2. I frutti salutari del castigo che Dio minaccia ed annunzia al popolo suo. - Splendida profezia della venuta del Redentore e della Resurrezione sua. - Durezza d’Israele e di Giuda.
Nel capitolo precedente il Signore aveva detto che avrebbe dilaniato Israele come una leonessa dilania la sua preda, e Giuda come un giovane leone che la prende tra le potenti zampe e non la lascia. Erano espressioni di un immenso amore sotto un simbolo truce, perché Egli soggiunse subito che li avrebbe ridotti all’estremo perché avessero cercato Lui solo.
Ora continua a mostrare che l’amore lo faceva parlare duramente, annunziando quello che la tribolazione profetizzata produrrà nel suo popolo.
Se Egli avesse voluto irrompere contro di lui per ira e per vendetta, lo avrebbe distrutto e subissato, e il popolo non sarebbe stato capace di risorgere e di ritornare al suo infinito amore. Esso, invece, colpito dalla sventura e da essa dilaniato, sorge fin dal mattino per venire a Lui, e, secondo l’espressione greca, sorge come svegliandosi da uno stato di pazzia, poiché il peccato è veramente una pazzia, ed è così preso dal desiderio di ritornare al suo Dio, che si esortano gli uni gli altri a non frapporre indugi, riconoscendo nella sventura un castigo divino più che un succedersi di eventi fatali, e rianimando la loro speranza nella rinascita nazionale: Venite e torniamo al Signore, poiché Egli stesso ci ha dilaniati e ci salverà, ci ha percossi e ci guarirà.
Il primo grado, infatti, della resipiscenza di un popolo traviato e percosso dal flagello, è proprio quello di riconoscere la mano di Dio che lo percuote, sperando nella sua misericordia.
È ben triste lo stato di una nazione che vede nei flagelli che la colpiscono uno svolgimento naturale o fatale di eventi, o, peggio, che vede grandezze e vie di trionfo nelle guerre che la percuotono perché risorga dalla sua vita di apostasia e di peccato. Col pretesto di tenere alto il morale del popolo, essa dissimula la chiamata di Dio, impedisce la penitenza e la conversione delle anime, diventa tracotante nei suoi peccati e si attira un castigo più grande.
Il riconoscere le proprie colpe, l’espiarle e il pregare non scoraggia, ma eleva l’anima a Dio nella speranza della sua misericordia, e nel pericolo moltiplica le forze della nazione con la fiducia nell’aiuto della forza divina, e con la reale effusione di quell’aiuto straordinario. Il dissimulare il flagello con fatui incoraggiamenti di parole può dare per poco l’illusione della vittoria e del benessere, ma questa illusione, poi, naufraga miseramente nella realtà di una maggiore rovina, dovuta proprio all’ostinazione nel male.
Israele, riconosciuta la mano di Dio nel flagello che lo colpirà, e orientata a Lui l’anima sua nella speranza della resurrezione, si trova trasportato nella luce non di una salvezza temporale o di una resurrezione materiale, ma contempla il rinnovellamento della sua alleanza con Dio, e la resurrezione della sua vita nazionale teocratica quale l’ha voluta il Signore; contempla, per quel fenomeno che si chiama prospettiva profetica, sullo stesso piano e nella stessa luce il risorgere alla vita dell’alleanza con Dio, il risorgere nel nuovo patto che Dio stabilirà per il Messia, e la resurrezione del Redentore medesimo, causa e luce di ogni resurrezione umana, ed esclama, o, meglio, il Profeta stesso gli fa esclamare annunziando questa triplice resurrezione: Ci renderà la vita dopo due giorni, e al terzo giorno ci risusciterà e vivremo innanzi a Lui. Conosceremo e proseguiremo a conoscere il Signore.
Sono parole misteriose e sublimi.
Nella stipulazione del primo patto Dio disse a Mosè di preparare il popolo per due giorni, per vivificarlo con la grazia, e di farlo essere pronto per il terzo giorno, nel quale avrebbe stretto alleanza con lui, donandogli così una nuova vita. (Esod. 19, 10).
Nella rinnovazione di questo patto, infranto dalla prevaricazione d’Israele, il castigo e la durata della schiavitù in Babilonia sarebbero stati come i due giorni di preparazione al beneficio divino. Ancora, volgendo lo sguardo più lontano, la grande rinnovazione del patto di Dio con l’umanità nella Redenzione sarebbe stata come preparata dai due giorni nei quali il Redentore sarebbe rimasto morto nel sepolcro, e sarebbe stata compiuta nel terzo giorno, all’alba del quale Egli risuscitò. In Lui, infatti, è ogni resurrezione ed ogni vita, come dice S. Paolo (Efes. 2, 5) non solo per i redenti, ma anche per quelli che prima della Redenzione si salvavano per la fede in Lui che doveva venire, patire, morire e risorgere.
