lunedì 31 marzo 2014

31.03.2014 - Vangelo Gv 4, 43-54

Dal Vangelo secondo San Giovanni
43Trascorsi due giorni, partì di là per la Galilea. 44Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. 45Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa.
46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea.
Parola del Signore 

31.03.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 4, par. 4

4.  La guarigione del figlio di un ufficiale del re Erode
Gesù Cristo dimorò due giorni nella Samaria, dopo dei quali andò nella Galilea. L'evangelista fa notare ch'Egli era andato via dalla Giudea, perché nessun profeta è onorato nella sua patria, secondo una parola detta da Lui stesso.
Gesù Cristo, infatti, essendo nato a Betlem, e discendendo dalla casa di Davide, era considerato come Giudeo, benché, per la sua lunga dimora a Nazaret, sia stato anche considerato come Galileo dagli altri evangelisti e dal popolo stesso. La Giudea avrebbe dovuto gloriarsi di Lui, ed invece lo perseguitò e lo minacciò, costringendolo a ritornare nella Galilea.
I Galilei che avevano assistito ai miracoli che Egli aveva operati a Gerusalemme in occasione della festa di Pasqua, lo accolsero con entusiasmo, e probabilmente furono essi stessi ad invitarlo a Cana, dove aveva mutato l'acqua in vino. Quel miracolo era stato certamente conosciuto nella regione, ed è logico che suscitasse il desiderio da parte degli sposi di ospitare il Redentore.
Ora vi era a Cafarnao un ufficiale del tetrarca Erode Antipa, chiamato dal popolo, per adulazione, re, il quale aveva un figlio gravemente infermo, che stava già per morire. Saputo che Gesù era a Cana vi andò, e lo supplicò a discendere a Cafarnao per guarirgli il figlio. La fede dell'ufficiale era imperfetta, giacché egli credeva che fosse indispensabile la presenza di Gesù per la guarigione; era imperfetta anche la fede del popolo, il quale, alla preghiera dell'ufficiale, pensò di poter assistere ad un nuovo miracolo; perciò il Redentore paragonando questa fede avida di segni e di conferme, con quella dei Samaritani, avida solo della divina Parola, disse accoratamente rivolgendosi a tutti: Se voi non vedete segni e prodigi non credete. Evidentemente alla domanda del desolato padre fece eco anche il popolo, pregando Gesù di compiere il miracolo, e per questo l'ufficiale, prendendo coraggio, insistette dicendo: Signore, discendi prima che il mio figlio muoia. Ma Gesù gli rispose con un accento di sicurezza rassicurante: Va', tuo figlio vive. Quell'uomo credette, sentì nel cuore la sicurezza di ciò che gli aveva detto il Signore, e si avviò verso Cafarnao che dista da Cana circa 29 chilometri.
Quando Gesù gli disse che il figlio viveva, era l'ora settima, cioè un'ora dopo mezzogiorno; per percorrere i 29 chilometri l'ufficiale, defatigato già dal cammino, e certamente anche dalle veglie fatte per il figlio suo, dovette impiegare al minimo 6 o 7 ore; giunse quindi nei pressi di Cafarnao quando già era calata la notte, essendo dicembre, e quando era già cominciato il giorno seguente, secondo l'uso ebraico. Con le 6 pomeridiane, infatti, terminava la giornata, e cominciava a computarsi il giorno nuovo.
Il miglioramento del figlio, cominciato all'ora settima, andò rapidamente verso la completa guarigione, e perciò i familiari spedirono subito i servi incontro al padre per annunziargli la lieta novella. I servi, incontratolo nei pressi della città, gli corsero incontro pieni di gioia, e gli dissero che il figlio viveva. Dal resoconto minuto, fattogli dietro sua domanda, delle circostanze della guarigione, capì che il miglioramento era cominciato proprio nell'ora nella quale Gesù gli aveva detto che il figlio viveva, e credette lui e tutta la sua casa che Egli era veramente il Messia.
Quanti giovani malati nell'anima, oggi!
L'ufficiale del re, chiamato comunemente il regolo, si preoccupò che il figlio stava per morire, e corse da Gesù, supplicandolo di andare da lui prima che morisse.
Quanti padri hanno la stessa preoccupazione per l'anima dei loro figli, e quanti ricorrono a Gesù perché li visiti prima che muoiano spiritualmente? La gioventù, quando comincia a cedere alle passioni, è presa dalla febbre del male, si ammala e declina rapidamente verso la morte spirituale, la peggiore delle morti. I genitori che si preoccupano dei loro malanni corporali, e li scrutano attentamente per vedere se hanno a posto il cuore, lo stomaco o le viscere, non li scrutano per vedere se hanno a posto l'anima; anzi, dolorosamente, spesso guardano con folle compiacimento i primi sintomi d'un traviamento morale, che declina poi rapidamente verso la morte!
Sembra loro che allora comincino ad essere uomini, ed indulgono loro scusandoli con la gioventù, quasi che questa età, che dovrebbe essere tutta fiorita di virtù, dovesse gloriarsi del disordine e del fango! Quando comincia nei giovani la febbre delle passioni, e sembra invincibile, allora più che mai i genitori debbono andare a Gesù perché li visiti e li risani, poiché solo Gesù, nutrendoli di sé e della sua Parola, può fare spezzare la loro febbre e guarirli. Debbono essi per primi andare a Gesù e credere, poiché ogni esortazione è vana quando essi non danno il buon esempio, e quando non ricorrono al Sacramentato Signore con le lacrime sincere di chi capisce quanto sia deplorevole e grave la morte dell'anima.
Il regolo per ottenere la guarigione del figlio, andò da Cafarnao a Cana, dalla città della giocondità a quella del lamento, così deve fare un padre che vuole la rinascita spirituale del suo figlio: deve lasciare i bagordi ed i vani divertimenti, e deve vivere i suoi giorni levando a Dio il supplichevole grido dell'intensa e continua preghiera.
Non si converte un'anima semplicemente col desiderarlo; è necessario andare a Gesù con frutti di penitenza e col cuore compunto, con una fede viva e praticante, implorando dalla sua misericordia la grazia.
Oggi che la gioventù, ignara e presuntuosa, è quasi tutta inferma della febbre di disordinate passioni, perché insidiata da quelli che pretendono esserne i padri e gli educatori, mentre ne sono i corruttori, dobbiamo tutti pregare Gesù che la visiti e la converta, risanandola. Cana significa anche città dello zelo e dell'emulazione; ora noi dobbiamo, con le opere dello zelo e con una santa emulazione di virtù, cooperare alla salvezza della gioventù, implorando da Gesù che ne abbia pietà, e la sottragga dal baratro del peccato. Dalla città della giocondità, cioè dalla ricerca dei nostri comodi e del nostro quieto vivere, andiamo alla città dello zelo e, stabilendo fra noi una grande emulazione di opere buone, imploriamo dal Signore che i giovani non muoiano spiritualmente, e risorgano per Lui a vita nuova.

sabato 29 marzo 2014

30.03.2014 - Vangelo Gv 9, 1-41

Dal Vangelo secondo San Giovanni
1Passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. 4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» – che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». 9Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». 11Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». 12Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
13Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. 17Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!».
18Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui.
39Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». 41Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».
Parola del Signore

