martedì 14 ottobre 2014

14.10.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 11 par. 6

6. Gesù rimprovera gli scribi e i farisei
Mentre Gesù parlava di un argomento così importante, un fariseo lo invitò a desinare con lui. Dalle severe parole che il Redentore gli rivolse, può rilevarsi in quel fariseo almeno un'incoscienza supina per un problema dal quale poteva dipendere la salvezza o la perdizione. Orientare a Dio la ragione, tendere a Lui con tutte le forze interiori dello spirito, saper apprezzare i momenti della grazia e corrispondervi con una grande rettitudine era essenziale per ogni anima che tendeva alla perfezione ed a Dio; ma al povero fariseo quelle cose sembrarono involute utopie ed essendo già l'ora del pranzo, cioè del pasto che si faceva verso mezzogiorno, invitò Gesù, forse anche per troncare quel discorso.
Il poveretto non aveva l'abitudine di dare un solo sguardo interiore alla propria anima, viveva di esteriorità e credeva che in quello consistesse la perfezione. Probabilmente era uno di quelli che avevano partecipato alle insinuazioni dette contro Gesù, o per lo meno vi aveva assistito e, quasi per attenuare l'urto che, credeva lui, avevano determinato in Lui, e la confusione che la sua risposta aveva prodotto nei suoi nemici, lo invitò a pranzo con quel gesto familiare di ostentata cordialità che si usa quando si vuol troncare una questione amichevolmente, senza confessare il proprio torto.
L'aver detto, infatti, che Gesù scacciava i demoni in virtù di Beelzebul era stata una enormità troppo ripugnante, e la confutazione fattane dal Redentore un colpo troppo grave inferto al prestigio dei farisei e degli scribi, che si peritavano di essere eccellenti ragionatori; l'invito a pranzo troncava quell'istruzione troppo scottante della rettitudine della ragione e dell'intenzione ed era come non voler dare un lieto fine ad un'insinuazione estremamente ingiuriosa.
Gesù Cristo accettò l'invito perché al suo immenso amore verso quelle anime premeva l'illuminarle, senza troppo sminuirle innanzi al popolo; in una casa privata poteva parlare più chiaramente e più fortemente ed era necessario farlo per disingannare l'orgoglio loro che le faceva stimare perfette, quando stavano nel fondo della perdizione. L'avere attribuito a satana le più potenti manifestazioni della divina bontà era un'ingiuria spaventosa fatta a Dio, ed il far riflettere loro alle miserie nelle quali cadevano era un atto di misericordia per scuoterle e spingerle alla penitenza. Il linguaggio severo di Gesù deve considerarsi in questa luce per intenderlo: Egli guardava la gloria di Dio e l'estrema miseria di quelli che la manomettevano, ardeva di zelo e di carità, ed il suo accento severo era riparazione e medicina. Egli, poi, chiudeva la storia antica e cominciava la nuova, e logicamente doveva mostrare agli scribi e farisei le gravi responsabilità dei loro padri, sapendo che con la sua morte vi avrebbero messo il colmo. Voleva far loro capire che essi erano su di un falso cammino ed avevano bisogno di convertirsi, anziché di congiurare contro di Lui.
Gesù Cristo, entrato nella casa che l'ospitava, si mise a tavola senz'altro. Il fariseo si scandalizzò che Egli non avesse fatto le abluzioni di uso prima del pasto, giacché essi solevano sempre lavarsi le mani, non tanto per pulizia ed igiene, quanto per purificarsi di qualunque immondezza legale che avessero potuto contrarre. Era logico che Gesù, Santo dei Santi e purissimo giglio, non si lavasse con questa intenzione particolare, ma Egli lo fece sia perché era tutto compreso di dolore per l'ingiuria che avevano fatta a Dio sia per avere occasione di istruire i commensali.
Il fariseo non osò rimproverarlo; ma Gesù, leggendone l'intimo del cuore e rispondendo al suo pensiero, gli disse in tono severo, per rimproverare lui o qualcuno dei presenti di ingiustizie commesse e di peccati gravi consumati: Voi ora, o farisei, lavate il di fuori del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e d'iniquità. Stolti, chi ha fatto l'esterno non ha fatto anche l'interno? Evidentemente al suo sguardo divino non era sfuggito che quello stesso che stava a tavola era stato acquistato con esosi tratti d'ingiusta vessazione al mercato, né sfuggiva quello che era stato male acquistato nella casa, o male retribuito.
Stridevano sul suo delicatissimo Cuore quelle ingiustizie, stridevano quelle alle quali i farisei si abbandonavano senza scrupolo, e stridevano quegli stessi atti di apparente carità che facevano quando mangiavano, unicamente per rispetto umano. Presso gli Ebrei, infatti, la porta era tenuta aperta quando si pranzava, ed i poveri non raramente entravano per domandare qualche cosa. I farisei, dopo aver consumato cento ingiustizie al mercato, se c'era chi potesse osservarli facevano anche l'elemosina, ma con un tratto sprezzante che mal celava il loro disappunto interiore.
Perciò Gesù, dopo averli rimproverati di rapina e d'iniquità, assistendo forse in quel medesimo momento ad una di quelle elemosine fatte per ostentazione, soggiunse: Fate piuttosto elemosina di quello che vi avanza, cioè di quello che non avete male acquistato ed è vostra ricchezza, o secondo il testo greco, di quello che è dentro di voi, cioè di ciò che elargite con vera carità interiore e non con rispetto umano. Voi fate l'elemosina con quello che avete usurpato e questo non vi purifica dall'ingiustizia; dovete farla con quello che avanza a voi, con quello che è vostro, e farla con vera carità soprannaturale, perché questo solo può purificarvi dalle colpe.
Don Dolindo Ruotolo

sabato 6 settembre 2014

06.09.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 6 par. 2

2. Divina padronanza sui tempi e sugli uomini
In un sabato che il Sacro Testo chiama secondo primo, perché forse era il secondo dei sette sabati che separavano la prima solennità dell'anno sacro, la Pasqua dalla Pentecoste, Gesù, insieme ai discepoli camminava per i campi ricchi di messe matura. Innanzi allo spettacolo dei campi pieni di grano, Gesù un'altra volta aveva parlato della messe delle anime, e può supporsi che anche in questa circostanza il suo Cuore divino fosse tutto compreso di amore per le creature che doveva redimere e doveva poi raccogliere nel cielo per il ministero degli apostoli. Nella sua vita non c'era nulla che non fosse armonizzato all'amore che gli ardeva nel Cuore per la gloria di Dio e per il bene delle anime, ed è logico anche il supporlo.
I discepoli erano ancora ignari della loro missione, benché Gesù ne avesse fatto loro cenno, dicendo ai primi chiamati: Vi farò pescatori di uomini', ma essi non avevano capito tutta la portata di questa espressione. Camminavano, dunque, fra i campi ubertosi come fanciulli, si preoccupavano solo della fame che li tormentava. Evidentemente avevano percorso già un lungo cammino e dovevano percorrerne ancora; perciò colsero le spighe di grano, e sfregandole con le mani ne mangiarono i chicchi.
Secondo la Legge era perfettamente lecito il cogliere con le mani e non con la falce qualche cosa necessaria al sostentamento personale nel campo altrui; era questa una forma di carità, e diremmo di ospitalità, della quale però non bisognava abusare, restringendosi alla pura necessità e non al capriccio od al furto.
Dio, padrone di tutto, l'aveva permesso.
Ma il giorno nel quale gli apostoli coglievano le spighe era sabato, e quel che è più, un sabato più solenne, e per questo i farisei se ne scandalizzarono. Per essi il coglierle era un mietere, e lo sfregarle con le mani equivaleva a trebbiarle; era una loro pedanteria, ma, credendo di aver ragione, ne mossero rimprovero agli apostoli dicendo: Perché fate ciò che non è lecito di sabato? Secondo san Matteo (12,2) e san Marco (2,24) il rimprovero lo mossero a Gesù, ma è evidente dal confronto dei testi che parlarono prima ai discepoli, tra i quali erano confusi, e poi al Maestro, vedendo che non avevano tenuto conto della loro riprensione.
Gesù Cristo avrebbe potuto rispondere che quell'atto non era una violazione del sabato, equivalendo semplicemente al mangiare. Ma, pieno come aveva il Cuore degli alti pensieri della sua lotta contro l'inferno e della conquista del suo regno, Egli si servì di un argomento più profondo, per affermare il dominio che come Re universale aveva su tutto il creato ed anche sui tempi.
L'argomento, poi, era mirabilmente proporzionato all'anima dei suoi oppositori, potendo Egli costringerli a considerare la stoltezza delle loro esagerazioni.
Era un argomento dal più al meno, come si dice, ed un argomento ad hominem. Se Davide, posto alle strette dalla necessità, non credette di peccare mangiando addirittura i pani sacri, egli e i suoi uomini, né credette di peccare il sacerdote che gliele diede, quanto più i suoi trovandosi stretti dalla fame, potevano cogliere e mangiare le spighe dei campi. Che se essi avessero supposto che a Davide lo permise il sacerdote, ebbene il Figlio dell'uomo, padrone dei tempi e del sabato stesso, l'aveva loro permesso.
Come un padre amoroso Gesù difendeva i suoi cari dall'accusa di violatori del sabato; ma quanta profondità v'era nelle sue parole! Il sabato, il grano, i pani della proposizione; un sabato pasquale che ricordava ancora l'immolazione dell'Agnello, il grano diventato cibo dei suoi discepoli, i pani sacri della mensa del tempio, tre immagini della grande santificazione che Egli voleva dare alle anime col suo sacrificio e col farsi loro cibo.
Egli si sarebbe immolato prima cruentemente nella Pasqua, poi gli apostoli avrebbero colto il grano come cibo di vita e, rinnovando il suo sacrificio incruentemente, avrebbero posto innanzi a Dio i veri pani della proposizione per cibare i suoi, forti nella guerra di conquista del suo regno.
Il pensiero di Gesù trascendeva le misere beghe dei farisei, guardava lontano nei tempi della misericordia e dell'amore, ed annunziava velatamente il sabato delle anime, intente a cibarsi del Pane eucaristico. Egli era il vero Davide, Egli camminava per conquistare il suo regno di amore, e quella sua divina missione era più sacra delle stesse funzioni del tempio che la figuravano; poteva dunque permettere ai suoi apostoli di cibarsi anche di sabato, anche se fosse stato un lavoro il cogliere e sfregare le spighe, perché di questo sabato di giubileo vero e di vera misericordia Egli solo era il padrone.
I sacerdoti non lavorano forse nel tempio in giorno di sabato? Non immolano le vittime? Non offrono l'incenso? Eppure nessuno dice che violino il sabato; ora Gesù, Sacerdote eterno, compiva un'azione eminentemente sacerdotale nella sua divina missione, ed era padrone di permettere ai suoi che lo aiutavano di cibarsi delle spighe per sostenere una vita che doveva servire solo per la gloria di Dio. Essi, del resto, non mangiavano per avidità, ma perché non avevano avuto modo di rifornirsi di cibo e, mangiando le spighe camminando, donavano indirettamente a Dio anche il tempo del loro desinare.
Gli scribi e farisei non poterono replicare all'argomento di Gesù, benché non ne avessero capito tutta la portata, perché non osarono mettersi in contraddizione con un fatto scritturale, ma continuarono a seguirlo per sindacarne le azioni, e non tardarono a trovarsi di fronte ad un altro fatto per loro imbarazzante.
Gesù guarisce l'uomo dalla mano inaridita
In un altro sabato Gesù entrò in una sinagoga ed insegnava. La sua presenza, come avveniva comunemente, raccolse intorno a Lui tanti poveri infelici desiderosi di essere guariti, e tra gli altri un uomo con la mano inaridita. Gli scribi e farisei stavano ad osservarlo per vedere se in quel giorno li avesse guariti, per trovare modo di accusarlo e sbarazzarsene uccidendolo. La loro intenzione era dunque omicida, e l'osservavano non per zelo della Legge ma per volontà perfida di nuocergli.
Gesù Cristo, che conosceva questi loro pensieri, disse all'uomo dalla mano inaridita che si fosse alzato e fosse venuto in mezzo all'assemblea, per essere meglio osservato. Quindi, rivolto agli scribi ed ai farisei, domandò di proposito, richiamandoli sulle loro intenzioni perfide ed omicide: In giorno di sabato è lecito far del bene o del male, salvare una vita o perderla? E dopo aver detto queste parole, dette intorno uno sguardo a tutti i presenti, uno sguardo che da solo faceva loro intendere che Egli aveva scrutato le macchinazioni del loro cuore, uno sguardo da giudice che li fece ammutolire.
Essi nel sabato pensavano di fargli del male o di ucciderlo, ed Egli nel sabato voleva fare del bene ad un uomo e salvarlo; non potevano, dunque, osare di rimproverarlo in nome della Legge essi che la violavano così gravemente sotto gli occhi di Dio.
Nel silenzio dell'assemblea ammutolita Gesù si rivolse all'infermo e gli disse in tono di onnipotente comando: Stendi la tua mano, e subito la distese, perfettamente risanata. Gli scribi e farisei allora furono ripieni di pazzo furore, e complottavano fra loro che cosa dovessero fare di Gesù, cioè, come dicono gli altri evangelisti, come potessero ucciderlo. È terribile! Un miracolo così grande non apriva loro gli occhi e non faceva loro conoscere la piena padronanza che Gesù aveva su tutto! Avrebbero dovuto adorarlo e complottavano, avrebbero dovuto pentirsi e diventavano più tracotanti!
La diabolica pazzia. I persecutori della Chiesa
Così, dolorosamente, s'accecano i persecutori di Gesù Cristo nella sua Chiesa! La vigilano come se fosse una raccolta di delinquenti, e ne cercano la distruzione quando essa fa solo il bene salvando gli uomini per l'eterna vita.
Che cosa possono opporle? Anche se i suoi membri a volte sono individualmente colpevoli, nessuno potrà dire che Essa sia pericolosa allo Stato.
La sua storia è storia di sapienza e di beneficenza, poiché Essa è faro di verità ed è vera benefattrice dei popoli.
Gl'ipocriti malversatori delle nazioni sanno che Essa è un pruno nei loro occhi, sanno che leva la voce contro le ingiustizie e le sopraffazioni, sanno che fulmina inesorabilmente gli errori, e cercano di distruggerla. E questa la storia passata e quella tristemente presente. Si cercano i pretesti ed i cavilli per farle del male, sotto la farisaica scusa di provvedere al bene nazionale e persino all'onore di Dio.
Dicono che la fede è l'oppio dei popoli, non perché ne siano convinti, ma per fare agire il loro oppio criminale, col quale li addormentano nel male e nelle scelleratezze, ed inaridiscono le loro attività nel bene.
La Chiesa invece è risveglio dei popoli, è salvaguardia di verità è tutela di libertà, è difesa dei deboli, è vendicatrice delle ingiustizie, ed è storicamente certo che senza di Essa il mondo sarebbe oggi in una barbarie da belve, come lo è dove la Chiesa non ha alcuna influenza.
Non è senza una profonda ragione che il Sacro Testo dice ripieni di rabbia quelli che complottavano contro Gesù. È questa infatti una caratteristica dei persecutori, una nota inequivocabile che li distingue: sono presi da vera pazzia, non ragionano, sono violenti, sono crudeli, e con le loro stesse mani si rovinano e rovinano i loro popoli. La pazzia non di rado, e diremmo quasi sempre, è un frutto diabolico, o per lo meno è sfruttata da satana per i suoi loschi fini. I pazzi portano spiccati i segni particolari di satana: l'orgoglio, la malignità, Tira, l'irruenza e l'impurità.
Ora i persecutori della Chiesa sono orgogliosi perché pretendono d'imporre le loro stoltissime idee; maligni perché ricorrono a tutti i mezzi della seduzione; iracondi, perché irrompono internamente con l'odio implacabile contro ciò che è bene, ed irruenti perché si servono della forza barbaramente.
La loro vita, poi, è tutta un cumulo di impurità, e proprio per questo avversano la Chiesa, fiera condannatrice d'ogni degradazione. Come satana, essi avversano il bene e promuovono il male, odiano la virtù e sublimano il vizio, amano il sangue e sono omicidi scellerati sotto l'orpello delle leggi da essi stessi formate per dare un'apparenza giuridica alle loro malvagità.
Dio però li confonde, e si serve spesso delle più umili forze per gettarli giù da un piedistallo che sembrava loro tetragono ad ogni potenza.
Uno sguardo solo della sua giustizia basta a sgominarli ed essi presto o tardi pagano il filo dei loro delitti e finiscono nell'obbrobrio.
Oggi che i persecutori della Chiesa dolorosamente sono molti, e spesso più violenti e sanguinosi degli antichi, non dobbiamo scoraggiarci ma pregare, perché la preghiera o li converte o li elimina. Dio mostra fino all'evidenza proprio nelle persecuzioni ch'Egli è padrone dei tempi e degli uomini, ed al momento opportuno si leva, compie i suoi disegni, e come vasi di creta riduce in frantumi i disegni dei perfidi.
Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 5 settembre 2014

