sabato 31 ottobre 2015

01.11.2015 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 5 par. 7-16

7. Il dominio della bontà

Non c'è forza più dominatrice quanto quella della mansuetudine, perché conquide l'anima e soggioga la volontà; torna conto dunque usare mansuetudine e carità con tutti, e pensare che è meglio subire in pace e per amore, che subire per forza e per sopraffazione.

Bisogna essere mansueti di cuore e di parole con tutti; vincere l'ira altrui con risposte placide e serene, sopportare le ingiurie che ci vengono fatte, anzi esultare in esse per la somiglianza che ci danno col Redentore, e vincere il male col perdono e col bene.

Chi non direbbe che le vittorie dei Romani siano state fratto della forza brutale delle armi? Eppure è detto nel libro primo dei Maccabei (capitolo 8) che essi possedettero ogni regione col consiglio e con la pazienza. La stessa potenza militare non poté essere efficace che con la calma riflessione e con la pazienza. Con l'irruenza si può vincere una volta su cento la volontà altrui, con la mansuetudine si può perdere una volta su cento la battaglia.

Il mansueto ha la possibilità di penetrare i cuori e persuaderli,

l'irruente suscita le reazioni e non vince mai in profondità.

Il mansueto è come un raggio di sole che penetra placidamente ed è accolto con gioia,

l'irruente è un lampo di tempesta che spaventa.

Il mansueto è come aura refrigerante o pioggia placida che penetra fino alle radici,

l'irruente è come uragano che schianta a travolge tutto.

La terra non germina tra le tempeste, il mare non si attraversa tra i marosi, il cielo non si percorre tra i cicloni...

Tutto quello che si fa di bene in qualunque campo è condito dalla mansuetudine.

Anche l'artista possiede la materia che lavora con la pazienza e la calma, ed ha bisogno di mansuetudine serena contro le difficoltà che incontra e le resistenze che trova; se irrompe rovina tutto, e un atto di irruenza può distruggere il paziente lavoro di anni.

Anche quando è necessaria la forza, bisogna temperarla con la mansuetudine, non facendosi mai guidare dall'ira ma solo dalla giustizia e dall'equità. L'ira non dà il possesso di nulla; è un esplosivo che sconquassa e divelle, lasciando solo frantumi. La forza equilibrata della giustizia invece è come scalpello che incide e lavora.

A volte ci sentiamo soddisfatti dopo una sfuriata, e ci sembra che ci siamo finalmente imposti, invece non c'è sintomo più certo di una battaglia perduta quanto questa soddisfazione.

Se scrivi una lettera e vi metti frasi energiche, che dopo ti lasciano un compiacimento, cancellale immediatamente, perché sono frasi che ti fanno sconfiggere. È l'esperienza che lo dimostra. Quelle frasi tu le ricordi, le ripeti nel tuo interno, ti sembrano tutta la tua lettera, ti sembrano dardi infallibili al segno, ed invece sono dardi che ritornano a te.

Se avverti in te un irruento desiderio di reagire, di mettere le cose a posto, di far valere le tue ragioni, non parlare, taci e prega, perché è proprio allora che metti le cose fuori sesto e non hai ragione.

Se ti viene nell'animo il desiderio di una ripicca, o peggio di fare un dispetto, pensa che allora sei sopraffatto da te stesso, e getti in alto un masso che ti ricade sul capo.

Segnati nel cuore la Parola divina che non fallisce mai perché risponde alla realtà: Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra.

Come nella legge fisica dell'inerzia un urto non si arresta e può produrre un disastro, così nel tuo cuore un urto può trasportarti dove non vuoi. Il vagone, spinto sulla china, slitta, e il cuore tuo, spinto dall'ira, slitta fino al precipizio. Se il fieno non s'aggancia più, il vagone si sfascia, eppure a chi sta lontano sembra che vada trionfante nella sua corsa vertiginosa. Così sei tu quando non sai frenare i tuoi nervi: sembri trionfante e sei vinto; sembri forte e sei debole; sembri soddisfatto e sei amareggiato; sembri placato ed invece hai accumulato in te un novello esplosivo. L'impazienza genera l'impazienza e la ingigantisce fino al punto che non tollera più freni, ed esplode ad ogni piccola occasione. Non ti rendere schiavo di te fino a questo punto, possiedi il tuo sistema nervoso e dominalo, perché esso non ti leghi fra ceppi penosissimi.

