2. Giudizio severo contro la falsa pietà dei farisei, e gravi minacce contro di loro
Le insidie che gli scribi e i farisei avevano teso a Gesù, per comprometterlo e sfatarne l'autorità, erano una rivelazione del loro animo perverso. La loro condotta scandalosa, ambigua e ipocrita, secondo i casi, era un ostacolo grande alla conversione del popolo, poiché lo allontanava dalla Legge di Dio e dal Redentore; era però inevitabile e necessaria una chiarificazione da parte di Gesù Cristo che non poteva permettere lo scempio delle anime.
Egli parlò chiaro alle turbe e pur sapendo che si sarebbe attratto addosso l'odio dei nemici, non omise di farlo.
Prima di tutto volle salvare il principio di autorità, affinché il popolo non avesse preso occasione o pretesto dal suo discorso per ribellarsi ai legittimi capi, e perciò disse che sedendo essi sulla cattedra di Mosè, cioè essendo i successori dell'insegnamento di lui, dovevano ascoltarli e praticare quello che insegnavano, ma non dovevano guardare al loro esempio, tanto dissimile dalla dottrina che predicavano. Dicono e non fanno, ecco la triste caratteristica dei pastori infedeli, che non hanno il senso della loro responsabilità innanzi a Dio ed agli uomini; impongono agli altri pesi gravissimi, e non li smuovono neppure con un dito, cioè non fanno nulla. Sono severi con gli altri e indulgenti verso loro stessi. Eppure chi sta a capo e chi insegna agli altri deve prima di tutto dare l'esempio, perché l'insegnamento può illuminare, ma l'esempio trae all'imitazione ed all'azione.
I farisei avevano moltiplicato i precetti, ma non ne facevano nulla; erano solo solleciti di ostentare giustizia, e quindi osservavano esageratamente quello che li poteva fare apparire grandi santi innanzi al popolo, restringendosi ad esteriorità che non riflettevano per nulla lo spirito. Portavano quindi lunghi filatteri e lunghe frange. I filatteri erano strisce di pergamena sulle quali erano scritte quattro sezioni della Legge (Es 13,1-10; 13,11-16; Dt 6,4-9; 11,13-21). Queste strisce erano chiuse in apposite custodie, che venivano legate con nastri sulla fronte e sul braccio sinistro. Per ostentare l'osservanza della Legge, i farisei le facevano di proporzioni più grandi, ed allungavano le frange del mantello, che, nel simbolismo ebraico, figuravano i comandamenti di Dio. Contenti di questo non pensavano ad osservare la Legge del Signore, e segretamente conducevano una vita disordinata.
Si fingevano giusti unicamente per carpire onori e, pieni di orgoglio, amavano di essere tenuti in considerazione dovunque, sia occupando i primi posti, sia desiderando essere salutati e chiamati maestri. Tutto questo rendeva vano ogni loro insegnamento, anche se buono, e concentrava tutta la loro anima in stupide vanità.
Chi sta a capo rappresenta Dio, e logicamente non può presumere di rappresentare se stesso. Come rappresentante di Dio dev'essere benefico e diffondere la verità, la bontà, l'ordine, l'armonia, la pace e la provvidenza. Non può pretendere di avere dei criteri personali o delle dottrine cervellotiche nel governare, né può credersi padrone od anche semplicemente padre del popolo, indipendentemente da Dio. Gesù Cristo non vieta che uno si possa chiamare maestro o padre come rappresentante del Maestro divino e del Padre infinito di tutti, ma vieta che uno possa credersi, diciamo così, fondatore o capo scuola di una particolare dottrina e che possa chiamarsi padre per orgoglio di superiorità.
I sacerdoti della Chiesa di Dio si chiamano padri ed anche maestri proprio per ricordare l'unico Maestro e l'unico Padre che abbiamo; essi, quindi, essendo viva rappresentanza di Gesù Cristo, non solo non contravvengono alla sua parola ma la praticano. S'intende che se volessero essere chiamati così per vanità o per ostentazione di un titolo di benemerenza, cadrebbero nella colpa e trasgredirebbero il comando del Signore.
Chi sta a capo dev'essere servo, ed in realtà è tale quando vuole veramente essere utile agli altri; deve stare a disposizione di tutti e deve provvedere a tutti dimenticando se stesso; dev'essere pieno di umiltà, di affabilità, di carità proprio come una mamma che cura i suoi figlioli servendoli.
