio su un monte, e si ritirò nelle altezze per ascoltare meglio la voce divina, così Gesù Cristo volle promulgare la Legge novella da un monte, e perciò il suo discorso è detto della montagna. Quale sia il monte sul quale si ritirò, non può dirsi con esattezza; secondo una tradizione antica sarebbe il Korne-Hattin, che si eleva a 346 metri sul livello del Mediterraneo, a circa 8 chilometri a Nord-Ovest di Tiberiade. Gli apostoli, i discepoli, il popolo seguirono il Maestro divino, e si disposero intorno a Lui per ascoltarlo. Non attendevano altro in quei momenti preziosi, non domandavano altro.
I grandi condottieri o animatori di folle parlano quasi sempre solleticando gl'interessi materiali o l'orgoglio delle masse; Gesù Cristo invece parla la parola della verità, e quel che è più della verità che più contrasta le terrene aspirazioni, additando come mèta della beatitudine e della gloria quello che comunemente si crede mèta d'infelicità e di obbrobrio. Forse Gesù non poteva mostrare in una maniera più persuasiva e penetrante la sua divinità, poiché solo Dio, che conosce e scruta le reni ed i cuori, poteva proporre una dottrina apparentemente così contraria alle umane tendenze e persuasioni, e nello stesso tempo così profondamente vera.
È questa infatti la caratteristica delle divine parole di Gesù Cristo: esse nella loro dura espressione non sono in armonia con quello che la natura umana, fragile e presuntuosa nel medesimo tempo, crede un bene; eppure additano, anche umanamente parlando, la vera via della beatitudine temporale ed eterna. Approfondite alla luce di Dio, sono un programma dell'eterna conquista, ed approfondite anche alla luce della ragione, sono una filosofia altissima, per così dire, una rivelazione delle vere condizioni alle quali l'uomo può conquistare la libertà interiore e la pace, dominando tutti gli ostacoli che vi si frappongono.
È questo quello che bisogna riflettere nel meditare l'arcana parola di Gesù, perché, oggi specialmente, si ingannano le turbe, facendo loro credere che Gesù Cristo abbia solo promesso ricompense eterne irraggiungibili, ed abbia richiesto sacrifici penosi; s'ingannano i cuori e le menti facendo credere che la dottrina del Redentore è sorpassata, perché dottrina buona solo per anime leziosamente mistiche, incapaci di affrontare i grandi problemi della vertiginosa vita moderna, satura fino all'ebbrezza di desideri e di bisogni di godimenti, carica fino allo scoppio di sentimenti guerrieri, assalita come preda da tutte le belve dell'umana cupidigia, e ringhiante come belva contro tutto ciò che si oppone alle sue brame.
Un'umanità che forma le sue generazioni al passo di marcia, e le riempie di sentimenti di dominio, di violenza e di sopraffazione, un'umanità che apre alle passioni tutti gli sbocchi, demolisce tutte le dighe opposte ai piaceri sensuali, ed è inondata di putredine e di tabe credendola sangue di vita e rigoglio di giovani forze, una generazione che accende, adorandoli paganamente, i fuochi sulle montagne hitleriane, o corre in brache con la fiaccola olimpionica fra gli applausi freneticamente incoscienti dei frenetici adoratori della forza bruta, come potrebbe contentarsi delle parole divine che predicano l'umiltà, la povertà e la pace come segreto di vita?
sabato 17 ottobre 2015
18.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 5
5. Dio esige che gli rendiamo gloria, perché questo si risolve nella nostra felicità
Le vie degli uomini sono agli antipodi di quelle di Dio, perché l'uomo guarda al proprio interesse momentaneo, e Dio guarda a quello eterno, l'uomo si preoccupa della propria gloria, e Dio guarda l'esigenza della sua gloria, che diventa per le sue creature medesime diffusione di beni e di misericordie.
Il Signore non ha bisogno di noi, ma desidera i nostri omaggi, il nostro amore e la nostra dedizione a Lui, perché tutto questo si risolva nella nostra felicità. La sua gloria diffusa nell'universo ce lo fa conoscere e ci avvicina a Lui; la sua gloria manifestata a noi ci attrae nella sua volontà e ci fa vivere di Lui; la sua gloria rifulgente negli atti stessi della giustizia ci fa sentire che Egli solo è tutto e che a Lui solo dobbiamo tendere. La gloria di Dio ad intra è lo splendore della sua vita, ad extra è lo splendore della sua bontà che si diffonde; i nostri omaggi e la gloria che gli doniamo sono come nubi che si formano in alto e ricadono in pioggia sopra di noi stessi. Ogni concentramento, invece, nella nostra gloria è una perdita, più o meno grave e disastrosa a seconda della nostra stoltezza; la caduta angelica e quella umana sono la documentazione di questa verità. Dio non può avere nel creato delle immagini materiali che lo manifestino, ma si può dire che la sua gloria è la fulgente statua della sua realtà, come la gloria delle creature è l'idolo abbietto che lo sfigura e lo rinnega.
La gloria di Dio, la gloria di Dio, quale armonia di grandezza e di felicità ha questa parola, quale sapore di sazietà ha per l'uomo che la cerca, quale segreto di elevazione ha, e come trae nel suo vortice luminoso la nostra nullità, umiliata innanzi al Signore! L'uomo cade in un abisso di angustiante infelicità quando cerca la propria gloria e i propri interessi.
Le vie degli uomini sono agli antipodi di quelle di Dio, perché l'uomo guarda al proprio interesse momentaneo, e Dio guarda a quello eterno, l'uomo si preoccupa della propria gloria, e Dio guarda l'esigenza della sua gloria, che diventa per le sue creature medesime diffusione di beni e di misericordie.
