sabato 31 dicembre 2016

01.01.2017 - Commento al vangelo di S. Luca cap. II par. 3

3. L'annunzio ai pastori e la loro visita

Maria rimase in contemplazione, ed implorò certamente da Dio che il suo Figlio fosse conosciuto dagli uomini. Il Sacro Testo lo chiama Figlio primogenito perché così si chiamava anche l'unigenito presso gli Ebrei, ma in realtà Maria nell'avere Gesù aspettava anche l'uomo, e sentiva già la sua universale maternità.

L'uomo peccatore doveva essere il suo secondogenito, rigenerato per virtù dello Spirito Santo. Lo disse un giorno il Redentore a Nicodemo, che era necessario rinascere nell'acqua e nello Spirito Santo; ora nella rinascita non può essere estranea Maria, Madre dei peccatori e Regina di misericordia.

Maria dunque pregava perché gli uomini cominciassero a conoscere il loro Redentore. Non era andata in fretta a casa di sant'Elisabetta per annunziarle la lieta novella e comunicarle la grazia? Il suo Cuore era tutto acceso di zelo, e la sua preghiera apriva nuovamente i cieli alla misericordia, partecipando la lieta novella della nascita del Redentore alle anime che erano più preparate alla grazia.

Gli angeli raccolsero la preghiera della Vergine e, poiché la corteggiavano per lodare il Verbo Incarnato, andarono subito poco lontano a compiere la loro missione di amore. Questo non risulta esplicitamente dal testo, ma può arguirsi, giacché Dio ha voluto Maria mediatrice di tutte le grazie.

Poco lontano dalla grotta c'erano alcuni pastori che vegliavano, facendo la guardia al gregge; la notte serena li faceva stare all'aperto e, probabilmente, attratti dalla bellezza del cielo stellato, essi pregavano.

La prontezza della loro fede ci fa arguire che avevano l'anima predisposta alla grazia, e che, da buoni e semplici Ebrei, sospirassero al compimento delle divine promesse. Esse erano una realtà, oramai, e quella terra benedetta era come circonfusa di spirituale splendore, che inconsciamente rinnovava in loro i desideri dei patriarchi e dei profeti. Il Sacro Testo infatti dice che la gloria di Dio rifulse loro, non solo per l'apparizione degli angeli, ma anche per l'interno splendore che li illuminava, rinnovando in loro la fede nel futuro Redentore.

sabato 24 dicembre 2016

25.12.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1 par. 2-3

2. Il momento solenne e pacifico della nascita di Gesù Cristo

Era stato predetto dai profeti che il Redentore doveva nascere in Betlem, ed il Signore, che tutto dispone attraverso i medesimi eventi umani, utilizzò una circostanza della vita civile per far trovare Maria a Betlem.

Nazaret distava da questa città circa 120 chilometri; ora, senza una pressione legale, Maria Santissima giovane madre prossima al parto, non avrebbe creduto prudente fare un viaggio così lungo. Il Signore avrebbe potuto, è vero, rivelarlo a san Giuseppe, ed ottenere lo stesso risultato, ma Egli volle escludere dalla nascita di Gesù tutto ciò che poteva sembrare appositamente voluto per far verificare la profezia; gli eventi, indipendenti dalla volontà, anzi contro la volontà umana, mostravano meglio le disposizioni divine nella nascita del Redentore.

Cesare Augusto, primo imperatore romano, nel fasto della sua gloria ordinò parecchi censimenti per accertarsi della popolazione dell'impero e dell'obbligo del tributo per tutti i suoi sudditi. Il primo di questi censimenti, esteso anche alla Palestina, fu fatto sotto Publio Sulpizio Quirino, che al modo greco è chiamato nel Sacro Testo Cirino. Il censimento fu fatto non secondo l'uso romano, per il quale ciascuno si faceva iscrivere nei registri del luogo dove abitava, ma secondo l'uso ebraico, per il quale ognuno andava ad iscriversi nella sua città di origine. Era logico, del resto, perché gli Ebrei erano tenaci conservatori delle tribù e delle famiglie, ed un censimento di semplice domicilio non avrebbe dato la vera prospettiva demografica della nazione.

La legge umana è inesorabile e non ammette scuse; bisogna sottostarvi per forza, se non vi si vuole sottostare per amore. San Giuseppe, però, e Maria Santissima, abituati all'obbedienza alla divina volontà, accettarono l'ordine non come

un'imposizione inopportuna per essi, subita per timore, ma come una disposizione indiretta del Signore, ed intrapresero subito il faticoso viaggio per recarsi a Betlem, loro città di origine perché discendenti di Davide.

E commovente il pensare a questo viaggio intrapreso quando la stagione era già fredda, giacché è tradizione costante nella Chiesa che Gesù sia nato nelFinvemo. Due creature ignote al mondo, ma immensamente privilegiate innanzi a Dio, camminavano portando con loro, nascosto nel seno materno, il Verbo di Dio! Camminavano in pace, nella povertà, lodando e benedicendo il Signore.

Un asinelio, com'è tradizione e com'è giusto pensare, serviva loro di cavalcatura e portava il loro piccolo bagaglio. Giuseppe lo guidava, e Maria vi sedeva sopra; erano tutti e due il quadro vivo della purezza, dell'amore e della pace. L'asinelio doveva sentire inconsciamente il benessere di avere dei padroni così sereni e, guidato dall'angelo di Dio, come potrebbe supporsi, prendeva il giusto cammino. Aveva quel portamento di sicurezza e di fedeltà che hanno gli animali vicino ai padroni benefìci e, senza ripugnare o recalcitrare, andava avanti mansueto. Maria tutta raccolta pregava. Era più bella nella sua avanzata gravidanza, aveva il volto soffuso di pace, e sembrava l'Arca di Dio, perché portava nel seno il suo Figlio divino. San Giuseppe andava avanti raccolto, con quel suo bel volto pieno di verginale fulgore, ingenuo, semplice, umile, servo fedele della divina volontà, col sensibile suo cuore pieno di angustia per il disagio della sua immacolata Sposa.

Nel silenzio della strada deserta, fra la solitudine degli alberi già spogli, risuonava lo scalpitare dell'asinelio ed echeggiavano gli ultimi canti sommessi degli uccelli... La natura sembrava un'immagine dell'uomo, intristito dalla colpa, ed il Verbo divino, fatto per amore pellegrino della terra, avanzava nel seno materno verso Betlem, per compiere le promesse della misericordia e salvarlo. Nessuno supponeva che si avverassero in quel momento tanti vaticini dei profeti, e che il Sole di giustizia cominciasse a sorgere dalle tenebre della povera terra brumosa, carica di colpe e di affanni.

Giunsero in Betlem dove, a causa del censimento, era un gran concorso di gente sia nei pubblici alberghi, sia nelle case ospitali, di modo che san Giuseppe non poté trovare chi lo accogliesse con la sua Vergine Sposa Immacolata. Dovette cercare rifugio in una grotta, adibita per ricoverarvi gli animali nelle notti fredde o tempestose, ed ivi procurò d'allestire un poverissimo alloggio, dato che per Maria si avvicinava il tempo del parto. Non può dirsi che fossero angosciati per quella povera dimora, giacché erano ambedue immersi nella divina volontà, ed amavano immensamente il nascondimento e la povertà; ma san Giuseppe, come custode di Maria, era afflitto dal disagio di Lei, e Maria pensava con immensa pena e tenerezza al suo Figlio che mancava di tutto nel venire alla luce. S'intrecciavano, per così dire, due rami fioriti di carità e di amore, e formavano essi soli l'ornamento fragrante di quella grotta desolata.

sabato 17 dicembre 2016

18.12.2016 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 1 par. 5

5. La nascita di Gesù Cristo e l'illibata Verginità di Maria Santissima e di san Giuseppe

La Vergine Santissima fu sposata a san Giuseppe per obbedienza, perché, come si usava presso gli Ebrei, il matrimonio veniva trattato dai genitori o dai parenti più prossimi della fanciulla, a volte senza che essa lo sapesse.

Giunta all'età da marito, che era quasi sempre al dodicesimo anno, veniva promessa al giovane che ne faceva richiesta, e celebrava gli sponsali, prendendo impegno con giuramento, ella e lo sposo, di contrarre le nozze.

Il periodo degli sponsali durava un anno per le vergini e un mese per le vedove, ed in questo tempo, benché dimorassero ognuno a casa sua, i promessi sposi si riguardavano legittimamente coniugati, ed un figlio che fosse stato generato in questo periodo era riguardato come legittimo anche legalmente. Nel tempo degli sponsali, gli sposi corrispondevano fra loro per un intermediario di fiducia che era chiamato amico dello sposo. Dopo un anno si celebravano le nozze, e la sposa veniva accompagnata solennemente in casa del marito. Maria Santissima era stata sposata a san Giuseppe, giovane di circa 26 anni, modello di virtù, che il Vangelo caratterizza con una sola parola chiamandolo giusto, ossia santo. Probabilmente fu san Zaccaria che trattò il suo matrimonio sia perché sacerdote e sia perché i genitori della Vergine Santissima dovevano essere già morti.

