1. Il significato letterale di questo capitolo.
Nel capitolo precedente S. Pietro aveva esortato i fedeli ai quali scriveva, alla santità, considerando la santità di Dio e la redenzione loro, operata da Gesù Cristo, che li impegnava a seguire i suoi insegnamenti, obbedendo alla verità, amandosi con amore fraterno, senza finzione, di cuore, costantemente, e logicamente determina quale deve essere il loro amore fraterno, senza finzioni, di cuore, ed esclama: Ripudiate, dunque, ogni malizia, opposta alla carità, ed ogni inganno, che è finzione, come sono finzioni le ipocrisie, e sono contro la carità e le lealtà le maldicenze di ogni genere contro il prossimo.
Queste raccomandazioni S. Pietro le fa ai neofiti, di fresco battezzati e aggregati alla Chiesa, che facilmente potevano ancora essere dominati dalle abitudini della vita passata e dalle massime del mondo pagano. Li considera perciò affettuosamente come bimbi lattanti, di fresco nati, che hanno bisogno di essere nutriti di latte spirituale, o, come indica la parola greca, razionale, e perciò di istruzioni che egli fa loro come una mamma che allatta i suoi figli, affinché, evitando ogni colpa contraria allo spirito cristiano, possano crescere fino a raggiungere la salvezza.
Psicologicamente, le esortazioni che hanno il tono di un’imposizione o di un rimprovero sono sempre ricevute con ripugnanza, e possono suscitare reazioni. Evidentemente i fedeli ai quali S. Pietro si rivolgeva cadevano facilmente nei peccati, che egli raccomandava loro di fuggire, e che erano come triste conseguenza delle passate abitudini che avevano prima del Battesimo.
L’Apostolo, pertanto, raccomanda loro in tono imperativo: ripudiate ogni malizia, come è anche più chiaro nel testo greco. Ora, quell’imperativo nervoso poteva urtarli, rendere vana l’ammonizione, e perciò l’Apostolo ne tempera immediatamente l’asprezza, e, quasi giustificandosi o scusandosi, li considera affettuosamente come bimbi lattanti, che egli nutrisce quasi mamma (l’idea del latte dava l’idea dell’affetto materno), e protesta che parla loro non per contristarli, ma perché sinceramente, (e perciò chiama latte spirituale, ossia razionale e sincera l’ammonizione che fa), perché sinceramente vuole la loro eterna salvezza, amalgamandoli ancora col ricordo della dolcezza provata da loro nel Battesimo, e perciò dice: Se davvero gustate quanto soave è il Signore.
Queste delicate sottigliezze di stile e di espressioni sono tanto più belle, se si considera psicologicamente non solo la difficoltà che hanno più o meno tutti di accogliere un ammonimento imperioso che li tocca sul vivo dei loro difetti, ma anche in particolare l’indole dei popoli orientali che sono facili ad offendersi ed a reagire per ogni parola di rimprovero. Forse anche noi abbiamo sperimentato e sperimentiamo quanta delicata accortezza e prudenza ci vuole per fare, a chi manca, un rimprovero, e con quanta caritatevole sagacia bisogna temperarne ogni possibile asprezza. A bella posta noi facciamo rimarcare certe delicate sottigliezze di stile in S. Pietro, che riescono di istruzione preziosa anche per noi nel trattare quelli che per dovere dobbiamo ammonire.
S. Pietro, esortando all’unione dei fedeli nella carità, li ha richiamati alle dolcezze provate nel Battesimo, iniziazione cristiana, nella quale i battezzati, uniti in una sola fede, si sentivano maggiormente fratelli.
Anche questo è psicologico, perché in realtà, anche oggi, quando si fa una funzione solenne, come la ricezione di un novizio o di una novizia in una Comunità, o anche la ricezione di terziari, viene spontaneo in quel momento un senso di maggiore fratellanza in quelli che ne fanno parte. Ma, da quello che l’Apostolo dice subito dopo, pare chiaro che, ricordando ai fedeli le dolcezze provate nel Battesimo, e dicendo: Se davvero gustate quanto è soave il Signore, S. Pietro allude alla dolcezza dell’unione di Gesù Sacramentato, ricevuto su
bito dopo il Battesimo, che li univa in Lui, nella sua vita divina, in una sola, sostanziale fratellanza.
Questo che diciamo risulta chiaro, come vedremo subito, da quello che S. Pietro soggiunge, ma può risultare anche dall’espressione: Se davvero gustate quanto è soave il Signore. In molti codici, infatti, invece della parola soave in greco cristos, si ha Cristos, Cristo, e l’espressione gustare che è proprio di chi mangia un cibo di dolcezza, non lascia dubbio che S. Pietro, alludendo al ricordo della fratellanza nel Battesimo, richiami i fedeli col ricordo della fratellanza in Gesù vivente nell’Eucaristia. Egli, infatti, soggiunge: Unendovi strettamente a Lui, a Gesù, pietra vìva, dagli uomini spregiata, ma da Dio scelta e pregiata.
Unirsi a Gesù, pietra viva, fondamentale della Chiesa; pietra spregiata, ossia ripudiata con la condanna alla morte di croce, significava unirsi a Lui vivente nell’Eucaristia. Il chiamarlo pietra viva spregiata, è un richiamo al suo sacrifizio, che Egli rinnova nell’Eucaristia, e per il quale Egli è pietra vivente, pietra angolare dell’edificio della Chiesa, che unisce i fedeli nella fratellanza della carità.
San Pietro, eletto da Gesù Cristo ad essere la pietra fondamentale della Chiesa, aveva ancora viva nel cuore l’impressione che gli fece la maestà del volto divino di Gesù quando gli disse: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e rappresentando Gesù vivente visibilmente nella sua Chiesa, amava il paragone della pietra, e perciò, chiamando Gesù pietra viva fondamentale della Chiesa, chiama anche i fedeli pietre viventi dell’edificio della Chiesa, appoggiate e compaginate sulla pietra fondamentale, Gesù Cristo e sul Papa: Anche voi come pietre viventi, siete costruiti come edificio spirituale in un sacerdozio santo, per offrire vittime spirituali, bene accette a Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Il sacerdozio mistico
Ecco in sintesi l’edificio della Chiesa: la pietra fondamentale, reale ma invisibile; la pietra fondamentale visibile nel Papa e nei suoi successori, posti da Gesù Cristo come pietra fondamentale viva, che per la ininterrotta successione non muore mai nei secoli e non si muta mai; i fedeli, che sono le pietre viventi dell’edificio spirituale,
non materiale ma visibile, come società perfetta, legata da vincoli spirituali, dalla vita soprannaturale che l’anima come un sacerdozio santo, mistico, che offre sacrifici spirituali bene accetti a Dio, per mezzo di Gesù Cristo, cioè per le grazie che vivificano le anime unite a Gesù Cristo per i Sacramenti.
I fedeli della Chiesa sono come un sacerdozio mistico, che non offre vittime materiali, come facevano i Sacerdoti ebrei, che non offrono il sacrificio della Messa, come fanno i Sacerdoti di Gesù Cristo, ma si uniscono a quel sacrificio partecipandovi; essi perciò offrono vittime spirituali, bene accette a Dio, perché offrono il loro cuore e la loro vita santa. Queste vittime ossia sacrifici, sono specificati da S. Paolo, e sono specialmente: la preghiera, che è ossequio spirituale (Rom. 12, 1), e vittime di lode (Ebr. 13, 15); la santità della vita (Rom. 12, 1); il soccorso finanziario ai missionari (Filip. 4, 18); il lavoro apostolico (Rom. 15, 15). Papa Pio XII, nell’Enciclica Media- tor Dei del 20 novembre 1947, include in queste vittime spirituali gli stessi fedeli che debbono offrire se stessi nel Sacrificio Eucaristico.
II cristiano non può essere assente o indifferente alla vita della Chiesa; deve partecipare attivamente a tutte le sue attività, diversa- mente non è pietra viva dell’edificio, ma pietra morta, pietra sgretolata dai venti del mondo. È un dovere per lui, proprio come un sacerdozio santo, come una vittima di amore, offrire a Dio le pene e le prove della vita, le attività della propria giornata, nella propria professione o nel proprio lavoro intellettuale o materiale.
Il cristiano non può disinteressarsi della vita della Chiesa, non può leggere i giornali mondani, trascurando di acquistare e leggere quelli cattolici. Se parla il Papa, se parla il Vescovo od anche il Parroco o il Sacerdote, non può disinteressarsene come cose che non lo riguardano. Non può frequentare ambienti mondani, o, peggio, immorali, come sono oggi i cinema ed i ritrovi. Anche se ve lo attrae la curiosità, o peggio la passione, deve farne un sacrificio a Dio. Il cristiano non può rimanere insensibile od ozioso di fronte a quelli che non sono cattolici e si perdono, ma secondo le sue possibilità deve dedicarsi all’apostolato, deve essere attivo e validamente presente nelle attività di zelo nella Chiesa.