30.03.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 9, par. 2

2. La guarigione del cieco nato, le indagini e gli interrogatori del sinedrio
Dopo la discussione avuta coi farisei nel recinto del tempio, e dopo essersi eclissato dal loro sguardo quando erano già pronti a lapidarlo, Gesù Cristo si allontanò dal sacro luogo insieme ai suoi discepoli, e passò per una delle porte dove ordinariamente sostavano i poveri e gl'infelici per domandare l'elemosina.
L'essersi trovato là coi suoi discepoli e l'esservisi fermato conferma che Egli s'eclissò miracolosamente da quelli che volevano lapidarlo.
Passando vide un poverello, cieco dalla nascita, il quale per essere portato là ogni giorno dall'infanzia a cercarvi l'elemosina, era conosciuto da tutti, ed era una di quelle figure che nella loro medesima piccolezza finiscono per interessare il pubblico, e per essere quasi come un motivo insostituibile di certi ambienti.
Dal contesto del racconto si rileva l'indole di questo cieco: di facile parola, affettuoso, riflessivo e un po' psicologo o conoscitore dell'ambiente del tempio; abituato a raccogliere tanti discorsi che facevano i pellegrini e forse tante mormorazioni di quelli che erano addetti al sacro luogo, s'era formato un concetto abbastanza chiaro di quelli che ne avevano il comando. I ciechi s'informano di tutto nel loro piccolo ambiente, proprio perché non vedono, e questo giovane doveva pur sapere che quasi mai i sacerdoti, gli scribi e i farisei facevano scivolare nelle sue mani qualche elemosina, essendo sommamente venali; questo doveva aver disposto l'anima sua a diffidenza e disistima per essi; perciò, quando fu interrogato da loro, si mostrò franco, e non mancò di ribatterli con una certa vivezza, che rivela questo suo stato di animo.
La sua vita era monotona; al mattino era accompagnato al tempio, e vi rimaneva a cercare l'elemosina; a sera era riaccompagnato a casa. Raccoglieva spesso le espressioni pie dei pellegrini, o gl'insegnamenti dei dottori della Legge, ed aveva una certa cultura religiosa, per la quale gli doveva essere familiare il sentenziare ed anche l'ammonire. Era di indole buona, di natura semplice, di carattere espansivo, e timorato di Dio.
Passando vicino al cieco nato, i discepoli, considerandone l'infelicità ed attribuendola a castigo di Dio, domandarono a Gesù: Rabbi, chi ha peccato, costui o i suoi genitori, per nascere cieco? Era infatti persuasione comune tra i Giudei che i mali fisici fossero mandati da Dio in punizione di peccati commessi, o che fossero castigo dei peccati dei genitori; ma i discepoli facevano una domanda insulsa chiedendo se avesse peccato il cieco prima di nascere, giacché questo sarebbe stato impossibile. Essi forse si confusero, e nel domandare se quella cecità fosse stata effetto di colpa, coinvolsero anche il cieco nella responsabilità. Gesù rispose che né quel poveretto né i suoi genitori avevano peccato, ma che quella cecità era stata disposta e permessa da Dio per manifestare in quell'infelice la
sua potenza, la sua gloria e la realtà del suo Figlio Incarnato; Gesù infatti soggiunse che Egli doveva compiere le opere di Colui che lo aveva mandato, e con questo mostrò chiara l'intenzione di guarire quel cieco.
Nonostante le minacce dei suoi nemici, e nonostante che quel miracolo li avrebbe più malignamente aizzati contro di Lui, Egli non avrebbe mancato di compiere quell'opera buona, e di dare un nuovo argomento della verità della sua missione. Era per Lui ancora giorno, cioè non era ancora giunta l'ora oscura della sua Passione, quando non avrebbe potuto compiere miracoli, volendo subirla fino all'estrema immolazione. Egli doveva ancora per poco rimanere nel mondo, e finché vi dimorava, voleva dare argomenti di luce a tutti i secoli, nonostante che i malvagi ne avrebbero preso motivo per odiarlo e per irrompere contro di Lui.
Gli scribi e farisei avrebbero voluto che Egli avesse taciuto per sempre e si fosse eclissato, rinunziando alla sua missione; ma Egli questo non poteva farlo, perché era la luce delle anime e la luce dei secoli. Aveva detto poco prima: Io sono la luce del mondo, e volle confermare questa grande e fondamentale verità con un miracolo d'illuminazione materiale, simbolo dell'illuminazione spirituale. Volle donare la vista a quel povero cieco, per significare la vista che voleva dare e che avrebbe dato alle anime; compì esternamente il miracolo che voleva compiere internamente, e si servì di un mezzo inadeguato, anzi contrario, perché si fosse capita l'importanza del mezzo del quale voleva servirsi per redimere il mondo, cioè la umiltà e l'obbrobrio della croce.
Gesù non domandò al cieco se voleva essere guarito né il cieco lo supplicò di guarirlo; andò Egli stesso incontro al povero infelice, come Egli stesso veniva incontro all'uomo peccatore e, sputato in terra, fece con lo sputo un po' di fango, impastando la polvere della strada, lo spalmò sugli occhi del cieco e gli comandò d'andarsi a lavare alla piscina di Siloe.
Il Sacro Testo fa notare che Siloe significa mandato, perché questo nome aveva un mistico significato che ricordava precisamente Colui che doveva essere mandato, ossia il Messia.
La piscina o fontana di Siloe si trovava nella parte Sud-Est di Gerusalemme, fuori delle mura, tra il monte Ofel ed il Sion; il cieco per recarvisi dovette essere accompagnato da qualcuno. Andò, si lavò ed acquistò subito la vista.
Gli occhi del cieco si aprono e vedono...
Quale sorpresa dovette avere nel vedere la luce, e nel vedere quello che lo circondava! I ciechi nati si formano un concetto tutto soggettivo del mondo e delle cose che li circondano; non concepiscono proprio quello che non può essere oggetto del tatto, e che non può essere apprezzato da una loro esperienza. Certe cose sembrano loro più grandi della realtà, certe altre più piccole; possono concepire un monte come un semplice rialto, ed un palazzo come un monte. A volte sembra loro di stare a grande distanza e credono immensa una strada, a volte un grande spazio sembra loro ristretto.
Il cieco si trovò in un mondo che non immaginava, si guardò attorno stupefatto, vide la strada per la quale era venuto, vide le case, ammirò i campi, volse lo sguardo al cielo, ne contemplò la magnificenza, sentì una nuova vita interiore, formata in lui dal riflesso di tutto ciò che vedeva, e poiché aveva il cuore buono, abituato alla preghiera dalle lunghe dimore fatte alla soglia del tempio, ritornò sui suoi passi per andare a ringraziare Dio. Che felicità sentiva a non andare a tentoni, che gioia a saper dove mettere il piede, che gioconda curiosità a notare tutti quelli che incontrava, a squadrarli da capo a piedi, a considerarne la bellezza o la bruttezza!
Era stato un povero schiavo di quanto lo circondava e si sentiva libero, era stato inceppato dalle tenebre e si sentiva come guidato dalla luce, nella quale godeva, quasi respirandola;
era povero e si sentiva ricco, poiché gli sembrava d'essere venuto in possesso del mondo che percepiva e del quale godeva.
Psicologicamente quel fare franco e, se si può dire, un po' spavaldo che ebbe coi giudici che dopo ripetutamente lo interrogarono, era conseguenza anche di quel senso di libertà e di padronanza che gli dava la vista acquistata. Egli vide per la prima volta quelli che aveva conosciuti per esperienza duri e sprezzanti e, potendoli squadrare nel loro volto arcigno, sospettoso e ipocrita, si sentì autorizzato a dar loro una lezione.
Ritornato sui suoi passi, egli dovette andare prima di tutto a dare la bella notizia ai suoi genitori, e fu subito notato dai vicini di casa, che si stupirono1 a vederlo camminare senza guida. Lo guardarono con attenta curiosità e si scambiarono le loro impressioni mentre egli si avvicinava. Alcuni dicevano: Non è questi colui che stava a sedere, e cercava l'elemosina? Altri, vedendolo avvicinare, esclamavano: Sì è proprio lui; altri ancora, ai quali sembrava assurdo che potesse vedere, dicevano: No, è impossibile; forse è uno che gli somiglia. Egli poi, giunto nel crocicchio della gente che, incuriosita, già andava raccogliendosi, affermò con sicurezza che non ammetteva equivoci: Sono proprio io, ero cieco ed ora ci vedo per misericordia di Dio. A quest'affermazione s'accertarono che era lui, e crebbe in loro la curiosità di sapere come avesse avuto la vista, ed egli rispose: Quell'uomo che si chiama Gesù fece del fango ed unse i miei occhi, e mi disse: Và alla piscina di Siloe e làvati. Sono andato, mi sono lavato e ci vedo. Chiamò Gesù quell'uomo perché non lo conosceva ancora, ma ne aveva sentito parlare, e la gente stessa non doveva essergli familiare, perché tutti gli chiesero: Dov'è quest'uomo? Ed egli rispose che non lo sapeva.
Un miracolo sconcertante, questo, per i nemici del Signore
Tra la gente che s'era affollata c'erano alcuni che avevano autorità, e sentendo parlare di Gesù Cristo e del fango che aveva fatto in giorno di sabato, sembrando loro questo una violazione della legge, accompagnarono il giovane dai farisei, cioè innanzi al sinedrio, per far fare un'inchiesta accurata sul fatto.
Per i nemici del Salvatore quel miracolo era sconcertante, perché non poteva essere effetto d'illusione, e perché poteva avere una grande influenza sul popolo. Perciò cominciarono col volerne bene assodare le circostanze, nella speranza di trovarvi qualche punto debole per poterlo negare. Interrogarono perciò il giovane per sentirsi ripetere com'era stato guarito, ed egli, annoiato già da tante domande, ripeté più sinteticamente il fatto, dicendo: Mise il fango sui miei occhi, mi lavai e ci vedo.
Parlò con tanta sicurezza, che i farisei in quel momento non misero in dubbio la sincerità del racconto sulla guarigione, e cominciarono a discutere fra loro; i più ostili dicevano che Gesù non poteva essere da Dio, giacché non osservava il sabato; altri, più temperati e logici, facevano riflettere che un peccatore non avrebbe potuto fare questo miracolo e gli altri, dei quali avevano conoscenza, perché Dio non avrebbe confermato l'inganno di un impostore. La discussione si animò talmente che ci fu scissura fra loro e, non potendo venire ad una conclusione, pensarono di approfondire meglio la questione, e domandarono al giovane che cosa egli pensasse di Colui che l'aveva guarito. Egli rispose: 7o dico che è un profeta.
È profondamente psicologica la domanda dei farisei, e mostra tutto l'imbarazzo della loro mente e della loro coscienza; chi, infatti, è titubante in una questione grave sulla quale
non sa decidersi, domanda anche ai più umili che cosa ne pensano, e spera di avere un argomento plausibile per attenersi alla risoluzione che, inconsciamente, più lo attrae.
Essi avrebbero voluto condannare Gesù, ma non osavano, e speravano che una parola di disprezzo che avrebbe potuto dire il giovane li avrebbe tolti d'impiccio. Forse furono alcuni di quelli meno sfavorevoli e più titubanti nella coscienza che rivolsero al giovane quella domanda, quasi oziosamente ed indifferentemente, senza mostrare di volergli dare importanza, ma con la speranza di una testimonianza a loro favorevole. Il giovane si sentì lusingato, e rispose col tono di chi sta alla pari con chi lo interroga: Io dico che è un profeta. La risposta per i più scalmanati non aveva nessun valore giuridico: anzi il mostrarsi il giovane entusiasta di Gesù diede loro il pretesto per sospettare un trucco; misero in dubbio l'autenticità del fatto, e non vollero ammettere che proprio quel giovane fosse il cieco nato che cercava l'elemosina, senza prima chiamare e interrogare i suoi genitori.
Depongono i genitori
Dal contesto può rilevarsi che i messaggeri che andarono a chiamarli dovettero spaventarli con minacce, ed avvertirli che, se avessero in qualunque modo parlato bene di Gesù, si sarebbero esposti ad essere espulsi dalla sinagoga; essi perciò assunsero un atteggiamento estremamente prudente, sapendo che l'essere espulsi dalla sinagoga equivaleva all'essere come scomunicati.
Introdotti innanzi al sinedrio, furono rivolte loro due domande, una per l'identificazione del giovane: E questo quel vostro figlio che voi dite essere nato cieco? e un'altra per conoscere in qual modo fosse guarito: Come dunque ora ci vede? Le domande le fecero insieme, perché essi sapevano che quegli era il giovane, e premeva loro conoscere dai genitori com'era guarito, sperando di individuare nel racconto una qualunque contraddizione, che potesse offrire loro il pretesto di condannare Gesù come un impostore. Frattanto fecero uscire il giovane, per evitare qualunque intesa fatta magari a cenni coi suoi genitori. Questi, cercando di dissimulare la paura che avevano di trovarsi innanzi all'autorità, risposero con calma che sapevano benissimo che quel giovane era loro figlio, e che era nato cieco, ma ignoravano come ora vedeva e chi gli aveva aperto gli occhi; soggiunsero che il giovane aveva un'età sufficiente a dar conto di ciò che lo riguardava e che, perciò, avessero interrogato lui stesso che doveva saperlo. Con questo, uscirono dall'imbarazzo in cui erano, e furono licenziati.