Il Signore non ha bisogno di noi, ma desidera i nostri omaggi, il nostro amore e la nostra dedizione a Lui, perché tutto questo si risolva nella nostra felicità. La sua gloria diffusa nell'universo ce lo fa conoscere e ci avvicina a Lui; la sua gloria manifestata a noi ci attrae nella sua volontà e ci fa vivere di Lui; la sua gloria rifulgente negli atti stessi della giustizia ci fa sentire che Egli solo è tutto e che a Lui solo dobbiamo tendere. La gloria di Dio ad intra è lo splendore della sua vita, ad extra è lo splendore della sua bontà che si diffonde; i nostri omaggi e la gloria che gli doniamo sono come nubi che si formano in alto e ricadono in pioggia sopra di noi stessi. Ogni concentramento, invece, nella nostra gloria è una perdita, più o meno grave e disastrosa a seconda della nostra stoltezza; la caduta angelica e quella umana sono la documentazione di questa verità. Dio non può avere nel creato delle immagini materiali che lo manifestino, ma si può dire che la sua gloria è la fulgente statua della sua realtà, come la gloria delle creature è l'idolo abbietto che lo sfigura e lo rinnega.
La gloria di Dio, la gloria di Dio, quale armonia di grandezza e di felicità ha questa parola, quale sapore di sazietà ha per l'uomo che la cerca, quale segreto di elevazione ha, e come trae nel suo vortice luminoso la nostra nullità, umiliata innanzi al Signore! L'uomo cade in un abisso di angustiante infelicità quando cerca la propria gloria e i propri interessi.
sabato 10 ottobre 2015
11.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 3-4
3. Il giovane che voleva salvarsi
Dal medesimo contesto del Vangelo può rilevarsi che Egli era tutto compreso da questi pensieri, poiché rivolse uno sguardo di particolare amore ed attenzione ad un giovane che gli si presentò per domandargli che cosa avesse dovuto fare per acquistare la vita eterna. Non dimentichiamo che Gesù Cristo era Dio, e come tale aveva tutto presente: le sue parole non erano mai ristrette in una visuale limitata, e riguardavano i secoli. Psicologicamente, diremmo quasi, se Gesù non avesse avuto il Cuore tutto pieno di amore per la gioventù di tutti i secoli, non avrebbe manifestato una particolare benevolenza ad un giovane che veniva a Lui più con una velleità di perfezione che con una vera volontà di essere santo.Quel giovane, infatti, venne a Lui correndo, e manifestando così l'entusiasmo dal quale era stato preso; genufletté innanzi a Gesù, perché era come affascinato da quel volto divino. Corse, e nell'avvicinarsi e vederlo così sorridente, si entusiasmò della sua divina bellezza e bontà, e lo chiamò buono: Maestro buono, che farò io per acquistare la vita eterna?
Forse da lontano aveva visto con quanto amore aveva accolto i fanciulli, ed era rimasto conquiso da quella bontà così insolita agli arcigni farisei. Gesù volle fargli riflettere che quella bontà non era un tratto di gentilezza umana, ma scaturiva dalla divina bontà che diffonde la misericordia e la grazia, e soggiunse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono fuori di Dio solo. Egli poi continuava ad aver presenti i secoli futuri, i tristi secoli della profanazione dell'infanzia e della gioventù, e volle proclamare contro i falsi padri e i falsi amici dei giovani che Dio solo è buono, Dio solo può attrarre con la sua bontà, e che la pretesa paternità dei tiranni verso i giovani è solo un inganno per accalappiarli.
I giovani, come questo del Vangelo, corrono, perché sono dominati dall'impeto dell'entusiasmo, genuflettono, perché hanno una dedizione piena nel loro entusiasmo, e riguardano come buoni quelli che li attraggono, perché sono dominati dalla bontà ed anche dalla bellezza.
Gesù volle dire che solo la bontà e la bellezza di Dio dovevano dominarli, e che essi non potevano avere aspirazioni fantastiche, ma dovevano avere come unica guida la Legge di Dio. Per questo soggiunse: Tu sai i comandamenti: Non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non dir falsa testimonianza, non frodare nessuno, onora tuo padre e tua madre. Dunque è assurdo che vi siano altri decaloghi; è empio e nello stesso tempo ridicolo che un uomo di partito ardisca imporre i suoi precetti. La gioventù non può essere educata che nella Legge di Dio e, se una qualunque altra legge prescinde da questa, serve solo a confonderla ed a corromperla.
Forse il giovane del Vangelo, entusiasmato della bontà di Gesù, tratto da un desiderio contuso di misticismo e di perfezione fantastica, comune ai giovani nei loro impeti generosi, immaginò di sentire da Gesù precetti nuovi e regole complesse di vita spirituale; perciò provò un certo disinganno alla risposta che ebbe, e soggiunse, non senza una punta di compiacenza, che quelle cose le aveva osservate fin dalla sua prima giovinezza.
Il Redentore, a questa confessione di fedeltà alla Legge, guardò con tenerezza il giovane e lo amò. Forse gli manifestò questo amore abbracciandolo o ponendogli la mano sul capo, certo gli diede segni di particolare bontà.
Ma non conosceva Gesù che quel giovane era già un osservante della Legge, ed allora perché gliela ricordò? Non sapeva che non avrebbe aderito al suo invito di maggiore perfezione? Ed allora perché lo invitò?
Lo guardò e lo amò; eppure proprio allora quel giovane stava per abbandonarlo pieno di scoraggiamento.
Sembrano tutte oscurità insolubili, eppure non lo sono se si riflette ai pensieri profondi del Redentore: Egli parlava prima di tutto ai giovani più che a quel giovane, e volle affermare solennemente il dovere che essi hanno di porre come base della loro vita la Legge di Dio.