Non dire che devi sfogarti se no crepi. Il tuo sfogo non serve che ad accrescere la prepotenza dei nervi, e tu in realtà ti prepari novelle angustie. Sfogati con Gesù, deponi nel suo Cuore le tue pene e prega. Non c'è mansuetudine più bella è più forte della preghiera, perché essa penetra i cuori, li conquide, li vince e li trasforma con la grazia.

Prega e parlerai all'anima: se gridi parli solo alle orecchie, e martelli i nervi senza giungere al cuore. L'irruenza chiude tutte le valvole, per così dire, della ragione, della volontà, del cuore, e suscita solo reazioni nei nervi e agitazioni nel sangue. Prega e chiuderai i freni dei nervi; prega e possederai anche questa terra umana, carica di tempeste.

Quando non riesci a convincere, e t'accorgi che il tuo fratello s'è irrigidito, a che più lo sferzi con le tue parole? Occorre il messaggio della carità per ricondurre il movimento della ragione in lui. Pensa che ogni irruzione violenta è, in fondo, un momento di pazzia, e che di questi momenti disgraziati ne hanno tutti; vuoi tu contendere col pazzo? Anche il pazzo si conquide più con la bontà che con la camicia di forza. I tuoi gridi possono avere solo il segreto di accrescere e prolungare il momento di pazzia, facendo congestionare il capo, o producendo una ipertensione nervosa.

Non credere alle massime del mondo; credi al tuo Signore; poni la tua gloria nel farti amare anziché nel farti temere, e fa che ogni amarezza versata in te sia dolcificata subito dalla tua dolcezza e dalla tua carità.

La beatitudine della nostra vita peregrinante in terra sta nella pace; non c'è prezzo per custodirla, ed ognuno deve fare di tutto per non turbarla negli altri e per averla in sé come tesoro.

01.11.2015 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 5 par. 2-6

2. La grande via della felicità, opposta alle tentazioni di satana. Idea fondamentale per intendere le parole di Gesù

Il mirabile e divino discorso detto della montagna, che stiamo per meditare, fu pronunziato da Gesù Cristo dopo altri avvenimenti dei quali parla san Luca (capitolo 4), quindi non si trova in san Matteo secondo l'ordine cronologico. Esso però sta in quell'ordine divinamente logico, col quale il Signore ci traccia la via del cielo, sottraendoci alle funeste illusioni di satana ed al fascino del mondo e della carne.

Dopo il capitolo della tentazione di Gesù nel deserto, sintesi delle insidie con le quali satana cerca sviare la nostra vita, ecco la luce divina di una sapienza nuova, che capovolge tutte le idee effimere che si avevano della felicità, e mostra la vera via di quella beatitudine temporale ed eterna, cui l'uomo aspira.

Satana in fondo aveva tentato di tracciare lui la via del godimento e della gloria, sia nell'Eden col primo Adamo, sia nel deserto col secondo; tutte le sue tentazioni hanno tuttora questo carattere, ed egli vuole apparire come il consigliere della povera umanità, ingannandola con lusinghe che poi finiscono per diventare sorgenti di grande infelicità. Era logico dunque che Gesù Cristo opponesse alle tenebre dello spirito infernale la luce divina d'insegnamenti atti a dissipare dall'anima umana la tentazione che la trascina negli abissi dell'infelicità temporale ed eterna. Diciamo subito che il discorso, che meditiamo, non è raccolto e formato dall'evangelista, coi vari insegnamenti del Redentore, come pretesero alcuni, ma è fluito come si trova dalla bocca del Redentore. Egli anzi dovette ripetere più volte questi suoi insegnamenti, come appare dal Vangelo di san Luca, nel quale il discorso è riportato più sinteticamente, e non è proprio lo stesso di quello di san Matteo. San Luca probabilmente riporta il discorso come fu ripetuto agli apostoli dopo la loro elezione.