Il miracolato con impeto difende Gesù e mette in imbarazzo il sinedrio
Rimaneva assodato giuridicamente, così, che realmente quel giovane era stato cieco, e quindi che realmente era guarito. I farisei perciò lo richiamarono in udienza nella speranza di farlo schierare contro Gesù, e quindi di far svalutare da lui stesso Colui che l'aveva guarito, o almeno di strappare dal suo labbro qualche contraddizione sul miracolo, che ne avesse sfatato l'importanza. Avutolo davanti, cercarono di pigliarlo con le buone dicendogli: Dà gloria a Dio, cioè dici la verità, e pensa che si tratta della gloria di Dio, dovendosi smascherare un impostore; non ti far ingannare dal beneficio ricevuto, e non mentire se non sei un falsario anche tu e fingi una guarigione che non è mai esistita; noi sappiamo, infatti, che quest'uomo è peccatore. E volevano continuare e dire che, come tale, non aveva potuto fare quel miracolo; ma il giovane non li lasciò continuare e, urtato da quell'ingiuria rivolta al suo benefattore, li interruppe dicendo: Se sia peccatore io non lo so; questo solo conosco che ero cieco ed ora io vedo. E voleva dire: voi affermate che è peccatore, e della vostra affermazione siete responsabili voi, io non lo so, cioè non lo ammetto, perché ero cieco ed ora vedo; un peccatore non avrebbe potuto fare questo miracolo.
Siccome il giovane ricordava il miracolo avuto come argomento per negare che Colui che glielo aveva fatto fosse un peccatore, lo interrogarono nuovamente sul miracolo per tentare di svalutarlo, e per dimostrargli che Gesù aveva violato il sabato ed era veramente un peccatore; dissero perciò di nuovo: Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? Domandarono prima che cosa avesse fatto, per dargli subito l'impressione della violazione del sabato. Ma il giovane, annoiato della nuova inquisizione sull'accaduto, disse con vivacità, come appare dal contesto: Già ve l'ho detto e l'avete ascoltato, perché volete sentirlo di nuovo? E per pungerli sul vivo e per farli smettere soggiunse: Volete forse diventare anche voi suoi discepoli? Ma essi, adirati al sommo, lo ingiuriarono e dissero in tono di disprezzo e di odio: Sii tu discepolo di costui; quanto a noi, siamo discepoli di Mosè. Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio, mentre costui non sappiamo donde sia. L'odio stesso che avevano per Gesù, li fece scendere a competizione con quel giovane, il quale cominciò a discutere con loro alla pari, e disse: Qui appunto sta la stranezza, che voi non sapete di dove Egli sia, eppure mi ha aperto gli occhi. E voleva dire: agisce tanto soprannaturalmente per virtù di Dio, che senza far capo a voi o aver da voi l'approvazione, ha operato un miracolo così strabiliante. Dunque ha un'autorità ed una potenza superiore a voi. Voi affermate che è un peccatore, ma noi sappiamo bene che Dio non ascolta i peccatori per confermare la loro malvagità o le loro imposture; ascolta operando cose straordinarie solo chi lo onora e fa la sua volontà. Da che mondo è mondo non si è udito dire che alcuno abbia aperto gli occhi ad un cieco nato. Se questi non fosse da Dio non avrebbe potuto far nulla. Rosso in volto, concitato, entusiasta, senza riflettere più a
quelli che lo interrogavano come giudici, il giovane si accalorò nella discussione e diede una solenne lezione a quegli ipocriti.
Alcuni hanno affermato che egli non parlasse giusto dicendo che Dio non ascolta i peccatori, ma questo è falso, giacché se Dio ascolta anche le preghiere dei peccatori, non li ascolta quando pretendono che Egli avalli con miracoli le loro malvagità. L'argomentazione era quindi stringata, e poiché Dio aveva operato quel miracolo per glorificarsi in quell'infelice, e manifestare in lui le opere sue, come disse Gesù (versetto 3), noi crediamo che il giovane parlasse per impulso di grazia, e che il Signore umiliasse così la superbia del sinedrio. In fondo il ragionamento del giovane era quello che avrebbero dovuto fare i giudici che l'interrogavano: ciò che compie questo uomo è straordinario e miracoloso, cioè suppone l'intervento di Dio. Ora il Signore non interverrebbe se Egli fosse un peccatore, violatore della Legge; dunque quest'uomo è da Dio, e senza di Dio non potrebbe far nulla di ciò che fa.
Nell'ascoltare quella vivacissima difesa che il giovane fece di Gesù gli scribi e farisei montarono su tutte le furie e, non potendogli rispondere direttamente perché a corto di argomenti, lo vituperarono dicendo: Sei tutto un impasto di peccati e pretendi d'insegnare a noi? Con questa ingiuria sanguinosa lo cacciarono fuori, ossia probabilmente gli applicarono la scomunica, per impedirgli di propagare il miracolo avuto o per togliere ogni prestigio alla sua testimonianza.
Gesù dona al giovane miracolato la «vista» dell'anima e gli si rivela Figlio di Dio
Il fatto produsse grande scalpore per la notorietà del giovane guarito, e ci fu chi andò a riferirlo a Gesù. Il Redentore ne fu addolorato, ed avendo dato a quell'infelice la vista del corpo, volle dargli anche quella dell'anima, illuminandolo pienamente. Quel giovane lo credeva un profeta, ed era necessario che lo riconoscesse per figlio di Dio; l'aveva confessato e difeso come santo e doveva confessarlo e adorarlo come Santo dei Santi, perciò incontratolo gli disse: Credi tu nel Figlio di Dio? Ed egli rispose: Chi è, Signore, perché io creda in Lui? Aveva la volontà di credere ma gli mancava la luce, come prima voleva vedere fisicamente e gli mancavano gli occhi. Gesù Cristo, illuminandolo interiormente con un grande fulgore di grazia, gli disse solennemente:
Lo hai veduto, Colui che parla con te è proprio Lui.
Il giovane lo guardò, ne vide in quello sguardo la maestà, ne sentì la potenza, ne riconobbe la gloria; si sentì l'anima tutta piena di soave unzione, sentì nel cuore una gran fiamma di amore, esultò nello spirito, si sentì come schiacciare dalla grandezza di Colui che gli parlava, si prostrò fino a terra, ed adorandolo come Dio disse:
Credo, o Signore.
I farisei a Gesù, ironicamente: «Siamo forse ciechi?»
Quelli che lo circondavano, al vedere quel profondo atto di adorazione, rimasero meravigliati, perciò Gesù soggiunse: Io sono venuto in questo mondo per fare un giudizio, affinché quelli che non vedono vedano, e quelli che vedono diventino ciechi. E voleva dire: voi vi stupite? Gli orgogliosi, gonfi della loro sapienza che credono di vedere, rifiutano la verità e diventano interiormente ciechi; gli umili invece, che vengono a me con semplicità, vedono la luce di Dio, ricevono la fede e si salvano. Io così divento per gli uni tenebre e per gli altri luce. Egli voleva scuotere i farisei che erano con Lui, ma essi se ne offesero e soggiunsero: Siamo forse ciechi anche noi? Essi si credevano illuminati, scienziati, dottori della Legge, perfetti, e dissero ironicamente: vuoi trattare da ciechi anche noi che siamo luce d'Israele? E Gesù rispose con profondo dolore:
Oh, foste voi ciechi, ossia foste veramente accecati in buona fede nel rinnegarmi e nel rifiutare la luce della verità! Voi allora non avreste sull'anima il peccato. Ma perché affermate di vedere, agite in mala fede, rinnegate con malizia la verità, e rimanete nel peccato.
I farisei di oggi ripetono ironicamente: «Siamo ciechi anche noi?» ...
Pronunziando queste parole Gesù era profondamente addolorato; non era Lui a dare la cecità spirituale agli orgogliosi, ma, per la loro malizia, Egli costituiva per loro un'occasione di cecità; è in questo senso che dice d'essere venuto a fare un giudizio.
Quelli che vicino a Lui si accecano, mostrano di avere l'anima lontana da Dio; Egli è per loro come la rivelazione della loro perversità, e quindi la manifesta, come un giudice, col suo criterio, e con la luce della legge smaschera le colpe dei rei. Quelli che vicino a Lui vedono la luce mostrano di avere l'anima retta, e quindi Egli è per loro come la rivelazione della loro bontà. Essendo poi giudice di giustizia, Egli priva della luce quelli che vi pongono ostacolo, e senza luce essi sono ciechi spiritualmente; dona la sua luce a quelli che la desiderano, ed essi vedono, vedono nello splendore della verità.
Chi ha gli occhi e sta al buio non è come cieco? Si volge intorno e non vede nulla, poiché le tenebre lo avvolgono. Chi stando al buio ha una lampada subito vede e la luce gli fa come ritornare la vista.
Questo giudizio di accecamento e di illuminazione Gesù non lo fece solo con gli Ebrei, ma lo fa nel mondo e lo farà in tutti i secoli.
Quelli che rifiutano la verità divina e si credono nella luce della scienza sono poveri ciechi; anche quando vedono le cose materiali e ne scrutano i misteri, non ne vedono la ragione, la causa, l'armonia ed il fine ultimo, e brancolano nelle tenebre;
sono come ciechi che vedono col tatto e percepiscono solo le dimensioni di ciò che toccano, senza vederne i colori e la bellezza! Quale tremendo giudizio ha fatto Dio a questa nostra generazione superba, che s'è creduta nel secolo dei lumi, e vive nella più tetra ed oscura caligine di errori! Quale umiliazione all'orgoglio incretinito è tutto il filosofarne balordo che sostituisce alle visioni della fede sul mondo, sulle cose e sulla vita, le panzane infermi e tumultuanti nelle incomposte follie dei loro pensieri! Quale avvilimento è il conoscere la materia ed ignorare lo spirito, è il rinnegare la fede ed il rendersi schiavi di errori banali, dogmatizzanti nella loro stoltezza! Quale abiezione è il rinnegare il Cristo e la Chiesa ed il prostrarsi ai farabutti ed ai tiranni che non salvano e non illuminano, ma perdono ed accecano!
Anche nel campo cattolico avviene questo giudizio di Dio, ogni volta che per cercare luce si va nelle umide e tenebrose grotte dell'errore. I modernisti, i neo-critici, i pomposi cultori dei cosiddetti alti studi, i pedissequi di quei pazzi sfrenati che rinnegano il patrimonio santo della Chiesa per accogliere le stoltezze dei supercritici razionalisti tedeschi, francesi o della Mecca, sono ciechi che non vedono più nella Scrittura, non capiscono la storia, non approfondiscono le leggi dello spirito, confondono l'eresia con le verità, l'idolo con Dio, la realtà con le ipotesi, e scorrazzano da pazzi nelle branche della cultura, cogliendovi le ciaccate catarrose come perle, le aberrazioni del pensiero come oro splendente, solo perché raccolgono i riflessi rossigni d'una vampata che non è luce, ma parte delle devastazioni d'un incendio!
Non si creda che esageriamo o che usiamo un linguaggio troppo duro; noi invece, con l'anima in fiamme dal dolore, usiamo un linguaggio molto blando. Non ci sono espressioni capaci di fulminare le aberrazioni di quelli che rinnegano la verità e sposano l'errore! Bisognerebbe unire insieme le espressioni... più forbite di tutti i dialetti, le irruzioni maledicenti di tutte le ire, e gl'impeti di tutte le battaglie, per ricacciare nell'inferno, dal quale sono uscite, tutte le infami stoltezze della nostra generazione, in tanti campi! Bisognerebbe porre queste stoltezze nei raggi divini, per vedere che sono come lebbra purulenta, muffa di putrefazione, posteme cancrenose, lupus divorante!
O Gesù, fa' lavare gli occhi ciechi del mondo di oggi nelle acque della grazia. E fa' che si aprano alla luce
Gesù Cristo compie il suo giudizio anche oggi: vedono i veri figli della Chiesa, vedono gli umili, vedono quelli che pregano, ma i cosiddetti dotti, avvelenati dalle moderne stoltezze, non vedono, sono ciechi e rimangono ciechi.
O Gesù, o Gesù, sputa su questa terra di errori, impastala, mostra che è fango e non è oro, fanne sentire il bruciore e il fastidio agli occhi ciechi che non ti vedono, falli lavare nelle acque della grazia che ci hai meritata con la tua redenzione, e fa' che si aprano alla tua luce! Compi un giudizio di misericordia, affinché quelli che non vedono vedano; apri fino allo splendore dell'evidenza i tesori delle tue verità, facci conoscere tu i tesori delle Sacre Scritture, i tesori della fede, i tesori delle armonie della tua grazia nel povero greto umano, drizzaci al cielo per la diritta via della giustizia e della tua Legge, facci comprendere e approfondire la verità storica di tutto lo sviluppo della divina provvidenza nelle vicende umane, ed al criticismo balordo che, come tutti i mormoratori e sussurratori, demolisce e non edifica, sostituisci la luce della verità che intuisce e scopre la verità nei fulgori della tua sapienza e nelle intuizioni dell'esperienza e della logica. Compi il tuo giudizio di misericordia, o Gesù, e fa rifulgere nuovamente le arti come ancelle del tuo trono, e come voci gentili di bellezza, di forza, di virtù e di bene, affinché le mostruosità impure o le deformazioni del bello non deturpino più questa terra che è
tutta un capolavoro dell'arte divina del Creatore. Rinnovaci, fa che vediamo, aprici la via della vita, rendici veggenti nella fede, luminosi nella speranza, ed accesi di fiamma nel tuo dolcissimo amore!
Sac. Dolindo Ruotolo