Sposata, non era stata ancora accompagnata a casa dello sposo. Essa aveva promesso a Dio con voto di conservarsi Vergine, ed aveva consentito alle nozze per obbedienza, confidando che il Signore l'avrebbe custodita, e confidando anche nella virtù dello sposo che doveva esserle nota, essendo egli suo cugino.

Raccolta nella preghiera, umiliata profondamente innanzi a Dio, aspettava che la provvidenza avesse pensato alla sua situazione. È evidente che non manifestò a nessuno, e neppure a san Giuseppe il voto che aveva fatto, ma aveva la certezza che il Signore sarebbe intervenuto con uno dei suoi tratti di misericordia per liberarla dalle sue angustie. Fu in questo periodo di attesa e di preghiera che si trovò incinta del Verbo eterno per opera dello Spirito Santo.

sabato 10 dicembre 2016

11.12.2016 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 11 par. 2-4

    2. L'ambasciata di san Giovanni Battista al Redentore. I caratteri del Re divino e della sua Chiesa

Gesù Cristo era andato ad annunziare la buona novella nelle città della Galilea, accompagnando la sua predicazione con strepitosi miracoli, e raccogliendo sempre più intorno a sé un grande numero di seguaci. Questo dovette urtare la suscettibilità dei discepoli di san Giovanni Battista, i quali credevano di vedere in Gesù Cristo quasi un emulo del loro maestro.

Il santo Precursore si trovava imprigionato in Macheronte nella Perea, per aver rimproverato Erode del suo adulterio e, non potendo personalmente sfatare le idee dei discepoli, pensò d'inviarli a Gesù perché la stessa parola viva del Messia li avesse convinti. Che sia stata questa l'intenzione di san Giovanni, risulta chiaro dal contesto e dall'elogio che di lui fece Gesù.

Per la relativa facilità con la quale allora i prigionieri potevano corrispondere con le persone care, e per la maggiore libertà che gli dava Erode stesso, san Giovanni fu informato delle grandi opere che Gesù compiva, e questo accrebbe la sua fede in Lui, e gli fece desiderare maggiormente di glorificarlo dinanzi al popolo. Era stato mandato per annunziarlo ed aprirgli la strada e volle compiere anche dal carcere la sua missione, rendendo testimoni del Messia i propri discepoli. Questi andarono da Gesù in un momento nel quale Egli faceva molti miracoli, e parlando in nome di san Giovanni dissero: Sei tu colui che deve venire, o ne dobbiamo aspettare un altro? La stessa domanda dimostrava la stima che il Precursore aveva di Gesù Cristo, poiché si rimetteva a Lui per una risposta come la più autorevole e santa che potesse avere.

Gesù Cristo rispose con la testimonianza dei fatti, che rispondevano alle profezie fatte sul Messia (Is 35,5ss e 61,1): I ciechi recuperano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, i poveri sono evangelizzati.

Era l'argomento più adatto a convincere i discepoli di san Giovanni, poiché il loro Maestro non aveva fatto miracoli e non poteva essere lui il Messia, come forse essi ammettevano, o per lo meno sospettavano. Ad essi sembrava che il loro maestro avesse un aspetto più austero e venerando e che il fare semplice e cordiale di Gesù fosse inconciliabile con la dignità di Messia, per questo il Redentore soggiunse: Beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Egli voleva dire: le opere parlano di me, ma io non cesso di essere ammantato di umiltà, e beato colui che nonostante questo mi segue ed ascolta la mia parola.

giovedì 8 dicembre 2016

08.12.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1 par. 4

4. Il grande momento dell'Incarnazione del Verbo

In un'umile borgata, celebre non per grandezza ma per il disprezzo proverbiale nel quale era tenuta, viveva un'umile verginella, sposata ad un umile falegname. Quando si voleva dare un appellativo di disprezzo, si diceva: È stolto come uno di Nazaret, e quella borgata era così umiliata, che non si credeva potesse dare i natali a qualche cosa di buono. Il Signore, che deride le umane vedute e che si compiace dell'umiltà, volle scegliere proprio questa borgata come luogo per incarnarsi. Come Egli adagia la fava nel morbido baccello e manda la rugiada fecondante nella notte, così volle riposare nell'umiltà, e discendere in un luogo di sommo nascondimento agli uomini.

L'umiltà

L'umiltà, l'umiltà è il fascino di Dio, perché è il foco nel quale la sua luce può riflettersi e la sua grandezza può manifestarsi. Egli che, conoscendo se stesso genera il Verbo, non trova altro luogo dove riporre il Verbo fatto fiore di lesse che nell'umiltà, conoscenza di se stessi nella piccolezza. La creatura, conoscendo se stessa ed umiliandosi, attira il Creatore; nel soave vuoto dell'umiltà Egli rifulge, poiché il disprezzo amoroso nel quale la creatura si sprofonda è apprezzamento di Dio, ed ha qualche cosa di quell'etema conoscenza feconda del Verbo eterno. E un mistero d'amore che il mondo non conosce.

L'orgoglio è di sua natura ingombrante ed accecante; è disconoscimento di Dio, è apprezzamento di se stesso ed è il meno adatto a ricevere la luce eterna, perché opaco e ancorato nella sua stoltezza. L'umiltà, l'umiltà, qual sapore di pace e di fecondità ha questa dolcissima virtù! Ogni vita, ogni ricchezza preziosa nel mondo erompe dall'umiltà: la pianta viene dal seme, sempre piccolo e sprofondato sotterra, la gemma viene dalle tenebre d'una miniera, l'oro è in fondo al terreno o nei gorghi delle acque, la perla è tra le valve d'un mollusco legato allo scoglio negli abissi del mare. Non nasce la vita se una creatura non si umilia ad un'altra, non prospera nei fulgori ma nel silenzioso mistero della gestazione. Tutto quello che appare troppo o fa troppo frastuono ha più i segni della morte che della vita.

Umiltà, umiltà: quanto è alta questa bassezza ineffabile! Si curva per ricevere l'abbraccio di Dio, e diventa potenza, sapienza ed amore! Umiltà, umiltà, quanto sei bella nel tuo splendore nascosto, gemma di purissima acqua che raccoglie il raggio del divino Amore e si bea nella silenziosa contemplante adorazione! Umiltà, umiltà; virtù che attrae le angeliche schiere com'è attratta la tenerezza materna sul piccolino che dorme nella culla, poiché gli angeli, dopo la caduta di Lucifero e delle sue schiere, hanno orrore dell'orgoglio e sono attratti dall'umiltà che li rese eternamente felici!

sabato 3 dicembre 2016

04.12.2016 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 3 par. 2

2. La voce che grida nel deserto e l'invito al regno di Dio

L'età legale e tradizionale per diventare dottore e ministro di Dio, come può rilevarsi anche dal I libro delle Cronache (23,3), era di trent'anni. In questa età san Giovanni il Battista uscì dalla solitudine e cominciò la sua predicazione per preparare il popolo a ricevere il Redentore, vicino anche Lui al trentesimo anno di età.

È probabile che la causa occasionale per la quale san Giovanni si ritirò nel deserto sia stata la persecuzione di Erode; la madre sua per timore vi si dovette rifugiare e, passato il pericolo, il bambino, già prevenuto dalla grazia, vi rimase per prepararsi alla sua missione con una vita di aspra penitenza. Non è raro nella storia dei santi una precocità di vita penitente, né può stupire il vedere un bambino prodigio di virtù come non ci stupiamo di vedere bambini prodigi di musica, di pittura, di arti e di lettere, dei quali abbiamo molti esempi nella storia contemporanea. Se le doti naturali possono rendere più che adulto un piccolo, molto più lo può la grazia e la particolare elezione di Dio.