Evidentemente S. Pietro, chiamando i fedeli sacerdozio santo, non intende dire che tutti i fedeli siano sacerdoti in un senso proprio *. Anzi dal termine passivo usato da S. Pietro, e dal contesto biblico cui allude, risulta che l’Apostolo intende dire che i fedeli sono un edificio di pietre vive governate dal Sacerdozio e animate da spirito sacerdotale di sacrificio, di carità, di amore e di zelo. Ver questo, soggiunge, citando il Profeta Isaia (28, 16) ciò che vi dico è contenuto nella Scrittura'. Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, — scelta, pregiata, — e chi crede in essa non sarà confuso. Cita Isaia, proprio per confermare che, secondo la promessa di Dio, i fedeli debbono appoggiarsi a Gesù Cristo, pietra fondamentale della Chiesa, con una fede viva ed attiva, quasi sacerdozio di santità.
La pietra fondamentale di un edificio solido e stabile è sempre scelta fra le migliori pietre, e per questo è chiamata scelta e pregiata; ora, quale pietra più scelta e più pregiata del Redentore venuto dal Cielo in terra per fondare la sua Chiesa? E non c’è un onore più grande che appartenervi. A voi, dunque, — soggiunge con enfasi S. Pietro — spetta l’onore, a voi che credete. Ver quelli, invece, che non
credono, la pietra che respinsero i costruttori, proprio essa divenne testata d’angolo. Per gli Ebrei increduli si avvera l’altro vaticinio del Salmo 118, 22) già citato da Gesù Cristo (Marc. 12, 10) e da S. Pietro stesso dinanzi al Sinedrio (Atti, 4, 11): La pietra che respinsero i costruttori, i capi del popolo ebreo, che pretendevano instaurare essi il regno di Dio, proprio essa, ossia Gesù Crocifisso, divenne testata d’angolo, con l’ufficio di sostenere dal basso o di coronare dall’alto il fastigio dell’edificio *.
C’erano due pietre angolari; quella destinata alle fondamenta, e quella che si metteva in alto per coronare l’edificio come testata di angolo. Questa era scelta con grande cura, e la si decorava per farla più bella. Per chi non cammina bene, la pietra può diventare inciampo, e può farlo cadere, e per chi tenta scrollare la testata dell’angolo può essere colpito e rimanere schiacciato. È quello che disse Gesù commentando il verso del Salmo (Matt. 21, 44, 45).
Riportandosi al vaticinio di questo Salmo, S. Pietro chiama la parola del Vangelo pietra d’inciampo e roccia di scandalo, per gli Ebrei che non credettero a Gesù Cristo, e quindi ripudiarono il Redentore, pur essendo stati destinati, cioè eletti da Dio come popolo suo, per ricevere il Redentore e la sua parola. Dio vuole salvi tutti gli uomini; ma quelli che non credono, invece di avere la salvezza dal Redentore, v’inciampano, e per loro colpa si perdono, peccando gravemente.
Con enfasi S. Pietro si rivolge ai Cristiani, perché considerino la grandezza della loro vocazione alla vera fede, con una fioritura di sacri testi che applica ad essi, ed esclama: Voi siete stirpe eletta assai più del popolo ebreo (Isaia (43, 20) voi eletti da Dio, siete veramente il regno suo, sacerdozio di vivente amore e lode per Lui; nazione santa, la Chiesa a cui appartenete; riserbato possesso di Dio, per proclamare le grandezze di Lui nella verità della fede, chiamati da
Lui dalle tenebre alla meravigliosa sua luce, che splende nel Vangelo (Esodo 19, 5; Malachia 3, 17). Voi, convertiti alla fede, prima eravate non popolo di Dio, ed ora siete il vero popolo di Dio; prima di essere redenti eravate esclusi dalla misericordia, ma ora, per Gesù Cristo morto per i peccati di tutti, siete oggetto di misericordia (Osea 1, 9; 11, 23, 24; 1, 8; 2, 1).
In questa enfatica esclamazione di S. Pietro, fatta con vari testi della Scrittura per il popolo ebreo ed applicati al novello popolo di Dio, ai fedeli della Chiesa di Gesù Cristo, ogni cattolico veramente tale e praticante deve riconoscere la grandezza della sua professione, e, lungi dal vergognarsene per maledetto rispetto umano, deve pensare, come dice San Pietro {2,1) quale onore è per un uomo professarsi cristiano e cattolico. Egli non è un minorato che può vergognarsi, ma è membro di una stirpe eletta, è un regno, cioè suddito di un regno di grandezza e di gloria soprannaturale, nel quale è parte attiva; pietra viva di un edificio divino, è come rivestito di dignità sacerdotale, parte attiva di un sacerdozio mistico e partecipante ai tesori del sacerdozio reale; suddito di questo sacerdozio, ma non come chi subisce un dominio, sibbene come chi usufruisce di un tesoro, partecipante per il ministero di lui all’elezione di figlio di Dio, oggetto della misericordia divina che lo rigenera nella confessione, commensale del Banchetto Eucaristico nella comunione.
Che fuggano i fedeli le insidie
del mondo pagano
S. Pietro nella prima parte di questo capitolo esorta i fedeli con grande delicatezza a fuggire quelle colpe che potevano disgregarli nella carità e ad essere pietra viva nell’edificio della Chiesa, considerando l’onore e la grazia di appartenervi. Li orientava così nella loro vita cristiana. Nella seconda parte li considera non tanto nella vita della Chiesa, ma come viventi nel mondo, e quindi fa loro raccomandazioni pratiche riguardanti la vita civile in un mondo politico per la maggior parte pagano, affinché essi ne fuggano le insidie e ci vivano testimoniando con la loro vita la grandezza della professione cristiana.
I fedeli della diaspora, ai quali scrive, erano dispersi come stranieri e pellegrini, in regioni pagane, lontane dalla Palestina e quindi in regioni dominate dalle superstizioni pagane, che fomentavano, e persino divinizzavano, le passioni impure. Egli ha compassione della loro situazione e perciò li chiama con affetto paterno, diletti, e con delicatezza non li esorta, quasi fossero viziosi, ma come stranieri e pellegrini in quelle terre; li mette in guardia contro i pericoli delle passioni carnali, che tra i pagani erano comunissime: Diletti — esclama — vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dalle passioni carnali che combattono contro l’anima.
L’impurità, infatti, concentrando l’uomo nella carne, lo riduce in uno stato di materialità obbrobriosa, che gli fa dimenticare di avere un’anima. Egli giunge a non ragionare più nell’impeto della passione, è come dominato talmente dal senso, da non volere che il peccato nella putrida soddisfazione carnale. L’impurità combatte perciò contro l’anima che è dotata di intelletto e volontà, annebbiando la mente e debilitando la volontà. L’impurità, poi, non è ristretta solo nella brutale soddisfazione della carne, ma spinge ad altri delitti e rende l’uomo un miserabile malfattore come, dolorosamente, si constata ogni giorno.
I cristiani con la purezza della vita non solo dovevano custodire la loro anima, ma dovevano mostrare ai pagani la grandezza e la superiorità della professione cristiana, sfatando così le calunnie che i pagani diffondevano contro di loro, stimandoli dei malfattori. Travisando miseramente l’ineffabile Mistero Eucaristico, i pagani dicevano che nelle loro riunioni i Cristiani uccidevano e mangiavano un bambino, accusandoli di cannibalismo. Per la loro costanza eroica nella fede, li consideravano come ribelli alle autorità dello stato, fino a meritare la morte, nei modi più strazianti e crudeli. Li riguardavano come nemici della società, come pessimi nella famiglia (Atti 16, 16- 21; 19, 23).
Ora, i Cristiani dovevano sfatare queste calunnie con la loro vita santa, che era così il mezzo migliore per dimostrarne la falsità. Perciò S. Pietro soggiunge: La vostra condotta tra ì pagani sia buona, onde proprio mentre sparlano contro di voi, trattandovi da malfattori, considerando attentamente le vostre opere buone, abbiano a dare gloria a Dio nel giorno della visita, riconoscendo la vostra rettitudine e la vostra santità morale.
Il giorno della visita include due concetti: il giorno nel quale le autorità dello stato pagano faranno inchiesta sulla vostra vita, privata e pubblica, e soprattutto nel giorno nel quale i pagani, constatando la vostra condotta santa, colpiti dalla grazia divina, si convertiranno, lodando Dio con voi; e nel giorno supremo della venuta di Gesù Cristo nel giudizio universale, nel quale vedranno la grandezza della vita cristiana nell’ultimo epilogo della vita umana.
Voleva dire S. Pietro: la vostra condotta sia buona tra i pagani, per essere irreprensibili in qualunque inchiesta civile o penale, ma non solo per un motivo umano di prudenza e di accortezza, sibbene soprattutto per un motivo soprannaturale, pensando al conto che dovrete dare a Dio nel giorno del giudizio, innanzi a tutto il mondo. Evidentemente S. Pietro faceva eco alle parole di Gesù: Risplenda la vostra luce innanzi agli uomini, così che veggano le vostre opere buone, e glorifichino il vostro Padre celeste che è nei Cieli (Matt. 5, 16).
Dalla raccomandazione generale, S. Pietro scende al particolare perché i Cristiani non incorrano in compromissioni legali, ma per un motivo ed un principio soprannaturale: Siate sottomessi ad ogni istituzione umana, per amore del Signore, perché ogni autorità viene da Dio (S. Paolo ai Rom. 13, 1-7), e perché lo vuole il Signore (come preciserà al vers. 15), e Gesù medesimo ne diede l’esempio ed il comando (Matt. 22, 21, 22). Per amore del Signore, non per timore o per ipocrisia, ma da servi di Dio, con la libertà cristiana, che non è soggetta per timore come schiava, ma per amore, obbedendo a Dio, nei suoi rappresentanti che sono gli uomini costituiti in autorità.