05.09.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 5 par. 5

5. La vocazione di Levi, la questione del digiuno e la prudente ponderazione nelle vie dello spirito. La santa novità di Dio
Dopo aver guarito il paralitico, Gesù uscì dalla casa e andò verso il lago di Genesaret, e passò vicino ad un banco di gabelliere dove sedeva per le esazioni un pubblicano chiamato Levi ed anche Matteo. Lo guardò e con la grazia gli conquise il cuore, di modo che quegli ad un suo invito subito lasciò tutto e lo seguì.
In quei tempi c'erano una maggiore libertà ed un maggiore rispetto all'individuo, come c'era anche una maggiore coscienza del dovere; quindi non erano necessarie tante pastoie di formalità. Oggi un pubblico ufficiale, anche di alto grado, è ridotto poco meno che un collegiale, con tanto di uniforme, e con mille restrizioni che praticamente non giovano al buon andamento della cosa pubblica; esse, infatti, invece di dare la coscienza larga del dovere e l'iniziativa nell'azione, riducono tutto ad un formalismo pesante e demoralizzante, che salva solo le apparenze.
I nostri famosi superuomini e riformatori si accorgeranno ben presto di aver concepito la vita in una maniera fanciullona, e vedranno come già vedono, fallite le loro iniziative. Hanno voluto imitare la Chiesa nella sua mirabile organizzazione, ma hanno dimenticato che la Chiesa ha il Cristo che la vivifica, ed essi hanno solo la violenza e le parole roboanti, che non penetrano l'anima e suscitano reazioni pericolose. La diversità dell'ambiente della vita ai tempi di Gesù ci fa intendere tante cose che con la mentalità moderna sembrerebbero assurde.
Levi doveva avere qualche subalterno al quale lasciare affidato il suo ufficio, e quegli ne dovette prendere automaticamente la responsabilità; egli non si curò di altro, lasciò tutto e seguì Gesù Cristo.
Era un'anima retta, certamente, perché la grazia cerca un cuore disposto per potervi lavorare; doveva essere annoiato di quell'ufficio esoso, che lo costringeva ad angariare il prossimo, mentre l'indole sua doveva essere inclinata alla generosità, come dimostrò nell'apostolato; forse era non poco seccato di essere considerato come aguzzino e come peccatore, e l'invito di Gesù, quasi semente in terreno preparato, immediatamente attecchì nel suo cuore e lo decise a seguirlo.
Queste non sono supposizioni, ma sono intuizioni psicologiche di grande importanza, giacché Matteo non fu ammaliato dallo sguardo di Gesù, come potrebbe credersi, ma fu conquiso dalla divina grazia che Egli effuse nell'anima sua. La grazia, come sempre avviene, lo colpì nel momento psicologico più favorevole, e utilizzò le naturali disposizioni di lui per conquiderlo più facilmente.
I farisei si scandalizzano
Il banchetto che Levi fece a Gesù, per solennizzare la sua vocazione all'apostolato ed il gran concorso di pubblicani che vi fù, ci fanno intendere anche meglio che egli non fu affascinato ma radicalmente mutato. Andò a Gesù con tutta l'anima, riguardò la chiamata come una grazia singolarissima, e volle partecipare anche ad altri la sua gioia cominciando così un apostolato di convinzione in mezzo ai suoi stessi compagni. Si sentì compreso e penetrato dal Redentore, e nel parlargli da vicino sentì talmente che Egli era la verità, che volle farlo conoscere ai suoi colleghi, ed organizzò il banchetto.
Questa sua intenzione si rileva anche dalla risposta di Gesù ai farisei ed agli scribi: Essi, infatti, furono scandalizzati di quel concorso di pubblicani e di peccatori e, non potendo lamentarsene con Gesù direttamente, perché doveva essere al centro del banchetto, fecero le loro rimostranze coi discepoli che stavano più vicini alla porta, dalla quale essi osservavano. D'altra parte, psicologicamente, essi si trovavano tra gente che avrebbe potuto angariarli nelle pubbliche esazioni; erano tra ufficiali del fisco, sempre temibili e, vedendoli così devoti a Gesù, non osarono dirigersi direttamente a Lui per non urtarli. Gesù però ascoltò le loro lamentele, e pieno di amabilità, con un accento di misericordia che non poteva essere offensivo per i suoi commensali e con un amore grande che conquideva, rispose che non avevano bisogno del medico i sani, ma gl'infermi, e che Egli non era venuto a cercare i giusti ma i peccatori.
Quel banchetto, dunque, non era un qualunque simposio, ma era una riunione di apostolato; Egli non vi stava per mangiare, ma per curare le anime e salvare quelli che lo circondavano; essi si consideravano sani e giusti e ne erano fuori, ma se avessero pensato alle loro responsabilità, non si sarebbero creduti migliori dei pubblicani e dei peccatori.
Nelle parole di Gesù c'era un invito indiretto anche agli scribi e farisei, infermi e peccatori come gli altri e più degli altri; ma essi non lo capirono, perché erano gonfi di orgoglio. Dovettero temere che i pubblicani si fossero offesi delle loro rimostranze, dovettero capire da qualche sguardo severo che avevano parlato inopportunamente, e cambiarono discorso, mostrando di essersi scandalizzati solo della vita poco penitente dei suoi discepoli. E proprio l'arte dei maligni e degl'ipocriti quella di aggredire pungendo, e poi subito mostrare un'altra intenzione e tergiversare, appena s'accorgono di essere stati poco felici, o di essere stati contùsi in modo umiliante.
La risposta di Gesù ai farisei
Gesù diede loro due risposte, una per giustificare i suoi discepoli, ed una per suggerire una grande regola di equilibrio e di saggezza nel condurre le anime alla perfezione. Per i discepoli era quello un tempo di intima gioia, perché lo avevano ancora con loro, era come una festa di nozze, nella quale non potevano pensare a digiunare; ma, quando Egli sarebbe stato tolto loro violentemente nella Passione, allora sì che avrebbero digiunato. Avrebbero digiunato sia per volontaria penitenza e sia perché stretti dalle persecuzioni e dalle angustie.
Gli scribi ed i farisei si contentavano di una giustizia fatta solo di apparenza, ed appena reclutato un loro discepolo gli imponevano una disciplina severa di pose esterne che non corrispondevano ad una vera virtù interiore. Era un metodo per formare non i giusti ma gl'ipocriti.
Gesù disse loro con una similitudine quanto fosse sbagliato questo metodo: esigere una pratica di virtù senza svecchiare prima la natura dalle sue inclinazioni era come mettere una pezza nuova in un abito vecchio. Dare dei precetti di perfezione senza che l'anima fosse stata disposta ad accettarli era anzi un profanarli, come sarebbe stolto il togliere un pezzo di stoffa da un abito nuovo, rovinandolo, per attaccarlo all'abito vecchio, che più si sdrucirebbe, e la pezza nuova non gli converrebbe. Un'apparenza di virtù in un cuore ancora poco formato è una stonatura, perché è un'ipocrisia; un precetto altissimo insegnato a chi ancora sta ai primi elementi è una profanazione, perché è deformato dalla sua poca comprensione e può fargli più male che bene.
Gesù Cristo insistette su questo importante argomento con un altro paragone, dimostrando quanto fosse imprudente il forzare estremamente la fragilità umana, e quanto fosse difficile farle comprendere le sante novità delle opere di Dio: chi pone il vino nuovo in otri vecchi li rompe e perde il vino, e chi è abituato al vino vecchio lo preferisce al nuovo; bisogna dunque mettere il vino nuovo in otri nuovi, ed aspettare che il vino nuovo diventi in certo modo stagionato per poter essere accettato da quelli che sono abituati al vecchio.
Gesù voleva anche ammonire gli scribi e farisei, attaccati alle loro vecchie tradizioni, ed incapaci di comprendere le nuove misericordie di Dio, e voleva loro dire che dovevano rinnovarsi internamente per rendersi capaci di accoglierle. Se Egli non esigeva un maggiore esercizio di virtù dai suoi discepoli era proprio per non scoraggiarli e renderli più inetti al regno di Dio; sarebbe poi venuta l'ora delle prove e del dolore, e nell'afflizione si sarebbero perfezionati e sarebbero stati atti a digiunare ed a praticare la più alta perfezione.
Per chi sta alla guida delle anime...
L'errore degli scribi e farisei è comune anche, dolorosamente, a tanti che hanno cura di formare le anime alla santità, e produce un immenso danno. La ragione principale per la quale nelle anime consacrate a Dio fiorisce poco la santità è proprio la mancanza di un criterio prudente nel formarle. Le prescrizioni, le regole, gli usi di comunità sono vere pezze nuove cucite su di un abito vecchio, e gli alti insegnamenti dell'amore mistico sono vino nuovo e fermentante, posto in otri vecchi, che si rompono e non resistono alla pressione di un amore vivo ed irrompente.
È necessario studiare le anime, riformarne a poco a poco i pensieri, gli apprezzamenti ed i gusti, guidarle passo passo nelle vie di Dio, e fare in modo che tutto ciò che è disciplina esterna venga dall'interno, e non sia solo una posa farisaica. È indispensabile educare il cuore, illuminare la mente, e guidare la ragione, affinché tutta l'anima, rinnovata dalla grazia, si elevi a Dio e sia capace di quelle grandi espansioni d'amore che la portano alla cima della perfezione.
Al principio della vita spirituale occorre grande compatimento e grande carità per le umane debolezze, e bisogna combattere le miserie del carattere più con la preghiera e con la carità che con l'irruenza e la severità. La durezza può disciplinare le anime come militi inquadrati nel campo, ma non le può condurre nelle vie della santità; può intimorirle ma non vivificarle, e può ridurle come boccioli che tra le tempeste non si aprono e rimangono perennemente boccioli senza frutto.
Nelle vie del Signore, le sante novità
Il metodo, troppo sistematico e stereotipato, nelle vie della santità può essere dannoso, com'è dannoso il coltivare le piante con un manuale di agraria, senza tenere conto delle particolari condizioni nelle quali si trova il piccolo virgulto. Stabilire come infallibile criterio che tutto debba essere vecchio e che non bisogna scostarsi dagli usi accidentali di un ambiente, è errato, perché la Chiesa ogni anno prega nel Martedì Santo che i suoi fedeli siano capaci delle sante novità del Signore, e realmente nelle vie di Dio ci sono tante novelle fioriture di grazia che sarebbe stolto troncare.
C'è il vino vecchio ed anche il nuovo, ci sono i fondamenti e le radici che non si cambiano, e ci sono le rifiniture degli edifici ed i nuovi virgulti che possono avere una linea od un germogliare novello. Per questo le anime si formano sempre in una maniera sicura quando sono indirizzate nelle magistrali vie della Chiesa, della sua dottrina e della sua liturgia; le anime possono crescere in grande santità quando sono abituate prima di tutto alla vita interiore, a quando sono disciplinate più dall'amore che dalle leggi esterne dell'ordine.
A volte certi caratteri difficili, che fanno diffidare della loro santificazione, possono essere riformati a poco a poco, tenendo conto delle loro debolezze; a volte certe miserie sono riflessi di malanni fisici, che debbono essere curati con carità; a volte l'età muta radicalmente certe false concezioni della vita, e l'attendere un poco, con pazienza e con carità, può mutare un tipo insopportabile in un santo.
Gesù Cristo certo non volle insegnarci ad indulgere alle miserie, ma ad eliminarle a poco a poco; non volle giustificare l'intemperanza, ma volle insegnarci a compatire le debolezze dell'infanzia spirituale; non volle condannare ciò che di buono sta nelle vecchie abitudini, ma volle dirci che la grazia, per operare liberamente, ha bisogno di un cuore scevro da pregiudizi. Vengono nella sua Chiesa momenti di grazie eccezionali, vengono doni di novelle manifestazioni di amore, e non bisogna rifiutare questo vino nuovo per voler bere ad ogni costo il vecchio; l'anima deve accogliere tutto quello che è amore vero, sotto la guida e l'illuminazione della Chiesa, e deve sospirare a crescere sempre più nelle vie di Dio.
Sac. Dolindo Ruotolo