Che cosa faceva Giovanni nel deserto, tutto solo? Guidato dalla luce dello Spirito Santo, meditava la grandezza di Dio, pregava, riparava per l'umana ingratitudine, e teneva in penitenza il suo corpo con ogni specie di disagio per amore di Dio.

sabato 26 novembre 2016

27.11.2016 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 23 par. 4-5

4. I segni della catastrofe

Altro segno remoto, e potremmo dire caratteristico della fine del mondo, sono le guerre e le voci di guerre, le sollevazioni di popolo contro popolo e di gente contro gente, le conseguenti pestilenze e carestie, e gli sconvolgimenti tellurici. Gesù Cristo avverte che tutto questo deve avvenire, ma non è ancora la fine, perché le guerre e le tribolazioni sociali ci furono anche al tempo delle persecuzioni contro il cristianesimo, e furono così aspre da far credere prossima la fine anche ad alcuni padri della Chiesa. Gesù Cristo volle proprio prevenire questo equivoco dicendo che le guerre non indicavano la fine imminente. Egli velatamente determina di quali guerre intenda parlare e di quali sconvolgimenti, parlando di persecuzioni in tutte le parti del mondo, di odio generale al nome cristiano, di scandali caratteristici, di tradimenti, di odi, di falsi profeti, di seduzioni universali, e soprattutto di raffreddamento della carità verso Dio e verso il prossimo, dovuto al sovrabbondare dell'iniquità; Egli specifica che questo avverrà quando il Vangelo sarà stato già diffuso per tutto il mondo. Si può dire che a bella posta Gesù abbia parlato un po' velatamente, quasi confondendo i segni prossimi e quelli remoti della fine del mondo, e i segni della fine di Gerusalemme; Egli volle eccitare le anime di tutti i tempi alla vigilanza, e non volle estremamente terrorizzare quelle che si sarebbero un giorno trovate nei terribili avvenimenti. Sapere con certezza assoluta il tempo della fine potrebbe essere per quelli che ne sono lontani un motivo per darsi bel tempo, e per quelli che ne sono vicini un motivo di scoraggiamento e d'ignavia. L'incertezza ci fa essere vigilanti e nello stesso tempo ci fa continuare nel compimento dei nostri doveri, tanto nella vita familiare che in quella sociale.

sabato 19 novembre 2016

19.11.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 23 par. 5

5. La crocifissione, l'agonia, la morte e la sepoltura di Gesù

Giunti che furono sul monte Calvario, cioè del teschio, chiamato in ebraico Golgota, i carnefici prescelti crocifissero Gesù e i due ladroni, elevandoli uno a destra ed uno a sinistra di Lui. Con queste poche parole di una terribile concisione, l'evangelista accenna alla scena spaventosa di quell'immane supplizio. Lo crocifissero perforandogli le mani con lungo chiodo, ed i piedi sovrapposti con un chiodo ancora più lungo. Non è possibile immaginare lo spasimo che davano quei chiodi all'adorabile nostro Redentore. La scienza medica oggi ne ha potuto studiare le vestigia sulla santa Sindone, cioè sul lenzuolo che lo avvolse cadavere. Si contrasse tutto alFindietro, e per questo movimento brusco le spine della nuca gli si conficcarono dentro più profondamente. Il suo dolore fu immenso, ma Egli nella sua misericordia si preoccupò di quelli che glielo cagionavano, e rivolto al Padre esclamò: Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Non aveva bisogno Egli di perdonarli, perché dava la vita per essi, ma aveva necessità d'implorare perdono dal Padre, perché il delitto che commettevano era spaventoso. La sua parola fu esaudita dal Padre?

Apparentemente sembrerebbe di no, poiché Gerusalemme fu distrutta, ed il popolo fu massacrato o portato in cattività; ma Gesù pregò per l'anima di quelli che avevano concorso alla sua crocifissione, e principalmente per gli Ebrei, e questo ci fa intendere che per la sua divina preghiera Egli raccolse quelle anime quale messe dei suoi dolori. Come poteva Egli pregare per la loro salvezza temporale, che li avrebbe sempre più ostinati nel peccato? Anche al buon ladro, infatti, Egli donò la salvezza eterna, ma non lo strappò dalla croce, perché il tormento che vi subiva era l'espiazione dei delitti che aveva commessi.

Gesù soffriva e perdonava, e quelli che assistevano alla sua morte lo deridevano e lo insultavano!

I soldati al principio si preoccuparono solo di dividersi le sue vesti, sperando di realizzare un grande guadagno rivendendole ai a discepoli del Crocifisso, e siccome la tunica era inconsutile, per non dividerla se la sorteggiarono; dopo si unirono anche essi a quelli che lo insultavano. I sacerdoti sopra tutti e gli scribi ci tenevano a sfatarne il prestigio innanzi al popolo, e coi loro insulti volevano fame rimarcare l'impotenza: Ha salvato gli altri, salvi se stesso se Egli è il Cristo, l 'eletto di Dio. Ad essi facevano eco i soldati, i quali, vedendo sulla croce la scritta postavi da Pilato, dicevano: Se Tu sei il re dei Giudei salva Te stesso. Lo dicevano per pigliarsi beffe non solo di Lui, che s'era dichiarato re innanzi a Pilato, ma anche per insultare il popolo ebreo in Lui.

Se Pilato aveva messo quella scritta, era per essi evidente che il Crocifisso era veramente il re spodestato; insultandolo e sfidandone la potenza, volevano far constatare lo stato di soggezione piena nel quale era ridotto il popolo, che aveva il suo re in croce, senza dire neppure una parola di protesta, anzi approvandone la condanna e la morte.

I biechi sacerdoti del tempio non s'erano accorti che con quel delitto spaventoso avevano stretto di più le catene della loro schiavitù a Roma.

sabato 12 novembre 2016

13.11.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 21 par. 3

3. La rovina di Gerusalemme, il regno di Dio sulla terra e la fine del mondo

Gesù Cristo insegnava ogni giorno nel tempio ed i discepoli ebbero occasione così di osservarne la magnificenza. Nei primi giorni non vi badarono troppo, perché attratti dalle parole del Maestro divino; ma, rivedendo il maestoso edificio e stando naturalmente un poco più distratti dalla divina Parola per l'abitudine quotidiana di ascoltarla, ne notarono la bellezza e la segnalarono al Maestro con quel senso naturale di compiacenza e di orgoglio che si ha per una gloria nazionale.

Gesù Cristo, lungi dal fermarsi sulla magnificenza dell'edificio, col suo sguardo divino ne guardò il dissolvimento e la rovina che l'avrebbero colpito a causa dei peccati del popolo e del delitto immane del deicidio che si accingeva già a consumare. Vide in quel tempio l'immagine del suo Corpo, che sarebbe stato colpito dalla morte violenta e vide il castigo che avrebbe colpito il popolo con la rovina della città e del grandioso edificio; vide in questa rovina la figura e l'immagine della catastrofica fine del mondo, a causa dei delitti consumati nei secoli contro Dio, il suo Cristo e la Chiesa, suo Corpo mistico, e rispose annunziando le due catastrofi ed esortando i discepoli ed i popoli sull' atteggiamento che dovevano avere in quelle immani sventure. Cominciando dal tempio ed annunziando nella sua rovina quella di Gerusalemme, esclamò: Giorno verrà che di tutto questo che vedete non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta.

Disse queste parole con tale accento di verità che nessuno di quelli che le ascoltarono osò dubitarne, e perciò gli domandarono quando sarebbe avvenuta quella rovina e da quali segni sarebbe stata preceduta. Facendo questa domanda vollero inconsciamente assicurarsi se essi sarebbero stati travolti dalla catastrofe e sperarono di non esserne testimoni. Era troppo vivo il loro amore per la patria e per il tempio per non riguardare come suprema sventura il vederne la rovina; Gesù rispose a questa intima preoccupazione, disingannando essi e quelli che sarebbero venuti dopo di loro, giacché la Chiesa che Egli fondava sarebbe stata esposta in ogni tempo alle persecuzioni, e nel mondo sarebbero successe in ogni tempo rovine.

Pensare di non trovarsi presenti ad un cataclisma era speranza inattuabile per quelli che dovevano peregrinare combattendo e che in ogni tempo si sarebbero trovati di fronte ai disseminatori di errori, causa vera e prossima delle persecuzioni e dei castighi che ne sarebbero stati conseguenza.

Perciò col suo parlare divinamente sintetico, rispose: Badate di non essere sedotti, poiché molti verranno sotto il mio nome, cioè come messia e come realizzatori di una rinnovazione universale, e diranno sono io, ed il tempo è vicino.

Molti falsi profeti crederanno di essere essi i dominatori universali, ed annunzieranno il tempo della prosperità del mondo, come anche molti, di fronte ai mali incalzanti in ciascun secolo, crederanno prossima la fine del mondo. Ma erreranno e saranno solo annunziatori di errori.

Tanto il regno di Dio quanto la fine del mondo saranno preceduti da guerre e da rivoluzioni, ma queste non saranno un segno immediatamente prossimo, tanto della fine del dominio degli empi, quanto della fine del mondo; ne saranno solo una preparazione ed avverranno per purificare la terra e raccogliere gli eletti. Non saranno segni esclusivi di questi due grandissimi eventi della storia del mondo, perché in ogni tempo vi saranno guerre e sedizioni. La caratteristica delle guerre e delle rivoluzioni del tempo precedente il regno di Dio e la fine del mondo sarà la universalità del flagello, accompagnato da pestilenze, carestie, segni spaventevoli nel cielo, e grandi prodigi sulla terra; cioè, probabilmente, grandi invenzioni che stupiranno il mondo. Perciò Gesù, dopo aver detto che vi saranno sempre guerre e sommosse, pur non essendo ancora la fine, accenna specificatamente ai caratteri di quelle che preluderanno alla fine dell'iniquità ed alla fine del mondo: Si solleverà nazione contro nazione, e regno contro regno, cioè vi sarà una conflagrazione universale, una guerra universale, caratteristicamente tale per lo schieramento simultaneo di gruppi di nazioni contro gruppi di nazioni, e di gruppi di regni contro regni, coinvolgendo, quindi, repubbliche e monarchie.