Come si vede, una concezione nobile ed altissima della sottomissione alle autorità, che sfatava le calunnie che si dicevano contro i Cristiani. Svetonio nella vita di Claudio (Claudii, 29) ci fa sapere che l’imperatore Claudio, verso il 49 cacciò da Roma i Giudei, i quali, impulsore Cristo, cioè che per istigazione di Cristo, erano fomite permanente di disordini, assidue tumultuantur, forse per le lotte che i Giudei movevano contro quelli che si facevano cristiani. Nella vita di Nerone (n. 16) scrive che si mandarono a morte i cristiani, gente dedita ad una superstizione nuova e malefica. Anche Tacito (Annali, 3,
15, 44) parla del Cristianesimo come di una detestabile superstizione.
La famosa lettera di Plinio il giovane, scritta tra il 111 e il 113 all'Imperatore Traiano, ci mostra l’incertezza del luogotenente della Bitinia di fronte a strane accuse, per lo più anonime, contro i cristiani. Tertulliano scrive in merito: se il Tevere sale sugli argini, causando un’inondazione, se il Nilo non sale sui campi, causando carestia in Egitto, se il cielo sta duro senza pioggia, se la terra traballa, se c’è carestia e peste, subito si grida: « I cristiani al leone! ». (Apoc. 40).
La miglior difesa dalle calunnie: la vita santa
Ora, contro queste accuse e calunnie, S. Pietro dice che la migliore difesa doveva essere la vita intemerata dei cristiani, tanto nelle loro case, quanto nella società, con piena soggezione alle autorità costituite: al Re, all’Imperatore, che allora stava a capo dell’impero romano, ed era di fatto il sovrano; con piena sottomissione anche ai governatori, cioè ai proconsoli ed ai presidi dell’impero romano, mandati dall'Imperatore per amministrare la giustizia, punendo i malfattori ed approvando i buoni.
Questa è la volontà di Dio — soggiunge S. Pietro — che voi con la sottomissione ai capi ed alle leggi dello Stato, facciate tacere, o, come indica la parola greca che è propria di S. Pietro, mettiate la museruola a quelli che diffondono calunnie contro di voi per ignoranza, non conoscendo la grandezza della professione cristiana, e da insensati, sparlando senza alcun discernimento di quello che ignorano.
La sottomissione ai capi ed alle leggi dell’impero romano, raccomandata da S. Pietro ai cristiani, non doveva avere nulla di supinamente servile per timore umano, ma, come ha detto prima al vers- 13, doveva essere ispirata dall’amore del Signore, e non doveva renderli schiavi di leggi ingiuste, contrarie alla Legge di Dio, né poteva essere un’ipocrita apparenza che avesse potuto nascondere la malizia di trasgressioni fatte per vera ribellione alle leggi giuste, con la scusa della libertà donata da Gesù Cristo, mutando così la santa libertà del bene in licenza per operare il male. Perciò S. Pietro chiarifica con forza il concetto della sottomissione ai capi ed alle leggi, dicendo recisamente: Obbedite da liberi, non da persone che si servono della libertà come di una maschera per nascondere la malizia, ma come servi di Dio. In sintesi: rispettate tutti, amate i fratelli, temete Iddio, onorate il Re.
A maggiore intelligenza di questo che dice S. Pietro, deve notarsi che il Cristianesimo rappresenta una vera liberazione dal peccato e dalla formalità della legge giudaica; si presentava, quindi, come una legge di libertà. L’uomo, redento da Gesù Cristo, non era più come uno schiavo, ma era libero, elevato da una legge di amore a Dio ed al prossimo. Questa parola libertà è stata ed è la parola più affascinante con la quale si trascinano gli uomini, nelle grandi innovazioni sociali, al bene o al male. È perciò o l’annunzio di una reale liberazione, o una maschera della quale si servono i mestatori per trascinare le plebi, mutando, subito dopo, la libertà in licenza, e, levandosi la maschera, la liberazione in vera schiavitù.
Lo sappiamo dalla storia antica e moderna.
La rivoluzione francese, torbida oppressione di stragi, si presentava con le parole: libertà, uguaglianza e fraternità, maschera di apostasia da Dio e dalla Chiesa, maschera di violenta oppressione e di odio. Ed il popolo francese, trascinando altri popoli, inalberò il vessillo della corruzione e della licenza sotto l’aspetto della libertà. L’uomo, creato da Dio libero, e trattato da Dio con infinita riverenza, per il dono che gli ha dato facendolo libero è istintivamente affascinato dalla parola libertà.
Anche il comunismo, la più opprimente ed oppressiva concezione sociale, la più insanguinata e tirannica delle rivoluzioni, si è presentato e si presenta con la fatidica parola: libertà. Libertà dalla schiavitù del capitalismo, libertà dei lavoratori, libertà di immoralità col libero amore, ecc. ecc. E, per citare un esempio da noi vissuto, quando l’Italia era schiava di due fazioni, e gli stranieri la invadevano, per le strade si leggevano cubitali manifesti: viva la libertà. La libertà è in marcia. Libertà di stampa. Si può dire male anche del Padre Eterno, e simili slogan (che abbiamo letto coi nostri occhi), che passavano dalla maschera al sacrilegio, dalla lusinga alla sopraffazione, dall’illusione della prosperità alla miseria.
Ora, dato il fascino che l’uomo sente per la libertà, e dato che
il Cristianesimo si presentava ed era una vera liberazione che proclamava una legge di vera libertà nel più nobile senso della parola, non era difficile per cristiani ancora poco istruiti nella fede, tanto da essere paragonati a bambini lattanti, interpretare le raccomandazioni di S. Pietro come una servile opportunità politica per evitare compromissioni penali da parte del potere costituito. Esse potevano intendersi come una sottomissione totale, anche in ciò che era contro la fede.
Si era in tempi di persecuzioni contro i cristiani, e la crudele persecuzione di Nerone, scatenatasi nell’estate del 64 già si manifestava in tutto l’impero romano da parte dei governatori e di capi che odiavano é combattevano la propagazione del Cristianesimo. Era, dunque, necessario che i cristiani non fossero scambiati per rivoluzionari, nemici dell’impero, e perciò S. Pietro raccomanda determinatamente: Siate sottomessi ad ogni istituzione umana, ma per amore di Dio, e quindi con un motivo non di opportunità politica, ma con un motivo soprannaturale, per coscienza, con una sottomissione sincera alla autorità non solo centrale, al Re, ossia all’Imperatore, ma anche alle autorità delle province nelle quali i fedeli erano dispersi, e pellegrini, ai governatori che vi avevano poteri civili e penali. Ma dovevano obbedire per amore di Dio che comanda e vuole l’ordine, operando il bene, e quindi obbedendo principalmente a Dio; da uomini liberi, mantenendosi costanti nella fede, come servi di Dio.
L’amore ai fratelli
Nei confessori e martiri della fede, infatti, c’era e ci doveva essere la più grande affermazione della libertà di un’anima che, anche nei tormenti, non sottostava alla sopraffazione di insensati che pretendevano indurli a rinunziare la fede, conculcando la verità, e mostrandosi servilmente vili. Con animo libero, nobilmente ed eroicamente libero, i cristiani dovevano rispettare tutti, amare i fratelli della fede, temere Iddio e onorare il Re. Come si vede una gradazione di doveri: verso di tutti, di qualunque fede o condizione; col rispetto, riguardare con particolare amore i fratelli di fede; ed era logico: a tutti il rispetto, noi diremmo un trattamento deferente ed educato; ai fratelli l’amore, per la comune fede, come membri di una stessa famiglia, ed in alto Dio soprattutte le cose: temere amorosamente
Iddio, il vero Dio, e nella società umana il rispetto e l’obbedienza al capo che deve governarla: onorate il Re.
La raccomandazione di S. Pietro ai cristiani di amarsi come fratelli, figli di un solo Padre, Dio, e membri di una stessa famiglia, la Chiesa, richiama nell’Apostolo il concetto ed il pensiero delle famiglie. Egli, quindi, continua a seguire un ordine logico e psicologico nelle sue raccomandazioni, e non le pone a caso o alla rinfusa, come potrebbe supporsi. Nel dire, infatti: amate i fratelli, egli usa la parola greca: adelfòtita, che letteralmente significa la fraternità, termine preferito da lui per indicare la Chiesa (1, 22; 3, 8; 5, 9).
Capo della Chiesa, è logico che passando dalla idea della famiglia umana, sociale, a quella delle famiglie particolari, per duplice associazione di idee, riguarda prima di tutto la famiglia cristiana, adelfòtita, la fratellanza nella fede, e per altre associazioni di idee: le famiglie particolari, che formavano la grande famiglia della Chiesa, della quale egli si sentiva il capo.