La Chiesa non conosce altro concetto di superiorità nel suo seno, e se conserva scrupolosamente la gerarchia e il principio di autorità, non lo conserva in una falsa luce di orgoglio, ma in un'aureola di umiltà e di bontà.
Se possono esserci quelli che vengono meno a questo dovere, essi non partecipano allo spirito della Chiesa e sono lontani dal Vangelo.
La bontà, l'umiltà e l'affabilità sono la luce più bella dell'autorità, e le danno un fascino dominatore che non può essere sostituito da nessuna forza.
L'autorità dev'essere in perfetta unione con Dio per poter essere sua rappresentanza, e quando devia dal Signore non domina che con la forza. La forza non è mai un segreto di dominio, ma piuttosto di oppressione, e lungi dall'unire i sudditi in una sola famiglia, li divide e suscita in loro la reazione e la rivolta. Non accenniamo neppure a quelle esose manifestazioni di dominio tiranno o dittatoriale, quali si vedono proprio in quelle nazioni che pretendono predicare la libertà;
quelle autorità che si reggono con la violenza, dopo aver usurpato il potere, e si dichiarano contro Dio, non sono autorità, sono accolta di delinquenti che è sacrosanto dovere combattere e punire, per restituire alla nazione la tranquillità e la pace.
Dopo avere stabilito il principio di autorità e la vera natura del potere dominante, Gesù si rivolse con severità agli scribi e farisei, sfatando innanzi al popolo quel falso prestigio che avevano, e del quale abusavano per consumare tanti delitti. Egli era Dio, e come tale aveva il diritto di giudicarli; era Redentore, e come tale non poteva tollerare quella malignità che tentava distruggere la sua opera in mezzo alle anime; enumerò quindi le miserie delle quali erano infetti, condannandole con quella terribile parola: Guai a voi! Essi non sarebbero entrati nel regno dei cieli e non permettevano che altri vi entrasse, con la scusa di tutelare la Legge di Mosè. Affettando pietà e promettendo lunghe orazioni, spillavano denaro dalle vedove, fingendo di voler consolare il loro dolore e di voler suffragare i loro morti.
Si mostravano zelanti nel fare proseliti alla Legge, ma con l'unico scopo di formare un numero maggiore di affiliati alla loro setta, più perversi di loro, e figli di perdizione. Il loro insegnamento, infatti, era falsato ed arbitrario, ed essi interpretavano la Legge a modo loro. Gesù Cristo porta un esempio di questa falsità a proposito del giuramento. All'apparenza si mostravano scrupolosi, e mentre era prescritto di pagare solo le decime del finimento e dei frutti (Lv 17,30; Dt 14,22), essi le pagavano anche delle più piccole erbe aromatiche, come la menta, l'aneto e il cumino, ma dimenticavano la Legge nelle sue prescrizioni più gravi, e manomettevano la giustizia coi loro soprusi, la misericordia coi loro inveterati odi e la fede, cioè la fedeltà al Signore, con le loro gravi trasgressioni. Questi erano doveri precisi e gravi che si dovevano compiere, mentre che le opere di supererogazione potevano farsi e in ogni caso dovevano farsi con vero spirito di pietà e non per ipocrisia.
Gli scribi e i farisei, al contrario, temevano di contaminarsi ingoiando un moscerino, e perciò filtravano i liquidi per evitare il pericolo d'ingoiarne nel caso qualcuno, mentre ingoiavano in realtà trasgressioni così gravi contro lo spirito stesso della Legge, che in paragone si sarebbero potuti paragonare alla mole di un cammello. La loro purezza era tutta esterna, e si curavano di lavare i piatti e i bicchieri diligentemente, senza badare a purificare la coscienza dai peccati; erano perciò come sepolcri imbiancati che sembrano belli all'esterno, mentre dentro sono pieni di putredine e di ossa.