Volle provocare dal giovane una confessione di piena osservanza, per mostrare ai giovani tutti che non è affatto impossibile alla loro età di custodire tutti i comandamenti di Dio. Sapeva che il suo invito ad una maggiore perfezione non sarebbe stato accolto, ma lo fece lo stesso perché la sua misericordia non cessa di chiamarci e non si abbrevia su di noi sol perché gli siamo ingrati.
Egli si rivolse inoltre allora ai giovani ricchi, ai quali la vita sembra sorridere con maggiori attrattive, e mostrò anche ad essi la via dell'eroismo. La loro condizione di privilegio temporale non può giustificare in loro una minorazione spirituale, ed essi possono benissimo giungere alla vetta dell'eroismo, lasciare tutto, darlo ai poveri e, spogli dei beni temporali, cercare quelli eterni. Così hanno fatto nella Chiesa moltissimi santi, e l'invito di Gesù non è rimasto inutile; il giovane al quale parlò se ne andò rattristato e sconsolato, ma tanti giovani, ai quali indirettamente si rivolse, hanno accolto a migliaia il suo invito e la Chiesa è popolata sempre di poveri volontari, che scelgono Dio solo per loro porzione e per loro eredità.
sabato 3 ottobre 2015
04.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 2-3
2. La questione del divorzio
Gesù partì dalla Galilea e venne nella Giudea per andare a Gerusalemme e subirvi la dolorosissima Passione; ormai la sua vita volgeva all'epilogo, ed il suo immenso amore abbracciava tutte le genti per redimerle.
Come doveva essere doloroso al suo Cuore in questi momenti solenni il vedere la doppiezza, l'incredulità e l'ingratitudine degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti, sempre più lontani dall'intenderlo!
Egli camminava pensando alla salvezza di tutti, e i suoi nemici lo insidiavano per trarlo in inganno e per avere il pretesto di condannarlo. È una cosa penosissima il considerare queste stonature dell'ingratitudine umana!
I farisei interrogarono Gesù sulla questione del divorzio, perché in tempi di corruzione e di grande immoralità era quella che avrebbe potuto più facilmente attirargli contro l'odio dei grandi, infetti quasi tutti d'impurità; essi prevedevano quale poteva essere la risposta di Lui, ed erano certi che si sarebbe compromesso.
Anche questo doveva essere penosissimo per il Cuore del Redentore: parlare di divorzio quando Egli si preparava a celebrare le sue nozze di amore nel Sangue del suo sacrificio, e parlarne quando la sinagoga, ripudiandolo, avrebbe consumato il più peccaminoso degli adultèri spirituali!
Gesù partì dalla Galilea e venne nella Giudea per andare a Gerusalemme e subirvi la dolorosissima Passione; ormai la sua vita volgeva all'epilogo, ed il suo immenso amore abbracciava tutte le genti per redimerle.
Come doveva essere doloroso al suo Cuore in questi momenti solenni il vedere la doppiezza, l'incredulità e l'ingratitudine degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti, sempre più lontani dall'intenderlo!
Egli camminava pensando alla salvezza di tutti, e i suoi nemici lo insidiavano per trarlo in inganno e per avere il pretesto di condannarlo. È una cosa penosissima il considerare queste stonature dell'ingratitudine umana!
I farisei interrogarono Gesù sulla questione del divorzio, perché in tempi di corruzione e di grande immoralità era quella che avrebbe potuto più facilmente attirargli contro l'odio dei grandi, infetti quasi tutti d'impurità; essi prevedevano quale poteva essere la risposta di Lui, ed erano certi che si sarebbe compromesso.
Anche questo doveva essere penosissimo per il Cuore del Redentore: parlare di divorzio quando Egli si preparava a celebrare le sue nozze di amore nel Sangue del suo sacrificio, e parlarne quando la sinagoga, ripudiandolo, avrebbe consumato il più peccaminoso degli adultèri spirituali!
sabato 26 settembre 2015
27.09.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 9 par. 5
5. Non vogliate proibirglielo poiché nessuno può fare un miracolo nel mio Nome e subito parlare male di me
È troppo comune il caso degl'impedimenti al bene posti dai buoni, ed è troppo penosa la rovina di tante iniziative di bene che vengono stroncate da malintesi, per non dovere insistere su queste parole di Gesù Cristo.In generale tutto ciò che sa di novità urta e diventa sospetto per partito preso, senza alcuna ragione e peggio per un inconscio sentimento di gelosia. Non si fa guerra al bene perché si ha argomento di pensare che sia male, ma perché lo si crede una novità o perché deriva da chi ci è antipatico, o peggio perché urta interessi materiali. Satana soffia volentieri su queste stoltezze, forma delle ombre, le montagne, eccita spesso l'ira nei cuori senza ragione, e con arte subdola giunge fino a fare impressionare i superiori, custodi del bene, rendendoli ostili.
Nei grandi disegni messi da uno speciale intervento di Dio l'opposizione non solo non li sfascia ma li rassoda nei secoli, diventando nelle vie del Signore un mezzo per dimostrare la sua speciale operazione.
Nelle iniziative comuni dello zelo invece, l'opposizione può cagionarne la rovina irreparabilmente, e questa rovina pesa terribilmente su chi ne è causa.
sabato 19 settembre 2015
20.09.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 9 par. 4
4. Una disputa fra gli apostoli: chi fra loro era il più grande?
Gesù parlò agli apostoli della sua Passione, ed essi non solo non ne capirono nulla, ma, lungo la strada che conduceva a Cafarnao, cominciarono a discorrere chi tra essi fosse il più grande.
È probabile che, sentendo parlare il Maestro di Morte, di Passione e di Risurrezione, essi avessero capito che Egli alludesse alla morte dei suoi nemici ed alla sua risurrezione gloriosa dall'umile stato in cui era, all'apice del regno; perciò, supponendo imminente il suo trionfo, cominciarono a discorrere sul posto che avrebbero avuto nel suo regno. Parlavano sommessamente, proprio come chi si confida delle speranze e fa dei progetti; Gesù li lasciò discorrere e solo quando furono in casa interrogò qualcuno di essi sul soggetto dei loro discorsi.
