20. Gesù e l'omicidio...
Gesù comincia a dare qualche esempio della giustizia che doveva essere santità interiore, a differenza della giustizia esteriore degli scribi e dei farisei e si richiama alla legge contro l'omicidio. Gli scribi e i farisei, gonfi del loro orgoglio, avevano in disprezzo gli altri: erano mormoratori, calunniatori, litigiosi, tenaci nell'odio e nell'invidia; credevano di essere irreprensibili sol perché si astenevano dal commettere omicidio. Andavano nel tempio in atteggiamenti d'ipocrita pietà e si gloriavano di portarvi l'offerta, senza pensare che a volte quella stessa oblazione era frutto di sopraffazioni e d'ingiustizie, senza pensare che con l'offerta portavano le maledizioni e le lacrime di quelli che essi avevano angariati.
Gesù leva la sua voce divina contro questa falsa santità che prescindeva completamente dalla carità e dalla giustizia, ed esclama che, se fino allora l'omicida era stimato degno d'essere condannato nel giudizio, ossia nel tribunale di ventitré giudici che risiedeva in ogni città per le piccole cause, d'ora innanzi chi si adirerà contro il suo fratello desiderandogli del male, sarà degno di essere condannato in giudizio, cioè commetterà una colpa reale, capace di pena, della quale Dio terrà conto nel suo giudizio. Chi poi nell'esplosione dell'ira aggiunge il disprezzo, dicendo al suo fratello raca, ossia testa vuota, imbecille, sarà reo di una colpa maggiore, simile a quelle che si giudicavano nel sinedrio.
Il sinedrio era un tribunale di settanta membri che giudicava le colpe d'idolatria, il delitto del sommo sacerdote, ecc., e comminava le pene più infamanti. Chiamare imbecille nell'ira il proprio fratello e disprezzarlo è dunque una colpa che offende Dio e copre l'anima d'infamia dinanzi al Signore che è carità. Chi infine chiamerà il suo fratello stolto, cioè secondo il significato ebraico, lo chiamerà scellerato, empio, maledetto da Dio, maledicendolo con ira e desiderandogli la maledizione di Dio, sarà condannato al fuoco della Geenna, cioè sarà colpevole di peccato mortale, passibile dell'inferno.
Non c'è dunque da confondersi per le parole di Gesù Cristo, né c'è da pensare che Egli parli per modo di dire; nella sua divina sapienza distingue le mancanze di carità, che sono frutto di ira e che possono indurre all'ira più grave, in mancanze veniali, più gravi e mortali. Quando si sente la responsabilità della carità, e si evita di ingiuriare il prossimo, non c'è pericolo che si possa trascendere in atti di violenza, e tanto meno nell'omicidio.
Gli scribi e farisei si contentavano di riprovare l'omicidio, cioè l'estremo atto esterno di violenza, Gesù Cristo invece condanna l'ira, la mancanza di carità e l'ingiuria, e vuole che più che preoccuparsi dell'omicidio, bisogna pensare a comparire innanzi a Dio col cuore pieno di carità e in armonia con tutti, bisogna sfuggire le liti ed accordarsi coi propri avversari, per evitare di avere dal giudice una condanna che serve poi a fomentare l'odio e le dissensioni; bisogna non solo stare in pace con tutti, ma togliere dal cuore altrui, per quanto è a noi possibile, le ragioni del dissidio e dell'avversità. Gesù Cristo infatti non c'impone solo di riconciliarci con colui che avversiamo, ma di riconciliarci con chi ci avversa, con chi ha qualche cosa contro di noi perché ha ricevuto da noi qualche torto o qualche ingiustizia. E logico che si debba lasciare il dono innanzi all'altare, e che prima di offrirlo si debba trovare la riconciliazione col fratello al quale abbiamo fatto del male; è logico, per noi cristiani, che non possiamo comunicarci se abbiamo coscienza di aver danneggiato o amareggiato ingiustamente un nostro fratello.
È chiaro che il precetto di Gesù Cristo non può riguardare quelli che ingiustamente ci avversano, e che stanno in astio contro di noi per la loro malignità.
In questi casi non siamo noi i colpevoli della mancanza di carità, e basterà cercare la riconciliazione se è possibile, o almeno pregare per chi ci avversa, come si vedrà in seguito. Sta poi nello spirito del precetto del Signore l'evitare ogni causa di dissidio, e il conservare sempre intatta la carità, anche a costo di un nostro sacrificio. Le liti non riescono mai di utilità, e l'ostinarsi nel dissidio può dare origine a spiacevoli conseguenze, passando così noi dalla ragione al torto. Al cuore ringhioso degli scribi e dei farisei, carichi di odio, Egli vuole sostituire il cuore placido e sereno del cristiano, pieno di rispetto per gli altri, di compatimento e di misericordia, e diciamo pure saggio e serio nella vita che guarda le cose da adulto e non da fanciullo, che sa passare sopra alle stoltezze e conservare il bene della pace.