Gli scribi e farisei avevano premura di elevare sontuosi monumenti sepolcrali di profeti uccisi dai loro padri, ed apparentemente stigmatizzavano quei delitti; ma essi stessi se ne rendevano rei perseguitando quelli che il Signore inviava loro per convertirli, e perseguitando soprattutto il Redentore. Con questo manifestavano chiaramente di avere il medesimo spirito dei loro padri, ed essendo coi fatti conniventi alle loro malvagità, ne colmavano la misura, e dovevano raccogliere un castigo proporzionato a tanta empietà. Essi avevano lo spirito di Caino nell'uccidere per invidia gl'inviati di Dio, e lo spirito dello scellerato Gioas, che fece uccidere il sacerdote Zaccaria tra il Santo dei Santi e l'altare degli olocausti (2Cr 24,20) perché aveva rimproverato il popolo per la prevaricazione dalla Legge divina.
Gesù Cristo, dicendo che tutto il sangue giusto sparso da Abele a Zaccaria sarebbe caduto sulla generazione che gli era contemporanea, allude evidentemente al delitto che contro di Lui stavano per consumare gli Ebrei, del quale erano figura i delitti passati. Ognuno dei misfatti passati aveva un grado di responsabilità proporzionato alla persona soppressa; ma il delitto di uccidere il Figlio di Dio era tale, che cumulava sulla generazione contemporanea tutte le responsabilità passate che lo figuravano. La nazione poi era un'unica personalità morale, ed era giusto e logico che, colmati i suoi delitti in quello dell'uccisione del Redentore, fosse chiesto conto alla generazione deicida di tutti i delitti, come si chiede conto di un debito agli eredi.
Gesù Cristo apostrofa con parole severissime gli scribi e farisei, chiamandoli serpenti e razza di vipere, cioè astuti avvelenatori del popolo e, perché Egli conosceva bene le loro insidie e le loro congiure, domandava loro come avrebbero fatto a scampare dalla condanna dell'inferno. Evidentemente il suo Cuore era angosciato per questo, ed Egli parlava severamente per allontanarli dall'abisso che minacciava d'ingoiarli. Volgendosi a Gerusalemme poi, l'apostrofò con parole cocenti di amore e con severe minacce, annunziando ad essa e a tutto Israele la completa rovina della nazione e il completo eclissamento del Redentore da loro, fino a che, convertendosi alla fine dei tempi, l'avessero riconosciuto invocandolo come vero Messia: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Le insidie che gli scribi e i farisei avevano teso a Gesù, per comprometterlo e sfatarne l'autorità, erano una rivelazione del loro animo perverso. La loro condotta scandalosa, ambigua e ipocrita, secondo i casi, era un ostacolo grande alla conversione del popolo, poiché lo allontanava dalla Legge di Dio e dal Redentore; era però inevitabile e necessaria una chiarificazione da parte di Gesù Cristo che non poteva permettere lo scempio delle anime.
Egli parlò chiaro alle turbe e pur sapendo che si sarebbe attratto addosso l'odio dei nemici, non omise di farlo.
Prima di tutto volle salvare il principio di autorità, affinché il popolo non avesse preso occasione o pretesto dal suo discorso per ribellarsi ai legittimi capi, e perciò disse che sedendo essi sulla cattedra di Mosè, cioè essendo i successori dell'insegnamento di lui, dovevano ascoltarli e praticare quello che insegnavano, ma non dovevano guardare al loro esempio, tanto dissimile dalla dottrina che predicavano. Dicono e non fanno, ecco la triste caratteristica dei pastori infedeli, che non hanno il senso della loro responsabilità innanzi a Dio ed agli uomini; impongono agli altri pesi gravissimi, e non li smuovono neppure con un dito, cioè non fanno nulla. Sono severi con gli altri e indulgenti verso loro stessi. Eppure chi sta a capo e chi insegna agli altri deve prima di tutto dare l'esempio, perché l'insegnamento può illuminare, ma l'esempio trae all'imitazione ed all'azione.
I farisei avevano moltiplicato i precetti, ma non ne facevano nulla; erano solo solleciti di ostentare giustizia, e quindi osservavano esageratamente quello che li poteva fare apparire grandi santi innanzi al popolo, restringendosi ad esteriorità che non riflettevano per nulla lo spirito. Portavano quindi lunghi filatteri e lunghe frange. I filatteri erano strisce di pergamena sulle quali erano scritte quattro sezioni della Legge (Es 13,1-10; 13,11-16; Dt 6,4-9; 11,13-21). Queste strisce erano chiuse in apposite custodie, che venivano legate con nastri sulla fronte e sul braccio sinistro. Per ostentare l'osservanza della Legge, i farisei le facevano di proporzioni più grandi, ed allungavano le frange del mantello, che, nel simbolismo ebraico, figuravano i comandamenti di Dio. Contenti di questo non pensavano ad osservare la Legge del Signore, e segretamente conducevano una vita disordinata.