Reclutati i membri di questa famiglia, per la quale maggior parte tra il popolo di umili classi sociali, come può apparire dal contesto, egli si rivolge prima di tutto ai servi di casa, e soprattutto agli schiavi, come indica la parola greca. Psicologicamente, infatti, quelli che attirano di più l’attenzione sono proprio i domestici. Umili creature, e più umili ancora se erano schiavi, i domestici, in fondo, hanno il pieno maneggio della casa familiare, e nei servizi, che prestano a chi ci vive ed a chi le visita, sono in maggiore evidenza. Sono umili, ricevono ordini, possono essere anche riguardati dal capo di casa o dai membri di famiglia con un certo disprezzo, e comandati con alterezza; ma sono essi che dispongono praticamente le cose, e positivamente influiscono sull’andamento della famiglia. Ecco perché i servi e le serve fedeli sono un tesoro di generosità e di ordine in una famiglia, e quando si fanno stimare ed amare, nella loro condizione hanno un senso di... padronanza che li solleva non poco dal loro stato di soggezione.
S. Pietro, per il processo logico e psicologico che abbiamo accennato, si rivolge ai servi ed agli schiavi, dicendo: Domestici, siate sottomessi con ogni rispetto ai padroni, non solo a quelli buoni, ma anche a quelli intrattabili, ossia irascibili, capricciosi con autorità
sprezzante. Con un padrone buono, di maniere cortesi, e non esigenti, è facile obbedire, perché suscita stima ed affetto, ma con un padrone intrattabile è possibile obbedire solo per un motivo soprannaturale, e S. Pietro lo insinua dicendo: È cosa gradita, infatti, obbedire se in considerazione di Dio e quindi per suo amore, uno sopporta pazientemente le sue pene, soffrendo ingiustamente.
Potrebbe sembrare un paradosso l’essere cosa gradita il sopportar pene ingiustamente, eppure è così, perché c’è come un intimo sapore di gioia nel sopportare una pena ingiusta per amore di Dio; e S. Pietro ne dà la ragione e la spiegazione, dicendo: Che gloria sarebbe se sopportate perché avete fatto male e siete state battuti?
Nessuno potrebbe vantarsi di aver ricevuto una giusta punizione, perché il vantarsene sarebbe una stupida conferma di aver fatto male; una confessione non richiesta, che renderebbe soddisfatto astiosamente chi l’ha inflitta; ma il sopportare per amore di Dio una punizione ingiusta rende l’anima superiore al castigo, perché ha la testimonianza della sua coscienza che le dà un senso di fierezza anche naturale. Sopportare, poi, per amore di Dio, è una elevazione spirituale che dà un senso di dolcezza interiore, per la grazia che Dio trasfonde nell’anima, rispondendo all’amore che essa gli mostra.
Ma con un motivo anche più grande e confortante S. Pietro esorta i servi e gli schiavi a sopportare con pazienza i padroni intrattabili, ed è la stessa vocazione cristiana e l’esempio di Gesù Cristo che per primo ha sofferto per noi. Poteva, infatti, avvenire che i servi e gli schiavi convertiti al cristianesimo, sentendosi interiormente liberi della libertà apportata loro dal Vangelo, potevano ribellarsi ai padroni violentemente, il che sarebbe stato per loro un danno maggiore, ed avrebbe potuto inasprire le persecuzioni contro il cristianesimo.
Perciò, dopo averli esortati a sopportare le pene per amore di Dio, e quindi come un omaggio fatto al Signore, un dono di amore, diremmo, di eccezione, incalza nell’argomento, dicendo che il patire non è solo un dono straordinario che si fa a Dio, ma è la condizione stessa della vita cristiana, che deve essere conforme a quella di Gesù Cristo che per nostro amore ha patito per noi.
È un argomento non solo profondamente persuasivo, ma che poteva stroncare dall’animo dei servi e degli schiavi ogni pensiero di ribellione rivoluzionaria, pericolosissima in tempi di persecuzione. D’altra parte il persuadersi che uno stato d’inferiorità e di pena è una condizione inevitabile della propria vita, anche prescindendo dal motivo soprannaturale di portarla per amore di Dio, dà un senso quasi di fatalità che non si può evitare, e che quindi bisogna subire. Ma per un cristiano uno stato d’inferiorità penosa della vita, uno stato servile, non è una fatalità dell’umana condizione sociale, è uno stato che lo avvicina a Gesù Cristo appassionato per amore, e che per il suo esempio diventa uno stato glorioso di una nobiltà incomparabile.
È questa la forza maggiore dell’argomento di S. Pietro, per i poveri servi e schiavi, la cui vita socialmente avvilita era spesso ricolma di ingiustizie e di dolori. S. Pietro perciò soggiunge, proprio considerando lo stato dei servi e schiavi cristiani, in una luce superiore di fede: A questo foste chiamati, poiché anche Cristo soffrì per voi, a voi lasciando un esempio, affinché ne seguiate le orme. Lasciò un esempio di pazienza tanto più ammirabile e seducente in quanto Egli non soffrì, come noi, in espiazione dei nostri peccati, ma, come dice Iscaia, profetando di Lui: Peccato non commise, né fu trovato inganno nella sua bocca (Isaia 53, 9).
Nonostante che fosse innocentissimo, anzi la santità stessa, perché veramente Dio, ingiuriato fino ad essere riguardato come malfattore e indemoniato, ingiurie terribili, anzi bestemmie contro Colui che passò beneficando e sanando, e che era Figlio di Dio, non rispondeva con ingiurie, maltrattato atrocemente nella passione, non minacciava, ma si rimetteva a Chi giudica con giustizia; si rimetteva con infinito amore al Padre suo, che gli rendeva testimonianza con le opere meravigliose che gli faceva compiere. E non solo non minacciava, ma implorava perdono, espiando i peccati nostri nel suo corpo sul legno, ossia sulla Croce, affinché, morti ai peccati, vivessimo nella giustizia.
S’immolò sulla Croce come su di un altare, vittima di espiazione per noi peccatori, meritandoci la grazia della nostra giustificazione, poiché per le sue lividure, per le sue piaghe fummo guariti dalle piaghe dei nostri peccati. Immolandosi, e riparando i vostri peccati vi ha raccolti con infinito amore intorno a Lui, nel suo Cuore divino. Prima della sua venuta sulla terra per salvarvi, voi eravate come pecore erranti, senza guida e senza pascolo, come dice Isaia, eravate come la pecorella smarrita della quale parla Gesù (Luca 15, 4), ma ora non siete più pecore smarrite; vi siete rivolti, con la professione cristiana a Gesù Cristo, pastore e guardiano delle anime vostre.
S. Pietro parlava ai servi ed agli schiavi con evidente compassione della loro sorte e dei patimenti ai quali erano sottoposti. Li esorta alla sottomissione piena con parole recise: Domestici, siate sottomessi con ogni rispetto ai padroni, non solo a quelli buoni, ma anche a quelli intrattabili, perché, psicologicamente, parlando a persone di infima condizione, veniva spontanea una parola di imperioso comando. Egli stesso, forse, nella sua professione di pescatore era abituato a comandare imperiosamente ai suoi subalterni, né aveva avuto un modo diverso quando pretese dissuadere Gesù dalla passione, o quando gli domandò che cosa avrebbero avuto in contraccambio egli e gli Apostoli che avevano lasciato tutto per Lui.
Ma subito dopo l’imperiosa esortazione, usa parole di conforto con una gradazione psicologica che va prima dalla soddisfazione personale di chi soffre ingiustamente, ma sente la fierezza della propria innocenza; poi dalla intima gioia per chi soffre per amore di Dio, poi al motivo più suadente dell’esempio di Gesù Cristo nella sua passione, e del dovere d’imitarlo in tutti i dolori della vita nostra, ed infine, ritorna al motivo dell’utile proprio per quello che Gesù Cristo ci ha meritato con i suoi dolori, unendoci come pecorelle del suo ovile, mentre prima della sua venuta eravamo come pecore sbandate, senza direzione e senza la vigilante tutela del pastore.
Evidentemente S. Pietro, nell’ammonire i servi e gli schiavi, confortandoli con l’esempio e i frutti della passione di Gesù Cristo, dovette ricordarsi delle parole con le quali il Redentore lo costituì capo della Chiesa: Pascola le mie pecorelle, e perciò mette il suggello alla esortazione e al conforto col ricordare loro che essi non sono i rifiuti della società, ma sono l’ovile di Gesù Cristo, vigilato da Gesù stesso, come pastore supremo, divino, e pascolato da Lui nella persona di chi aveva incaricato di portarlo al pascolo salutare, nella persona di S. Pietro stesso che scriveva.
Egli chiama Gesù pastore e guardiano delle anime vostre, usando la parola greca epìscopos, che prese proprio il significato di quelli che reggono e vigilano le anime, ispettori, come traducono i moderni... con soddisfazione, mentre il senso etimologico della parola greca epìscopos, in ordine all’ovile di Gesù Cristo, significa, come dice S. Pietro: pastore e guardiano, Gesù supremo pastore della Chiesa, e il Papa, suo vicario, guardiano che la tutela e la porta al pascolo, direttamente e per i Vescovi da lui eletti e consacrati o fatti consacrare.
Non è esatto il concetto che nelle discussioni del Concilio Vaticano II alcuni proposero, dicendo che i Vescovi avevano il mandato direttamente da Gesù Cristo e non da Lui per il Papa, e che quindi dovevano formare come i consiglieri del Papa, come un... parlamento. Gesù Cristo disse solo a S. Pietro: Pascola i miei agnelli, le mie pecorelle, e le pecorelle madri, che, secondo il senso etimologico greco, significa esattamente i Vescovi che generano i Sacerdoti, e per i Sacerdoti generano le anime a Gesù Cristo.