Il popolo ebreo non ricevette il Redentore né lo riconobbe nella sua prima venuta, rimanendo come morto per due giorni, cioè per un lungo periodo di tempo o per due millenni, che innanzi a Dio, come è detto nel Salmo 89 vers. 4 e come dice S. Pietro, sono come due giorni. Dopo questo periodo di ostinata prevaricazione il Signore gli userà misericordia, gli ridarà la vita e lo risusciterà come popolo suo, aggregandolo alla Chiesa. Esso allora vivrà innanzi a Lui, lo conoscerà e proseguirà a conoscerlo, perché avrà mirabili ascensioni di amore e di santità, che lo renderanno tutto vivificato dai frutti della Redenzione.
Il Profeta si immerge nella contemplazione del futuro
Immerso, per così dire, in questa magnifica e complessa visione del futuro, il Profeta si ferma sul Redentore che verrà a vivificare e a far risorgere il genere umano, ed esclama: La sua venuta è preparata come l’aurora, ed Egli verrà per noi come la pioggia dell’autunno e della primavera sulla terra.
L’aurora annunzia il sole che viene e quasi lo porta nel suo grembo, rifulgendo per lui che viene. La pioggia dell’autunno, che in Palestina cade nel Novembre-Dicembre, serve a far germinare le sementi; la pioggia di primavera che cade in Marzo ed Aprile, serve
a nutrire e a maturare le piante, perché portino il fiore ed il frutto.
Sono tre immagini stupende della futura Redenzione: La venuta del Redentore è preparata come l’aurora prepara la venuta del sole e come l’aurora stessa è preceduta dall’alba. Prima le luci profetiche, alba del Re Divino, poi Maria SS., aurora splendida che porta in grembo il Verbo di Dio umanato e lo dona, perché nasce Egli da Lei ed è suo Figliuolo. Egli viene in mezzo al suo popolo come pioggia di autunno, perché viene per far germinare il popolo della nuova alleanza seminato, quasi, da Dio nella terra d’Israele, e viene come pioggia di primavera, perché con la grazia che ci dona per la Redenzione nutre le anime novelle che formano il suo popolo eletto, e le fa maturare nella santità come frutti di Dio.
Il Signore, nel richiamare il suo popolo dalla schiavitù che gli minaccia e gli annunzia in pena dei suoi peccati, sarà come aurora, e ritornerà al suo popolo come aurora perché gli annunzierà con quella misericordia la liberazione più grande e più bella dalla schiavitù del peccato, sarà come pioggia di autunno e di primavera, perché farà sbocciare nella restaurazione le grandi anime che accoglieranno il Redentore, e le farà maturare nella santità.
Israele, quindi, ritornerà a Dio, dopo il castigo, con l’anima quasi avvolta di particolari grazie, con la promessa del dono più grande che sempre più gli si avvicina, con effluvi di misericordie singolari che prepareranno la santa famiglia dalla quale nascerà il Redentore, e il fiore più bello di essa, Maria SS. dalla cui vita immacolata e purissima germinerà.
Dio guarda tutto il futuro che a Lui è presente, guarda la futura ingratitudine del suo popolo ad un beneficio così grande, se ne accora nel suo paterno amore, la vuole scuotere ed eliminare, ed esclama con un grido di accorato dolore: Che cosa farò io per te o Efraim, cioè o Israele, e che cosa farò io per te, o Giuda? Ecco che a tanta prospettiva di grandezza vera voi rimarrete insensibili, ingrati e ribelli, poiché non usufruirete della grazia della restaurazione nazionale che vi farò, e non vi santificherete in modo da essere degni di accogliere il grande dono futuro. La vostra misericordia, o, come suona l’ebraico: la vostra giustizia e santità è come nube mattutina, e come la rugiada che al mattino sparisce. Non avete vera
virtù, ma solo un’apparenza illusoria che svapora come nebbia e rugiada, rimanendo ostinati nelle vostre empietà.
Di fronte a questa ingratitudine Dio giustifica la severità che usa e userà col suo popolo, e dice che per scuoterla Egli lo fece rimproverare duramente dai Profeti, e lo uccise con le parole della sua bocca, spaventandolo con annunzi terribili di distruzione e di morte; soggiunge che i suoi giudizi verranno fuori come la luce, cioè velocemente e luminosi nella loro giustizia, condannando la sua falsa pietà e religione che si contenta di offrire sacrifici ed olocausti, e non si cura di avere la misericordia cioè la giustizia e la santità, trascurando la scienza di Dio, la sua conoscenza, cioè, e il suo amore.