Questo cataclisma sociale sarà accompagnato da grandi terremoti, da pestilenze e da carestie. In ogni tempo vi sono stati terremoti, pestilenze e carestie, ma questi flagelli nella grande conflagrazione saranno simultanei alla spaventosa guerra universale.

È una caratteristica che non potrà essere confusa con le solite perturbazioni del mondo e sarà tale da fare capire che qualche cosa di eccezionale sopravverrà alla terra.

Gesù determina anche meglio la natura delle due conflagrazioni finali, annunziando grandi persecuzioni contro la sua Chiesa e grande messe di martiri. E poiché Egli parlava ai suoi apostoli e discepoli, che sarebbero stati i primi ad incontrare la persecuzione, trascinati avanti alle sinagoghe ed ai re della paganità, li esorta a non temere e ad affidarsi compietamente allo Spirito Santo nelle contese che avrebbero avuto nei tribunali.

Gesù Cristo promette loro una sua assistenza particolare specialmente nelle discussioni, assistenza che si è constatata sempre nella passione dei martiri, a cominciare dai primi fino a quelli gloriosissimi della Spagna, dei quali, può dirsi, siamo stati testimoni noi stessi.

Gesù Cristo accenna alle persecuzioni che i suoi seguaci avrebbero subito persino da parte delle persone più care della famiglia, i genitori, i fratelli, i parenti e gli amici, a causa del suo Nome, e soggiunge che neppure un capello del loro capo sarebbe perito.

L'espressione sembra a primo aspetto che contraddica quello che dice al versetto 16, poiché è evidente che, se dovevano essere uccisi, sarebbe perita tutta la loro vita corporale. Gesù, però, voleva dire che ogni tormento avrebbe prodotto un frutto di eterna vita e che neppure un capello del capo sarebbe perito inutilmente. I suoi martiri avrebbero poi riacquistato il loro corpo nella risurrezione ed avrebbero riavuto tutto quello che avrebbero perduto per rendere testimonianza alla verità, e perciò soggiunse: Con la vostra pazienza salverete le anime vostre. La costanza nel patire per Dio, la pazienza nelle sofferenze, il sacrificio generoso di ciò che avevano di più caro avrebbe loro dato un godimento eterno nel cielo, ed allora tutte le pene sofferte sarebbero sembrate nulla, e tutto ciò che avrebbero perduto sarebbe sembrato un guadagno inestimabile.

sabato 5 novembre 2016

06.11.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 20 par. 3

...

Le aberrazioni della statolatria

Presumere che lo Stato sia tutto, asservirvi gl'individui e riguardare la Chiesa poco meno che un'infima sua serva è errore carico di conseguenze disastrose per il mondo e per la sua stessa prosperità materiale. Le nazioni hanno molto dell'infantile nelle loro attività; passano dall'amicizia all'odio, dall'armonia alle guerre, dagli elogi scambievoli ai vituperi, con la più grande facilità, e si lasciano trascinare dall'opportunità del momento; non hanno né sapienza, né stabilità, né equilibrio nella loro vita, e vanno da un eccesso all'altro per le esigenze di quella sporchissima cosa che si chiama politica. Non possono dunque essere l'oggetto di una illimitata fiducia, tanto meno di un'idolatria, che, per la stessa forza materiale della quale dispongono, diventa oppressione esosa della coscienza, del pensiero e della libertà, e la conduce a rovina sicura.

Si rende a Cesare ciò che è di Cesare solo quando si dà a Dio ciò che è di Dio, perché è impossibile riguardare Cesare come un re indipendente ed assoluto, essendo anche egli figlio della Chiesa. Quando la Chiesa con la sua materna influenza non regola le nazioni, esse cadono nello stato nel quale le vediamo oggi, stato di abiezione che le rende tiranne coi sudditi anche il dominatore ingiusto col tributo che riceve concorre all'amministrazione pubblica, chi sottostà non compie opera illecita dando il tributo, ma vi è obbligato, pur essendovi costretto. La questione era questa dunque: chi dominava di fatto la terra d'Israele? E chi, dominandola, provvedeva alla sua amministrazione? Erano i Romani. Dunque, ai Romani si doveva il tributo. Le gabelle si pagavano in moneta romana, ed i contributi al tempio in moneta sacra; la moneta romana che si dava per tributo era in fondo una parte della moneta posta in circolazione dagli stessi dominatori; dunque, pagandola, si dava quello che era dell'impero romano, come dando al tempio la moneta sacra, si dava a Dio quello che da Lui era stato ordinato come riconoscimento del suo dominio.

Riferendosi a questi altissimi principi, per rendere più incisiva la sua risposta, Gesù si fece mostrare un denaro, che era la moneta delle gabelle, e domandò: Di chi è l'immagine e l'iscrizione che porta? Gli risposero: Di Cesare. Egli soggiunse: Rendete dunque a Cesare quello che è dì Cesare, e a Dio quello che è di Dio.

Gesù non volle creare un dualismo tra Cesare e Dio, né tanto meno porre Cesare alla pari con Dio; sarebbe una stoltezza immensa il supporlo; volle solo dire che bisognava rendere a Cesare il tributo amministrativo per dovere di giustizia sociale, come si dava a Dio il tributo sacro del tempio, quale dovere religioso per l'amministrazione del culto; Cesare non rappresenta un potere indipendente da Dio, né ciò che ha relazione allo Stato può rappresentarlo; tutto è sottomesso al Signore, re del cielo e della terra, ed è sottomesso alla Chiesa che ne rappresenta l'autorità; nessun governo può ardire di riguardarsi indipendente dalla verità e dalla morale che la Chiesa insegna, né può credere la Chiesa inferiore a quel tempo. Come materialisti disprezzavano profondamente l'insegnamento di Gesù, e prendevano innanzi a tutti un atteggiamento da superuomini e spregiudicati.

E l'atteggiamento di tutti quelli che hanno poca testa e presumono di averne molta.

Ora vedendo che gli scribi e farisei erano confusi innanzi a Gesù, credettero, come superuomini... da strapazzo, di poterlo essi confondere, e con alterigia, come si rileva dal contesto, gli proposero il caso di una donna che aveva avuto l'uno dopo l'altro sette mariti.

Nella risurrezione, esclamarono in tono da trionfatori, quella donna di quale dei sette sarà la moglie? Giudicando materialmente, essi supponevano che la risurrezione fosse un ritorno alla vita terrena con tutte le sue miserie e tutte le sue esigenze, e siccome non avevano visto mai un morto sorgere dalla tomba, negavano che la risurrezione potesse avvenire in futuro e che l'anima sopravvivesse al corpo. Perciò Gesù, rispondendo loro, distinse prima di tutto la vita di questo secolo da quella del secolo futuro dicendo: Ifigli di questo mondo si sposano e si maritano perché essendo mortali vogliono perpetuare la loro specie; ma quando passano all'altra vita e sono giudicati degni del cielo e della finale gloriosa risurrezione, non si sposano né si maritano perché sono immortali. Vivendo gloriosamente nel Paradiso, sono come gli angeli, sono figli di Dio adottivi, essendo figli della risurrezione, ossia figli di Colui che risorgerà dalla morte e darà ai fedeli, incorporati a sé, la grazia di una risurrezione gloriosa.

C'è un'allusione nascosta a se stesso in quelle parole: i risorti sono figli della risurrezione', Egli, infatti, era la risurrezione e la vita, e da Lui dovevano aspettare la risurrezione gloriosa i suoi fedeli. Gesù non parlò della risurrezione dei cattivi, che pure avverrà, perché essa rappresenta per loro una seconda morte, più terribile della prima, andando in perdizione anche col corpo; Egli, poi, rispose direttamente alla parabola proposta propri e prepotenti con le altre, fino a produrre le tristissime conflagrazioni sociali, delle quali siamo spettatori e vittime.

...

Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 29 ottobre 2016

30.10.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 19 par. 2

2. Zaccheo

Per andare verso Gerusalemme, Gesù, continuando nel suo cammino, attraversò Gerico. La fama dei miracoli da Lui operati, e specialmente quella dei ciechi ai quali aveva ridonato la vista, suscitò grande entusiasmo nella città, ed il popolo gli si affollò straordinariamente intorno. Ora, vi era in Gerico un capo dei pubblici doganieri, il quale, sentendo che passava Gesù, corse e si mescolò prima tra la folla nella speranza di vedere chi fosse.Egli era Ebreo, come si rileva dal suo stesso nome ebraico Zakkai, che significa puro, giusto, e come Ebreo aveva anch'egli la speranza del Redentore futuro; volle vedere Gesù, dunque non per una semplice curiosità, ma per osservare chi fosse, cioè se avesse qualche cosa di straordinario che potesse farlo riconoscere per il Messia promesso.