giovedì 4 settembre 2014

04.09.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 5 par. 2

2. La barca di Pietro, la Chiesa docente e la raccolta delle anime dopo la notte delle persecuzioni, nella luce del trionfo
Dio è mirabile nel suo linguaggio, e sotto umili cose esprime disegni grandiosi di sapienza e di amore. Chi non direbbe più solenni e stupende le scene del Pentateuco, di fronte alle parabole ed ai racconti del Vangelo? Eppure quelle scene erano una figura mentre il Vangelo è la realtà, non solo, ma è l'annunzio di più grandi cose; è il quadro del mirabile sviluppo della redenzione. Per questo è chiamato Vangelo, annunzio della buona novella.
Se si può dire una frase ardita, nell'Antico Testamento Dio ha lasciato alle sue parole un carattere più umano, e per questo a noi sembra grandioso; nel Nuovo, un carattere più divino, e per questo a noi sembra più semplice e meno grandioso.
Siamo lontani dal divino, i nostri pensieri non sono quelli di Dio, e per questo valutiamo molto un monte di marmo e poco una gemma preziosa estratta dalla miniera.
La scena di Gesù che insegna dalla barca di Pietro, sembra la più semplice e la più normale; innanzi, per esempio, al passaggio del Mar Rosso ed al cantico di Mosè sembra piccola cosa, eppure è l'espressione di un'immensa grandezza, del magistero divino affidato alla Chiesa ed al Papa, come subito vedremo. Non è il passaggio di un popolo da una riva all'altra, ma il passaggio della luce divina della verità dal mare infinito alla nostra piccolezza; non è la figura della liberazione dal peccato nel Battesimo, com'era il passaggio del Mar Rosso, ma è la sintesi e come la semente feconda della più grande misericordia fatta all'uomo libero e intelligente: il magistero infallibile della Chiesa e del Papa.
I poveri critici ed ipercritici, questi pigmei di fronte al pensiero di Dio, s'affannano a scrutare la lettera, e credono di aver scoperto il sole quando hanno esumato uno scartafaccio antico, o hanno fatto l'anatomia naturale di un Testo Sacro; si affannano a colmare, dicono essi, le lacune del Testo, e qua ne vedono uno corrotto, là uno monco, altrove uno che a fatica si armonizza. Scavano a tutta forza gli antri morti della storia, ostruiti da macerie, e credono di aver fatto tutto, quando hanno potuto raccattare una notizia più o meno dubbia da mettere insieme al Sacro Testo, senza pensare che uniscono la gemma falsa alla vera, e che si sforzano di mettere in evidenza quello che Dio ha voluto eclissare, perché inutile o dannoso allo scopo che Egli ha nel parlarci.
I poveri critici e ipercritici non si accorgono di frustrare con le loro piccole o false luci lo scopo che Dio ha avuto nel lasciare certe oscurità nel Testo e nel tacere certe notizie.
Sono riflessioni importantissime queste, che debbono profondamente umiliarci innanzi a Dio, ed abituarci a trattare la sua Parola con vero spirito di fede.
Gesù Cristo, quando andò a predicare nella Galilea, chiamò una prima volta alla sua sequela Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni, com'è raccontato in san Matteo (4,18ss) ed in san Marco (1,18ss). Egli li incontrò sul lago di Genesaret quando gettavano le reti in mare, e li chiamò per farli pescatori di uomini. Alla sua voce essi subito abbandonarono le reti e lo seguirono, ma è evidente dal contesto che non lo seguirono definitivamente; anzi, dopo poco, ritornarono alle reti ed alle barche, pensando che era per loro necessaria la loro arte e professione per vivere. Seguirono Gesù, e quando videro che era povero e viveva di elemosine, pensarono che non potevano ragionevolmente prescindere dal loro guadagno, e ritornarono alla pesca. Questo si rileva dalla ricostruzione psicologica dell'atteggiamento di san Pietro nella pesca miracolosa, come subito vedremo.
Nel chiamare i quattro pescatori, Gesù li avrebbe voluti tutti per l'opera sua, ed essi in un primo momento gli si dettero; ma dopo pensarono, magari anche a scopo di bene, di non dovergli esser di peso, giudicarono che le elemosine che riceveva Gesù non potessero loro bastare, e ritornarono al lago per pescare di notte, sperando di guadagnare almeno qualche cosa. Gesù li trovò dopo questa notte di pesca, che fu infruttuosa, mentre lavavano le reti. C'erano ferme due barche, una apparteneva a Simone e l'altra a Giovanni, ossia al padre suo, Zebedeo.
La folla che seguiva Gesù si accalcava sulle rive del lago, ed Egli, per parlare meglio e farsi sentire da tutti, salì sulla barca di Simone, e lo pregò di allontanarsi un poco da terra. Stando a sedere sul pontone della barca, ammaestrava il popolo.
Non era un gesto vano, né era un atteggiamento accidentale quell'insegnamento; Egli guardava lontano, al compimento dell'opera sua, ai secoli perenni nei quali avrebbe insegnato al mondo dalla sede di san Pietro, ed avrebbe ammaestrato le genti dalla sua barca, ossia dalla Chiesa. Quel suo gesto era divino, e come tale era semplicissimo, e segnava in eterno il diritto della Chiesa cattolica e del Papa ad ammaestrare le genti.
Tutti i sofismi delle eresie e tutte le violenze dei tiranni non hanno potuto e non potranno mai cancellare questo diritto. La barca di Pietro diventava in quel momento granitica, diventava una sede di bronzo, un monumento immortale. Il gesto di Gesù l'aveva come consacrata, mutandone la natura, e l'aveva resa conquistatrice di anime nel suo adorabile Nome.
Essa ha attraversato i mobili secoli e li attraversa ancora fra le più fiere tempeste, ma non è sommersa mai e continua a raccogliere anime nella sua rete, anche quando par che le sfuggano e che non ne prenda più per l'apostasia universale.
La pesca miracolosa
Gesù Cristo volle mostrare a Simone ed agli altri tre apostoli, chiamati sulle rive del lago, che Egli era provvidenza bastevole a sostentarli, e volle nel medesimo tempo preannunziare la pesca miracolosa di anime che avrebbe fatta la Chiesa nel grande trionfo del suo regno, e perciò ingiunse a Simone di prendere il largo e gettare le reti. Da esperto nell'arte sua Pietro sapeva che non c'era speranza di pescare nulla, dato che per tutta la notte, ossia nelle ore più propizie, aveva invano gettato le reti; però la sua fede s'era rinnovata per la vicinanza di Gesù ed alla luce dei suoi insegnamenti, e senza esitare, nel Nome suo, gettò le reti.
Immediatamente i pesci riempirono la rete in tanta copia, che quasi si rompeva; ed egli, che era forse in compagnia di Andrea, fece con lui segno all'altra barca dov'erano Giacomo e Giovanni, perché li avesse aiutati; essi, remando di gran forza, si accostarono e, raccolti i pesci, riempirono le due barche che quasi affondavano.
La fede di Simone a quel miracolo si risvegliò in pieno; egli era ritornato alla barca ed alle reti perché aveva creduto imprudente non avere un cespite certo di guadagno, ed ora constatava che Gesù poteva non solo sopperire alle sue necessità, ma poteva farlo con abbondanza; sentì tutta la propria ingratitudine e la propria miseria e, gettatosi alle ginocchia di Gesù, che era seduto sulla sponda della barca, ed aveva i piedi nascosti dai pesci che la colmavano, esclamò: Allontanati da me, perché io sono uomo peccatore. E voleva dire: Tu mi hai chiamato, mi hai promesso di alimentarmi anche corporalmente, ed io ho dubitato di Te, ed ho creduto che valesse più il mio posto di pescatore che la tua provvidenza; lasciai tutto per Te, e con volubilità sono ritornato non tanto alla mia barca, quanto al mio mestiere, rifiutando praticamente la tua chiamata; non sono degno che Tu mi accolga con Te, allontanati, stai in cattiva compagnia, io non sono che un peccatore. Anche gli altri compagni di Pietro furono presi dai medesimi sentimenti, perché anch'essi avevano diffidato della divina provvidenza. Ma Gesù, pieno di bontà, rivolto a Pietro singolarmente perché a lui principalmente aveva voluto dare la lezione, e perché egli era il più addolorato, disse: Non temere da ora innanzi sarai pescatore di uomini. Tutti allora, tirate in secco le barche, abbandonata ogni cosa, lo seguirono definitivamente.
Dopo la notte dell'apostasia, la barca di Pietro si riempirà di pesca miracolosa
Gesù Cristo aveva rinnovato la fede dei primi quattro suoi apostoli, ma aveva anche annunziato la pesca miracolosa di anime che la Chiesa avrebbe fatto negli ultimi tempi. Nel fulgore del suo trionfo: quando gli apostoli della verità attratti o sospinti da motivi umani vanno a pescare le anime, sono nella notte, soli, senza l'aiuto di Gesù, e non prendono nulla. I secoli penosi della Chiesa sono stati secoli di raccolta, senza dubbio, ma le anime conquistate, di fronte a quelle sfuggite alla rete amorosa, possono dirsi quasi nulla. La grande maggioranza del genere umano, quasi quattro milioni di uomini, non fa parte neppure di nome del suo gregge. Nell'apostasia, poi, delle nazioni, alla quale noi stessi assistiamo, la raccolta è anche minore.
Ma la Chiesa non muore, ed il suo apostolato non può essere vano.
Viene Gesù con grazie particolari, insegna dalla barca di Pietro, sparge una luce più intensa sulle eterne verità; esorta il Papa dell'amore a prendere il largo cioè ad aprire il cuore ad una grande fiducia e ad andare verso le nazioni nel Nome suo divino. Ecco, il Papa getta le reti e le vede subito ripiene di pesci, la pesca è grande.
Ma non è solo la barca di Pietro che la raccoglie; c'è anche la barca di Giovanni, il discepolo dell'amore, poiché, se il Papa chiama nella rete le genti, l'amore le raccoglie in un solo ovile, e l'amore viene ad aiutare l'apostolato mirabile del Papa dell'amore.
Allora ci sarà un regno di grande umiltà, e come san Pietro si confessò peccatore, così non si esiterà, per la gloria di Dio, a riconoscere i propri torti, a cancellare i tristi ricordi di passate prevaricazioni, ed a riunire il mondo in un soavissimo abbraccio di perdono.
Questo non è un sogno o una fantasia; è la grande speranza della Chiesa, specialmente in questi tempi di apostasie e di amarissime prove. Si è troppo confidato negli uomini, si è troppo sperato nella loro lealtà umana e si sono gettate le reti nella notte, senza Gesù, nella speranza di un successo più umano che soprannaturale, nella fiducia di accrescere col prestigio umano le proprie possibilità ed il proprio ascendente. Tutto questo non ha fatto pescare le anime, e la notte è passata agitata dai flutti, con nessun frutto di conquista.
Bisognerà gettare le reti in pieno mare, quando meno si ha fiducia di raccogliere, con grande abbandono in Gesù, Re universale dei secoli; ed allora la rete si colmerà e la Chiesa sarà nel suo vero trionfo, che è amore, nella conquista e nell'esaltazione del regno di Dio.
Due barche si trovavano in mare
Due barche si trovavano in mare, ma quella che raccolse la grande moltitudine di pesci fu la barca di Pietro. La barca di Giovanni era in alto mare, lontano, ed aiutava forse a distendere la rete. È sempre e solo la Chiesa che raccoglie le anime nella rete dell'amore, perché solo la Chiesa ha la grande missione della salvezza delle anime. Gesù Cristo lascia infruttuose le iniziative private, anche quando sono ispirate dalle migliori intenzioni; è, dunque, sempre necessario in qualunque opera santa il controllo e la benedizione della Chiesa.
Non si poté raccogliere il pesce senza l'aiuto ed il concorso della barca di Giovanni, perché la grande quantità di pesci minacciava la rottura della rete e l'affondamento della barca; anche questo è simbolico, e ci richiama alla mente una grande verità: la conversione dei popoli costituirà tale ressa per il centro della Chiesa, che potrà apparire come una minaccia alla stabilità della sua disciplina.
La carità, allora, e l'amore di Dio renderanno possibile l'armonia, ed invece di moltiplicarsi le pratiche burocratiche dei dicasteri ecclesiastici essi saranno diminuiti per la carità; la barca di Giovanni così affiancherà quella di Pietro, e l'unico ovile numerosissimo sarà in perfetta armonia.
La preoccupazione delle anime sarà una sola: Seguire ed amare Gesù, e per un periodo di tempo le cose temporali avranno poca importanza, passando, come è doveroso e logico, in secondo luogo nelle attività della vita . Attualmente si cerca prima il sovrappiù e lo si cerca come parte principale; il regno di Dio e la sua giustizia sono riguardati come secondari; allora invece il regno di Dio sarà l'aspirazione delle anime, e produrrà, per giunta, anche la prosperità temporale. Non è questa una profezia, ma è l'aspirazione della Chiesa, ed è la speranza viva delle anime che cercano Dio solo sopra tutte le cose.
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 2 settembre 2014