Gesù Cristo, seguito da una grande moltitudine che, come s'è visto nel capitolo precedente, accorreva a Lui per essere sollevata nelle sue pene e nelle sue infermità, salì sopra un monte per insegnare quelle novelle verità che dovevano tracciare la via della vera pace e della vera beatitudine. Nel capitolo precedente è detto che Egli curò ogni sorta di malattia e le infermità del popolo (4,23-25), ma ora non si accenna a nessun beneficio temporale, giacché il beneficio spirituale della luce della verità in mezzo alle pene della vita supera qualunque altro.

Come Mosè promulgò la Legge avuta da Dio su un monte, e si ritirò nelle altezze per ascoltare meglio la voce divina, così Gesù Cristo volle promulgare la Legge novella da un monte, e perciò il suo discorso è detto della montagna. Quale sia il monte sul quale si ritirò, non può dirsi con esattezza; secondo una tradizione antica sarebbe il Korne-Hattin, che si eleva a 346 metri sul livello del Mediterraneo, a circa 8 chilometri a Nord-Ovest di Tiberiade. Gli apostoli, i discepoli, il popolo seguirono il Maestro divino, e si disposero intorno a Lui per ascoltarlo. Non attendevano altro in quei momenti preziosi, non domandavano altro.

I grandi condottieri o animatori di folle parlano quasi sempre solleticando gl'interessi materiali o l'orgoglio delle masse; Gesù Cristo invece parla la parola della verità, e quel che è più della verità che più contrasta le terrene aspirazioni, additando come mèta della beatitudine e della gloria quello che comunemente si crede mèta d'infelicità e di obbrobrio. Forse Gesù non poteva mostrare in una maniera più persuasiva e penetrante la sua divinità, poiché solo Dio, che conosce e scruta le reni ed i cuori, poteva proporre una dottrina apparentemente così contraria alle umane tendenze e persuasioni, e nello stesso tempo così profondamente vera.

È questa infatti la caratteristica delle divine parole di Gesù Cristo: esse nella loro dura espressione non sono in armonia con quello che la natura umana, fragile e presuntuosa nel medesimo tempo, crede un bene; eppure additano, anche umanamente parlando, la vera via della beatitudine temporale ed eterna. Approfondite alla luce di Dio, sono un programma dell'eterna conquista, ed approfondite anche alla luce della ragione, sono una filosofia altissima, per così dire, una rivelazione delle vere condizioni alle quali l'uomo può conquistare la libertà interiore e la pace, dominando tutti gli ostacoli che vi si frappongono.

È questo quello che bisogna riflettere nel meditare l'arcana parola di Gesù, perché, oggi specialmente, si ingannano le turbe, facendo loro credere che Gesù Cristo abbia solo promesso ricompense eterne irraggiungibili, ed abbia richiesto sacrifici penosi; s'ingannano i cuori e le menti facendo credere che la dottrina del Redentore è sorpassata, perché dottrina buona solo per anime leziosamente mistiche, incapaci di affrontare i grandi problemi della vertiginosa vita moderna, satura fino all'ebbrezza di desideri e di bisogni di godimenti, carica fino allo scoppio di sentimenti guerrieri, assalita come preda da tutte le belve dell'umana cupidigia, e ringhiante come belva contro tutto ciò che si oppone alle sue brame.

Un'umanità che forma le sue generazioni al passo di marcia, e le riempie di sentimenti di dominio, di violenza e di sopraffazione, un'umanità che apre alle passioni tutti gli sbocchi, demolisce tutte le dighe opposte ai piaceri sensuali, ed è inondata di putredine e di tabe credendola sangue di vita e rigoglio di giovani forze, una generazione che accende, adorandoli paganamente, i fuochi sulle montagne hitleriane, o corre in brache con la fiaccola olimpionica fra gli applausi freneticamente incoscienti dei frenetici adoratori della forza bruta, come potrebbe contentarsi delle parole divine che predicano l'umiltà, la povertà e la pace come segreto di vita?

sabato 17 ottobre 2015

18.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 5

5. Dio esige che gli rendiamo gloria, perché questo si risolve nella nostra felicità

Le vie degli uomini sono agli antipodi di quelle di Dio, perché l'uomo guarda al proprio interesse momentaneo, e Dio guarda a quello eterno, l'uomo si preoccupa della propria gloria, e Dio guarda l'esigenza della sua gloria, che diventa per le sue creature medesime diffusione di beni e di misericordie.