Che cosa ha fatto il popolo fino ad allora? Ha trasgredito il patto giurato a Dio, come Adamo nell’Eden trascurò il comando avuto e peccò; la sua città principale, Galaad, che dovrebbe essere di esempio alle altre città, è diventata un centro d’idolatria, di sacrifici abominevoli, di delitti e di sopraffazioni contro quei devoti Israeliti che passavano per Sichem per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Dio colpirà Israele per queste sue scelleratezze, per la sua idolatria e le sue impurità, e colpirà anche Giuda come campo che viene mietuto, facendolo deportare in paese straniero; Egli però soggiunge subito che la punizione la darà per risanarlo, poiché un giorno riporterà il suo popolo dalla schiavitù, e un giorno più lontano libererà tutti i suoi figli dalla schiavitù del peccato.
3. « La misericordia io amo e non il sacrificio ». - Un’elegante questione che deve dare da pensare ai fanatici del senso letterale.
Certamente queste parole di Dio: La misericordia io amo e non il sacrificio, hanno letteralmente il senso che abbiamo esposto, e cioè che il Signore ama più la pietà, la giustizia e la santità interiore che un sacrificio fatto per pura esteriorità, come pure ama di più la scienza soprannaturale che lo fa conoscere e amare anziché un olocausto offerto senza apprezzamento della sua divina grandezza e senz’amore.
Gesù Cristo citò queste parole di Osea due volte, com’è riportato nell’Evangelo di S. Matteo: quando, dopo la vocazione di S. Matteo, mangiando Egli coi pubblicani, i Farisei mormorarono di quella sua condiscendenza come di uno scandalo (9, 13), e quando gli Scribi e Farisei riprovarono che i suoi discepoli cogliessero e mangiassero le spighe in giorno di sabato (12, 7).
In tutti e due i casi Gesù Cristo richiamò l’attenzione di quelli ai quali parlava: Imparate quello che sia, disse ai Farisei scandalizzati dal banchetto: Io voglio misericordia e non sacrificio; ed a quelli meravigliati per le spighe colte e mangiate di sabato: Se voi sapeste che cosa vuol dire: Amo la misericordia e non il sacrificio, non avreste mai condannato degli innocenti.
Egli non poteva certo parlare della pietà, misericordia e santità né dei pubblicani, perché anzi li dichiarò peccatori, soggiungendo subito che era venuto a chiamare non i giusti ma i peccatori, né poteva parlare della santità dei suoi discepoli, perché usò quell’espressione per dichiararsi padrone anche del sabato, scusando i suoi discepoli con la condiscendenza amorosa del suo Cuore che aveva loro permesso tacitamente di cogliere e mangiare le spighe.
Oseranno i critici moderni dire che Gesù volle fare una semplice accomodazione, mentre una volta disse: Imparate quello che sia, cioè badate bene al senso di queste parole, e l’altra volta disse con maggiore energia: Se voi sapeste che cosa vuol dire: Amo la misericordia e non il sacrificio?
Oseranno, peggio, dire che Gesù non abbia citate quelle parole nel loro senso letterale?
Stando ai loro metodi di fanatismo per il senso letterale, logicamente ne verrebbero queste deduzioni, con quanto rispetto per l’increata Sapienza che spiegò quelle parole, ognuno lo vede.
Ed allora bisogna per necessità riconoscere che Dio nel dire: La misericordia io amo e non il sacrificio, ha voluto ammonire il suo popolo col suo medesimo esempio divino, dando alle sue parole un’ampiezza mirabile che ci fa capire quanto si è meschini quando si vuol considerare a modo umano la lettera che uccide.
Egli con le parole di Osea volle esprimere due predilezioni del suo amore, quella per la nostra santità che lo onora amandolo, e quella della sua misericordia che ci benefica perdonandoci. Egli volle dire letteralmente, con una sola espressione: Io amo la misericordia vostra e non il sacrificio, come io stesso amo di perdonare e di compatire anziché d’essere duro coi peccatori e di essere severo nel giudicare le umane debolezze.
Negare questo doppio senso letterale a queste parole significa tacciare Gesù di avere... errato nell’interpretazione del testo, il che sarebbe da balordi e da empi.
La parola di Dio è mirabilmente feconda, e la nostra piccola mente non può presumere di volerla interpretare solo secondo le povere vedute di una più povera e meschina cultura storica, mille volte fallace.
Innanzi alla parola di Dio non si può prendere mai l’atteggiamento di superuomini, né si può prescindere dalla meditazione, poiché Dio ha voluto parlare a tutte le anime in tutti i tempi, e le sue parole non possono essere ristrette ad un senso storico materialmente preso come si prende quello di qualunque libro umano. Dio, nel parlare agli Ebrei secondo le loro particolari contingenze, esprime i suoi divini pensieri, e questi hanno un’ampiezza e una fecondità che non può essere da noi ristretta alle circostanze particolari della vita degli Ebrei.