Si fingevano giusti unicamente per carpire onori e, pieni di orgoglio, amavano di essere tenuti in considerazione dovunque, sia occupando i primi posti, sia desiderando essere salutati e chiamati maestri. Tutto questo rendeva vano ogni loro insegnamento, anche se buono, e concentrava tutta la loro anima in stupide vanità.
Chi sta a capo rappresenta Dio, e logicamente non può presumere di rappresentare se stesso. Come rappresentante di Dio dev'essere benefico e diffondere la verità, la bontà, l'ordine, l'armonia, la pace e la provvidenza. Non può pretendere di avere dei criteri personali o delle dottrine cervellotiche nel governare, né può credersi padrone od anche semplicemente padre del popolo, indipendentemente da Dio. Gesù Cristo non vieta che uno si possa chiamare maestro o padre come rappresentante del Maestro divino e del Padre infinito di tutti, ma vieta che uno possa credersi, diciamo così, fondatore o capo scuola di una particolare dottrina e che possa chiamarsi padre per orgoglio di superiorità.
I sacerdoti della Chiesa di Dio si chiamano padri ed anche maestri proprio per ricordare l'unico Maestro e l'unico Padre che abbiamo; essi, quindi, essendo viva rappresentanza di Gesù Cristo, non solo non contravvengono alla sua parola ma la praticano. S'intende che se volessero essere chiamati così per vanità o per ostentazione di un titolo di benemerenza, cadrebbero nella colpa e trasgredirebbero il comando del Signore.
Chi sta a capo dev'essere servo, ed in realtà è tale quando vuole veramente essere utile agli altri; deve stare a disposizione di tutti e deve provvedere a tutti dimenticando se stesso; dev'essere pieno di umiltà, di affabilità, di carità proprio come una mamma che cura i suoi figlioli servendoli.
La Chiesa non conosce altro concetto di superiorità nel suo seno, e se conserva scrupolosamente la gerarchia e il principio di autorità, non lo conserva in una falsa luce di orgoglio, ma in un'aureola di umiltà e di bontà.
Se possono esserci quelli che vengono meno a questo dovere, essi non partecipano allo spirito della Chiesa e sono lontani dal Vangelo.
La bontà, l'umiltà e l'affabilità sono la luce più bella dell'autorità, e le danno un fascino dominatore che non può essere sostituito da nessuna forza.
L'autorità dev'essere in perfetta unione con Dio per poter essere sua rappresentanza, e quando devia dal Signore non domina che con la forza. La forza non è mai un segreto di dominio, ma piuttosto di oppressione, e lungi dall'unire i sudditi in una sola famiglia, li divide e suscita in loro la reazione e la rivolta. Non accenniamo neppure a quelle esose manifestazioni di dominio tiranno o dittatoriale, quali si vedono proprio in quelle nazioni che pretendono predicare la libertà;
quelle autorità che si reggono con la violenza, dopo aver usurpato il potere, e si dichiarano contro Dio, non sono autorità, sono accolta di delinquenti che è sacrosanto dovere combattere e punire, per restituire alla nazione la tranquillità e la pace.
Dopo avere stabilito il principio di autorità e la vera natura del potere dominante, Gesù si rivolse con severità agli scribi e farisei, sfatando innanzi al popolo quel falso prestigio che avevano, e del quale abusavano per consumare tanti delitti. Egli era Dio, e come tale aveva il diritto di giudicarli; era Redentore, e come tale non poteva tollerare quella malignità che tentava distruggere la sua opera in mezzo alle anime; enumerò quindi le miserie delle quali erano infetti, condannandole con quella terribile parola: Guai a voi! Essi non sarebbero entrati nel regno dei cieli e non permettevano che altri vi entrasse, con la scusa di tutelare la Legge di Mosè. Affettando pietà e promettendo lunghe orazioni, spillavano denaro dalle vedove, fingendo di voler consolare il loro dolore e di voler suffragare i loro morti.