Saputolo, li radunò tutti intorno a sé per far loro una grande lezione di sapienza e di umiltà: chi voleva essere il primo doveva essere ultimo e servo di tutti, e chi voleva essere grande doveva essere come fanciullo, anzi come infante. Gesù mostrò loro un fanciullo prendendolo fra le braccia, proprio per mostrare il modello della piccolezza alla quale li chiamava, e poiché essi non capivano quale importanza potesse avere un fanciullo nel regno da Lui preconizzato, li esortò ad accogliere i fanciulli come Lui stesso, per accogliere il Padre che lo aveva mandato, giacché sulle nuove generazioni era poggiato lo sviluppo della Chiesa.
Gesù parlò agli apostoli della sua Passione, ed essi non solo non ne capirono nulla, ma, lungo la strada che conduceva a Cafarnao, cominciarono a discorrere chi tra essi fosse il più grande.
È probabile che, sentendo parlare il Maestro di Morte, di Passione e di Risurrezione, essi avessero capito che Egli alludesse alla morte dei suoi nemici ed alla sua risurrezione gloriosa dall'umile stato in cui era, all'apice del regno; perciò, supponendo imminente il suo trionfo, cominciarono a discorrere sul posto che avrebbero avuto nel suo regno. Parlavano sommessamente, proprio come chi si confida delle speranze e fa dei progetti; Gesù li lasciò discorrere e solo quando furono in casa interrogò qualcuno di essi sul soggetto dei loro discorsi.
Saputolo, li radunò tutti intorno a sé per far loro una grande lezione di sapienza e di umiltà: chi voleva essere il primo doveva essere ultimo e servo di tutti, e chi voleva essere grande doveva essere come fanciullo, anzi come infante. Gesù mostrò loro un fanciullo prendendolo fra le braccia, proprio per mostrare il modello della piccolezza alla quale li chiamava, e poiché essi non capivano quale importanza potesse avere un fanciullo nel regno da Lui preconizzato, li esortò ad accogliere i fanciulli come Lui stesso, per accogliere il Padre che lo aveva mandato, giacché sulle nuove generazioni era poggiato lo sviluppo della Chiesa.
sabato 12 settembre 2015
13.09.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 8 par. 4
4. A Betsaida Gesù guarisce un cieco
A Betsaida fu presentato a Gesù un cieco perché lo toccasse e lo risanasse; ma Egli non volle farlo innanzi a tutti e, presolo per mano, lo condusse fuori dal villaggio. Era ancora vivo il ricordo della moltiplicazione dei pani, ed il Redentore non volle che il popolo si entusiasmasse inutilmente, trascurando il bene dell'anima. Egli anzi non volle operare il miracolo in un momento, ma lo fece gradatamente, quasi fosse stata una guarigione naturale; non volle che un fatto impressionante avesse eccitato nella folla l'entusiasmo per il regno politico e terreno che credeva dovesse attendersi da Lui.
Il popolo aveva supplicato Gesù di toccare il cieco, ed Egli lo prese per mano, degnandosi di farsene Egli stesso la guida. Come dovette essere soave per il cieco dare la mano a Gesù, ed essere da Lui accompagnato fuori del frastuono del villaggio! Questa mano, bellissima e morbida, spirava carità, santità e purezza, e gli trasfondeva una grande dolcezza nel cuore, accendendogli maggiormente la fede, la speranza e l'amore. Gesù lo accompagnò fuori del villaggio per dargli tempo di raccogliersi, e tenendolo per mano gli fece sentire una grande attrazione ai beni eterni. In tal modo gli dava prima la vista dell'anima. Poi gli pose della saliva sugli occhi e gl'impose le mani, domandandogli se vedesse qualche cosa. Lo sputo non poteva essere una causa naturale della guarigione, ma Gesù si servì di quel mezzo per mostrare innanzi al popolo che applicava un rimedio e nascondere così la sua operazione divina. Probabilmente la saliva non fu messa sugli occhi ma dentro, mentre il cieco aveva dilatato le palpebre che poi si rinchiusero, e quella saliva benedetta cominciò a rischiarare gli occhi dell'infelice; per questo è detto nel Testo che il cieco, interrogato se vedesse qualche cosa, alzò gli occhi, aprì con un certo sforzo le palpebre e sollevò gli occhi che si erano istintivamente abbassati dopo aver ricevuto lo sputo. Girò intorno lo sguardo, lo fisso lontano verso la strada e disse che vedeva gli uomini come alberi che camminavano. Egli distingueva solo una massa eretta come un fusto, e questo gli richiamò in mente l'immagine degli alberi; evidentemente non doveva essere un cieco nato, poiché aveva l'idea del corpo umano e degli alberi. Gesù gl'impose nuovamente le mani sugli occhi, i quali subito furono completamente rischiarati e videro tutto distintamente; dopo di che lo accomiatò, raccomandandogli di non dire nel villaggio nulla di ciò che era avvenuto.
A Betsaida fu presentato a Gesù un cieco perché lo toccasse e lo risanasse; ma Egli non volle farlo innanzi a tutti e, presolo per mano, lo condusse fuori dal villaggio. Era ancora vivo il ricordo della moltiplicazione dei pani, ed il Redentore non volle che il popolo si entusiasmasse inutilmente, trascurando il bene dell'anima. Egli anzi non volle operare il miracolo in un momento, ma lo fece gradatamente, quasi fosse stata una guarigione naturale; non volle che un fatto impressionante avesse eccitato nella folla l'entusiasmo per il regno politico e terreno che credeva dovesse attendersi da Lui.