I Santi Padri che sapevano conoscere e amare Dio assai meglio di noi, seppero intuire la vastità del senso letterale della Divina Parola, e la seppero applicare alla vita cristiana e mistica, non per semplice accomodazione, ma intuendo quello che Dio aveva voluto dire per nutrirci e per istruirci.
Quando sarà passato lo scientismo moderno, ispirato ai razionalisti che non ragionano, o ai protestanti che per troppe proteste sono falliti, si vedrà che l’esegesi ispirata ai Padri della Chiesa è l’unica vera esegesi che ci mette al ricco desco della Divina Parola e ce ne fa nutrire abbondantemente, cavando da questa terra feconda e da questa ricca miniera ogni sorta di frutti e di pietre preziose.
4. Per la nostra vita spirituale.
Nelle nostre tribolazioni alziamoci fin dal mattino per andare a Dio, e diciamo all’anima nostra: « Vieni ai piedi dell’Altare e torna al tuo Signore ».
Riconosciamo che Egli ci affligge per salvarci e ci percuote per guarirci; cerchiamo, perciò, di rispondere immediatamente al suo invito, e di offrirgli con umiltà tutta l’anima perché Egli la guarisca.
Se ci ribelliamo alla sua Volontà amorosissima, siamo come quegli infermi frenetici, i quali, come dice S. Agostino, insaniscono contro il medico sol perché i rimedi che dà sono dolorosi o disgustosi.
Il Signore colpendoci nella vita presente ci rianima nella vita spirituale, per due giorni, cioè per il brevissimo corso del nostro pellegrinaggio; al terzo giorno poi ci risuscita, aprendoci le porte del Paradiso, la cui gloria eterna rappresenta per noi una vera resurrezione e la vera vita. Per due giorni Dio ci ha vivificati, cioè per l’antico e il nuovo patto, per la sua prima e seconda venuta, come dicono i Padri, venuta che rappresenta sempre una grandiosa effusione di grazia per l’umanità e una preparazione al giorno della gloria.
Conoscere e proseguire a conoscere il Signore, ecco lo scopo della effusione della divina misericordia, ed ecco il fine della nostra vita. Il Signore viene a noi come aurora e come pioggia di autunno e di primavera, perché è luce e fecondità delle anime nostre; luce di aurora, perché luce di fede, ch’è sempre avvolta da oscurità, e pioggia silenziosa che feconda e matura i germi posti in noi dalle sue visite amorose.
Dolorosamente noi siamo ingrati alle effusioni della carità di Dio, e la nostra giustizia è. come nebbia che svanisce; per questo il Signore ha necessità di trattarci duramente, per mezzo dei suoi santi Ministri, e, in mancanza loro, per le anime straordinarie, per le quali ci ammonisce e c’intenerisce.
Egli vuole la misericordia nostra e la scienza di Dio, cioè la santità illuminata dalla fede, più che un movimento passeggero ed illusorio di conversione, poiché Egli ci dà la misericordia perdonandoci, e la scienza sua illuminandoci con la sua parola di vita. Ci vuole santi e pieni della sua luce, e per questo ci perdona, ci rinnova e ci dona la sua parola.
Non dobbiamo essere ingrati a tanto suo amore, né imitare Adamo, che, posto fra le delizie del Paradiso terrestre, si fece vincere da satana e, prevaricando, andò incontro ad una vita colma di angustie.
Noi, testimonianze viventi della gloria di Dio (Galaad), perché sua immagine, non possiamo mutarci in fabbricatori di idoli, adorando noi stessi e le creature, né possiamo essere ladri della divina gloria con le passioni, ed uccisori di anime con gli scandali; non possiamo fornicare nello spirito e nella carne, e contaminarci con tanti orribili peccati; siamo creature di Dio e dobbiamo essere suoi per amarlo e servirlo fedelmente.
Prepariamoci al giorno della messe, quando il Signore viene a raccoglierci per riporci negli eterni granai, e cerchiamo di essere ricchi di opere sante, quasi di biondeggianti granelli, che sono il prezzo, l’unico prezzo che possiamo dare al Signore per conquistare l’eterna felicità.
Dio ci chiama; i suoi flagelli c’incalzano come voci dure di profeti, le sue tribolazioni sono come parole della sua bocca che uccidono in noi il male e ci manifestano i suoi giudizi.
Egli ci chiama così per misericordia, e, disingannandoci nelle nostre illusioni, ci dona la sua sapienza, quella sapienza che ce lo fa conoscere come vero Dio, vera ed eterna Sapienza, infinito ed amabilissimo Amore.
Voci dall’Oriente e voci dall’Occidente, voci dal Settentrione e voci dal Mezzodì, tutta la terra, accesa nella spaventosa guerra, è come voce che ci chiama da parte di Dio; ascoltiamola e rispondiamo al suo invito convertendoci a Lui.