30.03.2014 - Commento a Efesini cap. 5, par. 2

2. Imitiamo Dio nella misericordia, e Gesù Cristo nella carità.
I primi due versetti di questo capitolo sono la chiusa e la conferma dell’esortazione con la quale san Paolo, nella fine del capitolo precedente, aveva premurato gli Efesini ad essere benigni gli uni verso gli altri, misericordiosi, facili a perdonare scambievolmente, come Dio aveva loro perdonato pe...
r Cristo (versetto 23). Siate, dunque, imitatori di Dio come figli carissimi - egli soggiunge - e camminate nella carità siccome anche il Cristo ci ha amati, ed ha dato se stesso per noi a Dio, quale oblazione e vittima di soave odore.
I figli hanno il dovere di imitare il proprio padre, e voi, figli adottivi di Dio, dovete imitarlo nella sua misericordia. Egli per salvarci ci ha dato suo Figlio, e voi, amati dal Redentore fino al sacrificio della sua vita, dovete amarvi anche col sacrificio della vostra vita, camminando in quella carità che Egli è venuto ad accendere sulla terra. Egli si è donato a Dio per voi quale oblazione e, secondo il significato greco di questa parola, in sacrificio volontario, e quindi per amore; si è dato come vittima di soave odore e, secondo il greco, come ostia cruenta, nel sacrificio della croce, ostia di soave odore, non perché bruciata dalla fiamma, come le antiche ostie che erano figura di Lui, ma perché arso dalla sua infinita carità, e perciò voi dovete ardere del suo amore e della sua carità verso i vostri fratelli, per imitarne l’esempio.
Non può concepirsi un cristiano, figlio di Dio, che non usi misericordia come Dio la usa né può concepirsi priva di carità ed egoista un’anima redenta dall’amore e dal sacrificio del Figlio di Dio incarnato. È questo il motivo sommo dell’amore e della misericordiosa carità che deve ardere nei nostri cuori. Le creature di per sé non possono avere attrattiva alcuna per noi, perché sono quasi sempre ingrate verso chi le benefica e ripugnanti per le loro miserie ma, riguardandole come figlie dell’unico Padre celeste e sommamente amate da Gesù Cristo, ci fanno amare Dio in loro, e ci fanno in loro onorare e ringraziare Gesù Cristo che si è donato tutto ad esse ed a noi.
L’impurità, causa di tanti mali
Dall’armonia della carità san Paolo passa a parlare dell’armonia della vita, che non può ridursi ad un abbrutimento, ma che ci è stata data dal Signore per lodarlo, amarlo e servirlo. I peccati della carne distruggono questa santa armonia, e sono una contraddizione stridente con la professione cristiana, che è eminentemente professione di santità. Perciò san Paolo soggiunge con forza particolare: Fornicazione, poi, e qualsiasi altra impurità o avarizia neppure si nomini tra voi, come si addice ai santi. Tra cristiani simili azioni debbono essere così lontane dalla loro vita da non ingenerarne neppure il sospetto, di modo che non si nomini neppure tra loro il vizio impuro o / ’avarizia, ossia l’avidità delle ricchezze, così connessa con l’impurità, non potendosi dar corso a certe ignobili passioni senza denaro.
Il cristiano deve fuggire non solo le azioni impure ma anche i discorsi a doppio senso o addirittura sfacciati, e persino gli scherzi e le satire che riguardano oggetti impuri; né oscenità - dice san Paolo - o discorsi vani o buffonerie grossolane, che sono cose indecenti per un cristiano, ma piuttosto ringraziamenti a Dio, ossia discorsi eucaristici, lodi elevate al Signore, e discorsi di eterna vita.
I pagani, ignorando la legge di Dio, si servivano della lingua per dare sfogo almeno con le parole oscene alla loro impurità; i cristiani dovevano essere così puri da non trascendere mai, anche nelle parole, con discorsi impuri. Non tendevano essi alla vita eterna? Non dovevano così ereditare il regno di Cristo e di Dio? Ebbene, gli impuri e gli avari, idolatri della carne e del denaro, non potevano aspirare a questo regno, ma solo all’eterna perdizione. Sappiatelo bene - soggiunge san Paolo - nessun fornicatore o impudico o avaro, il che significa essere idolatri, sarà erede del regno di Cristo e di Dio.
Contro tale verità a nulla valevano i vani ragionamenti di quelli che si sforzavano di persuadere che i peccati carnali non erano così gravi come si diceva, e i cristiani non dovevano lasciarsi sedurre da tali ragionamenti, pensando, anzi, che tutti i flagelli venivano sulla terra per tali peccati: Nessuno vi seduca con vani ragionamenti — dice perciò l’Apostolo - poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli ribelli. Non vogliate, dunque, accomunarvi a costoro nella colpa, per non essere accomunati ad essi nella pena. Un tempo, infatti, voi eravate tenebre, quando nel paganesimo ignoravate la Legge di Dio, e commettevate i peccati impuri per colpevole ignoranza della loro gravità; ora, invece, siete luce nel Signore, siete illuminati dalla luce della verità, e per l’unione con Gesù Cristo che è la stessa luce, siete fulgenti della luce della grazia, e dovete camminare come figli della luce vivendo santamente, poiché il frutto della luce della fede ricevuta per il santo Battesimo consiste in ogni sorta di bontà, di giustizia e di verità, non per semplice onestà naturale, ma per profondo convincimento della coscienza e per amore di Dio, esaminando quale cosa sia accetta al Signore.
Non partecipate, dunque, alle opere infruttuose delle tenebre, cioè a quelle azioni turpi che sono frutto delle tenebre e non producono alcun frutto per la vita eterna; anzi, con l’esempio vostro e con la vostra parola riprendetele, poiché tutto quello che si fa da quelli che vivono nelle tenebre, e si fa di nascosto, nel segreto del loro cuore o delle loro case, è turpe anche solo a dirsi.
Se voi con la vostra vita e le vostre parole mostrate di riprovate le azioni dei pagani, voi le mettete in chiaro nella loro turpitudine con la vostra luce, e questa vostra riprovazione per loro è luce che li illumina risvegliandoli dal loro sonno di morte, e facendoli risorgere a vita novella per Gesù Cristo che li illuminerà chiamandoli alla fede. Per questo san Paolo soggiunge: Tutto ciò che è riprovato è messo in chiaro dalla luce, poiché tutto quello che è manifestato è luce. Perciò dice la Scrittura: Svegliati, tu che dormi, e risorgi dalla morte, e Cristo t ’illuminerà.
Le parole della Scrittura che san Paolo cita, sono due passi di Isaia fusi insieme da lui, e citati assai liberamente (60,1; 26,19). Il profeta si rivolgeva a Gerusalemme peccatrice, ed alludendo manifestamente al Messia che sarebbe venuto per illuminarla, esclama profeticamente: Sorgi, ricevi la luce, o Gerusalemme, perché la tua luce è venuta. Evidentemente il Redentore non sarebbe venuto per illuminare solo Gerusalemme, ma tutto il mondo, ed avrebbe ridestato dalla morte del peccato tutti i peccatori, e perciò l’Apostolo cita le altre parole profetiche con le quali Isaia si rivolgeva ai peccatori Israeliti, e per essi a tutti i peccatori: Svegliatevi e cantate inni di lode, voi che abitate nella polvere (26,19); san Paolo, applicandole a tutti i peccatori chiamati alla nuova vita della Grazia, ne mostrava il compimento in Gesù Cristo, soggiungendo: E Cristo t’illuminerà. Gesù Cristo, luce della Chiesa e del mondo, ha risvegliato i peccatori dal loro sonno di morte nel peccato, e Gesù Cristo li ha fatti risorgere dalla loro morte illuminandoli con la sua dottrina e con la sua grazia.
Gli Efesini avevano anch’essi ricevuto il dono di tale chiamata dal sonno di morte, di tale risveglio a vita nuova e di tale grazia, e non dovevano renderlo vano, ricadendo da stolti nel peccato, e perdendo il tempo loro concesso per salvarsi, tanto più che, vivendo tra pagani, erano esposti al pericolo di essere nuovamente sopraffatti dalle tenebre, allontanandosi dal compimento della divina volontà che era la loro santificazione. Perciò l’Apostolo soggiunge: Badate, dunque, o fratelli, a come vi comportate, non da stolti ma da sapienti, recuperando il tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate, dunque, inconsiderati, ma comprendete bene quale sia il volere di Dio.
Inebriamoci di Spirito Santo!
Proseguendo nei suoi ammonimenti salutari, l’Apostolo mette in guardia gli Efesini contro un altro vizio dei pagani, ed esclama: Non v’inebriate di vino nel quale è lussuria, ma siate ripieni di Spirito Santo, ed intrattenetevi fra di voi con salmi, inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando dal fondo dei vostri cuori al Signore, rendendo sempre grazie per ogni cosa a Dio Padre nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. L’ubriachezza è un’esaltazione dei sensi e soprattutto dell’impurità, che dà all’ubriaco o al semplicemente brillo una sovrabbondanza sconnessa di parole, una forza di cantare ed un’allegria smodata. San Paolo oppone a questa degradante ebbrezza la santa esaltazione che viene dalla pienezza dello Spirito Santo, per la quale l’anima canta a Dio e lo loda con salmi dal fondo del suo cuore, ringraziando Dio di tutti i suoi benefici e le sue misericordie nel nome del Signor nostro Gesù Cristo.
Il canto dei salmi e degli inni sacri era molto in uso nella Chiesa primitiva, ed era come un continuo inno di ringraziamento e di amore che si elevava a Dio in mezzo alle grandi tribolazioni dalle quali erano afflitti i cristiani per le persecuzioni pagane. Attraverso questi inni di pace e di amore rifulgeva la pace che inondava i loro cuori per la grazia di Dio, della quale erano in possesso. Essi riconoscevano dal Signore ogni bene, e riguardavano come un bene anche i dolori della vita, che erano per loro un’occasione di merito e l’ingresso trionfale alla vita eterna.
Il vero significato del Matrimonio cristiano
Dai doveri della vita interiore dei cristiani, san Paolo passa a parlare dei doveri nella vita domestica e nella vita sociale, dove la garanzia dell’ordine sta nella gerarchia, e quindi nella sottomissione e nell’obbedienza degli inferiori ai superiori. Egli annuncia prima un principio generale: Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo, e poi parla di quelli, che come inferiori, sono obbligati a questa sottomissione: le spose, i figli e i servi. Le mogli siano soggette ai mariti come al Signore, egli esclama, perché il marito è il capo della donna, come Cristo è il capo della Chiesa che è il suo corpo, di cui Egli è il Salvatore. Non è una sottomissione di schiavitù o di oppressione, ma una sottomissione di amore, di protezione e di salvezza.
La donna si sente difesa dal marito, e gli obbedisce per avere una guida nella sua difficile vita. Questo concetto della sottomissione delle mogli, impone perciò ai mariti il dovere di amarle: Voi, o mariti - soggiunge l’Apostolo - amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa, e per essa ha dato la sua vita, a fine di santificarla col lavacro dell’acqua, mediante la parola della vita, per far comparire davanti a sé questa Chiesa rivestita di gloria, senza macchia né ruga o altro che di somigliante, ma tutta santa ed immacolata.
L’amore dei mariti per le loro mogli deve avere per modello l’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa, e quindi non può essere un amore puramente sensuale o una simpatia capricciosa, che è destinata a dissiparsi con lo sfiorirsi della bellezza fisica che la può produrre.
Gesù Cristo ha dato la vita per la sua Chiesa, al fine di santificarla; Egli unisce a sé le sue membra vive col lavacro dell’acqua, ossia col Battesimo, che opera la purificazione mediante la parola della vita ossia mediante la formula sacramentale che accompagna l’effusione dell’acqua. In tal modo la Chiesa compare innanzi a Lui rivestita di gloria, senza macchie né ruga o alcunché di simile, ma tutta santa ed immacolata. Le spose prima di andare a nozze facevano un bagno purificatore per il corpo, e Gesù fa ai membri della sua Chiesa un lavacro di grazia che li rende puri da ogni macchia. Dolorosamente, questi membri perdono l’innocenza avuta nel Battesimo, ma rimangono sempre nella Chiesa gli infanti che la conservano, e quelli che la riconquistano con la penitenza. Ora, come Gesù Cristo ama la Chiesa santificandola, i mariti debbono amare le mogli per la mutua santificazione, poiché essi formano con esse come un solo corpo del quale rappresentano il capo, e debbono amare la loro santificazione come amano la propria santificazione.
Gesù Cristo ama la sua Chiesa non solo purificandola ma nutrendola col suo Corpo e col suo Sangue nell’Eucaristia. Egli lasciò il seno del Padre e venne in terra per donarsi tutto alla sua Chiesa, e formare con essa un sol Corpo mistico, e il marito deve amare la sua donna nutrendola col suo lavoro, e donandosi ad essa con un amore superiore ad ogni altro amore, e persino all’amore che si ha verso il proprio padre e la propria madre, secondo quello che Dio stesso disse nell’istituire il Matrimonio, come si legge nel Genesi (2,24): Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre sua, e si unirà alla sua donna, e i due formeranno una sola carne. Il Matrimonio riguardato nel suo alto significato dell’amore di Gesù Cristo per la sua Chiesa, e dell’amore della Chiesa per Gesù Cristo, è un grande Sacramento, e per questo Sacramento e il significato grande che ha - soggiunge l’Apostolo - ogni marito ami la propria moglie come se stesso, e la moglie rispetti il marito riguardandolo come suo capo, obbedendo a lui in tutto quello che è conforme alla Legge di Dio, e riguardandolo come suo sostegno e sua difesa nel pellegrinaggio terreno.
Sac. Don Dolindo Ruotolo