Il popolo aveva supplicato Gesù di toccare il cieco, ed Egli lo prese per mano, degnandosi di farsene Egli stesso la guida. Come dovette essere soave per il cieco dare la mano a Gesù, ed essere da Lui accompagnato fuori del frastuono del villaggio! Questa mano, bellissima e morbida, spirava carità, santità e purezza, e gli trasfondeva una grande dolcezza nel cuore, accendendogli maggiormente la fede, la speranza e l'amore. Gesù lo accompagnò fuori del villaggio per dargli tempo di raccogliersi, e tenendolo per mano gli fece sentire una grande attrazione ai beni eterni. In tal modo gli dava prima la vista dell'anima. Poi gli pose della saliva sugli occhi e gl'impose le mani, domandandogli se vedesse qualche cosa. Lo sputo non poteva essere una causa naturale della guarigione, ma Gesù si servì di quel mezzo per mostrare innanzi al popolo che applicava un rimedio e nascondere così la sua operazione divina. Probabilmente la saliva non fu messa sugli occhi ma dentro, mentre il cieco aveva dilatato le palpebre che poi si rinchiusero, e quella saliva benedetta cominciò a rischiarare gli occhi dell'infelice; per questo è detto nel Testo che il cieco, interrogato se vedesse qualche cosa, alzò gli occhi, aprì con un certo sforzo le palpebre e sollevò gli occhi che si erano istintivamente abbassati dopo aver ricevuto lo sputo. Girò intorno lo sguardo, lo fisso lontano verso la strada e disse che vedeva gli uomini come alberi che camminavano. Egli distingueva solo una massa eretta come un fusto, e questo gli richiamò in mente l'immagine degli alberi; evidentemente non doveva essere un cieco nato, poiché aveva l'idea del corpo umano e degli alberi. Gesù gl'impose nuovamente le mani sugli occhi, i quali subito furono completamente rischiarati e videro tutto distintamente; dopo di che lo accomiatò, raccomandandogli di non dire nel villaggio nulla di ciò che era avvenuto.
domenica 6 settembre 2015
06.09.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 7 par. 4
4. La fede della Cananea
Gesù volle fare una visita alle contrade pagane di Tiro e di Sidone, chiamate anche sirofenicia, perché unite alla provincia romana di Siria. Gli Ebrei chiamavano Cananei gli abitanti di questa regione, e per questo la donna che supplicò il Redentore è chiamata Cananea da san Matteo.
Gesù Cristo passò in territorio pagano per far diminuire l'avversione che avevano contro di Lui gli scribi e i farisei, e nello stesso tempo per chiamare anche i pagani alla fede. Non voleva fare un apostolato in quelle regioni, ma desiderava quasi prenderne possesso tacitamente, e perciò non voleva che si sapesse della sua presenza in quei luoghi. Ma non poté rimanervi nascosto, perché ben presto si sparse la notizia del suo arrivo.
Dal contesto si può rilevare che gli apostoli non fossero stati molto contenti d'andare in terra pagana; essi che prima avevano interrogato Gesù sulle sue affermazioni riguardo al mangiare ed al bere, perché erano sembrate loro contrastanti con gli usi legali, non dovettero guardare di buon occhio quell'escursione in terra pagana e presso i pagani, riguardati dagli Ebrei come cani. Questo loro nascosto sentimento traspare dalla stessa durezza delle risposte che il Redentore diede ad una povera donna che lo supplicava di scacciare il demonio da una sua figlia.
La poveretta, saputo della venuta di Gesù, andò appresso a Lui nel luogo dove Egli si trovava, e lo supplicò di aver pietà della figlia. Ma Gesù, rispecchiando nelle sue parole l'occulto sentimento degli apostoli verso i pagani, e perché essi avessero potuto vederne la durezza e rammaricarsene, disse che non era bene prendere il pane dei figli e darlo ai cani.
Assolutamente questa espressione non poteva stare sulle labbra dell'infinita bontà, e Gesù la disse ripetendo con parole sue quello che gli apostoli pensavano internamente, e le disse, come si rileva da san Matteo, per le insistenze che gli fecero gli stessi apostoli. Essi che trovavano mal fatto andare ai pagani, avrebbero voluto poi che Gesù avesse accontentato quella donna per non farla più gridare.
La donna capì bene il senso delle parole del Signore, e lungi dall'adontarsene, sentì tanto forte la bontà di Lui che rispose con maggiore umiltà e fiducia: Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli. Si umiliò e disse una parola di grande fiducia, e per questa parola ottenne la grazia, e il demonio fuggì dalla figlia*; lo disse esplicitamente Gesù: Per quanto hai detto va il demonio è uscito dalla tua figlia. L'umiltà è come una saetta per satana, lo ferisce in pieno, ed è un elemento a lui così contrario che ne rifugge come il pesce rifugge dall'aria libera.
Le grandi invasioni diaboliche avvengono quando l'orgoglio apre loro la via, e le grandi sconfitte che egli subisce avvengono per la santa umiltà che lo confonde. Se intendessimo questa grande verità e sapessimo umiliarci innanzi a Dio, saremmo invulnerabili da parte di satana.
È detto nel Sacro Testo che Gesù, entrato in una casa del territorio di Tiro e di Sidone, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté stare nascosto.Se Egli non voleva che nessuno lo avesse saputo, avrebbe potuto rendersi invisibile oppure impedire che la gente si accorgesse di Lui; è evidente che Egli non voleva che il popolo fosse andato da Lui per curiosità, e si manifestò alla fede che lo ricercava. Egli vive nella nostra terra nascosto dai veli eucaristici, e nessuno può scorgerlo in quella benedetta dimora; solo la fede lo scopre, e corre a Lui per averne la vita.