Nel capitolo precedente il Signore aveva detto che avrebbe dilaniato Israele come una leonessa dilania la sua preda, e Giuda come un giovane leone che la prende tra le potenti zampe e non la lascia. Erano espressioni di un immenso amore sotto un simbolo truce, perché Egli soggiunse subito che li avrebbe ridotti all’estremo perché avessero cercato Lui solo.
Ora continua a mostrare che l’amore lo faceva parlare duramente, annunziando quello che la tribolazione profetizzata produrrà nel suo popolo.
Se Egli avesse voluto irrompere contro di lui per ira e per vendetta, lo avrebbe distrutto e subissato, e il popolo non sarebbe stato capace di risorgere e di ritornare al suo infinito amore. Esso, invece, colpito dalla sventura e da essa dilaniato, sorge fin dal mattino per venire a Lui, e, secondo l’espressione greca, sorge come svegliandosi da uno stato di pazzia, poiché il peccato è veramente una pazzia, ed è così preso dal desiderio di ritornare al suo Dio, che si esortano gli uni gli altri a non frapporre indugi, riconoscendo nella sventura un castigo divino più che un succedersi di eventi fatali, e rianimando la loro speranza nella rinascita nazionale: Venite e torniamo al Signore, poiché Egli stesso ci ha dilaniati e ci salverà, ci ha percossi e ci guarirà.
Il primo grado, infatti, della resipiscenza di un popolo traviato e percosso dal flagello, è proprio quello di riconoscere la mano di Dio che lo percuote, sperando nella sua misericordia.
È ben triste lo stato di una nazione che vede nei flagelli che la colpiscono uno svolgimento naturale o fatale di eventi, o, peggio, che vede grandezze e vie di trionfo nelle guerre che la percuotono perché risorga dalla sua vita di apostasia e di peccato. Col pretesto di tenere alto il morale del popolo, essa dissimula la chiamata di Dio, impedisce la penitenza e la conversione delle anime, diventa tracotante nei suoi peccati e si attira un castigo più grande.
Il riconoscere le proprie colpe, l’espiarle e il pregare non scoraggia, ma eleva l’anima a Dio nella speranza della sua misericordia, e nel pericolo moltiplica le forze della nazione con la fiducia nell’aiuto della forza divina, e con la reale effusione di quell’aiuto straordinario. Il dissimulare il flagello con fatui incoraggiamenti di parole può dare per poco l’illusione della vittoria e del benessere, ma questa illusione, poi, naufraga miseramente nella realtà di una maggiore rovina, dovuta proprio all’ostinazione nel male.
Israele, riconosciuta la mano di Dio nel flagello che lo colpirà, e orientata a Lui l’anima sua nella speranza della resurrezione, si trova trasportato nella luce non di una salvezza temporale o di una resurrezione materiale, ma contempla il rinnovellamento della sua alleanza con Dio, e la resurrezione della sua vita nazionale teocratica quale l’ha voluta il Signore; contempla, per quel fenomeno che si chiama prospettiva profetica, sullo stesso piano e nella stessa luce il risorgere alla vita dell’alleanza con Dio, il risorgere nel nuovo patto che Dio stabilirà per il Messia, e la resurrezione del Redentore medesimo, causa e luce di ogni resurrezione umana, ed esclama, o, meglio, il Profeta stesso gli fa esclamare annunziando questa triplice resurrezione: Ci renderà la vita dopo due giorni, e al terzo giorno ci risusciterà e vivremo innanzi a Lui. Conosceremo e proseguiremo a conoscere il Signore.
Sono parole misteriose e sublimi.
Nella stipulazione del primo patto Dio disse a Mosè di preparare il popolo per due giorni, per vivificarlo con la grazia, e di farlo essere pronto per il terzo giorno, nel quale avrebbe stretto alleanza con lui, donandogli così una nuova vita. (Esod. 19, 10).
Nella rinnovazione di questo patto, infranto dalla prevaricazione d’Israele, il castigo e la durata della schiavitù in Babilonia sarebbero stati come i due giorni di preparazione al beneficio divino. Ancora, volgendo lo sguardo più lontano, la grande rinnovazione del patto di Dio con l’umanità nella Redenzione sarebbe stata come preparata dai due giorni nei quali il Redentore sarebbe rimasto morto nel sepolcro, e sarebbe stata compiuta nel terzo giorno, all’alba del quale Egli risuscitò. In Lui, infatti, è ogni resurrezione ed ogni vita, come dice S. Paolo (Efes. 2, 5) non solo per i redenti, ma anche per quelli che prima della Redenzione si salvavano per la fede in Lui che doveva venire, patire, morire e risorgere.