30.03.2014 - Commento a 1Samuele cap. 16, par. 2

2. L’elezione di David ed i primi lineamenti dei Re d’Amore.
David fu la figura più luminosa del Redentore, e però in tutta la sua storia ne portò impressa l’immagine. Saul, rigettato da Dio, non Lo figurava più, neppure imperfettamente; era come ombra ricacciata dai raggi del sole, era come nube o come fumo dissipato dal vento. A volte succede che le nubi prendano delle forme strane; tu le vedi e sembrano colossali animali appiattati, colonne erette nel cielo, greggi di pecorelle; mentre le contempli viene il vento, le trasforma, le dissipa. Così era la figura di Saul; il vento del peccato e della disobbedienza l'aveva dissipata; oramai non era che un cumulo nero, pronto a scaricarsi in pioggia irruente.
Sembrerebbe che il Signore fosse stato severo quando disse a Samuele : “ Fino a quando piangerai tu Saul, mentre io l’ho rigettato perché non regni sopra Israele? „ Sembrerebbe che Egli non avesse voluto quelle lagrime di compassione e di preghiera per avversione a Saul, ma non è così. Dio è sempre misterioso amore in ogni sua parola, in ogni suo atto; l'uomo tante volte lo giudica male perché non lo intende; è strano anzi che l’uomo giudichi Dio come si suol giudicare uno contro il quale si ha un preconcetto, una prevenzione; tutto s'interpreta in male, tutto sembra mal fatto, di tutto si dà una spiegazione-pessimista. Se un’affermazione la fa uno scienziato, noi curviamo la fronte senza discuterla, anzi l'ammiriamo anche senza comprenderla; se un atto è compiuto da uno che ci ha fatto il più piccolo benefizio , noi lo giudichiamo ottimamente ; a volte le più brutte stoltezze dette da personaggi celebri ci sembrano genialità; le più crudeli manifestazioni di odio ci sembrano giustizia e forza di carattere; solo quando parla Dio dubitiamo, e quando agisce Dio, interpretiamo tutto in male e ci occorre più che l'evidenza per applaudire alla sua bontà. Persino le anime pie e buone combattono contro le più strane tentazioni quando si tratta di Dio. È questa una delle forme più ripugnanti della nostra ingratitudine, è una delle manifestazioni più gravi della nostra scempiaggine,poiché noi ci facciamo ingannare dalle suggestioni di satana, e siamo come le femminucce di strada che danno peso ad ogni calunnia, ad ogni sospetto, ad ogni insinuazione maligna sul prossimo loro.
Dio non vuole che Samuele pianga più oltre su di Saul, non perché riprovi quella compassionevole carità, ma perché spunta all'orizzonte la luminosa figura del Re immortale dei secoli che ci portò la gioia. Dio parla secondo le sue grandi vedute, secondo i suoi disegni mirabili; si direbbe che Egli è preso dalla gioia vedendo delinearsi all'orizzonte la piccola nube che doveva diventare un giorno pioggia salutare di grazie. Oh ! Dio non guarda Saul con volto severo, non lo perseguita, poiché Egli è onnipotente nel perdonare ; Egli guarda in lui il termine del regno della servitù e del peccato, guarda in lui il tramonto di ciò che era inquinato dalla disobbedienza del primo uomo; prescinde dall’individuo, guarda lontano ad un orizzonte più vasto, scorge Betlem dalla quale doveva un giorno nascere il Verbo umanato, e vuole che Samuele vada là e non pianga, perché quel cielo, quei monti, quelle valli risuoneranno della fatidica gioia degli Angeli : Gloria in excelsis Deo, gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà.
Dio manda il Profeta a Betlem non con un vasetto di olio, ma vuole che riempia il corno, simbolo di abbondanza e di fortezza, lo riempia di olio, simbolo di grazia, per ungere il nuovo Re, perché il Re d'Amore sarà inondato di grazia, sarà grande, sarà fermo sul suo trono. E Dio lo manda ad Isai in Betlem, dicendogli che si era provveduto un Re fra i suoi figli; lo manda ad Isai che significa chi esiste, e dono di Dio, poiché nel nome stesso del padre di David rifulgeva, la luce del mistero futuro. II vero David, il Figlio del Padre, il Verbo umanato doveva essere Re; lo mandava il Padre, chi esiste, Isai ; lo faceva concepire Io Spirito Santo, il dono di Dio, Isai, dal seno di una purissima Vergine.
Samuele esita, non vuole andare a Betlem, perché teme che Saul lo uccida sapendolo. Sembra che Dio gli suggerisca una doppiezza, ingiungendogli di condurre con sé un vitello e di dire che è venuto per sacrificare al Signore, chiamando Isai a partecipare all’immolazione della vittima. Ma che doppiezza ! Dio parla nella sua infinita luce : Saul, la morte, il peccato, si avanza verso Samuele, verso colui che domandato da Dio, è posto da Dio, ha un nome ricevuto da Dio, Gesù Salvatore, è di Dio, qui fuit Dei; si avanza perché l'ha visto in Betlem, nato da donna, in carne mortale. Ma il Salvatore porta con sé la vittima, porta con la mano il vitello, poiché la sua carne stessa è la vittima, la sua mano la fermerà sull'altare della Croce, ed Egli può dire nascendo in Betlem : Sono venuto per sacrificare al Signore. Dio non suggeriva dunque a Samuele una doppiezza e tanto meno una menzogna, ma in quelle misteriose parole esprimeva la missione del Redentore: Sono venuto per 'sacrificare al Signore. E perciò invitava al sacrifizio della vittima Isai, chi esiste, il dono di Dio, poiché sul Calvario, con la Vittima divina, ci fu il Padre e l'Amore; perciò dice che dopo il sacrifizio gli mostrerà quello che deve fare, e gli farà ungere colui che gl'indicherà, poiché dopo l’immolazione del Calvario l'uomo conobbe per l'effusione dello Spirito Santo quel che doveva fare, ed ebbe nel suo mortale cammino il Cristo visibile, l’unto di Dio, il Papa. È grandioso questo intreccio di figure e di simboli in pochi righi, e ci mostra quanto è grande Dio nei misteri della sua parola. Si direbbe che di fronte alla figura viva del Suo Figliuolo umanato, lo stile divino cresca in una sublimità lirica che dà le vertigini.
Samuele andò in Betlem, e gli anziani della città ne rimasero meravigliati, o secondo il Testo originale, ne rimasero spaventati; credevano che fosse venuto così improvvisamente per infliggere un castigo, c fosse venuto perché Saul lo perseguitasse; perciò gli domandarono ansiosi: — La tua venuta è pacifica? — Nella commozione della città di Betlem, alla venuta di Samuele, si sente l'eco profetica della commozione di Gerusalemme alla notizia della nascita dell' Infante divino. Ma Egli, senza essere interrogato, fece anticipatamente rispondere dagli Angeli che la sua venuta era pacifica: in terra pax. E rispose Egli stesso con la sua povertà, col suo annichilamento, col suo amore: — Sono venuto per immolare al Signore.
Samuele santificò Isai ed i suoi figliuoli e li chiamò al sacrifizio; li santificò con la lavanda delle vesti e con la continenza, e riservò a sè questa santificazione. Così Dio santificò la famiglia nella quale doveva nascere il Redentore; riservò a Sè questo miracolo di grazia, e formò quei colossi di santità che furono S. Gioacchino, S. Anna e S. Giuseppe, e sopra tutto santificò la Vergine Immacolata. Anche il Verbo Umanato prima di compire il suo sacrifizio santificò la famiglia sua, gli Apostoli, dai quali, doveva scegliere l'Unto del Signore, il suo Vicario in terra, il Papa.
Samuele, avendo eletto una volta Saul per la. sua bellezza e per la sua statura, non sapendo chi fosse l’eletto di Dio nella famiglia di Isai, spontaneamente fermò il suo occhio su Eliab, che era il più bello ed il più alto dei presenti, e domandò al Signore se quello fosse l’eletto. Ma il Signore gli rispose di non fermarsi questa volta alle apparenze, perchè Egli aveva anzi rigettato Eliab, e disse quelle profonde e belle parole : " L’uomo riguarda le apparenze, ma il Signore guarda il cuore „. Da queste parole si rileva che Eliab doveva essere cattivo e che il Signore lo aveva rigettato.
Samuele, avvisato così da Dio sul conto di Eiiab, manifestò ad Isai che non era quegli l'eletto. Isai allora gli presentò successivamente Abinadab e Samma; ma non erano essi gli eletti alla dignità regale. Fece venire il resto dei sette figli che si trovavano in casa, ma nessuno di questi era l’eletto. Dal primo Libro dei Paralipomeni (11-15), conosciamo il nome di tre dei quattro figli presentati ad Isai' dopo Eliab, Abinadab e Samma; essi si .chiamavano Natanael, Raddai ed Ason; dell’altro non si fa parola perché dovette morire presto.
Nessuno dei figli presentati era l’eletto di Dio. È da notarsi che Samuele per prudenza non fece sapere a quale fine ricercasse uno dei figli d’Isai per ungerlo; temette che avrebbero potuto riferire la cosa a Saul. Fece intendere solo che doveva essere eletto a qualche cosa di grande, e per questo Isai non pensò neppure al più giovane dei suoi figli che pascolava le pecore. Ma Samuele lo fece chiamare, poiché proprio il più piccolo ed il più spregiato era l’eletto di Dio. Venne David, che significa il diletto-, era rosso, cioè biondo, cosa molto rara in Oriente, dove i capelli sono neri; era di bell’aspetto, o come dice l’ebraico, era bello negli occhi, ed aveva il viso avvenente. Samuele, spinto da Dio, si levò e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e da quel giorno lo Spirito del Signore si posò su David, si posò sopra di lui lo spirito di fortezza, di prudenza, di consiglio e di profezia.
David stava a pascolare le pecore per obbedire al padre, e fu eletto ; non appariva quasi fra i suoi fratelli, poiché era il più piccolo, e fu eletto fra essi, con onore pubblico. Ecco i lineamenti del Re d’Amore: per obbedienza venne in terra a raccogliere e pascolare le sue pecorelle, e fu eletto fra molti fratelli, come dice S. Paolo; tratto dal nascondimento del suo lavoro, comparve come il più bello dei figliuoli degli uomini. Anch’Egli come David era biondo, aveva gli occhi bellissimi, poiché da essi non rifulgeva solo l’anima ma ancora la Divinità sua.
I figliuoli presentati da Isai in un primo momento, non furono eletti; Eliab, Abinadab, Samma, Natanael, Raddai, Ason, nei loro nomi sintetizzavano la storia di tanti eventi e di tante gioie familiari, giacché si sa che il nome veniva spesso imposto da una circostanza della nascita, ma essi, nel disegno di Dio, rappresentavano la riprovazione del popolo. Per questo il Signore stesso, quando gli si presentò Eliab, disse con forza a Samuele che lo aveva rigettato; degli altri figli di Isai invece è detto semplicemente che non furono eletti. Ma Eliab significa il popolo di Dio, e di fronte a David che significa il diletto, rappresentava il popolo ebreo di fronte al vero diletto del Padre-, ora il popolo ebreo fu rigettato da Dio per la sua iniquità; e si elevò fra molti fratelli Colui sul quale risuonò la voce del Padre : " Questi è il Figlio mio diletto, nel quale ho posto tutte le mie compiacenze Fu rigettato Eliab, perchè Dio disse che guardava il cuore e non giudicava secondo le apparenze; ed allo stesso modo fu rigettato il popolo di Dio, Eliab, perchè aveva il cuore lontano dal Signore, secondo quello che disse Gesù Cristo medesimo. La figura del Redentore, dunque, fin dal principio del regno di David si presenta luminosa e stupenda in mezzo alle oscure nebbie del futuro.