Gesù guarisce il sordomuto
Partito di nuovo dai confini di Tiro, Gesù ritornò in Palestina per la via più lunga, traversando il territorio della Decapoli. In questo territorio gli presentarono un uomo sordo e muto, pregandolo di guarirlo. Il Redentore lo trasse in disparte dalla folla perché fosse stato più attento a quello che voleva fargli per eccitargli in cuore la fede.
Il sordomuto, infatti, per la sua stessa infelicità, ha uno sguardo mobilissimo, e scruta quello che lo circonda e quelli che gli vogliono far intendere il loro pensiero. Ha sempre il timore di poter essere ingannato o deriso. Trattolo in disparte, Gesù gli mise le dita nelle orecchie, per fargli sperare la guarigione e per prepararla col suo contatto divino; poi, per la stessa ragione, gli toccò la lingua con la saliva, alzò gli occhi al cielo, e sospirò pregando e dicendo: Effatà, che in lingua aramaica significa: Apriti. Immantinente il sordomuto ascoltò e parlò, tra l'ammirazione degli astanti, invano esortati da Gesù a tacere del fatto.
Gesù Cristo sospirando ed elevando gli occhi al cielo, volle farci intendere a che cosa debbono servirci la lingua e l'udito. Egli sospirò, come dicono i Padri, per l'abuso che se ne fa, e volle dirci che l'udito deve servire ad ascoltare le parole di Dio e la lingua deve servirci a lodarlo e benedirlo in ogni momento della vita.
All'occhio del mondo quel povero infermo sembrava un infelice; ma se egli avesse volto lo sguardo al cielo, avrebbe ascoltato parole arcane di vita, ed avrebbe conversato unicamente col Signore. È questo l'atteggiamento che debbono avere tutti quelli che sono privati dell'uso di qualche senso: il cieco vede in Dio una luce che non può paragonarsi a nessun sole; il sordo ascolta la sua parola; il muto conversa con lui senza distrarsi con le creature terrene. L'infelicità in fondo diventa felicità, perché non siamo per questa terra ma per Dio.
La Chiesa nel santo Battesimo rinnova il gesto di Gesù: tocca gli orecchi del battezzando e l'unge con la saliva, perché quella creatura si apra a Dio, e passi la vita ascoltandolo, lodandolo, e diventando buon odore del Redentore. Come possiamo noi, toccati da Gesù per il sacerdote, aprire gli orecchi a tutte le parole stolte della vanità e della pretesa sapienza umana? Come possiamo aprire la bocca, consacrata alla lode di Dio, per fare discorsi vuoti, o peggio per profanare il Nome del Signore? Gesù Cristo sanò un muto che non parlava, ma non impedì, a quelli che lodavano Dio per le opere che Egli compiva, di parlarne. Lo proibì loro, è vero, per non suscitare nel popolo false aspirazioni ad una regalità tutta temporale, ma non chiuse le bocche che ne parlavano, perché esse lodavano Dio nelle sue opere.
Diciamo anche noi a queste nostre orecchie che non percepiscono la voce di Dio: apritevi! Siamo sordi spiritualmente, e benché circondati da mille voci di verità e di amore, rimaniamo ottenebrati e freddi. In quanti modi ci parla Dio nell'interno del cuore, e noi seguiamo sempre le voci delle passioni, credendole voci di verità e di felicità! In quanti modi Dio ci richiama al suo Cuore, e noi non distinguiamo quelle voci, rimanendo assonnati e muti nelle nostre miserie! Andiamo a Gesù Sacramentato: Egli ci tocchi col suo Corpo eucaristico, Egli ci dia l'unzione che viene dalla fede, Egli sciolga la nostra lingua alla lode di Dio!
Sac. Dolindo Ruotolo
Gesù volle fare una visita alle contrade pagane di Tiro e di Sidone, chiamate anche sirofenicia, perché unite alla provincia romana di Siria. Gli Ebrei chiamavano Cananei gli abitanti di questa regione, e per questo la donna che supplicò il Redentore è chiamata Cananea da san Matteo.
Gesù Cristo passò in territorio pagano per far diminuire l'avversione che avevano contro di Lui gli scribi e i farisei, e nello stesso tempo per chiamare anche i pagani alla fede. Non voleva fare un apostolato in quelle regioni, ma desiderava quasi prenderne possesso tacitamente, e perciò non voleva che si sapesse della sua presenza in quei luoghi. Ma non poté rimanervi nascosto, perché ben presto si sparse la notizia del suo arrivo.
Dal contesto si può rilevare che gli apostoli non fossero stati molto contenti d'andare in terra pagana; essi che prima avevano interrogato Gesù sulle sue affermazioni riguardo al mangiare ed al bere, perché erano sembrate loro contrastanti con gli usi legali, non dovettero guardare di buon occhio quell'escursione in terra pagana e presso i pagani, riguardati dagli Ebrei come cani. Questo loro nascosto sentimento traspare dalla stessa durezza delle risposte che il Redentore diede ad una povera donna che lo supplicava di scacciare il demonio da una sua figlia.
La poveretta, saputo della venuta di Gesù, andò appresso a Lui nel luogo dove Egli si trovava, e lo supplicò di aver pietà della figlia. Ma Gesù, rispecchiando nelle sue parole l'occulto sentimento degli apostoli verso i pagani, e perché essi avessero potuto vederne la durezza e rammaricarsene, disse che non era bene prendere il pane dei figli e darlo ai cani.
Assolutamente questa espressione non poteva stare sulle labbra dell'infinita bontà, e Gesù la disse ripetendo con parole sue quello che gli apostoli pensavano internamente, e le disse, come si rileva da san Matteo, per le insistenze che gli fecero gli stessi apostoli. Essi che trovavano mal fatto andare ai pagani, avrebbero voluto poi che Gesù avesse accontentato quella donna per non farla più gridare.