Zaccheo, capo dei doganieri o pubblicano, esosi esattori delle gabelle romane, che facevano mille soprusi al popolo, era riguardato come un peccatore più degli altri. Piccolo di statura, doveva essere molto scaltro ed intelligente per stare ad un posto di responsabilità che faceva correre anche rischi di aggressioni da parte degli angariati, e richiedeva una mano ferma per tenere disciplinati i suoi subalterni. Doveva avere, però, un buon fondo di rettitudine, come appare dal modo col quale accolse la grazia di Dio, ed un'anima semplice, come può rilevarsi dal gesto che fece per vedere Gesù.

Piccolo di statura ma svelto e nel pieno vigore delle forze come si rileva dal suo gesto, non potendo in nessun modo farsi largo tra la folla, né scorgere Gesù da lontano, da uomo pratico com'era, ebbe un'idea geniale: corse avanti per dove doveva passare Gesù e, visto un albero di sicomoro, vi si arrampicò e vi stette per osservare a suo agio il Maestro divino.

Il sicomoro si prestava a fargli da stazione di osservazione, perché ha i rami quasi orizzontali e non è molto alto; egli, dunque, si appoggiò comodamente ai rami ed attese. Notò l'ondeggiare della folla e dall'alto, forse, non gli sfuggì la miseria di quel popolo angariato; ciò può supporsi dalla risoluzione che prese, sotto l'influsso della grazia, di dare ai poveri metà dei suoi beni.

La grazia non opera mai a salti nell'anima nostra e poté utilizzare l'ispezione che Zaccheo fece del popolo dall'alto dell'albero.

Appena Gesù passò per quel luogo, alzò gli occhi e, visto Zaccheo, si fermò e lo invitò a scendere, dicendogli che gli occorreva fermarsi nella sua casa. Zaccheo apprezzò l'onore altissimo che gli veniva fatto e, scendendo in fretta, lo accolse con grande gioia. La sua dimora non doveva essere molto lontano, e tutto il popolo, vedendo che Gesù era andato da un uomo peccatore, cominciò a mormorare. Eppure avrebbe dovuto esaltare Gesù e ringraziarlo, perché la conversione di Zaccheo fu di immediato vantaggio per i poveri e per tutti quelli che erano stati angariati da lui. E evidente che Gesù andò da quel peccatore per convertirlo e disse che gli occorreva fermarsi in casa sua, perché voleva spingerlo a regolare le ingiustizie che aveva commesse.

Non ebbe bisogno di parlargli; gli bastò visitarlo e, poiché Zaccheo aveva accolto il suo primo invito, accolse con prontezza anche quello che gli faceva dell'anima, e disse: Ecco, o Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno gli rendo il quadruplo. Al contatto con Gesù sentì una grande carità per i poveri, e poiché Gesù era andato da lui per perorare la causa dei diseredati e degli angariati, egli sentì nel suo cuore il calore di quella fiamma di bontà e si sentì tutto trasformato. Diventò prodigo nella carità ed esuberante nella giustizia; dette metà di quello che gli apparteneva e riparò al quadruplo quello che aveva frodato.

Con questo, Zaccheo si mostrò pentito non solo dei peccati contro la giustizia, ma di tutti quelli che aveva fatto; col suo esempio trasse tutta la sua famiglia a seguire Gesù, riconoscendolo per Messia, accettò la salvezza che veniva da Lui, e perciò Gesù disse con accento di grande soddisfazione che la salvezza era venuta per quella casa, formando del suo capo un vero figlio di Abramo. Era venuto a cercare e salvare ciò che era perduto, ed il suo Cuore divino esultava accogliendo un'intera famiglia a salvezza.

sabato 15 ottobre 2016

16.10.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 18 par. 1

2. Pregare con costanza e con umiltà. Semplicità dei bambini

Avendo Gesù accennato nel capitolo precedente alle tribolazioni degli ultimi tempi del mondo, esorta i suoi alla preghiera continua, costante e quasi importuna, per ottenere la misericordiosa giustizia di Dio contro le ingiustizie dei persecutori. Negli ultimi tempi, infatti, sarà tanta l'iniquità degli uomini e così generale l'apostasia che qualunque rimedio o iniziativa umana sarà impossibile; rimarrà solo il grande mezzo della preghiera, e Gesù esorta tutti a fame uso, raccontando una parabola, nella quale caratterizza l'indole dei capi di Stato degli ultimi tempi.

C'era un giudice in una città, il quale non temeva Dio e non aveva riguardi per gli uomini. Era scettico, miscredente, privo di ogni concetto di superiore giustizia e per conseguenza non aveva alcun senso di rispetto o di carità per gli uomini.

Questa malvagia caratteristica noi la vediamo già nei capi atei o miscredenti di tanti Stati moderni, i quali non conoscono la giustizia ma il delitto o la sopraffazione.

C'era in quella città una vedova che aveva ricevuto qualche grave torto o danno, ed incapace di difendersi con le sue forze, perché vedova, ricorse al giudice iniquo. Ma inutilmente, giacché egli non se ne curò e la disprezzo. Essa però non si stancò di supplicarlo e si rese così importuna che il giudice, annoiato, per non essere tormentato dalle sue insistenze, la contentò.

Con questa parabola Gesù fece un argomento dal meno al più: se un giudice iniquo, al quale non importava nulla della giustizia, finì per cedere alle insistenti preghiere della vedova, Dio, che è giustizia per essenza, non ascolterà la preghiera di chi lo invoca giorno e notte contro le sopraffazioni degli empi?

La preghiera che può conquidere un uomo scellerato con l'importunità non conquiderà l'infinita bontà di Dio con l'amore? Egli ascolterà chi lo supplica, e non sarà lento, ma prontamente renderà giustizia.

Gesù dà la ragione di questa sua esortazione e dice chiaro per quali tempi principalmente la fa, soggiungendo: Quando il Figlio dell'uomo verrà, credete voi che troverà fede sopra la terra?

Ecco i tempi nei quali sarà più che mai urgente pregare. Verrà il Figlio dell'uomo in una straordinaria effusione di grazie nella Chiesa e per la Chiesa, ma troverà le anime senza fede ed estremamente rilassate; verrà negli ultimi tempi per giudicare tutti, ed apparirà glorioso quando l'apostasia sarà quasi completa sulla terra; in questi tempi i pochi fedeli superstiti, sbattuti da fierissime persecuzioni ed impossibilitati a difendersi, potranno trovare scampo solo in Dio, e lo troveranno pregando immediatamente.

sabato 8 ottobre 2016

09.10.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 17 par. 4

4. La guarigione dei lebbrosi

Si avvicinavano le feste pasquali, e Gesù intraprese l'ultimo suo viaggio a Gerusalemme per compiervi la sua divina missione. Passò in mezzo alla Samaria, ossia tra i confini della Samaria e della Galilea, avviandosi verso la Perea e, stando per entrare in un villaggio, ancora nell'aperta campagna, gli andarono incontro dieci lebbrosi, i quali, fermatisi da lontano per non avere contatti col popolo, alzarono la voce implorando pietà. La loro fede in Gesù era in quel momento un atto di fiducia; essi lo sapevano potente e speravano che avrebbe potuto alleviare le loro pene; non era ancora una fede di pieno abbandono, e Gesù volle suscitarla in loro con un comando al quale potevano obbedire solo con una fede piena. Andate, Egli dissq, fatevi vedere dai sacerdoti.

Si andava dai sacerdoti per far constatare la guarigione e fare l'offerta al tempio (Lv 14,10-21); ora essi erano ancora infermi, e solo con un atto di viva fede e di obbedienza poterono avviarsi a Gerusalemme. Mentre andavano si sentirono sani, e continuarono il loro viaggio; solo uno di essi, un Samaritano, accortosi d'essere guarito, ritornò sui suoi passi e, glorificando Dio ad alta voce, si prostrò ai piedi del Redentore ringraziandolo. Gli altri nove, nell'esultanza della riacquistata salute, preoccupati com'erano di rientrare subito nel consorzio umano, dal quale la terribile malattia li escludeva, non pensarono di andare a ringraziare Gesù glorificando Dio. Era questo un atto d'ingratitudine del quale Gesù si lamentò, sia per far rimarcare a tutti la loro guarigione, sia per esortarli alla gratitudine nei benefizi divini, facendo rilevare che questo dovere l'aveva sentito solo un Samaritano da essi sprezzato come eretico e scismatico.

sabato 1 ottobre 2016

02.10.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 17 par. 3

3. La potenza della fede ed il dovere di servire Dio

Parlando degli scandali, Gesù Cristo alludeva principalmente ai farisei che allontanavano le anime dalla fede nel regno di Dio; e parlando del perdono, evitava negli apostoli un risentimento inesorabile contro di loro. Egli voleva che aborrissero dal male ma non che si isolassero in loro stessi quasi fossero un partito od una setta. La Chiesa è universale anche quando discaccia gli erranti dal suo seno, perché li vuole salvi e perdona loro con generosità.

Gli apostoli capirono che Gesù li premuniva contro gli scandali che li scuotevano nella fede e, riscontrando in loro effettivamente una diminuzione di fede, lo pregarono ad accrescerla nei loro cuori. Tra gli scandali, infatti, il più spaventoso è quello che scalza dall'anima la fede; è un vero assassinio interiore, poiché un'anima senza la fede è oscurata, è confusa, è disperata, è morta.