venerdì 28 marzo 2014

29.03.2014 - Vangelo Lc 18, 9-14

Dal Vangelo secondo San Luca
9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Parola del Signore

29.03.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 18, par. 2

2. Pregare con costanza e con umiltà. Semplicità dei bambini
Avendo Gesù accennato nel capitolo precedente alle tribolazioni degli ultimi tempi del mondo, esorta i suoi alla preghiera continua, costante e quasi importuna, per ottenere la misericordiosa giustizia di Dio contro le ingiustizie dei persecutori. Negli ultimi tempi, infatti, sarà tanta l'iniquità degli uomini e così generale l'apostasia che qualunque rimedio o iniziativa umana sarà impossibile; rimarrà solo il grande mezzo della preghiera, e Gesù esorta tutti a fame uso, raccontando una parabola, nella quale caratterizza l'indole dei capi di Stato degli ultimi tempi.
C'era un giudice in una città, il quale non temeva Dio e non aveva riguardi per gli uomini. Era scettico, miscredente, privo di ogni concetto di superiore giustizia e per conseguenza non aveva alcun senso di rispetto o di carità per gli uomini.
Questa malvagia caratteristica noi la vediamo già nei capi atei o miscredenti di tanti Stati moderni, i quali non conoscono la giustizia ma il delitto o la sopraffazione.
C'era in quella città una vedova che aveva ricevuto qualche grave torto o danno, ed incapace di difendersi con le sue forze, perché vedova, ricorse al giudice iniquo. Ma inutilmente, giacché egli non se ne curò e la disprezzo. Essa però non si stancò di supplicarlo e si rese così importuna che il giudice, annoiato, per non essere tormentato dalle sue insistenze, la contentò.
Con questa parabola Gesù fece un argomento dal meno al più: se un giudice iniquo, al quale non importava nulla della giustizia, finì per cedere alle insistenti preghiere della vedova, Dio, che è giustizia per essenza, non ascolterà la preghiera di chi lo invoca giorno e notte contro le sopraffazioni degli empi?
La preghiera che può conquidere un uomo scellerato con l'importunità non conquiderà l'infinita bontà di Dio con l'amore? Egli ascolterà chi lo supplica, e non sarà lento, ma prontamente renderà giustizia.
Gesù dà la ragione di questa sua esortazione e dice chiaro per quali tempi principalmente la fa, soggiungendo: Quando il Figlio dell'uomo verrà, credete voi che troverà fede sopra la terra?
Ecco i tempi nei quali sarà più che mai urgente pregare. Verrà il Figlio dell'uomo in una straordinaria effusione di grazie nella Chiesa e per la Chiesa, ma troverà le anime senza fede ed estremamente rilassate; verrà negli ultimi tempi per giudicare tutti, ed apparirà glorioso quando l'apostasia sarà quasi completa sulla terra; in questi tempi i pochi fedeli superstiti, sbattuti da fierissime persecuzioni ed impossibilitati a difendersi, potranno trovare scampo solo in Dio, e lo troveranno pregando immediatamente.
Sono vicini i tempi predetti da Gesù?
I tempi predetti da Gesù già si delineano in tante nazioni, dove l'apostasia e l'ateismo fanno strage, e dove le persecuzioni, manifeste o subdole, lasciano i fedeli senza aiuto e senza difesa, in balìa degli uomini più perversi.
La situazione presente del mondo è tale che non si vede quale possa esserne il rimedio efficace.
Alcuni sperano persino in una guerra generale e lo auspicano, senza pensare che la guerra è un terribile castigo che lascia sempre una scia di altri castighi spirituali e materiali. Altri s'illudono di poter conquidere i despoti del mondo, senza pensare che, avendo essi in mano la potenza brutale, non si lasciano né convincere né conquidere. Ci può solo la preghiera e per questo la Chiesa in questi tempi la intensifica e cerca sgominare gli empi con questa sua potenza grandiosa, che è quasi un bombardamento dall'alto fatto sulle loro posizioni fortificate.
Chi sente parlare di preghiera quando incombe un pericolo grave, quasi sogghigna, pensando ad un'ingenua illusione. Si può dire, infatti, che, inconsciamente, chi più chi meno, quasi tutti hanno la convinzione dell'inefficacia della preghiera e la credono un ripiego ed una fanciullata nei momenti nei quali stimano urgente l'agire e l'irrompere.
Questo stato interiore così falso deriva dal fatto che ognuno conta al suo attivo parecchi insuccessi in ordine alla preghiera; anzi, a volte, gl'insuccessi rivestono il carattere d'un fallimento completo. Nessuno pensa di pregare male o di non pregare addirittura, pur facendo molte orazioni; nessuno si umilia sinceramente quando non è esaudito, o quando si presenta al Signore per supplicarlo, ed in realtà può dirsi che rare volte noi domandiamo veramente. Perciò Gesù con una parabola volle rivelarci quale è l'atteggiamento dello spirito che rende inefficace od efficace la preghiera. È una cosa importantissima che bisogna ponderare, perché la preghiera ci è indispensabile più del pane.
Il fariseo e il pubblicano
Due uomini andarono al tempio per pregare; uno era fariseo, pieno di sé, orgoglioso, sprezzante, e l'altro era pubblicano, cioè era uno degli esattori pubblici, stimati dal popolo come esosi peccatori. Il fariseo cominciò a pregare in una maniera strana: stava ritto in piedi, con atteggiamento tracotante e, più che pregare, cominciò ad elogiarsi ringraziando ipocritamente Dio delle buone qualità che presumeva di avere, ma in realtà compiacendosene dentro di sé, e mettendosi al di sopra degli altri ed al pubblicano, con senso di profondo disprezzo per essi. Alle sue pretese buone qualità civili, diciamo così, aggiunse quelle religiose, limitandole al digiuno ed alla paga delle decime e dimenticando completamente gli atti di vero culto a Dio e l'umile adorazione della sua maestà.
Non è improbabile che Gesù abbia formato la parabola su di un fatto realmente avvenuto; ad ogni modo Egli sintetizzò nella preghiera del fariseo l'atteggiamento della falsa pietà e manifestò le ragioni per le quali la preghiera riesce inefficace.
L'anima sta ritta in piedi innanzi a Dio, quando presume di se stessa e manca di umiltà; sta ritta quando pretende che Dio la esaudisca e, più che pregarlo, vuole imporsi alla sua maestà, non di rado bestemmiandolo larvatamente. Nel suo atteggiamento superbo il fariseo pregava dentro di sé, non pregava Dio, e le sue parole tracotanti rimanevano in lui e non giungevano al trono dell'Altissimo come non vi giungono quelle di coloro che pregano con tracotanza.
Pregava dentro di sé, letteralmente, biascicava fra sé le parole che diceva, perché in realtà l'anima sua non si espandeva né si elevava in Dio.
Pregava, ma in realtà si elogiava, dicendo che non era come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e non si accorgeva che con l'atto di superbia che faceva era rapace della gloria di Dio, ingiusto verso il prossimo che giudicava male, e adultero, almeno spiritualmente, per le innumerevoli e gravi infedeltà che faceva alla divina Legge.
Quante volte noi preghiamo con disposizioni di spirito capaci di farci condannare, perché portiamo nel cuore le miserie dei nostri peccati e facciamo recriminazioni contro il prossimo? Invece di supplicare, contendiamo con Dio e crediamo ingiuste le disposizioni della sua provvidenza, ribellandoci a Lui proprio nell'atto nel quale più dovremmo conciliarci la sua misericordia!
Invece d'implorare, riconoscendoci miseri e bisognosi, ci crediamo degni di essere esauditi; il nostro maledetto orgoglio ci chiude le porte della grazia ed il Signore non può esaudirci.
Com'è bello ed efficace il pregare come il povero pubblicano, che non osava neppure alzare gli occhi al cielo e, percuotendosi il petto, diceva al Signore: Abbi pietà di me che sono un peccatore! Riconosciamoci peccatori, perché dolorosamente lo siamo; confessiamoci indegni delle divine misericordie, umiliamoci profondamente e Dio ci esalterà con la sua grazia e le sue misericordie. Chi presume di sé è umiliato e non ottiene grazie; chi si umilia innanzi a Dio è esaltato e si vede subito esaudito in ciò che domanda.
Il pubblicano implorò misericordia ed ebbe misericordia, uscendo dal tempio giustificato, cioè rimesso in grazia di Dio; il fariseo si lodò, esaltando la propria pretesa giustizia, ed uscì condannato dalla casa di Dio, perché il modo stesso col quale parlava mostrava chiaramente che il bene del quale si vantava l'aveva fatto per vanità e per essere stimato dagli uomini. Era, dunque, un bene effimero che meritava di essere ripudiato da Dio.
Nel pregare preoccupiamoci prima di tutto di ristabilire la nostra amicizia con Dio; domandiamogli perdono dei nostri peccati, umiliamoci per averli commessi ed imploriamo la grazia di non peccare mai più. Quando stiamo in grazia di Dio, tutti i beni temporali dei quali abbiamo bisogno ci vengono per sovrappiù, e la misericordia divina ci esalta anche nella vita presente, dandoci una vita di pace nel pieno abbandono al suo amore.
Negli ultimi tempi del mondo, ai quali Gesù si riporta esortandoci alla preghiera, ci sarà, come già c'è, una grande recrudescenza di orgoglio; ognuno crederà di essere un superuomo, prendendo innanzi a Dio un atteggiamento di tale presunzione da meritare di essere riprovato e condannato. L'orgoglio è e sarà la causa di gravi tribolazioni per la terra, è e sarà la causa principale di quell'apostasia dalla fede, che riduce e ridurrà le povere nazioni come campi trincerati di spaventose lotte. A quest'orgoglio bisogna opporre la nostra umiltà, e riparare le ingiurie che si fanno al Signore annientandoci al suo cospetto e gridando alla sua bontà infinita: Abbi pietà di noi che siamo peccatori.
I fanciulli e il regno di Dio
Mentre Gesù parlava della necessità di umiliarci innanzi a Dio, condussero a Lui dei fanciulli perché li avesse benedetti, toccandoli. Siccome essi facevano frastuono, gli apostoli li sgridavano, cercando così di allontanarli. Ma Gesù, chiamatili a sé, disse: Lasciate che i fanciulli vengano a me e non vogliate loro vietarlo, poiché di questi è il regno di Dio. E soggiunse: In verità vi dico: Chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo non vi entrerà.
Opportunamente la ressa dei fanciulli gli diede modo di completare la sua grande lezione di umiltà: non si può andare a Dio con la prepotenza di chi si crede forte o grande; bisogna andarvi con l'animo umile e semplice dei fanciulli.
Chi vuole presumere di penetrare le cose divine senza umiltà si trova avvolto da maggiori tenebre, non gusta le cose celesti e si smarrisce nella confusione della propria ragione.
Oh, se sapessimo andare a Dio come piccoli figli al Padre amorosissimo, quanto la nostra vita sarebbe più calma e piena di luce e di benedizione! Oggi invece si pretende rendere adulti i fanciulli, distruggendo la serenità della loro età, infarcendola persino di idee politiche e traviandola con aspirazioni guerriere. È un delitto spaventoso, proprio dei nostri tempi, e Gesù lo condannò con le sue divine parole: Lasciate che i fanciulli vengano a me. Non possono andare che da Lui, poiché Egli solo sa formarli e sa trarre dal loro cuore innocente i tesori che vi sono nascosti. Il mondo moderno pretende formare una generazione di eroi, e forma una genìa di delinquenti; crede di disciplinare la gioventù e la rende spaventosamente ribelle ad ogni legge; toglie all'infanzia le gioie dell'innocenza e rende pesante ed infelicissima la vita fin dal suo schiudersi.
La fede sboccia e prospera nell'anima semplice ed innocente come quella di un fanciullo. Quando si pretende contendere con Dio, si smarrisce il suo lume, si cade nella confusione delle proprie idee, si fantastica con mille stupide trovate, si perde la verità e la pace, e si vive una vita infelicissima.
Proponendoci i fanciulli come modello di semplicità e di sottomissione, è chiaro che Gesù non ci propose l'infanzia sbrigliata, ma quella che andava a Lui e viveva delle sue benedizioni. Ci additò le qualità naturali dell'infanzia come modello, e non le deviazioni che anche in quell'età possono verificarsi; ci parlò della fanciullezza, in altri termini, e non dei singoli fanciulli, i quali tanto spesso sono tutt'altro che esempi di semplicità, di virtù e di sottomissione alla divina volontà.
Custodiamo nel cuore il preziosissimo dono della fede, e preferiamo mille volte lasciare nell'oscurità la povera ragione, anziché immergerla nelle esasperanti luci di fiammeggianti incendi di stoltezza e di passioni. La santa oscurità della fede brilla sempre di stelle, come il firmamento e diventa tutta folgori nell'umiltà del cuore; la pretesa luce della ragione è sempre piena di fosche nubi di tempesta e getta l'anima nelle opprimenti tenebre dell'uragano. Signore, Signore, donaci il tesoro della fede semplice, e fa che riposiamo come bimbi nelle tue braccia paterne.
Sac. Dolindo Ruotolo