02/03.09.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 4 par. 7

7. Gesù a Cafarnao
Da Nazaret nell'alta Galilea, Gesù discese a Cafarnao sul lago di Genesaret, e continuò il suo ministero insegnando nella sinagoga il giorno di sabato. Nazaret l'aveva scacciato minacciandolo di morte, ed Egli andò in una città più fedele, dove la buona semente poteva fruttificare. Insegnava, ma non come chi riporta la dottrina degli altri, sebbene con autorità, come chi afferma la verità, ed era così grande l'autorità con la quale insegnava che tutti se ne stupivano.
Nella sua autorità c'era l'argomento della verità che promulgava, poiché Egli era Dio; con la sua autorità dava il motivo vero della credibilità, e seminava nei cuori la fede, che è assenso all'autorità di Dio che rivela. Nessun ragionamento e nessun argomento possono avere la forza dell'autorità di Dio, poiché essa sola può trarre l'assenso pieno dell'umana ragione; qualunque tenebra è diradata da questa luce: Dio lo dice, la Chiesa me lo insegna, io credo.
Liberazione dell'ossesso
Satana, come fece nell'Eden, tenta di sostituire il ragionamento umano o il suo inganno all'autorità di Dio che rivela, e cerca così di distruggere nell'anima la fede, proprio quando sembra che la voglia sostenere. Nella sinagoga di Cafarnao c'era una corrente di fede vera; lo stupore per la dottrina di Gesù era stupore di fede, poiché Egli convinceva con la sua autorità divina, e perciò satana cercò di disturbare questo spirito di fede, gridando per bocca di un indemoniato ed affermando che Gesù era il Santo di Dio. E probabile che quell'indemoniato fosse stato condotto a Gesù perché l'avesse liberato, ma può supporsi anche che il demonio ve l'avesse condotto per turbare l'assemblea. Era posseduto da uno spirito immondo, dice il Sacro Testo, il quale pretendeva di sostituire alla testimonianza dell'infinita Purezza la propria, affinché il popolo avesse creduto in Gesù non per la divina sua autorità, ma per la testimonianza che egli gli dava.
Era un'insidia sottile e pericolosa, e per questo il Redentore lo sgridò imponendogli silenzio, e comandandogli di andare via da quell'uomo che ossessionava. Il miracolo doveva far ritornare o rinvigorire nei cuori la fede soprannaturale, perché era miracolo di divina autorità; satana si sentì colpito da quel comando, ma, per l'odio che porta all'uomo, non volle uscire senza manifestare il suo disprezzo per la creatura di Dio, e gettò per terra l'infelice che ossessionava, senza però fargli male, perché Dio non glielo permise.
Il popolo a quello spettacolo rimase sbigottito perché fu preso da spavento e da meraviglia insieme, e si domandava quale parola potente fosse quella di Gesù, al quale obbedivano anche i demoni.
Guarigione della suocera di san Pietro
Dalla sinagoga Gesù passò alla casa di san Pietro, dove soleva trattenersi. La suocera dell'apostolo era inferma di febbre violenta, e lo supplicarono per lei, perché l'avesse guarita. San Luca, come medico, caratterizza la febbre col termine tecnico usato da Galeno, anche per fare intendere che non avrebbe potuto sparire in un momento. Gesù Cristo si chinò verso l'inferma, comandò alla febbre di andar via, e la febbre all'istante sparì, senza lasciarle neppure la naturale debolezza che segue la guarigione. La donna, infatti, allora stesso si levò dal letto e cominciò a servire.
Tramontato poi il sole, essendo terminato il riposo del sabato, quelli che avevano infermi, infetti da varie malattie, li portarono a Gesù, ed Egli imponeva le mani a ciascuno di loro con grande amabilità e li risanava, scacciando i demoni, ed imponendo loro di tacere e non dire che Egli era il Cristo. Avrebbe potuto guarire con una parola tutti insieme gl'infermi che gli si presentarono, ma volle imporre a ciascuno le mani in segno di misericordioso amore, e stette tutta la notte occupato in quest'ufficio di pietà.
Fattosi poi giorno, se ne andò in luogo solitario per pregare; ma le turbe andarono a cercarlo e volevano trattenerlo, ansiose di ascoltare la sua Parola, e desiderose dei suoi benefici. Egli però disse che doveva evangelizzare anche le altre città al regno di Dio, essendo stato mandato per questo dal Padre, e partì, andando a predicare nelle sinagoghe della Galilea.
Chi scaccia Gesù e chi lo accoglie
Una città scaccia Gesù e minaccia di ucciderlo, ed una città lo accoglie con entusiasmo e lo trattiene; lo scaccia Nazaret, la città che fiorisce, lo accoglie Cafarnao la città bella, campo della penitenza. Ciò che esprime il significato dei nomi di queste due città avviene veramente nel mondo; le città che fioriscono nella famosa civiltà materiale, non sopportano la presenza di Gesù, e quelle che sono belle spiritualmente nella penitenza e nelle opere buone lo ricevono e non vogliono che parta da loro.
Nazaret era famosa come un centro poco intelligente, tanto che era passata in proverbio la sua scempiaggine; l'unica sua vera gloria era quella di avere ospitato il Redentore, e la rifiutò miseramente.
Il mondo non è l'emblema della stoltezza anch'esso, quando ripudia il Redentore? Noi assistiamo oggi al triste spettacolo dell'apostasia di tante nazioni da Dio e dalla Chiesa; è il più ripugnante fenomeno di stoltezza che si possa immaginare, poiché è il ripudiare la Vita per abbracciarsi alla morte.
Rimani con noi Gesù, non ci abbandonare! A volte siamo proprio noi che ti discacciamo dal cuore, e concorriamo con la nostra infedeltà all'apostasia comune del popolo. Rimani con noi, non ci abbandonare, perdonaci! Scaccia da noi satana che ci invidia. Vieni Gesù, piegati sul nostro cuore penitente, comanda alla febbre delle nostre passioni di andar via, ridonaci all'attività del santo divino servizio, rendici pieni della tua vita, affinché vivendo di Te e con Te viviamo glorificando Dio. Amen.
Sac. Dolindo Ruotolo