La donna capì bene il senso delle parole del Signore, e lungi dall'adontarsene, sentì tanto forte la bontà di Lui che rispose con maggiore umiltà e fiducia: Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figli. Si umiliò e disse una parola di grande fiducia, e per questa parola ottenne la grazia, e il demonio fuggì dalla figlia*; lo disse esplicitamente Gesù: Per quanto hai detto va il demonio è uscito dalla tua figlia. L'umiltà è come una saetta per satana, lo ferisce in pieno, ed è un elemento a lui così contrario che ne rifugge come il pesce rifugge dall'aria libera.
Le grandi invasioni diaboliche avvengono quando l'orgoglio apre loro la via, e le grandi sconfitte che egli subisce avvengono per la santa umiltà che lo confonde. Se intendessimo questa grande verità e sapessimo umiliarci innanzi a Dio, saremmo invulnerabili da parte di satana.
È detto nel Sacro Testo che Gesù, entrato in una casa del territorio di Tiro e di Sidone, non voleva che alcuno lo sapesse, ma non poté stare nascosto.Se Egli non voleva che nessuno lo avesse saputo, avrebbe potuto rendersi invisibile oppure impedire che la gente si accorgesse di Lui; è evidente che Egli non voleva che il popolo fosse andato da Lui per curiosità, e si manifestò alla fede che lo ricercava. Egli vive nella nostra terra nascosto dai veli eucaristici, e nessuno può scorgerlo in quella benedetta dimora; solo la fede lo scopre, e corre a Lui per averne la vita.
Gesù guarisce il sordomuto
Partito di nuovo dai confini di Tiro, Gesù ritornò in Palestina per la via più lunga, traversando il territorio della Decapoli. In questo territorio gli presentarono un uomo sordo e muto, pregandolo di guarirlo. Il Redentore lo trasse in disparte dalla folla perché fosse stato più attento a quello che voleva fargli per eccitargli in cuore la fede.
Il sordomuto, infatti, per la sua stessa infelicità, ha uno sguardo mobilissimo, e scruta quello che lo circonda e quelli che gli vogliono far intendere il loro pensiero. Ha sempre il timore di poter essere ingannato o deriso. Trattolo in disparte, Gesù gli mise le dita nelle orecchie, per fargli sperare la guarigione e per prepararla col suo contatto divino; poi, per la stessa ragione, gli toccò la lingua con la saliva, alzò gli occhi al cielo, e sospirò pregando e dicendo: Effatà, che in lingua aramaica significa: Apriti. Immantinente il sordomuto ascoltò e parlò, tra l'ammirazione degli astanti, invano esortati da Gesù a tacere del fatto.
Gesù Cristo sospirando ed elevando gli occhi al cielo, volle farci intendere a che cosa debbono servirci la lingua e l'udito. Egli sospirò, come dicono i Padri, per l'abuso che se ne fa, e volle dirci che l'udito deve servire ad ascoltare le parole di Dio e la lingua deve servirci a lodarlo e benedirlo in ogni momento della vita.
All'occhio del mondo quel povero infermo sembrava un infelice; ma se egli avesse volto lo sguardo al cielo, avrebbe ascoltato parole arcane di vita, ed avrebbe conversato unicamente col Signore. È questo l'atteggiamento che debbono avere tutti quelli che sono privati dell'uso di qualche senso: il cieco vede in Dio una luce che non può paragonarsi a nessun sole; il sordo ascolta la sua parola; il muto conversa con lui senza distrarsi con le creature terrene. L'infelicità in fondo diventa felicità, perché non siamo per questa terra ma per Dio.
La Chiesa nel santo Battesimo rinnova il gesto di Gesù: tocca gli orecchi del battezzando e l'unge con la saliva, perché quella creatura si apra a Dio, e passi la vita ascoltandolo, lodandolo, e diventando buon odore del Redentore. Come possiamo noi, toccati da Gesù per il sacerdote, aprire gli orecchi a tutte le parole stolte della vanità e della pretesa sapienza umana? Come possiamo aprire la bocca, consacrata alla lode di Dio, per fare discorsi vuoti, o peggio per profanare il Nome del Signore? Gesù Cristo sanò un muto che non parlava, ma non impedì, a quelli che lodavano Dio per le opere che Egli compiva, di parlarne. Lo proibì loro, è vero, per non suscitare nel popolo false aspirazioni ad una regalità tutta temporale, ma non chiuse le bocche che ne parlavano, perché esse lodavano Dio nelle sue opere.
Diciamo anche noi a queste nostre orecchie che non percepiscono la voce di Dio: apritevi! Siamo sordi spiritualmente, e benché circondati da mille voci di verità e di amore, rimaniamo ottenebrati e freddi. In quanti modi ci parla Dio nell'interno del cuore, e noi seguiamo sempre le voci delle passioni, credendole voci di verità e di felicità! In quanti modi Dio ci richiama al suo Cuore, e noi non distinguiamo quelle voci, rimanendo assonnati e muti nelle nostre miserie! Andiamo a Gesù Sacramentato: Egli ci tocchi col suo Corpo eucaristico, Egli ci dia l'unzione che viene dalla fede, Egli sciolga la nostra lingua alla lode di Dio!
Sac. Dolindo Ruotolo
sabato 29 agosto 2015
30.08.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 7 par. 2-3
2. La pietà falsa e la vera devozione
Alcuni scribi e farisei, venuti da Gerusalemme per spiare ciò che operava Gesù, notarono con grande loro scandalo che alcuni dei suoi discepoli non si lavavano le mani prima di mangiare. L'evangelista, scrivendo per i popoli pagani, spiega minutamente la ragione di questo scandalo, e nota che gli scribi e farisei avevano l'uso di lavarsi spesso, e di lavare anche gli oggetti di maggiore uso, perché credevano così di tenersi puri. Quando tornavano poi dal mercato, facevano addirittura un bagno, non sapendo discernere i contatti legalmente immondi che avevano potuto avere nel trattare con tanta gente.