29.03.2014 - Commento ad Osea cap. 6, par. 2-4

2. I frutti salutari del castigo che Dio minaccia ed annunzia al popolo suo. - Splendida profezia della venuta del Redentore e della Resurrezione sua. - Durezza d’Israele e di Giuda.
Nel capitolo precedente il Signore aveva detto che avrebbe dilaniato Israele come una leonessa dilania la sua preda, e Giuda come un giovane leone che la prende tra le potenti zampe e non la lascia. Erano espressioni di un immenso amore sotto un simbolo truce, perché Egli soggiunse subito che li avrebbe ridotti all’estremo perché avessero cercato Lui solo.
Ora continua a mostrare che l’amore lo faceva parlare duramente, annunziando quello che la tribolazione profetizzata produrrà nel suo popolo.
Se Egli avesse voluto irrompere contro di lui per ira e per vendetta, lo avrebbe distrutto e subissato, e il popolo non sarebbe stato capace di risorgere e di ritornare al suo infinito amore. Esso, invece, colpito dalla sventura e da essa dilaniato, sorge fin dal mattino per venire a Lui, e, secondo l’espressione greca, sorge come svegliandosi da uno stato di pazzia, poiché il peccato è veramente una pazzia, ed è così preso dal desiderio di ritornare al suo Dio, che si esortano gli uni gli altri a non frapporre indugi, riconoscendo nella sventura un castigo divino più che un succedersi di eventi fatali, e rianimando la loro speranza nella rinascita nazionale: Venite e torniamo al Signore, poiché Egli stesso ci ha dilaniati e ci salverà, ci ha percossi e ci guarirà.
Il primo grado, infatti, della resipiscenza di un popolo traviato e percosso dal flagello, è proprio quello di riconoscere la mano di Dio che lo percuote, sperando nella sua misericordia.
È ben triste lo stato di una nazione che vede nei flagelli che la colpiscono uno svolgimento naturale o fatale di eventi, o, peggio, che vede grandezze e vie di trionfo nelle guerre che la percuotono perché risorga dalla sua vita di apostasia e di peccato. Col pretesto di tenere alto il morale del popolo, essa dissimula la chiamata di Dio, impedisce la penitenza e la conversione delle anime, diventa tracotante nei suoi peccati e si attira un castigo più grande.
Il riconoscere le proprie colpe, l’espiarle e il pregare non scoraggia, ma eleva l’anima a Dio nella speranza della sua misericordia, e nel pericolo moltiplica le forze della nazione con la fiducia nell’aiuto della forza divina, e con la reale effusione di quell’aiuto straordinario. Il dissimulare il flagello con fatui incoraggiamenti di parole può dare per poco l’illusione della vittoria e del benessere, ma questa illusione, poi, naufraga miseramente nella realtà di una maggiore rovina, dovuta proprio all’ostinazione nel male.
Israele, riconosciuta la mano di Dio nel flagello che lo colpirà, e orientata a Lui l’anima sua nella speranza della resurrezione, si trova trasportato nella luce non di una salvezza temporale o di una resurrezione materiale, ma contempla il rinnovellamento della sua alleanza con Dio, e la resurrezione della sua vita nazionale teocratica quale l’ha voluta il Signore; contempla, per quel fenomeno che si chiama prospettiva profetica, sullo stesso piano e nella stessa luce il risorgere alla vita dell’alleanza con Dio, il risorgere nel nuovo patto che Dio stabilirà per il Messia, e la resurrezione del Redentore medesimo, causa e luce di ogni resurrezione umana, ed esclama, o, meglio, il Profeta stesso gli fa esclamare annunziando questa triplice resurrezione: Ci renderà la vita dopo due giorni, e al terzo giorno ci risusciterà e vivremo innanzi a Lui. Conosceremo e proseguiremo a conoscere il Signore.
Sono parole misteriose e sublimi.
Nella stipulazione del primo patto Dio disse a Mosè di preparare il popolo per due giorni, per vivificarlo con la grazia, e di farlo essere pronto per il terzo giorno, nel quale avrebbe stretto alleanza con lui, donandogli così una nuova vita. (Esod. 19, 10).
Nella rinnovazione di questo patto, infranto dalla prevaricazione d’Israele, il castigo e la durata della schiavitù in Babilonia sarebbero stati come i due giorni di preparazione al beneficio divino. Ancora, volgendo lo sguardo più lontano, la grande rinnovazione del patto di Dio con l’umanità nella Redenzione sarebbe stata come preparata dai due giorni nei quali il Redentore sarebbe rimasto morto nel sepolcro, e sarebbe stata compiuta nel terzo giorno, all’alba del quale Egli risuscitò. In Lui, infatti, è ogni resurrezione ed ogni vita, come dice S. Paolo (Efes. 2, 5) non solo per i redenti, ma anche per quelli che prima della Redenzione si salvavano per la fede in Lui che doveva venire, patire, morire e risorgere.
Il popolo ebreo non ricevette il Redentore né lo riconobbe nella sua prima venuta, rimanendo come morto per due giorni, cioè per un lungo periodo di tempo o per due millenni, che innanzi a Dio, come è detto nel Salmo 89 vers. 4 e come dice S. Pietro, sono come due giorni. Dopo questo periodo di ostinata prevaricazione il Signore gli userà misericordia, gli ridarà la vita e lo risusciterà come popolo suo, aggregandolo alla Chiesa. Esso allora vivrà innanzi a Lui, lo conoscerà e proseguirà a conoscerlo, perché avrà mirabili ascensioni di amore e di santità, che lo renderanno tutto vivificato dai frutti della Redenzione.
Il Profeta si immerge nella contemplazione del futuro
Immerso, per così dire, in questa magnifica e complessa visione del futuro, il Profeta si ferma sul Redentore che verrà a vivificare e a far risorgere il genere umano, ed esclama: La sua venuta è preparata come l’aurora, ed Egli verrà per noi come la pioggia dell’autunno e della primavera sulla terra.
L’aurora annunzia il sole che viene e quasi lo porta nel suo grembo, rifulgendo per lui che viene. La pioggia dell’autunno, che in Palestina cade nel Novembre-Dicembre, serve a far germinare le sementi; la pioggia di primavera che cade in Marzo ed Aprile, serve
a nutrire e a maturare le piante, perché portino il fiore ed il frutto.
Sono tre immagini stupende della futura Redenzione: La venuta del Redentore è preparata come l’aurora prepara la venuta del sole e come l’aurora stessa è preceduta dall’alba. Prima le luci profetiche, alba del Re Divino, poi Maria SS., aurora splendida che porta in grembo il Verbo di Dio umanato e lo dona, perché nasce Egli da Lei ed è suo Figliuolo. Egli viene in mezzo al suo popolo come pioggia di autunno, perché viene per far germinare il popolo della nuova alleanza seminato, quasi, da Dio nella terra d’Israele, e viene come pioggia di primavera, perché con la grazia che ci dona per la Redenzione nutre le anime novelle che formano il suo popolo eletto, e le fa maturare nella santità come frutti di Dio.
Il Signore, nel richiamare il suo popolo dalla schiavitù che gli minaccia e gli annunzia in pena dei suoi peccati, sarà come aurora, e ritornerà al suo popolo come aurora perché gli annunzierà con quella misericordia la liberazione più grande e più bella dalla schiavitù del peccato, sarà come pioggia di autunno e di primavera, perché farà sbocciare nella restaurazione le grandi anime che accoglieranno il Redentore, e le farà maturare nella santità.
Israele, quindi, ritornerà a Dio, dopo il castigo, con l’anima quasi avvolta di particolari grazie, con la promessa del dono più grande che sempre più gli si avvicina, con effluvi di misericordie singolari che prepareranno la santa famiglia dalla quale nascerà il Redentore, e il fiore più bello di essa, Maria SS. dalla cui vita immacolata e purissima germinerà.
Dio guarda tutto il futuro che a Lui è presente, guarda la futura ingratitudine del suo popolo ad un beneficio così grande, se ne accora nel suo paterno amore, la vuole scuotere ed eliminare, ed esclama con un grido di accorato dolore: Che cosa farò io per te o Efraim, cioè o Israele, e che cosa farò io per te, o Giuda? Ecco che a tanta prospettiva di grandezza vera voi rimarrete insensibili, ingrati e ribelli, poiché non usufruirete della grazia della restaurazione nazionale che vi farò, e non vi santificherete in modo da essere degni di accogliere il grande dono futuro. La vostra misericordia, o, come suona l’ebraico: la vostra giustizia e santità è come nube mattutina, e come la rugiada che al mattino sparisce. Non avete vera
virtù, ma solo un’apparenza illusoria che svapora come nebbia e rugiada, rimanendo ostinati nelle vostre empietà.
Di fronte a questa ingratitudine Dio giustifica la severità che usa e userà col suo popolo, e dice che per scuoterla Egli lo fece rimproverare duramente dai Profeti, e lo uccise con le parole della sua bocca, spaventandolo con annunzi terribili di distruzione e di morte; soggiunge che i suoi giudizi verranno fuori come la luce, cioè velocemente e luminosi nella loro giustizia, condannando la sua falsa pietà e religione che si contenta di offrire sacrifici ed olocausti, e non si cura di avere la misericordia cioè la giustizia e la santità, trascurando la scienza di Dio, la sua conoscenza, cioè, e il suo amore.