lunedì 1 settembre 2014

01.09.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 4 par. 6

6. La predicazione di Gesù in Galilea
Gesù Cristo, dopo aver vinto la tentazione di satana, cominciò il suo ministero nella Giudea, come dice san Giovanni (2, 3 e 4), e vi fece parecchi prodigi, dei quali furono testimoni alcuni Galilei. Poi, spinto dallo Spirito Santo, andò in Galilea, dove già s'era sparsa la fama dei suoi miracoli e della sua Parola, di modo che cominciò intorno a Lui un concorso grande di popolo che lo seguiva per ascoltarlo nelle sinagoghe dov'Egli insegnava, e lo acclamava. L'acclamazione del popolo ci fa intendere che la divina Parola penetrava il cuore di tutti con fascino straordinario.
Percorrendo le città della Galilea, Gesù andò anche a Nazaret, dov'era stato allevato e che amava come sua patria, e si recò nella sinagoga il sabato per leggervi la Scrittura ed insegnare. Era uso, infatti, nei sabati, di leggere nelle sinagoghe qualche tratto della Legge o dei Profeti, per poi spiegarlo al popolo. Quando era presente nell'adunanza una persona autorevole, si dava ad essa l'incarico di leggere, e le si consegnava il libro, cioè il rotolo di pergamena avvolto intorno ad un asse di legno, sul quale era scritta, da un lato solo, la Parola di Dio, affinché avesse scelto il testo. Chi leggeva rimaneva in piedi per rispetto, e dopo, ripiegato il rotolo, cominciava il suo discorso.
Nella sinagoga di Nazaret fu consegnato a Gesù il libro d'Isaia profeta, ed Egli spiegatolo vi trovò quel passo che si riferiva proprio alla missione che stava compiendo. Il profeta parlava in nome del Messia futuro dicendo: Lo Spirito del Signore sopra di me, perciò mi ha unto per evangelizzare i poveri, mi ha mandato a sanare i contriti di cuore, ad annunziare agli schiavi la liberazione, a dare ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a predicare l 'anno accettevole del Signore e il giorno della retribuzione.
Era il programma dell'opera sua fino alla consumazione dei secoli, era la sintesi della sua missione spirituale e delle opere mirabili che l'avrebbero accompagnata. Egli, unto dallo Spirito Santo, doveva evangelizzare l'eterna verità ai poveri, cioè al popolo, ai peccatori ed agl'ignoranti, tutti poveri di luce e di grazia soprannaturale; doveva sanare i contriti di cuore, cioè gli afflitti, i pusillanimi, e quelli che, essendo avviliti nei peccati, desideravano risorgere; redimendo gli uomini, Egli avrebbe annunziato la liberazione ad essi, ed alle anime che erano nel Limbo in attesa della salvezza.
Con la parola della verità avrebbe dato la vista ai ciechi, con la propagazione del Vangelo per tutta la terra avrebbe ridonato la libertà agli oppressi, riempiendo di gioia i cuori per la grazia di Dio; con la diffusione delle divine misericordie avrebbe predicato l'anno accettevole, cioè il tempo di grandi grazie per le anime, ed infine avrebbe annunziato il giorno della retribuzione, cioè il giudizio finale.
Nelle parole d'Isaia c'era l'annunzio profetico dell'opera del Redentore e dello sviluppo di questa immensa misericordia per i secoli futuri, sino al termine dei secoli. Egli avrebbe anche beneficato il popolo, ed avrebbe realmente consolato gli afflitti, guarito gl'infermi, dato la vista ai ciechi, ecc.; ma questi benefici erano figura di benefìci più grandi che avrebbe diffusi per la sua Chiesa nei secoli.
Sette grandi annunzi che possono considerarsi come profezia dei sette periodi della storia della Chiesa:
1° L'evangelizzazione dei poveri.
2° Il rinnovamento dell'umana società, avvilita dal paganesimo mediante il sacrificio dei martiri, i grandi contriti dall'umana iniquità.
3° Il trionfo della Chiesa, prima ridotta in servitù sanguinosa dai Cesari.
4° L'illuminazione della verità a tutto il mondo, per mezzo dei dottori della Chiesa.
5° La liberazione dalle nuove persecuzioni, nel periodo dell'apostasia delle nazioni, ed il trionfo della Chiesa oppressa dalle tirannidi.
6° L 'anno accettevole, cioè un periodo di grandi grazie, ed un trionfo grande della Chiesa nel regno di Dio.
7° Infine l'ultima prevaricazione ed il giudizio finale.
Gesù Cristo, ripiegato il rotolo, lo rese al ministro della sinagoga, e si pose a sedere.
Splendeva dal suo volto la verità, perché guardava a tutto il tempo futuro, e perciò tutti gli occhi erano fìssi in Lui, attratti
dal suo fulgore. Il suo aspetto conquideva, e la sua Parola era affascinante, e perciò tutti lo guardavano, per non perdere una parola di ciò che stava per dire. Egli, guardandoli per raccoglierli nel suo Cuore, esclamò: Oggi le vostre orecchie hanno udito l 'adempimento di questo passo della Scrittura.
Probabilmente queste parole furono solo l'enunciato di un discorso che Egli pronunziò, o poterono anche esserne l'epilogo. L'evangelista non ce lo riporta, ma è evidente che Gesù dovette dimostrare in qual modo quelle parole s'erano avverate, ed in qual modo questo avveramento si sarebbe sviluppato, perché il Sacro Testo soggiunge che tutti gli rendevano testimonianza ammirando le parole di grazia che uscivano dalla sua bocca. Gli rendevano testimonianza, cioè erano convinti di ciò che diceva, se ne entusiasmavano e ne parlavano fra di loro per comunicarsi le loro impressioni di stupore.
Alcuni però, gettando la diffidenza nell'assemblea, proprio quando poteva germinare la Parola di Dio in quei cuori e disporli a seguire la verità, esclamarono: Non è costui il figlio di Giuseppe? Lo dissero con disprezzo, com'è evidente dal contesto, ed impedirono ai cuori di aprirsi alla verità.
Molti erano andati alla sinagoga con la speranza di assistere a qualche miracolo e, vedendo che Gesù non ne aveva operati, provarono una profonda delusione, e per questo ricordarono che Gesù era il figlio di Giuseppe, com'essi lo credevano, ignorando il mistero della Verginità di Maria, e quello della sua divina Maternità. Gesù Cristo smascherò i loro occulti pensieri, mostrando che non aveva potuto operare miracoli proprio per la loro poca fede, ed affermando con severa parola, un po' coperta ma chiara, che sarebbe stata usata misericordia maggiore ai pagani, come fu usata pietà alla vedova di Sarepta da Elia, ed al Siro Naaman da Eliseo, poiché nessun profeta è accetto nella sua patria.
Le parole severe di Gesù rivelavano tutto il retroscena dei cuori malintenzionati che lo ascoltavano, ed erano dirette alla loro conversione; ma, rifiutando essi la divina misericordia, furono come invasati da satana, e tutti, levandosi con impeto, lo cacciarono fuori dalla sinagoga e dalla città, e lo sospinsero fin sulla sommità della montagna, dove all'angolo sud-ovest c'era un precipizio profondo dieci o dodici metri, per gettarvelo dentro e ucciderlo. Gesù però, manifestando la sua divina potenza, passò in mezzo a loro tranquillamente e se ne andò, senza che alcuno avesse osato porgli le mani addosso. Egli mostrò in tal modo che era dominatore tranquillo degli eventi, e che senza il suo permesso nessuno poteva fargli del male.
Gli ingrati Nazaretani...
E penoso e sommamente istruttivo il constatare come quelli di Nazaret accolsero Gesù: prima si entusiasmarono delle sue parole, e confessarono che erano sublimi; poi, insinuati da qualche maligno, si stupirono che Egli, il figlio del fabbro, potesse parlare così. Furono presi da un senso di dispettosa invidia, e svalutarono tutta la sua sapienza. Si sarebbero aspettati dei miracoli, ma Gesù non poté fame che qualcuno poco clamoroso, a causa della loro incredulità, com'è detto da san Matteo e san Marco, e questo fece loro sminuire la fama della sua potenza che era giunta fino a loro dalle altre città.
Il rimprovero severo di Gesù maggiormente li indispettì e, presi da grande ira, pensarono addirittura di ucciderlo. L'incorrispondenza alla grazia li rese prima più cattivi, e poi li abbandonò in balia di satana, che li spinse a volerlo gettare giù dal monte, forse nella speranza di vendicarsi della sconfitta avuta nel deserto. Ma, come Gesù non volle gettarsi dal pinnacolo per non mostrare inutilmente la sua potenza, così non permise che i Nazaretani l'avessero precipitato, mostrandosi così padrone degli eventi e dominatore anche delle perfide volontà umane.
Così sono gli uomini!...
Gli uomini si entusiasmano con facilità delle belle parole che loro vengono dette, ed appena una tentazione o un sentimento disordinato li sconvolge, vanno nell'eccesso opposto ? giungono fino al delitto. È penoso il constatare che molte anime cominciano la loro vita spirituale con entusiasmo e poi finiscono non solo per rilassarsi miseramente, ma per cadere nell'indifferenza e nella miscredenza addirittura.
Si lamentano di non ricevere grazie e di non essere mai esaudite da Dio, e non si umiliano, attribuendo questo alla loro poca fede. Cominciano a guardare le vie di Dio con uno spirito di ipercritica, e finiscono per sfiduciarsene compietamente; errano miseramente nei loro pensieri, e si formano dei criteri così sconvolti intorno alla vita spirituale, che si disorientano completamente.
Ogni anima è oggetto delle cure particolari di Gesù Redentore, e per ogni anima Egli compie quello che ha fatto per tutta l'umanità: la rigenera nello Spirito Santo, la illumina con la luce della verità, la sana nelle sue interiori infermità, la libera dai lacci delle passioni, le ridona la vista del cielo, la spinge ai voli dell'amore tra le oppressioni della vita, ha per essa un tempo accettevole di grazie particolari e di misericordie eccezionali, e si fa suo premio e sua retribuzione nelle interiori dolcezze delle quali l'arricchisce, e nell'eterno premio. L'anima deve corrispondere.
E questa la condizione essenziale al suo perfezionamento; se non corrisponde, si mette in opposizione con la grazia, e può giungere fino alla rovina completa. Gesù passa e se ne va', non può rimanere in un cuore ingrato, non può lavorarvi col suo infinito amore. Se sapessimo intendere questa grande lezione, quanto presto ci faremmo santi!
Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 31 agosto 2014

31.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 16 par. 7-9

7. Gesù Cristo rimprovera san Pietro tentato da satana
Dopo la confessione solenne che san Pietro fece della divinità di Gesù Cristo sarebbe sembrato logico che quella grande verità fosse stata divulgata in mezzo al popolo; invece il Redentore comandò ai suoi discepoli di non dire a nessuno che Egli era il Cristo. Il dirlo avrebbe attratto su di essi l'ira degli scribi e dei farisei, la quale, cogliendoli ancora impreparati, li avrebbe travolti. D'altra parte essi in quel momento avrebbero travisato la verità, aspettando, come tutti gli Ebrei, il regno trionfante del Messia ed avrebbero potuto provocare un movimento politico nel popolo per far proclamare re temporale il Redentore. Gesù Cristo volle prepararli a concezioni diametralmente opposte a quelle che essi avevano su di Lui, e cominciò a parlare loro della sua Passione e della sua futura
risurrezione. Gli apostoli non badarono tanto all'annunzio della risurrezione, e si sgomentarono della profezia delle lotte e delle pene.
San Pietro, proprio come capo allora allora proclamato, credette di intervenire con autorità e, preso in disparte Gesù, cominciò a rimproverarlo del discorso fatto, e ad annunziargli con una presuntuosa sicurezza che ciò che Egli aveva detto non doveva avverarsi di Lui e non si sarebbe avverato.
Era lo stesso che volere sconvolgere i piani della provvidenza, era lo stesso che voler impedire la redenzione: quelle parole erano una tentazione. Satana indusse Pietro a pronunziarle quasi per vendicarsi della confessione solenne che aveva fatta della divinità del Redentore, e per questo Gesù lo chiamò satana e lo scacciò lontano da sé.
Il suo amore fu immenso nell'annunziare la sua Passione, poiché gli tardava il momento di dare la vita per noi, e le parole inconsiderate di san Pietro gli ferirono il Cuore acceso d'infinita carità.
8. La via della croce
Non c'era da illudersi con aspirazioni terrene, non c'era d'aspettare un trionfo politico; Egli doveva e voleva immolarsi, e chi avrebbe voluto seguirlo doveva andargli appresso caricato di croce, dopo aver rinnegato se stesso, la propria volontà e le proprie aspirazioni. Non c'era altra via di salvezza e chi avesse voluto salvare la propria vita, cioè conservare le sue false gioie e le sue illusioni, avrebbe perduto la vera, la nuova vita che Egli veniva a dare alle anime. Egli non veniva a restaurare un regno terreno né valori materiali, ma veniva a restaurare il regno dello spirito e i valori soprannaturali. Che cosa, infatti, avrebbe portato di bene all'anima una restaurazione temporale? Anche se avesse portato la prosperità che cosa sarebbe stata questa piccola prosperità di fronte ai supremi ed eterni interessi dell'anima?
La vita passa e viene il giorno nel quale si deve rendere conto di tutto al Giudice eterno; allora nulla varranno onori, ricchezze e piaceri, poiché nulla può darsi in cambio dell'anima.
Nel giorno del giudizio Gesù Cristo verrà nella gloria del Padre suo, cioè nel fulgore della sua divinità, e renderà a ciascuno quello che avrà meritato; il merito non potrà computarsi con la misura che ha il mondo; tutto quello che fa grandi sulla terra sarà nullità in quel giorno, e perciò torna conto di rinnegare se stessi, prendere la croce e camminare in compagnia del Re divino verso l'eterna vita.
Queste parole avrebbero potuto scoraggiare gli apostoli, e forse già si affacciava nel loro cuore una nascosta delusione. Avevano sospirato al regno glorioso del Messia, e sentivano parlare di abnegazione di croce, avevano sperato una immediata proclamazione del Re, trionfatore dei nemici d'Israele, e sentivano parlare di dover perdere tutto per poter guadagnare un regno invisibile; il loro cuore stava per naufragare nel dubbio e perciò Gesù li confortò annunziando vicino il suo regno, e dicendo che alcuni di quelli che erano presenti avrebbero visto la sua venuta prima di morire.
Venuta di Dio nelle Scritture significa giudizio di Dio e manifestazione della sua potenza (Is 3,14; 30,27; 66,15-18; Ab 3,3ss); Gesù, avendo parlato della croce e avendo accennato al giudizio, suprema manifestazione della sua potenza, predice una prima manifestazione di questo giudizio nel castigo che avrebbe avuto Gerusalemme ingrata, castigo che sarebbe stato relativamente a breve scadenza e che alcuni di quelli che lo ascoltavano avrebbero visto. Allora il suo regno si sarebbe dilatato in tutto il mondo e la Chiesa si sarebbe affermata maggiormente. Con questa speranza gli apostoli sentirono che si preparava qualche cosa di grande in un prossimo futuro, e sentirono il coraggio di seguire ancora Gesù Cristo.
9. Per la nostra vita spirituale
Ecco tracciato in questo capitolo un prospetto della vita cristiana nella sua medesima essenza: si cammina nel mondo come in un campo di prova e bisogna guardarsi dal lievito dei cattivi cioè dal male che ci insidia e tenta di corromperci. La vita ha anche le sue necessità e bisogna in esse confidare in Dio, affinché la sollecitudine delle cose temporali non ci distragga dai beni eterni. Nel nostro cammino la luce che ci illumina è Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, come ci è mostrato dalla Chiesa, ed il Papa che ne è vicario, e che è maestro infallibile di verità e di bene.
Satana tenta di illuderci con prospettive di materiale benessere, ma la via del cielo non è questa: è necessario rinnegarsi, prendere la croce e seguire Gesù; rinnegarsi credendo, sperando ed osservando la divina legge, prendere la croce accettando le pene espiatrici e purificatrici della vita, e seguire il Redentore integralmente, senza cedere in nulla alla bassa nostra natura, pensando che nostro supremo guadagno è la vita eterna, è la salvezza dell'anima, che nulla può sostituire, perché, se si perdesse, la sua rovina sarebbe irreparabile.
Si deve notare che Gesù Cristo non ha detto: Rinneghi le cose terrene, ma rinneghi se stesso, perché la vita cristiana sta principalmente nell'anima e non è una posa come quella dei filosofi, o una ipocrisia come quella dei farisei. Rinnegarsi abbracciando la via della virtù, prendere la propria croce abbracciando con pazienza le prove della vita, seguire Gesù, cioè tendere a Lui, e per Lui, con Lui ed in Lui all'eterna gloria.
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 30 agosto 2014