Nel capitolo precedente S. Pietro aveva esortato i fedeli ai quali scriveva, alla santità, considerando la santità di Dio e la redenzione loro, operata da Gesù Cristo, che li impegnava a seguire i suoi insegnamenti, obbedendo alla verità, amandosi con amore fraterno, senza finzione, di cuore, costantemente, e logicamente determina quale deve essere il loro amore fraterno, senza finzioni, di cuore, ed esclama: Ripudiate, dunque, ogni malizia, opposta alla carità, ed ogni inganno, che è finzione, come sono finzioni le ipocrisie, e sono contro la carità e le lealtà le maldicenze di ogni genere contro il prossimo.
Queste raccomandazioni S. Pietro le fa ai neofiti, di fresco battezzati e aggregati alla Chiesa, che facilmente potevano ancora essere dominati dalle abitudini della vita passata e dalle massime del mondo pagano. Li considera perciò affettuosamente come bimbi lattanti, di fresco nati, che hanno bisogno di essere nutriti di latte spirituale, o, come indica la parola greca, razionale, e perciò di istruzioni che egli fa loro come una mamma che allatta i suoi figli, affinché, evitando ogni colpa contraria allo spirito cristiano, possano crescere fino a raggiungere la salvezza.
Psicologicamente, le esortazioni che hanno il tono di un’imposizione o di un rimprovero sono sempre ricevute con ripugnanza, e possono suscitare reazioni. Evidentemente i fedeli ai quali S. Pietro si rivolgeva cadevano facilmente nei peccati, che egli raccomandava loro di fuggire, e che erano come triste conseguenza delle passate abitudini che avevano prima del Battesimo.
L’Apostolo, pertanto, raccomanda loro in tono imperativo: ripudiate ogni malizia, come è anche più chiaro nel testo greco. Ora, quell’imperativo nervoso poteva urtarli, rendere vana l’ammonizione, e perciò l’Apostolo ne tempera immediatamente l’asprezza, e, quasi giustificandosi o scusandosi, li considera affettuosamente come bimbi lattanti, che egli nutrisce quasi mamma (l’idea del latte dava l’idea dell’affetto materno), e protesta che parla loro non per contristarli, ma perché sinceramente, (e perciò chiama latte spirituale, ossia razionale e sincera l’ammonizione che fa), perché sinceramente vuole la loro eterna salvezza, amalgamandoli ancora col ricordo della dolcezza provata da loro nel Battesimo, e perciò dice: Se davvero gustate quanto soave è il Signore.
Queste delicate sottigliezze di stile e di espressioni sono tanto più belle, se si considera psicologicamente non solo la difficoltà che hanno più o meno tutti di accogliere un ammonimento imperioso che li tocca sul vivo dei loro difetti, ma anche in particolare l’indole dei popoli orientali che sono facili ad offendersi ed a reagire per ogni parola di rimprovero. Forse anche noi abbiamo sperimentato e sperimentiamo quanta delicata accortezza e prudenza ci vuole per fare, a chi manca, un rimprovero, e con quanta caritatevole sagacia bisogna temperarne ogni possibile asprezza. A bella posta noi facciamo rimarcare certe delicate sottigliezze di stile in S. Pietro, che riescono di istruzione preziosa anche per noi nel trattare quelli che per dovere dobbiamo ammonire.
S. Pietro, esortando all’unione dei fedeli nella carità, li ha richiamati alle dolcezze provate nel Battesimo, iniziazione cristiana, nella quale i battezzati, uniti in una sola fede, si sentivano maggiormente fratelli.
Anche questo è psicologico, perché in realtà, anche oggi, quando si fa una funzione solenne, come la ricezione di un novizio o di una novizia in una Comunità, o anche la ricezione di terziari, viene spontaneo in quel momento un senso di maggiore fratellanza in quelli che ne fanno parte. Ma, da quello che l’Apostolo dice subito dopo, pare chiaro che, ricordando ai fedeli le dolcezze provate nel Battesimo, e dicendo: Se davvero gustate quanto è soave il Signore, S. Pietro allude alla dolcezza dell’unione di Gesù Sacramentato, ricevuto su
bito dopo il Battesimo, che li univa in Lui, nella sua vita divina, in una sola, sostanziale fratellanza.
Questo che diciamo risulta chiaro, come vedremo subito, da quello che S. Pietro soggiunge, ma può risultare anche dall’espressione: Se davvero gustate quanto è soave il Signore. In molti codici, infatti, invece della parola soave in greco cristos, si ha Cristos, Cristo, e l’espressione gustare che è proprio di chi mangia un cibo di dolcezza, non lascia dubbio che S. Pietro, alludendo al ricordo della fratellanza nel Battesimo, richiami i fedeli col ricordo della fratellanza in Gesù vivente nell’Eucaristia. Egli, infatti, soggiunge: Unendovi strettamente a Lui, a Gesù, pietra vìva, dagli uomini spregiata, ma da Dio scelta e pregiata.
Unirsi a Gesù, pietra viva, fondamentale della Chiesa; pietra spregiata, ossia ripudiata con la condanna alla morte di croce, significava unirsi a Lui vivente nell’Eucaristia. Il chiamarlo pietra viva spregiata, è un richiamo al suo sacrifizio, che Egli rinnova nell’Eucaristia, e per il quale Egli è pietra vivente, pietra angolare dell’edificio della Chiesa, che unisce i fedeli nella fratellanza della carità.
San Pietro, eletto da Gesù Cristo ad essere la pietra fondamentale della Chiesa, aveva ancora viva nel cuore l’impressione che gli fece la maestà del volto divino di Gesù quando gli disse: Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e rappresentando Gesù vivente visibilmente nella sua Chiesa, amava il paragone della pietra, e perciò, chiamando Gesù pietra viva fondamentale della Chiesa, chiama anche i fedeli pietre viventi dell’edificio della Chiesa, appoggiate e compaginate sulla pietra fondamentale, Gesù Cristo e sul Papa: Anche voi come pietre viventi, siete costruiti come edificio spirituale in un sacerdozio santo, per offrire vittime spirituali, bene accette a Dio per mezzo di Gesù Cristo.
Il sacerdozio mistico
Ecco in sintesi l’edificio della Chiesa: la pietra fondamentale, reale ma invisibile; la pietra fondamentale visibile nel Papa e nei suoi successori, posti da Gesù Cristo come pietra fondamentale viva, che per la ininterrotta successione non muore mai nei secoli e non si muta mai; i fedeli, che sono le pietre viventi dell’edificio spirituale,
non materiale ma visibile, come società perfetta, legata da vincoli spirituali, dalla vita soprannaturale che l’anima come un sacerdozio santo, mistico, che offre sacrifici spirituali bene accetti a Dio, per mezzo di Gesù Cristo, cioè per le grazie che vivificano le anime unite a Gesù Cristo per i Sacramenti.
I fedeli della Chiesa sono come un sacerdozio mistico, che non offre vittime materiali, come facevano i Sacerdoti ebrei, che non offrono il sacrificio della Messa, come fanno i Sacerdoti di Gesù Cristo, ma si uniscono a quel sacrificio partecipandovi; essi perciò offrono vittime spirituali, bene accette a Dio, perché offrono il loro cuore e la loro vita santa. Queste vittime ossia sacrifici, sono specificati da S. Paolo, e sono specialmente: la preghiera, che è ossequio spirituale (Rom. 12, 1), e vittime di lode (Ebr. 13, 15); la santità della vita (Rom. 12, 1); il soccorso finanziario ai missionari (Filip. 4, 18); il lavoro apostolico (Rom. 15, 15). Papa Pio XII, nell’Enciclica Media- tor Dei del 20 novembre 1947, include in queste vittime spirituali gli stessi fedeli che debbono offrire se stessi nel Sacrificio Eucaristico.
II cristiano non può essere assente o indifferente alla vita della Chiesa; deve partecipare attivamente a tutte le sue attività, diversa- mente non è pietra viva dell’edificio, ma pietra morta, pietra sgretolata dai venti del mondo. È un dovere per lui, proprio come un sacerdozio santo, come una vittima di amore, offrire a Dio le pene e le prove della vita, le attività della propria giornata, nella propria professione o nel proprio lavoro intellettuale o materiale.
Il cristiano non può disinteressarsi della vita della Chiesa, non può leggere i giornali mondani, trascurando di acquistare e leggere quelli cattolici. Se parla il Papa, se parla il Vescovo od anche il Parroco o il Sacerdote, non può disinteressarsene come cose che non lo riguardano. Non può frequentare ambienti mondani, o, peggio, immorali, come sono oggi i cinema ed i ritrovi. Anche se ve lo attrae la curiosità, o peggio la passione, deve farne un sacrificio a Dio. Il cristiano non può rimanere insensibile od ozioso di fronte a quelli che non sono cattolici e si perdono, ma secondo le sue possibilità deve dedicarsi all’apostolato, deve essere attivo e validamente presente nelle attività di zelo nella Chiesa.