Che cosa ha fatto il popolo fino ad allora? Ha trasgredito il patto giurato a Dio, come Adamo nell’Eden trascurò il comando avuto e peccò; la sua città principale, Galaad, che dovrebbe essere di esempio alle altre città, è diventata un centro d’idolatria, di sacrifici abominevoli, di delitti e di sopraffazioni contro quei devoti Israeliti che passavano per Sichem per andare in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Dio colpirà Israele per queste sue scelleratezze, per la sua idolatria e le sue impurità, e colpirà anche Giuda come campo che viene mietuto, facendolo deportare in paese straniero; Egli però soggiunge subito che la punizione la darà per risanarlo, poiché un giorno riporterà il suo popolo dalla schiavitù, e un giorno più lontano libererà tutti i suoi figli dalla schiavitù del peccato.
3. « La misericordia io amo e non il sacrificio ». - Un’elegante questione che deve dare da pensare ai fanatici del senso letterale.
Certamente queste parole di Dio: La misericordia io amo e non il sacrificio, hanno letteralmente il senso che abbiamo esposto, e cioè che il Signore ama più la pietà, la giustizia e la santità interiore che un sacrificio fatto per pura esteriorità, come pure ama di più la scienza soprannaturale che lo fa conoscere e amare anziché un olocausto offerto senza apprezzamento della sua divina grandezza e senz’amore.
Gesù Cristo citò queste parole di Osea due volte, com’è riportato nell’Evangelo di S. Matteo: quando, dopo la vocazione di S. Matteo, mangiando Egli coi pubblicani, i Farisei mormorarono di quella sua condiscendenza come di uno scandalo (9, 13), e quando gli Scribi e Farisei riprovarono che i suoi discepoli cogliessero e mangiassero le spighe in giorno di sabato (12, 7).
In tutti e due i casi Gesù Cristo richiamò l’attenzione di quelli ai quali parlava: Imparate quello che sia, disse ai Farisei scandalizzati dal banchetto: Io voglio misericordia e non sacrificio; ed a quelli meravigliati per le spighe colte e mangiate di sabato: Se voi sapeste che cosa vuol dire: Amo la misericordia e non il sacrificio, non avreste mai condannato degli innocenti.
Egli non poteva certo parlare della pietà, misericordia e santità né dei pubblicani, perché anzi li dichiarò peccatori, soggiungendo subito che era venuto a chiamare non i giusti ma i peccatori, né poteva parlare della santità dei suoi discepoli, perché usò quell’espressione per dichiararsi padrone anche del sabato, scusando i suoi discepoli con la condiscendenza amorosa del suo Cuore che aveva loro permesso tacitamente di cogliere e mangiare le spighe.
Oseranno i critici moderni dire che Gesù volle fare una semplice accomodazione, mentre una volta disse: Imparate quello che sia, cioè badate bene al senso di queste parole, e l’altra volta disse con maggiore energia: Se voi sapeste che cosa vuol dire: Amo la misericordia e non il sacrificio?
Oseranno, peggio, dire che Gesù non abbia citate quelle parole nel loro senso letterale?
Stando ai loro metodi di fanatismo per il senso letterale, logicamente ne verrebbero queste deduzioni, con quanto rispetto per l’increata Sapienza che spiegò quelle parole, ognuno lo vede.
Ed allora bisogna per necessità riconoscere che Dio nel dire: La misericordia io amo e non il sacrificio, ha voluto ammonire il suo popolo col suo medesimo esempio divino, dando alle sue parole un’ampiezza mirabile che ci fa capire quanto si è meschini quando si vuol considerare a modo umano la lettera che uccide.
Egli con le parole di Osea volle esprimere due predilezioni del suo amore, quella per la nostra santità che lo onora amandolo, e quella della sua misericordia che ci benefica perdonandoci. Egli volle dire letteralmente, con una sola espressione: Io amo la misericordia vostra e non il sacrificio, come io stesso amo di perdonare e di compatire anziché d’essere duro coi peccatori e di essere severo nel giudicare le umane debolezze.
Negare questo doppio senso letterale a queste parole significa tacciare Gesù di avere... errato nell’interpretazione del testo, il che sarebbe da balordi e da empi.
La parola di Dio è mirabilmente feconda, e la nostra piccola mente non può presumere di volerla interpretare solo secondo le povere vedute di una più povera e meschina cultura storica, mille volte fallace.
Innanzi alla parola di Dio non si può prendere mai l’atteggiamento di superuomini, né si può prescindere dalla meditazione, poiché Dio ha voluto parlare a tutte le anime in tutti i tempi, e le sue parole non possono essere ristrette ad un senso storico materialmente preso come si prende quello di qualunque libro umano. Dio, nel parlare agli Ebrei secondo le loro particolari contingenze, esprime i suoi divini pensieri, e questi hanno un’ampiezza e una fecondità che non può essere da noi ristretta alle circostanze particolari della vita degli Ebrei.
I Santi Padri che sapevano conoscere e amare Dio assai meglio di noi, seppero intuire la vastità del senso letterale della Divina Parola, e la seppero applicare alla vita cristiana e mistica, non per semplice accomodazione, ma intuendo quello che Dio aveva voluto dire per nutrirci e per istruirci.
Quando sarà passato lo scientismo moderno, ispirato ai razionalisti che non ragionano, o ai protestanti che per troppe proteste sono falliti, si vedrà che l’esegesi ispirata ai Padri della Chiesa è l’unica vera esegesi che ci mette al ricco desco della Divina Parola e ce ne fa nutrire abbondantemente, cavando da questa terra feconda e da questa ricca miniera ogni sorta di frutti e di pietre preziose.
4. Per la nostra vita spirituale.
Nelle nostre tribolazioni alziamoci fin dal mattino per andare a Dio, e diciamo all’anima nostra: « Vieni ai piedi dell’Altare e torna al tuo Signore ».
Riconosciamo che Egli ci affligge per salvarci e ci percuote per guarirci; cerchiamo, perciò, di rispondere immediatamente al suo invito, e di offrirgli con umiltà tutta l’anima perché Egli la guarisca.
Se ci ribelliamo alla sua Volontà amorosissima, siamo come quegli infermi frenetici, i quali, come dice S. Agostino, insaniscono contro il medico sol perché i rimedi che dà sono dolorosi o disgustosi.
Il Signore colpendoci nella vita presente ci rianima nella vita spirituale, per due giorni, cioè per il brevissimo corso del nostro pellegrinaggio; al terzo giorno poi ci risuscita, aprendoci le porte del Paradiso, la cui gloria eterna rappresenta per noi una vera resurrezione e la vera vita. Per due giorni Dio ci ha vivificati, cioè per l’antico e il nuovo patto, per la sua prima e seconda venuta, come dicono i Padri, venuta che rappresenta sempre una grandiosa effusione di grazia per l’umanità e una preparazione al giorno della gloria.
Conoscere e proseguire a conoscere il Signore, ecco lo scopo della effusione della divina misericordia, ed ecco il fine della nostra vita. Il Signore viene a noi come aurora e come pioggia di autunno e di primavera, perché è luce e fecondità delle anime nostre; luce di aurora, perché luce di fede, ch’è sempre avvolta da oscurità, e pioggia silenziosa che feconda e matura i germi posti in noi dalle sue visite amorose.
Dolorosamente noi siamo ingrati alle effusioni della carità di Dio, e la nostra giustizia è. come nebbia che svanisce; per questo il Signore ha necessità di trattarci duramente, per mezzo dei suoi santi Ministri, e, in mancanza loro, per le anime straordinarie, per le quali ci ammonisce e c’intenerisce.
Egli vuole la misericordia nostra e la scienza di Dio, cioè la santità illuminata dalla fede, più che un movimento passeggero ed illusorio di conversione, poiché Egli ci dà la misericordia perdonandoci, e la scienza sua illuminandoci con la sua parola di vita. Ci vuole santi e pieni della sua luce, e per questo ci perdona, ci rinnova e ci dona la sua parola.
Non dobbiamo essere ingrati a tanto suo amore, né imitare Adamo, che, posto fra le delizie del Paradiso terrestre, si fece vincere da satana e, prevaricando, andò incontro ad una vita colma di angustie.
Noi, testimonianze viventi della gloria di Dio (Galaad), perché sua immagine, non possiamo mutarci in fabbricatori di idoli, adorando noi stessi e le creature, né possiamo essere ladri della divina gloria con le passioni, ed uccisori di anime con gli scandali; non possiamo fornicare nello spirito e nella carne, e contaminarci con tanti orribili peccati; siamo creature di Dio e dobbiamo essere suoi per amarlo e servirlo fedelmente.
Prepariamoci al giorno della messe, quando il Signore viene a raccoglierci per riporci negli eterni granai, e cerchiamo di essere ricchi di opere sante, quasi di biondeggianti granelli, che sono il prezzo, l’unico prezzo che possiamo dare al Signore per conquistare l’eterna felicità.
Dio ci chiama; i suoi flagelli c’incalzano come voci dure di profeti, le sue tribolazioni sono come parole della sua bocca che uccidono in noi il male e ci manifestano i suoi giudizi.
Egli ci chiama così per misericordia, e, disingannandoci nelle nostre illusioni, ci dona la sua sapienza, quella sapienza che ce lo fa conoscere come vero Dio, vera ed eterna Sapienza, infinito ed amabilissimo Amore.
Voci dall’Oriente e voci dall’Occidente, voci dal Settentrione e voci dal Mezzodì, tutta la terra, accesa nella spaventosa guerra, è come voce che ci chiama da parte di Dio; ascoltiamola e rispondiamo al suo invito convertendoci a Lui.
Sac. Dolindo Ruotolo