A volte una sola parola stolta o sprezzante può gettare l'anima nel dubbio, e un dubbio positivo e volontario sulle verità eterne è già la perdita della fede.

Anche un sogghigno può disorientare un'anima dalla verità e può produrre in lei una grande rovina. Se si ponderasse la natura di questa rovina non si sarebbe così facili a riportare gli errori dei perversi, né si oserebbe fare una stupidissima ed insulsa propaganda contro tutto quello che è soprannaturale, con la scusa di precisione critica e storica. Anche se si avesse ragione per farla, non si dovrebbero gettare nell'anima dei piccoli quei dubbi che essi poi allargano a tutta l'universalità della fede, naufragando miseramente nei gorghi dell'errore e perdendo la grazia di Dio.

La fede è un tesoro immensamente prezioso per l'anima e per la medesima vita presente, poiché è faro di luce e consolazione immensa nelle sue angustie; bisogna, dunque, custodirla gelosamente nel cuore proprio ed in quello degli altri.

Gli apostoli, domandando l'accrescimento della loro fede, desiderarono vedere compiute opere meravigliose per confusione dei farisei e probabilmente desiderarono compierle essi stessi. Per questo Gesù rispose che se ne avessero avuto quanto un granello di senapa, cioè anche poca, ma viva e capace di accrescersi, avrebbero potuto con un comando far trapiantare nel mare un albero di sicomoro.

Col suo sguardo divino Gesù vide le opere grandi e miracolose che gli apostoli avrebbero fatto per la diffusione della fede nel mondo e, per prevenire in loro e nei loro successori qualunque atto di vanità o di presunzione soggiunse, col suo stile divinamente sintetico, che essi avrebbero un giórno lavorato molto, ma che non avrebbero avuto mai motivo di invanirsi e dovevano riguardarsi come servi inutili, cioè non necessari a Dio, dato che i miracoli li avrebbe operati Lui con la sua onnipotenza.

sabato 24 settembre 2016

25.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 16 par. 4

4. La parabola del ricco epulone

Per imprimere meglio nei cuori il capovolgimento che avviene innanzi a Dio di ciò che il mondo stima grandezza e ricchezza e per mostrare più efficacemente quale uso deve farsi delle ricchezze, Gesù raccontò una parabola bellissima che è una vera rivelazione sul mistero della vita futura in ordine alla vita che meniamo in terra.

C'era un uomo ricco, tanto ricco che vestiva come un re, di porpora e di finissimo lino di Egitto, chiamato bisso. Era un gaudente, ed ogni giorno faceva splendidi banchetti. Alla porta del suo sontuoso palazzo v'era un povero, chiamato Lazzaro, abbreviatura di Eleazaro, il quale era piagato, sfinito ed affamato e, sentendo il profumo delle vivande del ricco, desiderava almeno di averne i residui e nessuno gliene dava. Venivano a lui i cani a leccargli le piaghe, forse i cani del palazzo stesso del ricco, il che dimostra che vi erano riguardati più del povero. Lazzaro non aveva neppure la forza di allontanarli, e forse aveva da essi soltanto un sollievo al prurito delle sue piaghe.

Ecco una vita splendida ed una vita infelicissima innanzi al mondo; ma innanzi a Dio la cosa era immensamente diversa. Morì infatti il povero e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo, cioè nel Limbo, dove i giusti, in compagnia di Abramo, attendevano che il Redentore aprisse loro le porte del cielo. Era un luogo di felicità e di pace naturale, immensamente superiore a qualunque stato di terrena felicità. Dopo poco tempo morì anche il ricco e fu sepolto nell'inferno. La sua vita dissoluta aveva prodotto il suo frutto di morte, ed egli tra le fiamme dell'inferno soffriva orribili tormenti.

Dal luogo della sua perdizione, così permettendolo Dio, vide da lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno, cioè in sua felice compagnia. Quale contrasto con la vita misera che quel povero aveva condotto, e con la vita tormentosa che il ricco attualmente viveva! Questi sperò almeno un minimo sollievo fra le pene che soffriva, e rivolgendosi ad Abramo, quale capo del popolo cui apparteneva, lo supplicò di mandargli Lazzaro perché avesse intinto la punta del dito nell'acqua e gli avesse refrigerato la lingua, giacché bruciava nelle fiamme. Abramo gli rispose con una sentenza che non ammetteva repliche: egli aveva ricevuto beni nella vita mortale e non aveva fatto opere sante; Lazzaro aveva ricevuto tribolazioni e le aveva sofferte in pace per amore di Dio. Ora la situazione s'era capovolta irrimediabilmente, perché lo stato dell'eternità è immutabile, e non poteva mai avvenire che Lazzaro avesse potuto sollevarlo, per l'abisso incolmabile che separava lo stato di salvezza e quello della perdizione.

Il povero ricco, non potendo avere egli un sollievo, si preoccupò di cinque fratelli che aveva e supplicò Abramo di mandare Lazzaro ad avvertirli, giacché conducevano vita sontuosa pure essi, e non voleva che avessero la stessa sorte.

Abramo non disse che Lazzaro non sarebbe potuto andare da essi, ma replicò che avevano già Mosè ed i profeti, e potevano alla luce delle loro parole salvarsi. Il ricco insistette che se avessero avuto l'avviso salutare da un morto avrebbero fatto penitenza; Gli sembrò che l'apparizione di un'anima felice come quella di Lazzaro e l'avviso della propria perdizione li avrebbero scossi. Ma Abramo gli disse recisamente che se non credevano a Mosè ed ai profeti, non avrebbero prestato fede neppure ad un morto risuscitato.

sabato 17 settembre 2016

18.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 16 par. 2

2. Il fattore infedele ed il buon uso che si deve fare delle ricchezze per la vita eterna

Con la parabola del fìgliol prodigo Gesù aveva mostrato quale rovina morale e materiale poteva produrre l'abuso delle ricchezze; con questa del fattore infedele mostra come esse possano utilizzarsi in bene. L'argomento del Signore è dal meno al più: se un fattore infedele, con una ricchezza che gli era stata solo affidata, poté provvedere al suo avvenire con un poco di accortezza e di generosità, benché fatta fraudolentemente, quanto più può provvedere al proprio eterno avvenire chi si serve delle ricchezze ricevute dal Signore per formarsi degli amici nell'eternità per mezzo delle opere di carità!

Gesù non volle proporre come modello un'azione ingiusta, com'è evidente, ma, raccontando la bella parabola, volle indirettamente mostrare anche che le ricchezze portano quasi sempre il marchio dell'ingiustizia e dell'iniquità, perché o sono frutto o strumento di iniquità. Per questo le chiamò mammona iniquitatis, e non fece distinzione fra ricchezze giuste od ingiuste. Se si facesse la genealogia del denaro, infatti, si troverebbero sempre sulle sue linee ascendenti o discendenti dei delitti. Noi non pensiamo che quel denaro che abbiamo in tasca forse è stato il prezzo di un peccato o di amarissime lacrime, e che per non farlo essere pestifero dobbiamo sempre quasi riconsacrarlo con la carità. Potremmo portare in tasca anche il prezzo di un'impurità o di un omicidio, e quel denaro, pur passato a noi lecitamente, porta una terribile infezione con sé. Quanti si lavano le mani quando maneggiano il denaro, e fanno bene, perché è la cosa fisicamente più sporca che vi sia, passando per tante mani; ma prendendo il denaro dovrebbero anche fare un atto di riparazione a Dio, e serbarne una percentuale, sia pur minima, alla carità, per disinfettarlo spiritualmente.

sabato 10 settembre 2016

11.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 15 par. 2

2. L'infinita misericordia di Dio nel ricercare i peccatori e nell'accoglierli, in uno sguardo generale alle parabole di Gesù

Si avvicinavano a Gesù i peccatori e i pubblicani per ascoltarlo. Il testo greco dice che gli si avvicinavano tutti i peccatori ed i pubblicani, per far rilevare che tutti erano attratti dalla bontà di Gesù, anche quelli che poi non si convertivano per loro colpa.

C'era, infatti, nel Redentore una potente attrattiva, perché Egli era venuto in terra per rigenerarli ed aveva in sé la delicatezza di una mamma, la premura di un pastore e l'espansione di un affettuosissimo padre. I peccatori, poi, standogli vicino, si sentivano migliori, perché in quell'immensa luce di santità l'anima loro spontaneamente si umiliava.