Evidentemente S. Pietro, chiamando i fedeli sacerdozio santo, non intende dire che tutti i fedeli siano sacerdoti in un senso proprio *. Anzi dal termine passivo usato da S. Pietro, e dal contesto biblico cui allude, risulta che l’Apostolo intende dire che i fedeli sono un edificio di pietre vive governate dal Sacerdozio e animate da spirito sacerdotale di sacrificio, di carità, di amore e di zelo. Ver questo, soggiunge, citando il Profeta Isaia (28, 16) ciò che vi dico è contenuto nella Scrittura'. Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, — scelta, pregiata, — e chi crede in essa non sarà confuso. Cita Isaia, proprio per confermare che, secondo la promessa di Dio, i fedeli debbono appoggiarsi a Gesù Cristo, pietra fondamentale della Chiesa, con una fede viva ed attiva, quasi sacerdozio di santità.
La pietra fondamentale di un edificio solido e stabile è sempre scelta fra le migliori pietre, e per questo è chiamata scelta e pregiata; ora, quale pietra più scelta e più pregiata del Redentore venuto dal Cielo in terra per fondare la sua Chiesa? E non c’è un onore più grande che appartenervi. A voi, dunque, — soggiunge con enfasi S. Pietro — spetta l’onore, a voi che credete. Ver quelli, invece, che non
credono, la pietra che respinsero i costruttori, proprio essa divenne testata d’angolo. Per gli Ebrei increduli si avvera l’altro vaticinio del Salmo 118, 22) già citato da Gesù Cristo (Marc. 12, 10) e da S. Pietro stesso dinanzi al Sinedrio (Atti, 4, 11): La pietra che respinsero i costruttori, i capi del popolo ebreo, che pretendevano instaurare essi il regno di Dio, proprio essa, ossia Gesù Crocifisso, divenne testata d’angolo, con l’ufficio di sostenere dal basso o di coronare dall’alto il fastigio dell’edificio *.
C’erano due pietre angolari; quella destinata alle fondamenta, e quella che si metteva in alto per coronare l’edificio come testata di angolo. Questa era scelta con grande cura, e la si decorava per farla più bella. Per chi non cammina bene, la pietra può diventare inciampo, e può farlo cadere, e per chi tenta scrollare la testata dell’angolo può essere colpito e rimanere schiacciato. È quello che disse Gesù commentando il verso del Salmo (Matt. 21, 44, 45).
Riportandosi al vaticinio di questo Salmo, S. Pietro chiama la parola del Vangelo pietra d’inciampo e roccia di scandalo, per gli Ebrei che non credettero a Gesù Cristo, e quindi ripudiarono il Redentore, pur essendo stati destinati, cioè eletti da Dio come popolo suo, per ricevere il Redentore e la sua parola. Dio vuole salvi tutti gli uomini; ma quelli che non credono, invece di avere la salvezza dal Redentore, v’inciampano, e per loro colpa si perdono, peccando gravemente.
Con enfasi S. Pietro si rivolge ai Cristiani, perché considerino la grandezza della loro vocazione alla vera fede, con una fioritura di sacri testi che applica ad essi, ed esclama: Voi siete stirpe eletta assai più del popolo ebreo (Isaia (43, 20) voi eletti da Dio, siete veramente il regno suo, sacerdozio di vivente amore e lode per Lui; nazione santa, la Chiesa a cui appartenete; riserbato possesso di Dio, per proclamare le grandezze di Lui nella verità della fede, chiamati da
Lui dalle tenebre alla meravigliosa sua luce, che splende nel Vangelo (Esodo 19, 5; Malachia 3, 17). Voi, convertiti alla fede, prima eravate non popolo di Dio, ed ora siete il vero popolo di Dio; prima di essere redenti eravate esclusi dalla misericordia, ma ora, per Gesù Cristo morto per i peccati di tutti, siete oggetto di misericordia (Osea 1, 9; 11, 23, 24; 1, 8; 2, 1).
In questa enfatica esclamazione di S. Pietro, fatta con vari testi della Scrittura per il popolo ebreo ed applicati al novello popolo di Dio, ai fedeli della Chiesa di Gesù Cristo, ogni cattolico veramente tale e praticante deve riconoscere la grandezza della sua professione, e, lungi dal vergognarsene per maledetto rispetto umano, deve pensare, come dice San Pietro {2,1) quale onore è per un uomo professarsi cristiano e cattolico. Egli non è un minorato che può vergognarsi, ma è membro di una stirpe eletta, è un regno, cioè suddito di un regno di grandezza e di gloria soprannaturale, nel quale è parte attiva; pietra viva di un edificio divino, è come rivestito di dignità sacerdotale, parte attiva di un sacerdozio mistico e partecipante ai tesori del sacerdozio reale; suddito di questo sacerdozio, ma non come chi subisce un dominio, sibbene come chi usufruisce di un tesoro, partecipante per il ministero di lui all’elezione di figlio di Dio, oggetto della misericordia divina che lo rigenera nella confessione, commensale del Banchetto Eucaristico nella comunione.
Che fuggano i fedeli le insidie
del mondo pagano
S. Pietro nella prima parte di questo capitolo esorta i fedeli con grande delicatezza a fuggire quelle colpe che potevano disgregarli nella carità e ad essere pietra viva nell’edificio della Chiesa, considerando l’onore e la grazia di appartenervi. Li orientava così nella loro vita cristiana. Nella seconda parte li considera non tanto nella vita della Chiesa, ma come viventi nel mondo, e quindi fa loro raccomandazioni pratiche riguardanti la vita civile in un mondo politico per la maggior parte pagano, affinché essi ne fuggano le insidie e ci vivano testimoniando con la loro vita la grandezza della professione cristiana.
I fedeli della diaspora, ai quali scrive, erano dispersi come stranieri e pellegrini, in regioni pagane, lontane dalla Palestina e quindi in regioni dominate dalle superstizioni pagane, che fomentavano, e persino divinizzavano, le passioni impure. Egli ha compassione della loro situazione e perciò li chiama con affetto paterno, diletti, e con delicatezza non li esorta, quasi fossero viziosi, ma come stranieri e pellegrini in quelle terre; li mette in guardia contro i pericoli delle passioni carnali, che tra i pagani erano comunissime: Diletti — esclama — vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dalle passioni carnali che combattono contro l’anima.
L’impurità, infatti, concentrando l’uomo nella carne, lo riduce in uno stato di materialità obbrobriosa, che gli fa dimenticare di avere un’anima. Egli giunge a non ragionare più nell’impeto della passione, è come dominato talmente dal senso, da non volere che il peccato nella putrida soddisfazione carnale. L’impurità combatte perciò contro l’anima che è dotata di intelletto e volontà, annebbiando la mente e debilitando la volontà. L’impurità, poi, non è ristretta solo nella brutale soddisfazione della carne, ma spinge ad altri delitti e rende l’uomo un miserabile malfattore come, dolorosamente, si constata ogni giorno.
I cristiani con la purezza della vita non solo dovevano custodire la loro anima, ma dovevano mostrare ai pagani la grandezza e la superiorità della professione cristiana, sfatando così le calunnie che i pagani diffondevano contro di loro, stimandoli dei malfattori. Travisando miseramente l’ineffabile Mistero Eucaristico, i pagani dicevano che nelle loro riunioni i Cristiani uccidevano e mangiavano un bambino, accusandoli di cannibalismo. Per la loro costanza eroica nella fede, li consideravano come ribelli alle autorità dello stato, fino a meritare la morte, nei modi più strazianti e crudeli. Li riguardavano come nemici della società, come pessimi nella famiglia (Atti 16, 16- 21; 19, 23).
Ora, i Cristiani dovevano sfatare queste calunnie con la loro vita santa, che era così il mezzo migliore per dimostrarne la falsità. Perciò S. Pietro soggiunge: La vostra condotta tra ì pagani sia buona, onde proprio mentre sparlano contro di voi, trattandovi da malfattori, considerando attentamente le vostre opere buone, abbiano a dare gloria a Dio nel giorno della visita, riconoscendo la vostra rettitudine e la vostra santità morale.
Il giorno della visita include due concetti: il giorno nel quale le autorità dello stato pagano faranno inchiesta sulla vostra vita, privata e pubblica, e soprattutto nel giorno nel quale i pagani, constatando la vostra condotta santa, colpiti dalla grazia divina, si convertiranno, lodando Dio con voi; e nel giorno supremo della venuta di Gesù Cristo nel giudizio universale, nel quale vedranno la grandezza della vita cristiana nell’ultimo epilogo della vita umana.
Voleva dire S. Pietro: la vostra condotta sia buona tra i pagani, per essere irreprensibili in qualunque inchiesta civile o penale, ma non solo per un motivo umano di prudenza e di accortezza, sibbene soprattutto per un motivo soprannaturale, pensando al conto che dovrete dare a Dio nel giorno del giudizio, innanzi a tutto il mondo. Evidentemente S. Pietro faceva eco alle parole di Gesù: Risplenda la vostra luce innanzi agli uomini, così che veggano le vostre opere buone, e glorifichino il vostro Padre celeste che è nei Cieli (Matt. 5, 16).
Dalla raccomandazione generale, S. Pietro scende al particolare perché i Cristiani non incorrano in compromissioni legali, ma per un motivo ed un principio soprannaturale: Siate sottomessi ad ogni istituzione umana, per amore del Signore, perché ogni autorità viene da Dio (S. Paolo ai Rom. 13, 1-7), e perché lo vuole il Signore (come preciserà al vers. 15), e Gesù medesimo ne diede l’esempio ed il comando (Matt. 22, 21, 22). Per amore del Signore, non per timore o per ipocrisia, ma da servi di Dio, con la libertà cristiana, che non è soggetta per timore come schiava, ma per amore, obbedendo a Dio, nei suoi rappresentanti che sono gli uomini costituiti in autorità.