Se fosse stato un desiderio di semplice pulizia, benché allora non si conoscessero ancora i microbi e le infezioni che possono portare, non sarebbe stato un male; ma essi attribuivano a quelle lavande il potere di purificarsi spiritualmente, e credevano di aver fatto tutto innanzi a Dio con quelle abluzioni.
Facevano man bassa della legge autentica di Dio, e si mostravano scrupolosissimi nelle tradizioni e negli usi introdotti dagli uomini.
In questo stava la loro ipocrisia quando si scandalizzarono dei discepoli di Gesù, ed in questo soprattutto il pericolo della loro anima, lontana dalla vera salvezza; per questo Gesù Cristo li trattò severamente. In realtà sembra un po' penoso che Colui che era tutto bontà e misericordia sia stato aspro con gli scribi e farisei, ma Egli non poteva scuoterli diversamente, e la sua stessa misericordia esigeva la severità. È un argomento che bisogna un poco approfondire per l'onore stesso del Re divino.
Alcuni scribi e farisei, venuti da Gerusalemme per spiare ciò che operava Gesù, notarono con grande loro scandalo che alcuni dei suoi discepoli non si lavavano le mani prima di mangiare. L'evangelista, scrivendo per i popoli pagani, spiega minutamente la ragione di questo scandalo, e nota che gli scribi e farisei avevano l'uso di lavarsi spesso, e di lavare anche gli oggetti di maggiore uso, perché credevano così di tenersi puri. Quando tornavano poi dal mercato, facevano addirittura un bagno, non sapendo discernere i contatti legalmente immondi che avevano potuto avere nel trattare con tanta gente.
Se fosse stato un desiderio di semplice pulizia, benché allora non si conoscessero ancora i microbi e le infezioni che possono portare, non sarebbe stato un male; ma essi attribuivano a quelle lavande il potere di purificarsi spiritualmente, e credevano di aver fatto tutto innanzi a Dio con quelle abluzioni.
Facevano man bassa della legge autentica di Dio, e si mostravano scrupolosissimi nelle tradizioni e negli usi introdotti dagli uomini.
In questo stava la loro ipocrisia quando si scandalizzarono dei discepoli di Gesù, ed in questo soprattutto il pericolo della loro anima, lontana dalla vera salvezza; per questo Gesù Cristo li trattò severamente. In realtà sembra un po' penoso che Colui che era tutto bontà e misericordia sia stato aspro con gli scribi e farisei, ma Egli non poteva scuoterli diversamente, e la sua stessa misericordia esigeva la severità. È un argomento che bisogna un poco approfondire per l'onore stesso del Re divino.
domenica 23 agosto 2015
23.08.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 6 par. 6
6. Questo discorso è duro, dicono i discepoli
Molti dei discepoli di Gesù Cristo ascoltando il suo discorso dissero fra loro stessi: Questo discorso è duro o, secondo il testo greco, è aspro, è crudele, e chi può ascoltarlo? Avrebbero dovuto dire semplicemente che era assurdo, avendolo preso in senso materiale di un corpo fatto in pezzi e dato a mangiare, e di un sangue bevuto nell'uccidere il corpo, ma era tanto l'accento di verità delle parole di Gesù, che non poterono dirlo.
Essi inconsciamente sentivano che era vero, e non intendendone il senso lo dichiaravano duro, aspro, crudele. Gesù Cristo, conoscendo i loro pensieri e le loro mormorazioni, disse: Voi vi scandalizzate di quello che vi ho detto? E se vedrete salire il Figlio dell'uomo dov'era prima? Lo spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla; le parole che io vi dico sono spirito e vita. Egli rispondeva alla loro interpretazione antropofaga delle sue parole, e faceva notare che il suo corpo non aveva bisogno di essere diviso per darsi. Essi lo avrebbero visto salire dove era prima, cioè al cielo, ed avrebbero osservato ancora una volta che quel corpo poteva sottrarsi alle leggi della materia ascendendo, mentre il suo peso l'avrebbe portato in basso.
Egli parlava del suo Corpo e del suo Sangue non come materia stretta dalle dimensioni, non come carne determinata dalla quantità, divisa in pezzi, ma come sostanza vivificata dall'anima e terminata dalla Persona divina.
Molti dei discepoli di Gesù Cristo ascoltando il suo discorso dissero fra loro stessi: Questo discorso è duro o, secondo il testo greco, è aspro, è crudele, e chi può ascoltarlo? Avrebbero dovuto dire semplicemente che era assurdo, avendolo preso in senso materiale di un corpo fatto in pezzi e dato a mangiare, e di un sangue bevuto nell'uccidere il corpo, ma era tanto l'accento di verità delle parole di Gesù, che non poterono dirlo.
Essi inconsciamente sentivano che era vero, e non intendendone il senso lo dichiaravano duro, aspro, crudele. Gesù Cristo, conoscendo i loro pensieri e le loro mormorazioni, disse: Voi vi scandalizzate di quello che vi ho detto? E se vedrete salire il Figlio dell'uomo dov'era prima? Lo spirito è quello che vivifica, la carne non giova a nulla; le parole che io vi dico sono spirito e vita. Egli rispondeva alla loro interpretazione antropofaga delle sue parole, e faceva notare che il suo corpo non aveva bisogno di essere diviso per darsi. Essi lo avrebbero visto salire dove era prima, cioè al cielo, ed avrebbero osservato ancora una volta che quel corpo poteva sottrarsi alle leggi della materia ascendendo, mentre il suo peso l'avrebbe portato in basso.
Egli parlava del suo Corpo e del suo Sangue non come materia stretta dalle dimensioni, non come carne determinata dalla quantità, divisa in pezzi, ma come sostanza vivificata dall'anima e terminata dalla Persona divina.
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