I farisei e gli scribi non potevano tollerare la bontà di Gesù, perché contrastava troppo con la loro durezza; premurosi com'erano della loro fama e della loro gloria, disprezzavano i peccatori per ostentare anche così la loro pretesa giustizia e riprovavano l'atteggiamento di Gesù, non tanto perché loro dispiacesse, ma per far rimarcare al popolo che Egli non era giusto come loro. Credevano che la sua familiarità coi peccatori dipendesse per lo meno da superficialità e volevano far rilevare che Egli non sapeva conoscerli, e quindi non era profeta.

domenica 4 settembre 2016

04.09.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 14 par. 3

3. La grande cena preparata da Dio alle sue creature nella redenzione e la via per giungervi

Quando Gesù esortò il fariseo a invitare a pranzo i poveri, gli storpi, gli zoppi ed i ciechi, pensò certamente al grande invito del Padre celeste alle sue creature nella redenzione, e parlò con tanta profonda tenerezza che uno dei commensali ne fu colpito, intuì il suo pensiero ed esclamò: Beato colui che mangerà il pane nel regno di Dio.

Egli aveva dovuto sentire altre volte Gesù parlare del regno eterno come di un convito (Mt 22,1-14), ed ascoltandolo ora, se ne ricordò, e con quella esclamazione glielo ricordò per ascoltare ancora dalle sue labbra una bella parabola. È profondamente psicologico, giacché noi amiamo sentir ripetere da quelli che sanno parlare i discorsi nei quali trasfondono maggiormente la loro vita, e quelli che più li interessano. Gesù che sapeva d'essere venuto a dare agli uomini un banchetto celeste, non poteva parlare di questo soggetto senza sentire nel Cuore e trasfondere nelle parole tutta la sua tenerezza.

Egli lesse nel cuore del commensale il desiderio di riascoltare il racconto, ed esclamò: Un uomo fece una grande cena ed invitò molti. Stando a tavolar la parabola prendeva un carattere più vivo e Gesù la raccontò volentieri per trarre da quel banchetto un insegnamento salutare.

Gl'inviti ad un pranzo, presso gli Ebrei, si facevano molto tempo prima; quando, poi, si avvicinava l'ora del convito e tutto era pronto, si mandavano i servi ad avvertire e ad accompagnare i commensali. Perciò Gesù soggiunse che il padrone della casa all'ora della cena mandò un servo a chiamare gl'invitati, dicendo loro che il desinare era pronto. Tutti però molto scortesemente cominciarono a scusarsi; s'erano così poco dato pensiero del banchetto, che avevano proprio in quel giorno stabilito di dar corso ai loro affari, e uno di essi addirittura di sposare.

Uno disse che aveva comprato un podere e doveva andare a vederlo, un altro che aveva comprato cinque paia di buoi ed aveva necessità di provarli, un terzo disse più recisamente e più scortesemente che aveva preso moglie e perciò non poteva venire. Gli altri usarono una certa forma nel rifiutare, e dissero al servo: Di grazia, abbimi per scusato, ma chi aveva preso moglie, frastornato come era ed impegnato al suo banchetto nuziale, disse recisamente che non poteva venire.

Il padrone ne fu sdegnato. Chi prepara con amore un banchetto fa spese insolite e si stanca in un maggior lavoro, ha quindi piacere che si mangi. A volte prepara anche qualche sorpresa, qualche cibo ricercato, e sta tutto preoccupato di riceverne gli elogi e di vederlo gustare. Nel suo dispiacere, non volendo che si perdesse ciò che aveva preparato, disse al servo di andare per le piazze e per le contrade della città e raccogliere i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi, invitandoli a venire essi a mangiare; solo questi infelici, infatti, all'ora di pranzo potevano trovarsi in bisogno a trattenersi sulle pubbliche vie in cerca di carità.

Il servo li chiamò, ma, essendovi ancora posto, il padrone gli ordinò di andare a raccogliere per le strade di campagna, fiancheggiate dalle siepi, altri poveri abbandonati, e forzarli con modi affettuosi a venire al banchetto. Lungo le siepi, infatti, ci potevano essere solo i poveri più abbandonati, i quali avevano vergogna di comparire in pubblico, o temevano di essere vessati per qualche loro malanno, ed essi dovevano essere sforzati ad entrare.

Così si riempì la sala del banchetto, e il padrone protestò che nessuno di quelli che avevano rifiutato l'invito avrebbe assaggiato la sua cena.

Questa sua protesta potrebbe apparire inutile dato che essi avevano già rifiutato, ma Gesù volle dire che chi rifiuta il banchetto della vita, nel giudizio universale si accorge di avere errato, inutilmente desidera allora di prendervi parte, giacché allora sarà per sempre finito il tempo della prova.

La chiusa della parabola riguarda la sua applicazione spirituale, e l'applicazione Gesù non la fece, perché altre volte l'aveva fatta, e per non urtare i farisei che erano presenti.

L'uomo che fece la grande cena è il Dio che preparò grandi grazie ai suoi fedeli con la redenzione, e v'invitò prima di tutto il popolo eletto. Ma Israele, distratto dalle sue aspirazioni materiali, dai beni terreni e dalle aspirazioni sensuali, non ricevette l'invito e rifiutò le grazie. Dio allora mandò i suoi apostoli per tutta la terra tra i pagani, poveri di grazie, storpi nella vita, ciechi perché privi della verità, e zoppi perché incapaci di muoversi soprannaturalmente, a raccogliere fra essi i novelli invitati alla grande cena.

I pagani risposero all'invito, ma, poiché vi sarà ancora luogo per completare il numero degli eletti, Dio manderà i suoi servi negli ultimi tempi a chiamare alla fede i popoli più poveri e più lontani, i selvaggi che abitano nelle foreste e le genti più abbandonate, e li raccoglierà nella Chiesa, banchetto di vita, e nel suo regno, banchetto di eterna Gloria. Dio li sforzerà ad entrare non con la violenza ma con grandi grazie, e li farà entrare non contro la loro volontà, ma conquidendoli con la misericordia e con la carità.

domenica 28 agosto 2016

28.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 14 par. 2

2. La guarigione dell'idropico e la carità. La superbia impedisce la carità

Gesù Cristo entrò in casa di uno dei principi dei farisei in giorno di sabato, per prendervi cibo. Era stato invitato da lui, forse, per aver modo di trovarlo in fallo, giacché è detto nel Sacro Testo che gli tenevano gli occhi addosso.

In una casa di un principe dei farisei non era meraviglia che vi si trovassero molti ostili al Redentore, pronti ad appuntarlo. Essi sapevano che Egli non dava importanza ai loro usi nel mangiare e, per avere di che rimproverarlo, lo invitavano a pranzo.

La sala dei banchetti era aperta a tutti, e fu facile ad un povero idropico penetrarvi e presentarsi a Gesù. Egli non domandò nulla, per timore dei farisei, ricordando forse la raccomandazione del capo della sinagoga (13,14) di non farsi curare in giorno di sabato, ma stette avanti a Gesù ed attese la sua misericordia. Dal contesto si rileva che l'idropico non era stato introdotto nel banchetto dai farisei, e che doveva credere in Gesù, dato che ne fu guarito.

Il Redentore, rivolto ai dottori della Legge che erano presenti ed ai farisei, domandò loro: E lecito guarire in giorno di sabato? Con questa domanda li pose in imbarazzo, giacché essi sapevano che il guarire non era opera servile e sapevano che il riprovare in giorno di sabato un atto di carità era lo stesso che condannarsi. Perciò tacquero. E evidente dalle parole di Gesù che, pur tacendo, essi erano contrari a far guarire uno in giorno di sabato, non tanto per amore della Legge, quanto per ostilità verso il Signore, e vedendo che Egli, difatti, guarì l'idropico, fecero segni di riprovazione, e mormorarono nel loro cuore. Perciò Gesù rispondendo ai loro pensieri disse: Chi di voi, se gli cade l 'asino od il bue nel pozzo il giorno di sabato non lo estrae subito?

I pozzi allora erano senza parapetti, coperti solo da una pietra quando non servivano; era dunque possibile che un asino od un bue vi cadessero dentro. Ora come poteva dirsi lecito salvare una bestia dall'acqua, e credere poi illecito salvare un uomo da un malanno d'idropisia?

I primi posti...
I farisei non poterono rispondergli nulla, ma si mostrarono contrariati di quella umiliazione subita e, mettendosi a tavola, quasi per rifarsene, ebbero cura di prendere i primi posti. E probabile che qualcuno di essi fosse stato invitato, allora stesso, dal capo di famiglia a cedere il posto che spettava ad altri più degni, e che ne avesse fatto lagnanza, perché Gesù rivolse la parola a tutti e cominciò ad esortarli a prendere l'ultimo posto se non per virtù, almeno per non fare una brutta figura innanzi agli altri.

Certo Gesù voleva spingerli a cercare l'ultimo posto per umiltà vera e sentita, ma i suoi commensali non erano capaci di tanto, e si contentò di convincerli almeno con un motivo umano. Con questo volle in certo modo promulgare e sanzionare quelle regole di buona creanza, che sono una certa preparazione e disposizione alla virtù vera, perché rappresentano sempre un dominio sulle proprie debolezze ed un primo abbozzo della carità verso gli altri.