Come si vede, una concezione nobile ed altissima della sottomissione alle autorità, che sfatava le calunnie che si dicevano contro i Cristiani. Svetonio nella vita di Claudio (Claudii, 29) ci fa sapere che l’imperatore Claudio, verso il 49 cacciò da Roma i Giudei, i quali, impulsore Cristo, cioè che per istigazione di Cristo, erano fomite permanente di disordini, assidue tumultuantur, forse per le lotte che i Giudei movevano contro quelli che si facevano cristiani. Nella vita di Nerone (n. 16) scrive che si mandarono a morte i cristiani, gente dedita ad una superstizione nuova e malefica. Anche Tacito (Annali, 3,
15, 44) parla del Cristianesimo come di una detestabile superstizione.
La famosa lettera di Plinio il giovane, scritta tra il 111 e il 113 all'Imperatore Traiano, ci mostra l’incertezza del luogotenente della Bitinia di fronte a strane accuse, per lo più anonime, contro i cristiani. Tertulliano scrive in merito: se il Tevere sale sugli argini, causando un’inondazione, se il Nilo non sale sui campi, causando carestia in Egitto, se il cielo sta duro senza pioggia, se la terra traballa, se c’è carestia e peste, subito si grida: « I cristiani al leone! ». (Apoc. 40).
La miglior difesa dalle calunnie: la vita santa
Ora, contro queste accuse e calunnie, S. Pietro dice che la migliore difesa doveva essere la vita intemerata dei cristiani, tanto nelle loro case, quanto nella società, con piena soggezione alle autorità costituite: al Re, all’Imperatore, che allora stava a capo dell’impero romano, ed era di fatto il sovrano; con piena sottomissione anche ai governatori, cioè ai proconsoli ed ai presidi dell’impero romano, mandati dall'Imperatore per amministrare la giustizia, punendo i malfattori ed approvando i buoni.
Questa è la volontà di Dio — soggiunge S. Pietro — che voi con la sottomissione ai capi ed alle leggi dello Stato, facciate tacere, o, come indica la parola greca che è propria di S. Pietro, mettiate la museruola a quelli che diffondono calunnie contro di voi per ignoranza, non conoscendo la grandezza della professione cristiana, e da insensati, sparlando senza alcun discernimento di quello che ignorano.
La sottomissione ai capi ed alle leggi dell’impero romano, raccomandata da S. Pietro ai cristiani, non doveva avere nulla di supinamente servile per timore umano, ma, come ha detto prima al vers- 13, doveva essere ispirata dall’amore del Signore, e non doveva renderli schiavi di leggi ingiuste, contrarie alla Legge di Dio, né poteva essere un’ipocrita apparenza che avesse potuto nascondere la malizia di trasgressioni fatte per vera ribellione alle leggi giuste, con la scusa della libertà donata da Gesù Cristo, mutando così la santa libertà del bene in licenza per operare il male. Perciò S. Pietro chiarifica con forza il concetto della sottomissione ai capi ed alle leggi, dicendo recisamente: Obbedite da liberi, non da persone che si servono della libertà come di una maschera per nascondere la malizia, ma come servi di Dio. In sintesi: rispettate tutti, amate i fratelli, temete Iddio, onorate il Re.
A maggiore intelligenza di questo che dice S. Pietro, deve notarsi che il Cristianesimo rappresenta una vera liberazione dal peccato e dalla formalità della legge giudaica; si presentava, quindi, come una legge di libertà. L’uomo, redento da Gesù Cristo, non era più come uno schiavo, ma era libero, elevato da una legge di amore a Dio ed al prossimo. Questa parola libertà è stata ed è la parola più affascinante con la quale si trascinano gli uomini, nelle grandi innovazioni sociali, al bene o al male. È perciò o l’annunzio di una reale liberazione, o una maschera della quale si servono i mestatori per trascinare le plebi, mutando, subito dopo, la libertà in licenza, e, levandosi la maschera, la liberazione in vera schiavitù.
Lo sappiamo dalla storia antica e moderna.
La rivoluzione francese, torbida oppressione di stragi, si presentava con le parole: libertà, uguaglianza e fraternità, maschera di apostasia da Dio e dalla Chiesa, maschera di violenta oppressione e di odio. Ed il popolo francese, trascinando altri popoli, inalberò il vessillo della corruzione e della licenza sotto l’aspetto della libertà. L’uomo, creato da Dio libero, e trattato da Dio con infinita riverenza, per il dono che gli ha dato facendolo libero è istintivamente affascinato dalla parola libertà.
Anche il comunismo, la più opprimente ed oppressiva concezione sociale, la più insanguinata e tirannica delle rivoluzioni, si è presentato e si presenta con la fatidica parola: libertà. Libertà dalla schiavitù del capitalismo, libertà dei lavoratori, libertà di immoralità col libero amore, ecc. ecc. E, per citare un esempio da noi vissuto, quando l’Italia era schiava di due fazioni, e gli stranieri la invadevano, per le strade si leggevano cubitali manifesti: viva la libertà. La libertà è in marcia. Libertà di stampa. Si può dire male anche del Padre Eterno, e simili slogan (che abbiamo letto coi nostri occhi), che passavano dalla maschera al sacrilegio, dalla lusinga alla sopraffazione, dall’illusione della prosperità alla miseria.
Ora, dato il fascino che l’uomo sente per la libertà, e dato che
il Cristianesimo si presentava ed era una vera liberazione che proclamava una legge di vera libertà nel più nobile senso della parola, non era difficile per cristiani ancora poco istruiti nella fede, tanto da essere paragonati a bambini lattanti, interpretare le raccomandazioni di S. Pietro come una servile opportunità politica per evitare compromissioni penali da parte del potere costituito. Esse potevano intendersi come una sottomissione totale, anche in ciò che era contro la fede.
Si era in tempi di persecuzioni contro i cristiani, e la crudele persecuzione di Nerone, scatenatasi nell’estate del 64 già si manifestava in tutto l’impero romano da parte dei governatori e di capi che odiavano é combattevano la propagazione del Cristianesimo. Era, dunque, necessario che i cristiani non fossero scambiati per rivoluzionari, nemici dell’impero, e perciò S. Pietro raccomanda determinatamente: Siate sottomessi ad ogni istituzione umana, ma per amore di Dio, e quindi con un motivo non di opportunità politica, ma con un motivo soprannaturale, per coscienza, con una sottomissione sincera alla autorità non solo centrale, al Re, ossia all’Imperatore, ma anche alle autorità delle province nelle quali i fedeli erano dispersi, e pellegrini, ai governatori che vi avevano poteri civili e penali. Ma dovevano obbedire per amore di Dio che comanda e vuole l’ordine, operando il bene, e quindi obbedendo principalmente a Dio; da uomini liberi, mantenendosi costanti nella fede, come servi di Dio.
L’amore ai fratelli
Nei confessori e martiri della fede, infatti, c’era e ci doveva essere la più grande affermazione della libertà di un’anima che, anche nei tormenti, non sottostava alla sopraffazione di insensati che pretendevano indurli a rinunziare la fede, conculcando la verità, e mostrandosi servilmente vili. Con animo libero, nobilmente ed eroicamente libero, i cristiani dovevano rispettare tutti, amare i fratelli della fede, temere Iddio e onorare il Re. Come si vede una gradazione di doveri: verso di tutti, di qualunque fede o condizione; col rispetto, riguardare con particolare amore i fratelli di fede; ed era logico: a tutti il rispetto, noi diremmo un trattamento deferente ed educato; ai fratelli l’amore, per la comune fede, come membri di una stessa famiglia, ed in alto Dio soprattutte le cose: temere amorosamente
Iddio, il vero Dio, e nella società umana il rispetto e l’obbedienza al capo che deve governarla: onorate il Re.
La raccomandazione di S. Pietro ai cristiani di amarsi come fratelli, figli di un solo Padre, Dio, e membri di una stessa famiglia, la Chiesa, richiama nell’Apostolo il concetto ed il pensiero delle famiglie. Egli, quindi, continua a seguire un ordine logico e psicologico nelle sue raccomandazioni, e non le pone a caso o alla rinfusa, come potrebbe supporsi. Nel dire, infatti: amate i fratelli, egli usa la parola greca: adelfòtita, che letteralmente significa la fraternità, termine preferito da lui per indicare la Chiesa (1, 22; 3, 8; 5, 9).
Capo della Chiesa, è logico che passando dalla idea della famiglia umana, sociale, a quella delle famiglie particolari, per duplice associazione di idee, riguarda prima di tutto la famiglia cristiana, adelfòtita, la fratellanza nella fede, e per altre associazioni di idee: le famiglie particolari, che formavano la grande famiglia della Chiesa, della quale egli si sentiva il capo.