Il popolo ebreo non ricevette il Redentore né lo riconobbe nella sua prima venuta, rimanendo come morto per due giorni, cioè per un lungo periodo di tempo o per due millenni, che innanzi a Dio, come è detto nel Salmo 89 vers. 4 e come dice S. Pietro, sono come due giorni. Dopo questo periodo di ostinata prevaricazione il Signore gli userà misericordia, gli ridarà la vita e lo risusciterà come popolo suo, aggregandolo alla Chiesa. Esso allora vivrà innanzi a Lui, lo conoscerà e proseguirà a conoscerlo, perché avrà mirabili ascensioni di amore e di santità, che lo renderanno tutto vivificato dai frutti della Redenzione.
Il Profeta si immerge nella contemplazione del futuro
Immerso, per così dire, in questa magnifica e complessa visione del futuro, il Profeta si ferma sul Redentore che verrà a vivificare e a far risorgere il genere umano, ed esclama: La sua venuta è preparata come l’aurora, ed Egli verrà per noi come la pioggia dell’autunno e della primavera sulla terra.
L’aurora annunzia il sole che viene e quasi lo porta nel suo grembo, rifulgendo per lui che viene. La pioggia dell’autunno, che in Palestina cade nel Novembre-Dicembre, serve a far germinare le sementi; la pioggia di primavera che cade in Marzo ed Aprile, serve
a nutrire e a maturare le piante, perché portino il fiore ed il frutto.
Sono tre immagini stupende della futura Redenzione: La venuta del Redentore è preparata come l’aurora prepara la venuta del sole e come l’aurora stessa è preceduta dall’alba. Prima le luci profetiche, alba del Re Divino, poi Maria SS., aurora splendida che porta in grembo il Verbo di Dio umanato e lo dona, perché nasce Egli da Lei ed è suo Figliuolo. Egli viene in mezzo al suo popolo come pioggia di autunno, perché viene per far germinare il popolo della nuova alleanza seminato, quasi, da Dio nella terra d’Israele, e viene come pioggia di primavera, perché con la grazia che ci dona per la Redenzione nutre le anime novelle che formano il suo popolo eletto, e le fa maturare nella santità come frutti di Dio.
Il Signore, nel richiamare il suo popolo dalla schiavitù che gli minaccia e gli annunzia in pena dei suoi peccati, sarà come aurora, e ritornerà al suo popolo come aurora perché gli annunzierà con quella misericordia la liberazione più grande e più bella dalla schiavitù del peccato, sarà come pioggia di autunno e di primavera, perché farà sbocciare nella restaurazione le grandi anime che accoglieranno il Redentore, e le farà maturare nella santità.
Israele, quindi, ritornerà a Dio, dopo il castigo, con l’anima quasi avvolta di particolari grazie, con la promessa del dono più grande che sempre più gli si avvicina, con effluvi di misericordie singolari che prepareranno la santa famiglia dalla quale nascerà il Redentore, e il fiore più bello di essa, Maria SS. dalla cui vita immacolata e purissima germinerà.
Dio guarda tutto il futuro che a Lui è presente, guarda la futura ingratitudine del suo popolo ad un beneficio così grande, se ne accora nel suo paterno amore, la vuole scuotere ed eliminare, ed esclama con un grido di accorato dolore: Che cosa farò io per te o Efraim, cioè o Israele, e che cosa farò io per te, o Giuda? Ecco che a tanta prospettiva di grandezza vera voi rimarrete insensibili, ingrati e ribelli, poiché non usufruirete della grazia della restaurazione nazionale che vi farò, e non vi santificherete in modo da essere degni di accogliere il grande dono futuro. La vostra misericordia, o, come suona l’ebraico: la vostra giustizia e santità è come nube mattutina, e come la rugiada che al mattino sparisce. Non avete vera
virtù, ma solo un’apparenza illusoria che svapora come nebbia e rugiada, rimanendo ostinati nelle vostre empietà.
Di fronte a questa ingratitudine Dio giustifica la severità che usa e userà col suo popolo, e dice che per scuoterla Egli lo fece rimproverare duramente dai Profeti, e lo uccise con le parole della sua bocca, spaventandolo con annunzi terribili di distruzione e di morte; soggiunge che i suoi giudizi verranno fuori come la luce, cioè velocemente e luminosi nella loro giustizia, condannando la sua falsa pietà e religione che si contenta di offrire sacrifici ed olocausti, e non si cura di avere la misericordia cioè la giustizia e la santità, trascurando la scienza di Dio, la sua conoscenza, cioè, e il suo amore.