30.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 25 par. 4

4. La parabola dei talenti
Vigilare non significa rimanere in un'oziosa e snervante attesa, ma significa lavorare per la gloria di Dio e per il bene delle anime, e portare alla presenza del Signore un tesoro di meriti. Questa verità, fondamento dell'onesta e santa operosità, fu espressa da Gesù Cristo con la parabola dei talenti. Egli è il padrone ricchissimo che ha fondato la Chiesa come campo di prova, e si è eclissato, quasi fosse partito per un lontano paese, dando a ciascuno la forza, la grazia e i doni per potere operare il bene, secondo le diverse possibilità.
I doni, che il Signore ci fa, sono di natura e di grazia; quelli di natura sono l'ingegno, la forza, la ricchezza, la sanità ecc.; quelli di grazia sono oltre i doni comuni a tutti nella Chiesa, come per esempio i Sacramenti, anche quelli particolari alle anime privilegiate. Tutti questi doni devono farsi fruttificare, ed anche quelli che sono assolutamente gratuiti, come per esempio il dono di profezia, debbono trovare nell'anima disposizioni particolari di umiltà, di amore, di purezza e di semplicità, perché il Signore possa espandersi di più. Nel giorno del giudizio particolare, che è quello del rendiconto personale, Dio ci domanderà che cosa abbiamo prodotto coi suoi doni, ed esigerà un accrescimento, diciamo così, del capitale che ci è stato assegnato.
Gesù Cristo si rivolge in modo speciale a quelle anime che credono aver fatto molto, quando non hanno fatto un male positivo, e che misurano le loro benemerenze paragonandosi coi ladri, con gli impuri e con gli omicidi. Eppure non basta solo non fare il male, ma bisogna ancora operare il bene e mettere a traffico le proprie attitudini. Il servo della parabola non fece fruttificare il talento ricevuto, perché, secondo lui, il padrone era molto duro ed esigente; avrebbe dovuto essere l'opposto. La mancanza di amore al padrone gli fece seppellire ciò che aveva ricevuto. Chi riceve un dono dal Signore può farlo fruttificare solo nell'amore, che è la leva più potente di tutte le nostre attività. Lo vediamo nei santi, le cui opere sono state prodigiosamente feconde. Il mondo, spinto solo dall'interesse o dalla vanità sembra più attivo dei santi, e le sue iniziative sembrano riempire la terra; ma sotto il frastuono delle iniziative c'è la sterilità, come lo mostrano le famose iniziative della carità civile o laica.
Quando ci troveremo innanzi a Dio per essere giudicati nel giudizio particolare, a chi ha meriti da presentare al Signore, sarà data la vita eterna, ma a chi non ne ha, sarà tolto anche ciò che sembra di avere, perché precipiterà nelle tenebre eterne, privo di vita vera, vuoto di tutto, in preda alla disperazione ed all'affanno senza conforto alcuno.
La ricchezza deve circolare
Non si può rimanere oziosi nella vita presente, e ciascuno nel proprio stato deve produrre ciò che può spiritualmente e materialmente. L'attività di tutti concorre al bene comune, e chi ha speciali attitudini per le arti, le scienze, il lavoro, deve dedicarvi le sue forze per amore di Dio. La ricchezza poi non è un dono che può tenersi nascosto o inutilmente inoperoso; è anche un dovere farla circolare, adibendola nelle sane iniziative sociali. Chi la tiene accantonata per avarizia o per timore di perderla, ne risponde al Signore come se l'avesse sperperata. A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che sembra di avere', queste parole dell'eterna sapienza sono un canone anche per le ricchezze temporali; quando si mettono a traffico per il bene comune, fruttificano e producono l'abbondanza a chi le possiede; quando si lasciano inoperose per timore di perderle, si consumano e producono la miseria. Chi le tiene inoperose sembra di averle, perché in realtà, praticamente non possiede che il fastidio di custodirle. Centomila lire, per esempio, se si conservano sempre senza spenderle mai, sono un pezzo di carta stampata, se circolano rappresentano un valore reale.
Dio ci dà tanti particolari doni della sua bontà per darci modo di operare il bene e di zelare la sua gloria; compiamo dunque con fedeltà la nostra giornata di lavoro, aspettando la ricompensa dal Padre celeste. E più utile lasciare la ricchezza di molte opere buone, anziché lasciare un peculio che spesso è dilapidato dagli eredi ed è succhiato dalle tasse. Quello che si ha deve lasciarsi; non è dunque un gran merito disporre quando non se ne ha più il dominio; cediamolo al Signore a poco a poco con le opere sante di sua gloria e con quelle di carità, e pensiamo che la nostra proprietà e la nostra dimora si ridurranno, tutto al più, ai pochi metri di terra nei quali verremo sepolti.

Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 29 agosto 2014

29.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 6 par. 3

3. Erode e san Giovanni Battista
Il movimento sempre più vivo e intenso intorno a Gesù e la fama di Lui attrassero l'attenzione di Erode, il quale credette o sospettò ch'Egli fosse Giovanni Battista risuscitato da morte. Questa supposizione nasceva in lui dall'apprezzamento che, malgrado tutto, faceva del carattere e della santità del Precursore.
Giovanni infatti, senza temerne la potenza e la crudeltà, non aveva esitato a rimproverargli il suo adulterio incestuoso, e l'aveva fatto con fermezza, ma senza trascendere nell'irruenza di un tribuno o di chi si crede superiore; traspariva dai suoi rimproveri, anzi, il rammarico che aveva di farli, e la premura con la quale li faceva, per la spirituale salvezza del re.
Tutto questo non dispiaceva ad Erode, il quale sapeva che Giovanni gli era politicamente innocuo, e che non avrebbe mai suscitato una ribellione contro di lui. Egli giungeva fino a consultarlo in tante cose, e gli piaceva sentirlo parlare; gli sembrava un tipo interessante, ma in un altro campo, diverso dal proprio, e quindi inconsciamente gli sembrava di guadagnare in prestigio mostrandosi benevolo con lui. C'era in Erode quel senso di soddisfazione di poter avvicinare il profeta con la libera padronanza di un re, e di poter ostentare quasi come un trionfo la propria deferenza che il Battista gli mostrava in quanto era pubblica autorità!
A differenza di Erode, Erodiade odiava a morte Giovanni, come sa odiare una donna e specialmente una donna corrotta. Conscia dell'illiceità del suo legame, ambiziosa fino all'eccesso della sua pretesa gloria regale, dispettosa e capricciosa come tutte le donne sensuali, truce nel fondo dell'anima sua, perché preda dell'orribile vizio che la consumava, riguardava Giovanni come un pericolo vero per lei, e temeva che presto o tardi avrebbe potuto piegare l'animo di Erode. Questo suo timore era accresciuto dal constatare che, nonostante il suo malvagio ascendente sul tetrarca, non le era riuscito di indurlo ad uccidere il Battista, e aveva solo potuto ottenere che lo tenesse carcerato nella fortezza di Macheronte. Ma anche nella prigione Giovanni le era di ostacolo nelle sue mire, giacché Erode andava a consultarlo, e lo difendeva dalle insidie che la perfida donna gli faceva tendere. Stando al testo greco, egli non solo faceva molte cose col suo consiglio, ma rimaneva agitato per molte cose che aveva fatte, cioè manifestava anche esternamente la preoccupazione e il rimorso che suscitavano in lui le parole del Battista, quando lo rimproverava; questo rendeva addirittura furiosa Erodiade, la quale s'era proposta di disfarsi di Giovanni ad ogni costo.
Un giorno propizio per lei fii quello della festa natalizia di Erode. Questi radunò in corte le persone più ragguardevoli della sua regione, ed offrì loro un banchetto.
Dire un banchetto è lo stesso che dire un'orgia, per la corte del tiranno; non si pranzava solo, ma si trascendeva e, tra i fumi del vino, si cadeva facilmente nell'abbrutimento. Nel banchetto entrò a ballare la stessa figlia di Erodiade, la quale con le sue pose e le sue movenze lascive sconcertò talmente Erode, già avvinazzato, e gli piacque tanto, ch'egli le giurò dinanzi a tutti di volerle dare in premio qualunque cosa avesse domandato, fosse pure la metà del suo regno. Potrebbe sembrare sproporzionata questa promessa ad un semplice giro di ballo, ma la donna nel ballo diventa così multipla nelle sue impure attrazioni da inebriare miseramente i sensi e la ragione.
La diabolica suggestività del ballo di una donna sta proprio in questa molteplice lascivia che emana da lei, e che la fa sembrare inesauribile nel suscitare la passione e il degradante diletto. L'impurità è di per sé stancante, perché è arsura e non sazietà dei sensi; ma la donna che balla dà l'illusione di un mutamento continuo, e di una bellezza sensuale che ha nuove risorse; il ritmo, poi, dei movimenti riveste di grazia la stessa sensualità, e par che, giustificandola con le pretese dell'arte, la renda più penetrante nei sensi, attenuando il rimorso della coscienza che, anche nei più cattivi, costituisce un freno ed una limitazione alla frenesia della carne.
La simpatia che suscita una ballerina moltiplica in chi l'ammira il desiderio dell'espansione del proprio sentimento; non si accontenta di applaudire: desidera di più, vorrebbe donare e donarsi e, non potendolo fare diversamente, ricorre all'offerta.
Lo sanno bene tutti quei poveri allocchi, che si sbancano per offrire un gioiello pregiato ad una donna, e che riguardano come una visione di cielo la visione della povera fogna stagnante, nella quale è riflesso, abissato e capovolto, un lembo illusorio di azzurro, che è infinitamente lontano.
Erode, avvinazzato com'era, si trovò in uno stato anche più deplorevole di frenesia sensuale e, nel fare la sua giurata promessa, non ponderò tutta la malignità di Erodiade e della figlia.
Un'adultera è sempre un'interessata venale al cento per cento; l'idealismo nell'adulterio è una chimera. L'uomo, notevolmente più sciosciammocca in questi campi, può illudersi di aver trovato un tesoro considerando la donna amata, ma la donna è calcolatrice anche quando sembra piena di dedizione e, se non calcola l'interesse materiale, calcola quello sensuale.
Erode s'era invaghito di Erodiade, ma questa s'era invaghita del regno di lui e dei maggiori vantaggi che sperava alla sua corte; astuta e maligna, fingeva un amore che era invece senso e calcolo, e la sua degna figlia la seguiva in questa via. L'unico ostacolo ai suoi progetti totalitari di asservire a sé il corrotto monarca era Giovanni, ed ella credette giunto il momento di disfarsene. Si può supporre che, ascoltando la promessa giurata del tetrarca, avesse fatto capire alla figlia di consultarla prima di rispondere; si può anche supporre che la figlia avesse intuito il desiderio materno; certo il consultarsi rivelò tra loro o un'intesa o un'identità desolante di venale interesse.
La donna indispettita o adirata perde ogni senso di pudore nell'ambiente nel quale si trova; diventa come isolata in se stessa, non sa pensare neppure che ci può essere chi l'ascolta e la biasima, va dritto al suo scopo prescindendo da qualunque conseguenza; non ragiona, è terribile, pur sembrando fredda e magari ponderata. Erodiade era come belva in agguato; la sua ira era vigilante per dare il balzo felino e colpire il suo nemico; non badò alla festa, al banchetto, ai convitati, all'orrore di ciò che faceva domandare: pensò solo che non doveva farsi sfuggire l'occasione propizia, e disse alla figlia di domandare la testa di Giovanni. La figlia si mostrò degna della madre, e non si contentò di domandare la morte del Battista, ma, per timore che Erode cambiasse idea, volle che subito, all'istante, le fosse portata la testa del profeta in un piatto, sapendo con ciò di far cosa graditissima alla madre, od obbedendo ad una sua esplicita ingiunzione.
Erode si turbò e si rattristò perché non avrebbe voluto far morire Giovanni ma pensò che non poteva venir meno alla parola data, e gli sembrò di sminuire il prestigio suo innanzi ai convitati; perciò allora stesso mandò un carnefice a decapitare il santo nel carcere, e gli ordinò di portarne il capo alla fanciulla, la quale lo diede alla madre. E terribile il considerare l'eccesso cui può giungere l'umana perfidia, ed è raccapricciante il pensare al momento nel quale il carnefice portò nel banchetto la testa insanguinata del Battista. Quegli occhi vitrei parlavano ancora, e quel sangue sparso rimproverava al tetrarca e ad Erodiade il loro delitto.
La perfida donna aveva voluto farlo tacere per sempre e non s'accorse che quel capo più che mai era eretto contro di lei! Erode poi con quell'atto si era definito per quel che era, e i convitati, abituati a simili crudeltà, avevano mostrato anch'essi la loro degradazione; si può dire che il Battista era andato per l'ultima volta, ancorché morto, a compiere la sua missione, e che col sangue innocente aveva riparato ancora una volta lo scandalo, smascherandolo.
Il Signore non gli aveva fatto torto; l'aveva reso eroe e martire, e l'aveva tratto così dall'oscurità della prigione, chiamandolo alla gloria. Agli occhi del mondo il Battista sembrò un sopraffatto, ma in realtà egli fu un vincitore, e si offrì come olocausto di amore al suo Re divino, preparandogli per l'ultima volta il cammino: si diminuì perché Egli fosse cresciuto, e sparì volentieri dal mondo per non essergli neppure involontariamente di ombra, data la sua notorietà e l'attaccamento che i discepoli avevano verso di lui.
Sac. Dolindo Ruotolo