Reclutati i membri di questa famiglia, per la quale maggior parte tra il popolo di umili classi sociali, come può apparire dal contesto, egli si rivolge prima di tutto ai servi di casa, e soprattutto agli schiavi, come indica la parola greca. Psicologicamente, infatti, quelli che attirano di più l’attenzione sono proprio i domestici. Umili creature, e più umili ancora se erano schiavi, i domestici, in fondo, hanno il pieno maneggio della casa familiare, e nei servizi, che prestano a chi ci vive ed a chi le visita, sono in maggiore evidenza. Sono umili, ricevono ordini, possono essere anche riguardati dal capo di casa o dai membri di famiglia con un certo disprezzo, e comandati con alterezza; ma sono essi che dispongono praticamente le cose, e positivamente influiscono sull’andamento della famiglia. Ecco perché i servi e le serve fedeli sono un tesoro di generosità e di ordine in una famiglia, e quando si fanno stimare ed amare, nella loro condizione hanno un senso di... padronanza che li solleva non poco dal loro stato di soggezione.
S. Pietro, per il processo logico e psicologico che abbiamo accennato, si rivolge ai servi ed agli schiavi, dicendo: Domestici, siate sottomessi con ogni rispetto ai padroni, non solo a quelli buoni, ma anche a quelli intrattabili, ossia irascibili, capricciosi con autorità
sprezzante. Con un padrone buono, di maniere cortesi, e non esigenti, è facile obbedire, perché suscita stima ed affetto, ma con un padrone intrattabile è possibile obbedire solo per un motivo soprannaturale, e S. Pietro lo insinua dicendo: È cosa gradita, infatti, obbedire se in considerazione di Dio e quindi per suo amore, uno sopporta pazientemente le sue pene, soffrendo ingiustamente.
Potrebbe sembrare un paradosso l’essere cosa gradita il sopportar pene ingiustamente, eppure è così, perché c’è come un intimo sapore di gioia nel sopportare una pena ingiusta per amore di Dio; e S. Pietro ne dà la ragione e la spiegazione, dicendo: Che gloria sarebbe se sopportate perché avete fatto male e siete state battuti?
Nessuno potrebbe vantarsi di aver ricevuto una giusta punizione, perché il vantarsene sarebbe una stupida conferma di aver fatto male; una confessione non richiesta, che renderebbe soddisfatto astiosamente chi l’ha inflitta; ma il sopportare per amore di Dio una punizione ingiusta rende l’anima superiore al castigo, perché ha la testimonianza della sua coscienza che le dà un senso di fierezza anche naturale. Sopportare, poi, per amore di Dio, è una elevazione spirituale che dà un senso di dolcezza interiore, per la grazia che Dio trasfonde nell’anima, rispondendo all’amore che essa gli mostra.
Ma con un motivo anche più grande e confortante S. Pietro esorta i servi e gli schiavi a sopportare con pazienza i padroni intrattabili, ed è la stessa vocazione cristiana e l’esempio di Gesù Cristo che per primo ha sofferto per noi. Poteva, infatti, avvenire che i servi e gli schiavi convertiti al cristianesimo, sentendosi interiormente liberi della libertà apportata loro dal Vangelo, potevano ribellarsi ai padroni violentemente, il che sarebbe stato per loro un danno maggiore, ed avrebbe potuto inasprire le persecuzioni contro il cristianesimo.
Perciò, dopo averli esortati a sopportare le pene per amore di Dio, e quindi come un omaggio fatto al Signore, un dono di amore, diremmo, di eccezione, incalza nell’argomento, dicendo che il patire non è solo un dono straordinario che si fa a Dio, ma è la condizione stessa della vita cristiana, che deve essere conforme a quella di Gesù Cristo che per nostro amore ha patito per noi.
È un argomento non solo profondamente persuasivo, ma che poteva stroncare dall’animo dei servi e degli schiavi ogni pensiero di ribellione rivoluzionaria, pericolosissima in tempi di persecuzione. D’altra parte il persuadersi che uno stato d’inferiorità e di pena è una condizione inevitabile della propria vita, anche prescindendo dal motivo soprannaturale di portarla per amore di Dio, dà un senso quasi di fatalità che non si può evitare, e che quindi bisogna subire. Ma per un cristiano uno stato d’inferiorità penosa della vita, uno stato servile, non è una fatalità dell’umana condizione sociale, è uno stato che lo avvicina a Gesù Cristo appassionato per amore, e che per il suo esempio diventa uno stato glorioso di una nobiltà incomparabile.
È questa la forza maggiore dell’argomento di S. Pietro, per i poveri servi e schiavi, la cui vita socialmente avvilita era spesso ricolma di ingiustizie e di dolori. S. Pietro perciò soggiunge, proprio considerando lo stato dei servi e schiavi cristiani, in una luce superiore di fede: A questo foste chiamati, poiché anche Cristo soffrì per voi, a voi lasciando un esempio, affinché ne seguiate le orme. Lasciò un esempio di pazienza tanto più ammirabile e seducente in quanto Egli non soffrì, come noi, in espiazione dei nostri peccati, ma, come dice Iscaia, profetando di Lui: Peccato non commise, né fu trovato inganno nella sua bocca (Isaia 53, 9).
Nonostante che fosse innocentissimo, anzi la santità stessa, perché veramente Dio, ingiuriato fino ad essere riguardato come malfattore e indemoniato, ingiurie terribili, anzi bestemmie contro Colui che passò beneficando e sanando, e che era Figlio di Dio, non rispondeva con ingiurie, maltrattato atrocemente nella passione, non minacciava, ma si rimetteva a Chi giudica con giustizia; si rimetteva con infinito amore al Padre suo, che gli rendeva testimonianza con le opere meravigliose che gli faceva compiere. E non solo non minacciava, ma implorava perdono, espiando i peccati nostri nel suo corpo sul legno, ossia sulla Croce, affinché, morti ai peccati, vivessimo nella giustizia.
S’immolò sulla Croce come su di un altare, vittima di espiazione per noi peccatori, meritandoci la grazia della nostra giustificazione, poiché per le sue lividure, per le sue piaghe fummo guariti dalle piaghe dei nostri peccati. Immolandosi, e riparando i vostri peccati vi ha raccolti con infinito amore intorno a Lui, nel suo Cuore divino. Prima della sua venuta sulla terra per salvarvi, voi eravate come pecore erranti, senza guida e senza pascolo, come dice Isaia, eravate come la pecorella smarrita della quale parla Gesù (Luca 15, 4), ma ora non siete più pecore smarrite; vi siete rivolti, con la professione cristiana a Gesù Cristo, pastore e guardiano delle anime vostre.
S. Pietro parlava ai servi ed agli schiavi con evidente compassione della loro sorte e dei patimenti ai quali erano sottoposti. Li esorta alla sottomissione piena con parole recise: Domestici, siate sottomessi con ogni rispetto ai padroni, non solo a quelli buoni, ma anche a quelli intrattabili, perché, psicologicamente, parlando a persone di infima condizione, veniva spontanea una parola di imperioso comando. Egli stesso, forse, nella sua professione di pescatore era abituato a comandare imperiosamente ai suoi subalterni, né aveva avuto un modo diverso quando pretese dissuadere Gesù dalla passione, o quando gli domandò che cosa avrebbero avuto in contraccambio egli e gli Apostoli che avevano lasciato tutto per Lui.
Ma subito dopo l’imperiosa esortazione, usa parole di conforto con una gradazione psicologica che va prima dalla soddisfazione personale di chi soffre ingiustamente, ma sente la fierezza della propria innocenza; poi dalla intima gioia per chi soffre per amore di Dio, poi al motivo più suadente dell’esempio di Gesù Cristo nella sua passione, e del dovere d’imitarlo in tutti i dolori della vita nostra, ed infine, ritorna al motivo dell’utile proprio per quello che Gesù Cristo ci ha meritato con i suoi dolori, unendoci come pecorelle del suo ovile, mentre prima della sua venuta eravamo come pecore sbandate, senza direzione e senza la vigilante tutela del pastore.
Evidentemente S. Pietro, nell’ammonire i servi e gli schiavi, confortandoli con l’esempio e i frutti della passione di Gesù Cristo, dovette ricordarsi delle parole con le quali il Redentore lo costituì capo della Chiesa: Pascola le mie pecorelle, e perciò mette il suggello alla esortazione e al conforto col ricordare loro che essi non sono i rifiuti della società, ma sono l’ovile di Gesù Cristo, vigilato da Gesù stesso, come pastore supremo, divino, e pascolato da Lui nella persona di chi aveva incaricato di portarlo al pascolo salutare, nella persona di S. Pietro stesso che scriveva.
Egli chiama Gesù pastore e guardiano delle anime vostre, usando la parola greca epìscopos, che prese proprio il significato di quelli che reggono e vigilano le anime, ispettori, come traducono i moderni... con soddisfazione, mentre il senso etimologico della parola greca epìscopos, in ordine all’ovile di Gesù Cristo, significa, come dice S. Pietro: pastore e guardiano, Gesù supremo pastore della Chiesa, e il Papa, suo vicario, guardiano che la tutela e la porta al pascolo, direttamente e per i Vescovi da lui eletti e consacrati o fatti consacrare.
Non è esatto il concetto che nelle discussioni del Concilio Vaticano II alcuni proposero, dicendo che i Vescovi avevano il mandato direttamente da Gesù Cristo e non da Lui per il Papa, e che quindi dovevano formare come i consiglieri del Papa, come un... parlamento. Gesù Cristo disse solo a S. Pietro: Pascola i miei agnelli, le mie pecorelle, e le pecorelle madri, che, secondo il senso etimologico greco, significa esattamente i Vescovi che generano i Sacerdoti, e per i Sacerdoti generano le anime a Gesù Cristo.
Sac. Dolindo Ruotolo
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