Si mostravano zelanti nel fare proseliti alla Legge, ma con l'unico scopo di formare un numero maggiore di affiliati alla loro setta, più perversi di loro, e figli di perdizione. Il loro insegnamento, infatti, era falsato ed arbitrario, ed essi interpretavano la Legge a modo loro. Gesù Cristo porta un esempio di questa falsità a proposito del giuramento. All'apparenza si mostravano scrupolosi, e mentre era prescritto di pagare solo le decime del finimento e dei frutti (Lv 17,30; Dt 14,22), essi le pagavano anche delle più piccole erbe aromatiche, come la menta, l'aneto e il cumino, ma dimenticavano la Legge nelle sue prescrizioni più gravi, e manomettevano la giustizia coi loro soprusi, la misericordia coi loro inveterati odi e la fede, cioè la fedeltà al Signore, con le loro gravi trasgressioni. Questi erano doveri precisi e gravi che si dovevano compiere, mentre che le opere di supererogazione potevano farsi e in ogni caso dovevano farsi con vero spirito di pietà e non per ipocrisia.
Gli scribi e i farisei, al contrario, temevano di contaminarsi ingoiando un moscerino, e perciò filtravano i liquidi per evitare il pericolo d'ingoiarne nel caso qualcuno, mentre ingoiavano in realtà trasgressioni così gravi contro lo spirito stesso della Legge, che in paragone si sarebbero potuti paragonare alla mole di un cammello. La loro purezza era tutta esterna, e si curavano di lavare i piatti e i bicchieri diligentemente, senza badare a purificare la coscienza dai peccati; erano perciò come sepolcri imbiancati che sembrano belli all'esterno, mentre dentro sono pieni di putredine e di ossa.
Gli scribi e farisei avevano premura di elevare sontuosi monumenti sepolcrali di profeti uccisi dai loro padri, ed apparentemente stigmatizzavano quei delitti; ma essi stessi se ne rendevano rei perseguitando quelli che il Signore inviava loro per convertirli, e perseguitando soprattutto il Redentore. Con questo manifestavano chiaramente di avere il medesimo spirito dei loro padri, ed essendo coi fatti conniventi alle loro malvagità, ne colmavano la misura, e dovevano raccogliere un castigo proporzionato a tanta empietà. Essi avevano lo spirito di Caino nell'uccidere per invidia gl'inviati di Dio, e lo spirito dello scellerato Gioas, che fece uccidere il sacerdote Zaccaria tra il Santo dei Santi e l'altare degli olocausti (2Cr 24,20) perché aveva rimproverato il popolo per la prevaricazione dalla Legge divina.
Gesù Cristo, dicendo che tutto il sangue giusto sparso da Abele a Zaccaria sarebbe caduto sulla generazione che gli era contemporanea, allude evidentemente al delitto che contro di Lui stavano per consumare gli Ebrei, del quale erano figura i delitti passati. Ognuno dei misfatti passati aveva un grado di responsabilità proporzionato alla persona soppressa; ma il delitto di uccidere il Figlio di Dio era tale, che cumulava sulla generazione contemporanea tutte le responsabilità passate che lo figuravano. La nazione poi era un'unica personalità morale, ed era giusto e logico che, colmati i suoi delitti in quello dell'uccisione del Redentore, fosse chiesto conto alla generazione deicida di tutti i delitti, come si chiede conto di un debito agli eredi.
Gesù Cristo apostrofa con parole severissime gli scribi e farisei, chiamandoli serpenti e razza di vipere, cioè astuti avvelenatori del popolo e, perché Egli conosceva bene le loro insidie e le loro congiure, domandava loro come avrebbero fatto a scampare dalla condanna dell'inferno. Evidentemente il suo Cuore era angosciato per questo, ed Egli parlava severamente per allontanarli dall'abisso che minacciava d'ingoiarli. Volgendosi a Gerusalemme poi, l'apostrofò con parole cocenti di amore e con severe minacce, annunziando ad essa e a tutto Israele la completa rovina della nazione e il completo eclissamento del Redentore da loro, fino a che, convertendosi alla fine dei tempi, l'avessero riconosciuto invocandolo come vero Messia: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Sac. Dolindo Ruotolo
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