Gesù comincia a dare qualche esempio della giustizia che doveva essere santità interiore, a differenza della giustizia esteriore degli scribi e dei farisei e si richiama alla legge contro l'omicidio. Gli scribi e i farisei, gonfi del loro orgoglio, avevano in disprezzo gli altri: erano mormoratori, calunniatori, litigiosi, tenaci nell'odio e nell'invidia; credevano di essere irreprensibili sol perché si astenevano dal commettere omicidio. Andavano nel tempio in atteggiamenti d'ipocrita pietà e si gloriavano di portarvi l'offerta, senza pensare che a volte quella stessa oblazione era frutto di sopraffazioni e d'ingiustizie, senza pensare che con l'offerta portavano le maledizioni e le lacrime di quelli che essi avevano angariati.
Gesù leva la sua voce divina contro questa falsa santità che prescindeva completamente dalla carità e dalla giustizia, ed esclama che, se fino allora l'omicida era stimato degno d'essere condannato nel giudizio, ossia nel tribunale di ventitré giudici che risiedeva in ogni città per le piccole cause, d'ora innanzi chi si adirerà contro il suo fratello desiderandogli del male, sarà degno di essere condannato in giudizio, cioè commetterà una colpa reale, capace di pena, della quale Dio terrà conto nel suo giudizio. Chi poi nell'esplosione dell'ira aggiunge il disprezzo, dicendo al suo fratello raca, ossia testa vuota, imbecille, sarà reo di una colpa maggiore, simile a quelle che si giudicavano nel sinedrio.
Il sinedrio era un tribunale di settanta membri che giudicava le colpe d'idolatria, il delitto del sommo sacerdote, ecc., e comminava le pene più infamanti. Chiamare imbecille nell'ira il proprio fratello e disprezzarlo è dunque una colpa che offende Dio e copre l'anima d'infamia dinanzi al Signore che è carità. Chi infine chiamerà il suo fratello stolto, cioè secondo il significato ebraico, lo chiamerà scellerato, empio, maledetto da Dio, maledicendolo con ira e desiderandogli la maledizione di Dio, sarà condannato al fuoco della Geenna, cioè sarà colpevole di peccato mortale, passibile dell'inferno.
Non c'è dunque da confondersi per le parole di Gesù Cristo, né c'è da pensare che Egli parli per modo di dire; nella sua divina sapienza distingue le mancanze di carità, che sono frutto di ira e che possono indurre all'ira più grave, in mancanze veniali, più gravi e mortali. Quando si sente la responsabilità della carità, e si evita di ingiuriare il prossimo, non c'è pericolo che si possa trascendere in atti di violenza, e tanto meno nell'omicidio.
Gli scribi e farisei si contentavano di riprovare l'omicidio, cioè l'estremo atto esterno di violenza, Gesù Cristo invece condanna l'ira, la mancanza di carità e l'ingiuria, e vuole che più che preoccuparsi dell'omicidio, bisogna pensare a comparire innanzi a Dio col cuore pieno di carità e in armonia con tutti, bisogna sfuggire le liti ed accordarsi coi propri avversari, per evitare di avere dal giudice una condanna che serve poi a fomentare l'odio e le dissensioni; bisogna non solo stare in pace con tutti, ma togliere dal cuore altrui, per quanto è a noi possibile, le ragioni del dissidio e dell'avversità. Gesù Cristo infatti non c'impone solo di riconciliarci con colui che avversiamo, ma di riconciliarci con chi ci avversa, con chi ha qualche cosa contro di noi perché ha ricevuto da noi qualche torto o qualche ingiustizia. E logico che si debba lasciare il dono innanzi all'altare, e che prima di offrirlo si debba trovare la riconciliazione col fratello al quale abbiamo fatto del male; è logico, per noi cristiani, che non possiamo comunicarci se abbiamo coscienza di aver danneggiato o amareggiato ingiustamente un nostro fratello.
È chiaro che il precetto di Gesù Cristo non può riguardare quelli che ingiustamente ci avversano, e che stanno in astio contro di noi per la loro malignità.
In questi casi non siamo noi i colpevoli della mancanza di carità, e basterà cercare la riconciliazione se è possibile, o almeno pregare per chi ci avversa, come si vedrà in seguito. Sta poi nello spirito del precetto del Signore l'evitare ogni causa di dissidio, e il conservare sempre intatta la carità, anche a costo di un nostro sacrificio. Le liti non riescono mai di utilità, e l'ostinarsi nel dissidio può dare origine a spiacevoli conseguenze, passando così noi dalla ragione al torto. Al cuore ringhioso degli scribi e dei farisei, carichi di odio, Egli vuole sostituire il cuore placido e sereno del cristiano, pieno di rispetto per gli altri, di compatimento e di misericordia, e diciamo pure saggio e serio nella vita che guarda le cose da adulto e non da fanciullo, che sa passare sopra alle stoltezze e conservare il bene della pace.
Sac. Dolindo Ruotolo
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