Che cosa ha fatto il popolo fino ad allora? Ha trasgredito il patto giurato a Dio, come Adamo nell’Eden trascurò il comando avuto e peccò; la sua città principale, Galaad, che dovrebbe essere di esempio alle altre città, è diventata un centro d’idolatria, di sacrifici abominevoli, di delitti e di sopraffazioni contro quei devoti Israeliti che passavano per Sichem per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Dio colpirà Israele per queste sue scelleratezze, per la sua idolatria e le sue impurità, e colpirà anche Giuda come campo che viene mietuto, facendolo deportare in paese straniero; Egli però soggiunge subito che la punizione la darà per risanarlo, poiché un giorno riporterà il suo popolo dalla schiavitù, e un giorno più lontano libererà tutti i suoi figli dalla schiavitù del peccato.
3. « La misericordia io amo e non il sacrificio ». - Un’elegante questione che deve dare da pensare ai fanatici del senso letterale.
Certamente queste parole di Dio: La misericordia io amo e non il sacrificio, hanno letteralmente il senso che abbiamo esposto, e cioè che il Signore ama più la pietà, la giustizia e la santità interiore che un sacrificio fatto per pura esteriorità, come pure ama di più la scienza soprannaturale che lo fa conoscere e amare anziché un olocausto offerto senza apprezzamento della sua divina grandezza e senz’amore.
Gesù Cristo citò queste parole di Osea due volte, com’è riportato nell’Evangelo di S. Matteo: quando, dopo la vocazione di S. Matteo, mangiando Egli coi pubblicani, i Farisei mormorarono di quella sua condiscendenza come di uno scandalo (9, 13), e quando gli Scribi e Farisei riprovarono che i suoi discepoli cogliessero e mangiassero le spighe in giorno di sabato (12, 7).
In tutti e due i casi Gesù Cristo richiamò l’attenzione di quelli ai quali parlava: Imparate quello che sia, disse ai Farisei scandalizzati dal banchetto: Io voglio misericordia e non sacrificio; ed a quelli meravigliati per le spighe colte e mangiate di sabato: Se voi sapeste che cosa vuol dire: Amo la misericordia e non il sacrificio, non avreste mai condannato degli innocenti.
Egli non poteva certo parlare della pietà, misericordia e santità né dei pubblicani, perché anzi li dichiarò peccatori, soggiungendo subito che era venuto a chiamare non i giusti ma i peccatori, né poteva parlare della santità dei suoi discepoli, perché usò quell’espressione per dichiararsi padrone anche del sabato, scusando i suoi discepoli con la condiscendenza amorosa del suo Cuore che aveva loro permesso tacitamente di cogliere e mangiare le spighe.
Oseranno i critici moderni dire che Gesù volle fare una semplice accomodazione, mentre una volta disse: Imparate quello che sia, cioè badate bene al senso di queste parole, e l’altra volta disse con maggiore energia: Se voi sapeste che cosa vuol dire: Amo la misericordia e non il sacrificio?
Oseranno, peggio, dire che Gesù non abbia citate quelle parole nel loro senso letterale?
Stando ai loro metodi di fanatismo per il senso letterale, logicamente ne verrebbero queste deduzioni, con quanto rispetto per l’increata Sapienza che spiegò quelle parole, ognuno lo vede.
Ed allora bisogna per necessità riconoscere che Dio nel dire: La misericordia io amo e non il sacrificio, ha voluto ammonire il suo popolo col suo medesimo esempio divino, dando alle sue parole un’ampiezza mirabile che ci fa capire quanto si è meschini quando si vuol considerare a modo umano la lettera che uccide.
Egli con le parole di Osea volle esprimere due predilezioni del suo amore, quella per la nostra santità che lo onora amandolo, e quella della sua misericordia che ci benefica perdonandoci. Egli volle dire letteralmente, con una sola espressione: Io amo la misericordia vostra e non il sacrificio, come io stesso amo di perdonare e di compatire anziché d’essere duro coi peccatori e di essere severo nel giudicare le umane debolezze.
Negare questo doppio senso letterale a queste parole significa tacciare Gesù di avere... errato nell’interpretazione del testo, il che sarebbe da balordi e da empi.
La parola di Dio è mirabilmente feconda, e la nostra piccola mente non può presumere di volerla interpretare solo secondo le povere vedute di una più povera e meschina cultura storica, mille volte fallace.
Innanzi alla parola di Dio non si può prendere mai l’atteggiamento di superuomini, né si può prescindere dalla meditazione, poiché Dio ha voluto parlare a tutte le anime in tutti i tempi, e le sue parole non possono essere ristrette ad un senso storico materialmente preso come si prende quello di qualunque libro umano. Dio, nel parlare agli Ebrei secondo le loro particolari contingenze, esprime i suoi divini pensieri, e questi hanno un’ampiezza e una fecondità che non può essere da noi ristretta alle circostanze particolari della vita degli Ebrei.