È importante, infatti, anche ai fini della virtù, disciplinare le proprie azioni con la sana educazione e il galateo. La virtù vera produce sempre un modo di agire delicato e gentile, ma quando la virtù manca e non si è ancora formata, il modo delicato e gentile produce nell'anima una disposizione naturale che può facilitare, poi, l'azione della grazia. Gesù Cristo non esorta ad operare per un fine naturale, è evidente, ma a constatare che la mancanza di virtù induce una mancanza di forme esterne che raccolgono il disprezzo degli altri. Ai farisei, del resto, che operavano solo per essere onorati innanzi a tutti, era questo il motivo per indurli a smettere quei loro atteggiamenti tracotanti e superbi, che tanto male tacevano all'anima loro.

Il galateo, base della virtù
Forse se alle anime principianti nella virtù s'insegnasse il galateo ne guadagnerebbe la stessa virtù; il galateo è come un abito decente posto addosso ad un povero uomo del volgo, è una spinta a cambiare certe abitudini disordinate, contratte a volte dalla nascita, con abitudini più decorose e l'incivilimento della vita che è poi utilizzato dal Signore per l'elevazione dello spirito, è il primo dirozzamento della natura che si dona a Dio, è un tratto di nobiltà insegnato a chi non ha l'abito della gentilezza.

Insegnando a scegliere l'ultimo posto negl'inviti, Gesù notò che alla tavola del fariseo c'erano tutte persone di riguardo, le quali perciò facevano a gara a prendere i primi posti.

Era una vana ostentazione della propria eccellenza, ed un profondersi in cerimonie fatte per pura convenienza. Gesù scrutava i cuori e vedeva il retroscena di quegl'inviti fatti per opportunismo, per disobbligo, per obbligare gli altri, e sentì in quel pranzo tutta l'assenza agghiacciante di ogni fine gentile e soprannaturale; perciò, rivolto al fariseo che lo aveva invitato, lo esortò, per un'altra volta che volesse fare un pranzo, ad invitarvi i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi, per averne merito poi innanzi a Dio nella vita eterna.

Esortandolo così, Gesù gli rendeva un servigio spirituale, e lo indirizzava per la via del vero bene, dandogli Egli stesso un contraccambio prezioso dell'invito che in quel giorno aveva avuto.

I pranzi e le feste
L'esortazione di Gesù al fariseo è preziosissima per noi, e ci guida in quello che è uso comunissimo tra tutte le genti: i pranzi fatti nelle feste e nelle solennità. Gesù non condanna un pranzo, fatto anche per accrescere la letizia di una festa, ma ci esorta a non renderlo una misera speculazione di orgoglio o d'interesse personale. Egli vuole che alle nostre feste partecipino i poveri e gl'infelici, e non dice proprio letteralmente di invitarli a pranzo, il che pure sarebbe lodevole, ma di renderli partecipi della nostra gioia.

Un pranzo non può ridursi, evidentemente, ad una scorpacciata, il che sarebbe cosa indegna; è come un accrescimento della famiglia fatto con persone care ed è un'effusione di generosità, poiché la gioia è naturalmente espansiva.

Ora noi siamo tutti figli del Padre celeste, ed è giusto che facciamo usufruire della nostra generosità quelli che ne hanno più bisogno. Oh, se si capisse quale vantaggio porta la carità e quanta benedizione portano con loro i poveri nelle nostre feste, non faremmo mai mancare in esse la beneficenza e la carità. È così che i pranzi non si riducono ad un più o meno larvato epicureismo, ed è così che la povera gioia della terra si muta in gioia del cielo.

Sac. Dolindo Ruotolo

 

lunedì 15 agosto 2016

15.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1 par. 5

5. L'incontro con sant'Elisabetta. La fede che dona un linguaggio di vita: Magnificat anima mea Dominum!

Maria si pose in viaggio per le vie deserte dei monti e camminava frettolosamente. Cercava la solitudine, perché aveva un gran bisogno di amare in silenzio, e correva perché era quasi come spirito e non avvertiva il peso del corpo.

Chi ha provato un momento d'intimo amore con Dio sa quanta vita esso trasfonde in tutto il corpo, rendendolo più sottomesso all'anima, più docile strumento dello spirito; questa vita dovette essere immensa in Maria, tutta avvolta dalla fiamma dell'eterno Amore. Non poggiava quasi sul suolo e, come colomba librata al volo, divorava la via. Correva senza affannare, spinta come da un vento, giacché la creazione le faceva quasi riverenza, e l'aria stessa s'apriva innanzi a Lei, per non opporre resistenza ai suoi passi. Correva esultando nel suo spirito, con passo sicuro e senza timore, giacché la gioia pura dell'anima dà anche al corpo un novello vigore ed una maggiore decisione nei suoi movimenti. I suoi sentimenti si arguiscono da quelli espressi a sant'Elisabetta, espressione magnifica dell'anima sua benedetta: glorificava Dio, esultava in Lui Salvatore, vivente nel suo seno, si umiliava e considerava la sua grande missione nei secoli, attribuiva al Signore tutta la propria grandezza, e considerava le conseguenze della misericordia fatta da Dio alla terra, la dispersione dei superbi, l'umiliazione dei grandi e l'elevazione degli umili. Era piena di Dio, conversava con Lui, lo amava d'intenso amore, piena di riconoscenza per il compimento delle promesse fatte da Lui ad Abramo ed alla sua discendenza; cantava nell'esultanza del suo spirito, ed esplose nella pienezza del suo amore innanzi alla santa cugina.

sabato 13 agosto 2016

14.08.2016 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 12 par. 5

5. Amore vero e sacrifìcio eroico nella carità profonda e nel perdono

Molti hanno poetato sul nome di Roma, dicendo che è un nome di amore: Roma = Amor. Essi non pensano però che, considerata, nella sua vita pagana, Roma è un amore rovesciato, che equivale all'odio implacabile. Roma imperiale, specialmente, ha disseminato il mondo di rovine e di stragi, asservendo tutto al suo imperialismo tiranno ed alla fatua gloria di pochi capi. Tutte le storie, del resto, delle umane conquiste hanno questa triste eredità di odio e di sangue.

Gesù Cristo si proclama invece conquistatore di amore per il suo sacrificio cruento e pone come base del carattere cristiano l'amore, il sacrificio eroico e la carità. Egli è venuto a portare sulla terra il fuoco, non quello della distruzione ma quello della carità e desidera solo che esso si accenda; è venuto a portarlo sottomettendosi Egli al completo sacrificio ed ai dolori che dovevano inondarlo come un battesimo, e l'amor suo glieli fa desiderare con ansia vivissima, che lo tiene in angustia fino a che non li abbia tutti subiti. Questo amore e questo sacrificio Egli li lascia come bella eredità anche ai suoi seguaci, poiché la conversione del mondo importerà per essi il subire persecuzioni e dolori persino dalle persone più care di famiglia.

Non c'è dunque da illudersi; la predicazione del Vangelo, contrastando le umane passioni, produrrà reazioni violente, che saranno causa di gravi dolori agli apostoli della divina Parola ed a quelli che li seguiranno.

Questo fu già annunziato dai profeti ed il vederne il compimento dev'essere per tutti un argomento di verità. Gli scribi e farisei si condannavano da se stessi rifiutando la verità, poiché sapevano distinguere gli aspetti del cielo dalle nubi o dal soffiare dei venti e non volevano distinguere i segni inconfondibili della venuta del Messia, nelle stesse persecuzioni che muovevano a Lui ed ai suoi discepoli. Compivano essi stessi i vaticini dei profeti, e non si accorgevano che il loro avveramento era il segno della maturità delle divine promesse.

L'allusione all'ostinazione degli scribi e farisei nel rinnegare la verità è come un inciso al discorso di Gesù, ed Egli subito dopo continua il suo annunzio profetico delle grandi persecuzioni che avrebbero sofferte i suoi seguaci, esortandoli alla mansuetudine, alla prudenza ed alla carità. Era questa l'unica e grande forza alla quale dovevano fare appello per difendersi, poiché il cristiano è figlio di pace e messaggero di carità. Deve cercare in tutto l'accordo, la tranquillità e la carità, evitando con la prudenza quello che può inasprire gli avversari e renderli più violenti.

È questo il programma della Chiesa, al quale Essa rimane fedele nei secoli: di fronte alla brutalità dei suoi nemici che vorrebbero soffocarla cerca sempre l'accordo e la pace, e la sua diplomazia è sempre ispirata all'onore di Dio ed al bene delle anime.

Dev'essere questo lo spirito di ogni suo ministro e di ogni suo fedele, poiché l'accordo con gli avversari, o almeno la prudenza nel trattarli, quando si mostrano incapaci di un accordo, salva il bene dall'estrema distruzione. Dalla parabola che Gesù dice (versetti 58 e 59) è evidente che Egli non vuole che i suoi seguaci siano amanti di liti, poiché nelle liti ci sono le dissensioni, le avversioni, gli odi, e questo sta agli antipodi del bene che bisogna fare alle anime. Anche quando si ha ragione, in una lite che non compromette l'anima o la coscienza, bisogna cedere per non correre rischio di incontrare impedimenti nel fare il bene, e per evitare d'averne la peggio anche innanzi ai giudici, come spesso avviene.