giovedì 28 agosto 2014

28.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 24 par. 5

5. Un'appassionante questione: siamo vicini alla fine del mondo?
Benché Gesù Cristo abbia detto che nessuno sa il tempo e l'ora della fine del mondo, pure in tutte le età gli uomini si sono sforzati d'indagarlo con congetture, e si sono creduti prossimi alla fine. San Gregorio stesso affermava questo al suo tempo, e gli sembrava imminente la fine. Premettiamo che se è presunzione il voler determinare l'anno della catastrofe universale, non è contrario alle parole di Gesù l'indagare sui segni che la precederanno, anzi è opportuno per eccitarsi maggiormente a non attaccarsi al mondo ed a vigilare per la salvezza dell'anima. Che noi viviamo in un tempo di eccezionale sconvolgimento e di singolare empietà, questo non può negarsi, e fa pensare seriamente ad una fine non estremamente lontana; potremmo dire che molti l'aspettano. Così per esempio nell'aprile del 1937 la regione del Dniester ed altre dell'infelicissima Russia bolscevica erano percorse da processioni di contadini, che invitavano i compagni a non lavorare e pensare solo all'anima, essendo prossima la fine del mondo.
La stessa incommensurabile e quasi irreparabile scelleratezza degli uomini ci fa pensare che non vi sia altro rimedio che la rovina di tutto. I mezzi di corruzione, infatti, sono tali e tanti, che non si vede come possano eliminarsi senza una catastrofe. Il cinema, la radio, la televisione, la velocità con la quale si comunica con le varie nazioni, costituiscono, assai più della stessa stampa, tali mezzi di propaganda del male, che non se ne può trovare il rimedio. L'impurità dilaga peggio che ai tempi del diluvio, la mania omicida non ha più confini, il capovolgimento dei più elementari valori della vita non fanno sperare più ad un ritorno sulle vie del bene; si attende la catastrofe, e diremmo pure si spera nella catastrofe.
Certo alcuni dei segni precursori della fine ci sono, ma noi non sappiamo quali altre sorprese potrà darci l'umana delinquenza, resa più letale dalle scoperte stesse della cosiddetta scienza. La beata Anna Katharina Emmerick dice nelle sue rivelazioni che la nascita dell'anticristo sarà nel 1956 . Data la precisione impressionante delle sue visioni, è una data che non può ritenersi come una fiaba. L'apostasia universale e la lotta feroce contro Dio, Gesù Cristo e la Chiesa, lotta che non ha avuto mai la tracotanza moderna, ci fa pensare già ai prodromi del maledetto regno dell'anticristo. Si dovrà avere un periodo di trionfo per la Chiesa, una prima risurrezione di tutto in Gesù Cristo, e questo si rileva dall'Apocalisse, ma questo periodo sarà quasi come un giorno sereno per la semina e la raccolta di novelli fiori per il cielo. Il male terribile che già ci soffoca rimarrà come incatenato, ed avrà poi una recrudescenza anche più terribile al tempo dell'anticristo.
Non si può dire nulla di preciso, perché i segni che ora vediamo come caratteristici potrebbero essere seguiti da altri più terribili. Quando si combatté la guerra universale, si credette quasi impossibile andar più oltre nei mezzi di distruzione e nelle scene apocalittiche dei campi di battaglia; eppure oggi quei mezzi già sembrano quasi primitivi. La famosa Berta tedesca, il cannone che tirava a cento chilometri, sembrò un prodigio di balistica, eppure oggi c'è già il cannone che tira a mille chilometri, senza dire che non sappiamo se i segreti militari delle nazioni nascondano altre sorprese. I segni che vediamo e l'incertezza che sempre ci prende debbono farci solo star vigilanti e spingerci a vivere cristianamente, anzi da santi. Oggi noi viviamo come sull'orlo di un vulcano; tutto è precario per noi, tutto è causa di opprimente dolore e di cupa tristezza e non ci rimane che abbandonarci a Dio ed amarlo sopra tutte le cose. Viviamo nell'atmosfera ammorbata dei senza Dio, di quelli che, come nella povera Spagna calcata dal tallone rosso, si salutavano turpemente: Sin Dios, cioè: senza Dio, invece di dire: a Dio! In questa pestifera atmosfera che certo è già anticristianesimo, dobbiamo tener ferme le nostre posizioni di fede, e non farci vincere né dal rispetto umano né dalla vilissima apostasia; dobbiamo portare alto il nostro nome di cristiani, senza cedere al mondo neppure un pollice delle nostre posizioni. Se in ogni tempo è un male cedere al mondo, in questi momenti è un delitto di diserzione.
Non si può aver nulla di comune con l'empietà, neppure nelle forme esterne degli usi mondani; bisogna tenersi fermamente uniti alla Chiesa, e quasi attaccati alle sue vesti benedette, come figli alla madre. Dobbiamo soprattutto vivere cristianamente nella pratica dei Sacramenti e nella vita, affinché l'atmosfera del mondo non ci soffochi, e dobbiamo tener cara la fede come un preziosissimo tesoro. Niente ci faccia vacillare, niente ci affascini, niente ci tragga fuori di Gesù Cristo e della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana. Non crediamo ai falsi profeti, e ce ne sono tanti, che pretendono predicare nuove religioni, nuove morali, e nuovi ordinamenti sociali; questi, come diceva Pio XI, sono spacciatori di chimere, destinati alla più amara delusione. Ascoltiamo la voce della verità che è nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, e persuadiamoci che mai come in questi momenti di confusione si sente il bisogno di tendere l'orecchio alla verità e le mani alla Madre!
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 26 agosto 2014

26/27.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 23 par. 3

3. Contro quelli che nel corso dei secoli imitano gli scribi e i farisei. La falsa pietà degli eretici
Gli scribi e farisei hanno fatto scuola nel mondo, e dolorosamente si sono moltiplicati specialmente tra quelli che, lontani dalla vera Chiesa, pretendono di rappresentare la vera Religione. I poveri protestanti in questo sono stati e sono all'avanguardia di tutti traviamenti moderni. Chi non conosce il puritanesimo di certe sette protestanti che si atteggiano a baluardi del buon costume, della fede e della carità? Eppure proprio anche in mezzo ad esse cresce la corruzione, la miscredenza e l'odio implacabile. Si mostrano con falso splendore di pietà, di bibbie, di pose mistiche, ma tutte queste apparenze sono solo filatteri e frange che nascondono l'orgoglio, la rapacità e la miseria morale. Troppo facilmente e troppo spesso si dice da certi cattolici da strapazzo che i protestanti per esempio sono gente per bene, o peggio che sono migliori dei cattolici; questo in generale possono affermarlo solo quelli che non conoscono che cosa sia pietà e pratica di virtù cristiane.
È logico che un poveretto che non ha mai visto dei gioielli, scambi per veri quelli che sono falsi; ma chi è intenditore non si lascia sedurre dai falsi bagliori. Quando la pretesa virtù è solo un'illusione di momenti fugaci, o peggio è un'ipocrisia del momento per potere accalappiare gl'incauti, allora non è virtù, ma è insidia alla fede e merita quella maledizione che Gesù scagliò contro gli scribi e i farisei. Gli eretici chiudono in faccia agli uomini il regno dei cieli, ed impediscono alle anime di entrarvi; agiscono per interesse, spesso sono pagati lautamente, e percorrono le terre e i mari per fare proseliti peggiori di loro. Solo chi non conosce da vicino il male che fanno i gruppi settari nelle cosiddette loro missioni, intralciando il cammino della verità, può usare i guanti gialli nello stigmatizzare la loro nefasta ed ipocrita propaganda. Solo chi non pondera che cosa sia il chiudere ad un'anima il regno dei cieli, può trattare alla stregua di galantuomini autentici i ministri del regno di satana. Questo è possibile solo quando la pietà è talmente rilassata e la fede così debole, da non saper distinguere tra l'errore e la verità, tra la virtù e l'ipocrisia, tra la vita e la morte.
È un fatto storico, innegabile, che gli eretici sono sempre alleati coi massoni, con i comunisti e con la peggiore canaglia del mondo, per nuocere alla Chiesa cattolica; essi, dunque, sono conniventi alle stragi che i perversi fanno nel mondo, e nel tempo stesso che fingono di predicare la carità, si macchiano le mani di sangue. La storia delle persecuzioni violentissime del Messico e della Spagna è un argomento irrefutabile di ciò che diciamo.
Non bisogna dimenticare infine quei cristiani falsi e superficiali, che onorano i santi e perseguitano quelli che ancora vivono sulla terra, che edificano tempi sontuosi, preparano feste a quelli che in passato furono colmati di obbrobri e di umiliazioni dai loro padri, e li imitano avversando coloro che operano il bene e zelano la gloria di Dio. È una miseria che dovrebbe finire, poiché troppo spesso le più fiere e pericolose opposizioni alle opere di bene vengono proprio da quelli che dovrebbero sostenerle. Satana non ha, disgraziatamente, migliori aiutanti nel combatterle, e molto spesso riesce a paralizzarle od a stroncarle addirittura. Lasciamo alla legittima autorità la cura di vigilare contro le possibili deviazioni delle sante iniziative, ed aiutiamola con tutte le nostre forze, per riparare l'ingratitudine con la quale gli uomini sogliono rispondere ai divini benefici.
Sac. Dolindo Ruotolo