I Santi Padri che sapevano conoscere e amare Dio assai meglio di noi, seppero intuire la vastità del senso letterale della Divina Parola, e la seppero applicare alla vita cristiana e mistica, non per semplice accomodazione, ma intuendo quello che Dio aveva voluto dire per nutrirci e per istruirci.
Quando sarà passato lo scientismo moderno, ispirato ai razionalisti che non ragionano, o ai protestanti che per troppe proteste sono falliti, si vedrà che l’esegesi ispirata ai Padri della Chiesa è l’unica vera esegesi che ci mette al ricco desco della Divina Parola e ce ne fa nutrire abbondantemente, cavando da questa terra feconda e da questa ricca miniera ogni sorta di frutti e di pietre preziose.
4. Per la nostra vita spirituale.
Nelle nostre tribolazioni alziamoci fin dal mattino per andare a Dio, e diciamo all’anima nostra: « Vieni ai piedi dell’Altare e torna al tuo Signore ».
Riconosciamo che Egli ci affligge per salvarci e ci percuote per guarirci; cerchiamo, perciò, di rispondere immediatamente al suo invito, e di offrirgli con umiltà tutta l’anima perché Egli la guarisca.
Se ci ribelliamo alla sua Volontà amorosissima, siamo come quegli infermi frenetici, i quali, come dice S. Agostino, insaniscono contro il medico sol perché i rimedi che dà sono dolorosi o disgustosi.
Il Signore colpendoci nella vita presente ci rianima nella vita spirituale, per due giorni, cioè per il brevissimo corso del nostro pellegrinaggio; al terzo giorno poi ci risuscita, aprendoci le porte del Paradiso, la cui gloria eterna rappresenta per noi una vera resurrezione e la vera vita. Per due giorni Dio ci ha vivificati, cioè per l’antico e il nuovo patto, per la sua prima e seconda venuta, come dicono i Padri, venuta che rappresenta sempre una grandiosa effusione di grazia per l’umanità e una preparazione al giorno della gloria.
Conoscere e proseguire a conoscere il Signore, ecco lo scopo della effusione della divina misericordia, ed ecco il fine della nostra vita. Il Signore viene a noi come aurora e come pioggia di autunno e di primavera, perché è luce e fecondità delle anime nostre; luce di aurora, perché luce di fede, ch’è sempre avvolta da oscurità, e pioggia silenziosa che feconda e matura i germi posti in noi dalle sue visite amorose.
Dolorosamente noi siamo ingrati alle effusioni della carità di Dio, e la nostra giustizia è. come nebbia che svanisce; per questo il Signore ha necessità di trattarci duramente, per mezzo dei suoi santi Ministri, e, in mancanza loro, per le anime straordinarie, per le quali ci ammonisce e c’intenerisce.
Egli vuole la misericordia nostra e la scienza di Dio, cioè la santità illuminata dalla fede, più che un movimento passeggero ed illusorio di conversione, poiché Egli ci dà la misericordia perdonandoci, e la scienza sua illuminandoci con la sua parola di vita. Ci vuole santi e pieni della sua luce, e per questo ci perdona, ci rinnova e ci dona la sua parola.
Non dobbiamo essere ingrati a tanto suo amore, né imitare Adamo, che, posto fra le delizie del Paradiso terrestre, si fece vincere da satana e, prevaricando, andò incontro ad una vita colma di angustie.
Noi, testimonianze viventi della gloria di Dio (Galaad), perché sua immagine, non possiamo mutarci in fabbricatori di idoli, adorando noi stessi e le creature, né possiamo essere ladri della divina gloria con le passioni, ed uccisori di anime con gli scandali; non possiamo fornicare nello spirito e nella carne, e contaminarci con tanti orribili peccati; siamo creature di Dio e dobbiamo essere suoi per amarlo e servirlo fedelmente.
Prepariamoci al giorno della messe, quando il Signore viene a raccoglierci per riporci negli eterni granai, e cerchiamo di essere ricchi di opere sante, quasi di biondeggianti granelli, che sono il prezzo, l’unico prezzo che possiamo dare al Signore per conquistare l’eterna felicità.
Dio ci chiama; i suoi flagelli c’incalzano come voci dure di profeti, le sue tribolazioni sono come parole della sua bocca che uccidono in noi il male e ci manifestano i suoi giudizi.
Egli ci chiama così per misericordia, e, disingannandoci nelle nostre illusioni, ci dona la sua sapienza, quella sapienza che ce lo fa conoscere come vero Dio, vera ed eterna Sapienza, infinito ed amabilissimo Amore.
Voci dall’Oriente e voci dall’Occidente, voci dal Settentrione e voci dal Mezzodì, tutta la terra, accesa nella spaventosa guerra, è come voce che ci chiama da parte di Dio; ascoltiamola e rispondiamo al suo invito convertendoci a Lui.
Sac. Dolindo Ruotolo
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