lunedì 25 agosto 2014

25.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 23 par. 2

2. Giudizio severo contro la falsa pietà dei farisei, e gravi minacce contro di loro
Le insidie che gli scribi e i farisei avevano teso a Gesù, per comprometterlo e sfatarne l'autorità, erano una rivelazione del loro animo perverso. La loro condotta scandalosa, ambigua e ipocrita, secondo i casi, era un ostacolo grande alla conversione del popolo, poiché lo allontanava dalla Legge di Dio e dal Redentore; era però inevitabile e necessaria una chiarificazione da parte di Gesù Cristo che non poteva permettere lo scempio delle anime.
Egli parlò chiaro alle turbe e pur sapendo che si sarebbe attratto addosso l'odio dei nemici, non omise di farlo.
Prima di tutto volle salvare il principio di autorità, affinché il popolo non avesse preso occasione o pretesto dal suo discorso per ribellarsi ai legittimi capi, e perciò disse che sedendo essi sulla cattedra di Mosè, cioè essendo i successori dell'insegnamento di lui, dovevano ascoltarli e praticare quello che insegnavano, ma non dovevano guardare al loro esempio, tanto dissimile dalla dottrina che predicavano. Dicono e non fanno, ecco la triste caratteristica dei pastori infedeli, che non hanno il senso della loro responsabilità innanzi a Dio ed agli uomini; impongono agli altri pesi gravissimi, e non li smuovono neppure con un dito, cioè non fanno nulla. Sono severi con gli altri e indulgenti verso loro stessi. Eppure chi sta a capo e chi insegna agli altri deve prima di tutto dare l'esempio, perché l'insegnamento può illuminare, ma l'esempio trae all'imitazione ed all'azione.
I farisei avevano moltiplicato i precetti, ma non ne facevano nulla; erano solo solleciti di ostentare giustizia, e quindi osservavano esageratamente quello che li poteva fare apparire grandi santi innanzi al popolo, restringendosi ad esteriorità che non riflettevano per nulla lo spirito. Portavano quindi lunghi filatteri e lunghe frange. I filatteri erano strisce di pergamena sulle quali erano scritte quattro sezioni della Legge (Es 13,1-10; 13,11-16; Dt 6,4-9; 11,13-21). Queste strisce erano chiuse in apposite custodie, che venivano legate con nastri sulla fronte e sul braccio sinistro. Per ostentare l'osservanza della Legge, i farisei le facevano di proporzioni più grandi, ed allungavano le frange del mantello, che, nel simbolismo ebraico, figuravano i comandamenti di Dio. Contenti di questo non pensavano ad osservare la Legge del Signore, e segretamente conducevano una vita disordinata.
Si fingevano giusti unicamente per carpire onori e, pieni di orgoglio, amavano di essere tenuti in considerazione dovunque, sia occupando i primi posti, sia desiderando essere salutati e chiamati maestri. Tutto questo rendeva vano ogni loro insegnamento, anche se buono, e concentrava tutta la loro anima in stupide vanità.
Chi sta a capo rappresenta Dio, e logicamente non può presumere di rappresentare se stesso. Come rappresentante di Dio dev'essere benefico e diffondere la verità, la bontà, l'ordine, l'armonia, la pace e la provvidenza. Non può pretendere di avere dei criteri personali o delle dottrine cervellotiche nel governare, né può credersi padrone od anche semplicemente padre del popolo, indipendentemente da Dio. Gesù Cristo non vieta che uno si possa chiamare maestro o padre come rappresentante del Maestro divino e del Padre infinito di tutti, ma vieta che uno possa credersi, diciamo così, fondatore o capo scuola di una particolare dottrina e che possa chiamarsi padre per orgoglio di superiorità.
I sacerdoti della Chiesa di Dio si chiamano padri ed anche maestri proprio per ricordare l'unico Maestro e l'unico Padre che abbiamo; essi, quindi, essendo viva rappresentanza di Gesù Cristo, non solo non contravvengono alla sua parola ma la praticano. S'intende che se volessero essere chiamati così per vanità o per ostentazione di un titolo di benemerenza, cadrebbero nella colpa e trasgredirebbero il comando del Signore.
Chi sta a capo dev'essere servo, ed in realtà è tale quando vuole veramente essere utile agli altri; deve stare a disposizione di tutti e deve provvedere a tutti dimenticando se stesso; dev'essere pieno di umiltà, di affabilità, di carità proprio come una mamma che cura i suoi figlioli servendoli.
La Chiesa non conosce altro concetto di superiorità nel suo seno, e se conserva scrupolosamente la gerarchia e il principio di autorità, non lo conserva in una falsa luce di orgoglio, ma in un'aureola di umiltà e di bontà.
Se possono esserci quelli che vengono meno a questo dovere, essi non partecipano allo spirito della Chiesa e sono lontani dal Vangelo.
La bontà, l'umiltà e l'affabilità sono la luce più bella dell'autorità, e le danno un fascino dominatore che non può essere sostituito da nessuna forza.
L'autorità dev'essere in perfetta unione con Dio per poter essere sua rappresentanza, e quando devia dal Signore non domina che con la forza. La forza non è mai un segreto di dominio, ma piuttosto di oppressione, e lungi dall'unire i sudditi in una sola famiglia, li divide e suscita in loro la reazione e la rivolta. Non accenniamo neppure a quelle esose manifestazioni di dominio tiranno o dittatoriale, quali si vedono proprio in quelle nazioni che pretendono predicare la libertà;
quelle autorità che si reggono con la violenza, dopo aver usurpato il potere, e si dichiarano contro Dio, non sono autorità, sono accolta di delinquenti che è sacrosanto dovere combattere e punire, per restituire alla nazione la tranquillità e la pace.
Dopo avere stabilito il principio di autorità e la vera natura del potere dominante, Gesù si rivolse con severità agli scribi e farisei, sfatando innanzi al popolo quel falso prestigio che avevano, e del quale abusavano per consumare tanti delitti. Egli era Dio, e come tale aveva il diritto di giudicarli; era Redentore, e come tale non poteva tollerare quella malignità che tentava distruggere la sua opera in mezzo alle anime; enumerò quindi le miserie delle quali erano infetti, condannandole con quella terribile parola: Guai a voi! Essi non sarebbero entrati nel regno dei cieli e non permettevano che altri vi entrasse, con la scusa di tutelare la Legge di Mosè. Affettando pietà e promettendo lunghe orazioni, spillavano denaro dalle vedove, fingendo di voler consolare il loro dolore e di voler suffragare i loro morti.
Si mostravano zelanti nel fare proseliti alla Legge, ma con l'unico scopo di formare un numero maggiore di affiliati alla loro setta, più perversi di loro, e figli di perdizione. Il loro insegnamento, infatti, era falsato ed arbitrario, ed essi interpretavano la Legge a modo loro. Gesù Cristo porta un esempio di questa falsità a proposito del giuramento. All'apparenza si mostravano scrupolosi, e mentre era prescritto di pagare solo le decime del finimento e dei frutti (Lv 17,30; Dt 14,22), essi le pagavano anche delle più piccole erbe aromatiche, come la menta, l'aneto e il cumino, ma dimenticavano la Legge nelle sue prescrizioni più gravi, e manomettevano la giustizia coi loro soprusi, la misericordia coi loro inveterati odi e la fede, cioè la fedeltà al Signore, con le loro gravi trasgressioni. Questi erano doveri precisi e gravi che si dovevano compiere, mentre che le opere di supererogazione potevano farsi e in ogni caso dovevano farsi con vero spirito di pietà e non per ipocrisia.
Gli scribi e i farisei, al contrario, temevano di contaminarsi ingoiando un moscerino, e perciò filtravano i liquidi per evitare il pericolo d'ingoiarne nel caso qualcuno, mentre ingoiavano in realtà trasgressioni così gravi contro lo spirito stesso della Legge, che in paragone si sarebbero potuti paragonare alla mole di un cammello. La loro purezza era tutta esterna, e si curavano di lavare i piatti e i bicchieri diligentemente, senza badare a purificare la coscienza dai peccati; erano perciò come sepolcri imbiancati che sembrano belli all'esterno, mentre dentro sono pieni di putredine e di ossa.
Gli scribi e farisei avevano premura di elevare sontuosi monumenti sepolcrali di profeti uccisi dai loro padri, ed apparentemente stigmatizzavano quei delitti; ma essi stessi se ne rendevano rei perseguitando quelli che il Signore inviava loro per convertirli, e perseguitando soprattutto il Redentore. Con questo manifestavano chiaramente di avere il medesimo spirito dei loro padri, ed essendo coi fatti conniventi alle loro malvagità, ne colmavano la misura, e dovevano raccogliere un castigo proporzionato a tanta empietà. Essi avevano lo spirito di Caino nell'uccidere per invidia gl'inviati di Dio, e lo spirito dello scellerato Gioas, che fece uccidere il sacerdote Zaccaria tra il Santo dei Santi e l'altare degli olocausti (2Cr 24,20) perché aveva rimproverato il popolo per la prevaricazione dalla Legge divina.
Gesù Cristo, dicendo che tutto il sangue giusto sparso da Abele a Zaccaria sarebbe caduto sulla generazione che gli era contemporanea, allude evidentemente al delitto che contro di Lui stavano per consumare gli Ebrei, del quale erano figura i delitti passati. Ognuno dei misfatti passati aveva un grado di responsabilità proporzionato alla persona soppressa; ma il delitto di uccidere il Figlio di Dio era tale, che cumulava sulla generazione contemporanea tutte le responsabilità passate che lo figuravano. La nazione poi era un'unica personalità morale, ed era giusto e logico che, colmati i suoi delitti in quello dell'uccisione del Redentore, fosse chiesto conto alla generazione deicida di tutti i delitti, come si chiede conto di un debito agli eredi.
Gesù Cristo apostrofa con parole severissime gli scribi e farisei, chiamandoli serpenti e razza di vipere, cioè astuti avvelenatori del popolo e, perché Egli conosceva bene le loro insidie e le loro congiure, domandava loro come avrebbero fatto a scampare dalla condanna dell'inferno. Evidentemente il suo Cuore era angosciato per questo, ed Egli parlava severamente per allontanarli dall'abisso che minacciava d'ingoiarli. Volgendosi a Gerusalemme poi, l'apostrofò con parole cocenti di amore e con severe minacce, annunziando ad essa e a tutto Israele la completa rovina della nazione e il completo eclissamento del Redentore da loro, fino a che, convertendosi alla fine dei tempi, l'avessero riconosciuto invocandolo come vero Messia: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 19 agosto 2014

19.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 19 par. 6-7

6. Il premio della rinunzia di tutto per amore di Dio
Quando Gesù disse che era difficile ad un ricco entrare nel regno dei cieli, gli apostoli ne furono sbigottiti e dissero: Chi potrà dunque salvarsi? Essi non erano ricchi, eppure tremarono, perché lessero sul volto di Gesù una profonda tristezza. San Pietro, però, quasi a rialzare il coraggio dei suoi compagni, avendo coscienza di aver lasciato tutto, domandò risolutamente che cosa sarebbe toccato di premio ad essi che avevano tutto abbandonato per seguirlo. Quello a cui avevano rinunziato rappresentava in realtà poca cosa, poiché essi erano gente del popolo e pescatori, ma innanzi a Dio aveva un grande valore, perché l'avevano abbandonato per acquistare una ricchezza eterna; perciò Gesù rispose che essi che lo avevano seguito, cioè che avevano fatto di più che rinunziare a povere cose della vita, sarebbero stati come re, elevati su troni di gloria per la potestà spirituale che avrebbero avuto nel regno di Dio, ossia nella Chiesa, ed uniti a Lui nella potestà, sarebbero stati con Lui nell'eterna gloria, ed avrebbero partecipato alla sua glorificazione innanzi a tutte le genti quando sarebbe venuto a giudicare il mondo.
Essi, i disprezzati dagli scribi e farisei, ai quali veniva spesso rinfacciato di seguire un ideale fantastico, dopo la sua morte e la sua risurrezione, e dopo la sua ascesa al cielo, sarebbero stati i giudici delle dodici tribù d'Israele, cioè di tutte le anime del nuovo popolo di Dio, figurato dalle dodici tribù; avrebbero avuto una potestà mirabile che li avrebbe fatti pescatori di anime e custodi degli eterni tesori acquistati dalla redenzione. La storia conferma le parole di Gesù Cristo, poiché se si volesse guardare solo al sepolcro degli apostoli, si dovrebbe dire che nessun imperatore ne ebbe uno più glorioso e magnifico di quello, e soprattutto di san Pietro, il capo di tutti. Se poi si riflette il principato spirituale dei poveri pescatori di Galilea, si vede ancora di più quale premio raccolsero della loro rinunzia. Se si considera, infine, la gloria eterna che li ha coronati, l'anima rimane estatica innanzi alla generosità della bontà del Signore, che non ha confini, e giudica tutte le ricompense umane date ai grandi conquistatori come cose da nulla.
Parlando agli apostoli Gesù Cristo volse il pensiero a tutti quelli che per amore di Dio avrebbero rinunziato alle cose della vita presente per servire Dio solo; pensò ai religiosi, alle religiose, ai sacerdoti, ai missionari, ai poveri volontari, e promise loro come premio il centuplo in questa vita e la vita eterna nell'altra. Parlò di quelli che avrebbero fatto una vera rinunzia, non di coloro che avrebbero voluto conciliare la vita perfetta con le loro proprie esigenze, e promise il centuplo ai primi soltanto. Essi rinunziano ad una famiglia terrena, ed acquistano una famiglia spirituale; rinunziano ad una paternità fisica, ed acquistano quella dello spirito, immensamente più feconda; rinunziano agli agi della vita, e sono provveduti dalla divina bontà in misura abbondante; rinunziano a povere attività terrene ed hanno in cambio attività trascendenti ogni umana potenza. Sono liberi dalle sollecitudini della vita materiale, contemplano le stupende meraviglie della fede, si saziano di grazia, di preghiera e di amore nella pace dello spirito, pace che trascende ogni felicità.
Chi potrebbe essere così stolto o così superficiale da rinunziare alle vie della pace e della vera felicità interna, per camminare per le vie del mondo? Chi potrebbe aspirare ad una creatura che ha solo spine di angustia da dare, e disconoscere l'immensa felicità di appartenere interamente a Gesù Cristo?
Rinascono le aspirazioni della carne e del mondo quando si è avuta la sventura di smarrire quelle dello spirito, per incorrispondenza alla grazia o per abbrutimento nelle colpe; allora chi ebbe il centuplo si trova in realtà vuoto di mondo e vuoto di Dio, e perciò Gesù Cristo ci avverte che molti, che erano i primi nelle vie della felicità, saranno gli ultimi, e quelli che sembrano ultimi perché spregiati dal mondo, saranno i primi, ricchi incommensurabilmente di ricchezze che nulla può equiparare in questa povera terra.
I primi saranno gli ultimi, perché in realtà non c'è essere più infelice di chi si è dato prima interamente a Dio, e poi diventa infedele e desidera nuovamente il mondo; il mondo non lo sazia, e il rimorso della perduta grazia amareggia la vita fino alla disperazione. Gli ultimi saranno iprimi, perché non c'è un cuore più ricco di grazia di quello che nella via di Dio trova le contraddizioni e le croci, né c'è una creatura più lieta di quella che sembra oppressa sotto l'incubo dell'umiliazione, quando la pazienza e l'amore fanno sbocciare dall'umiliazione i fiori della grazia sovrabbondante di Dio.