Il Signore non ha bisogno di noi, ma desidera i nostri omaggi, il nostro amore e la nostra dedizione a Lui, perché tutto questo si risolva nella nostra felicità. La sua gloria diffusa nell'universo ce lo fa conoscere e ci avvicina a Lui; la sua gloria manifestata a noi ci attrae nella sua volontà e ci fa vivere di Lui; la sua gloria rifulgente negli atti stessi della giustizia ci fa sentire che Egli solo è tutto e che a Lui solo dobbiamo tendere. La gloria di Dio ad intra è lo splendore della sua vita, ad extra è lo splendore della sua bontà che si diffonde; i nostri omaggi e la gloria che gli doniamo sono come nubi che si formano in alto e ricadono in pioggia sopra di noi stessi. Ogni concentramento, invece, nella nostra gloria è una perdita, più o meno grave e disastrosa a seconda della nostra stoltezza; la caduta angelica e quella umana sono la documentazione di questa verità. Dio non può avere nel creato delle immagini materiali che lo manifestino, ma si può dire che la sua gloria è la fulgente statua della sua realtà, come la gloria delle creature è l'idolo abbietto che lo sfigura e lo rinnega.

La gloria di Dio, la gloria di Dio, quale armonia di grandezza e di felicità ha questa parola, quale sapore di sazietà ha per l'uomo che la cerca, quale segreto di elevazione ha, e come trae nel suo vortice luminoso la nostra nullità, umiliata innanzi al Signore! L'uomo cade in un abisso di angustiante infelicità quando cerca la propria gloria e i propri interessi.

sabato 10 ottobre 2015

11.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 3-4

3. Il giovane che voleva salvarsi

Dal medesimo contesto del Vangelo può rilevarsi che Egli era tutto compreso da questi pensieri, poiché rivolse uno sguardo di particolare amore ed attenzione ad un giovane che gli si presentò per domandargli che cosa avesse dovuto fare per acquistare la vita eterna. Non dimentichiamo che Gesù Cristo era Dio, e come tale aveva tutto presente: le sue parole non erano mai ristrette in una visuale limitata, e riguardavano i secoli. Psicologicamente, diremmo quasi, se Gesù non avesse avuto il Cuore tutto pieno di amore per la gioventù di tutti i secoli, non avrebbe manifestato una particolare benevolenza ad un giovane che veniva a Lui più con una velleità di perfezione che con una vera volontà di essere santo.

Quel giovane, infatti, venne a Lui correndo, e manifestando così l'entusiasmo dal quale era stato preso; genufletté innanzi a Gesù, perché era come affascinato da quel volto divino. Corse, e nell'avvicinarsi e vederlo così sorridente, si entusiasmò della sua divina bellezza e bontà, e lo chiamò buono: Maestro buono, che farò io per acquistare la vita eterna?

Forse da lontano aveva visto con quanto amore aveva accolto i fanciulli, ed era rimasto conquiso da quella bontà così insolita agli arcigni farisei. Gesù volle fargli riflettere che quella bontà non era un tratto di gentilezza umana, ma scaturiva dalla divina bontà che diffonde la misericordia e la grazia, e soggiunse: Perché mi chiami buono? Nessuno è buono fuori di Dio solo. Egli poi continuava ad aver presenti i secoli futuri, i tristi secoli della profanazione dell'infanzia e della gioventù, e volle proclamare contro i falsi padri e i falsi amici dei giovani che Dio solo è buono, Dio solo può attrarre con la sua bontà, e che la pretesa paternità dei tiranni verso i giovani è solo un inganno per accalappiarli.

I giovani, come questo del Vangelo, corrono, perché sono dominati dall'impeto dell'entusiasmo, genuflettono, perché hanno una dedizione piena nel loro entusiasmo, e riguardano come buoni quelli che li attraggono, perché sono dominati dalla bontà ed anche dalla bellezza.

Gesù volle dire che solo la bontà e la bellezza di Dio dovevano dominarli, e che essi non potevano avere aspirazioni fantastiche, ma dovevano avere come unica guida la Legge di Dio. Per questo soggiunse: Tu sai i comandamenti: Non commettere adulterio, non ammazzare, non rubare, non dir falsa testimonianza, non frodare nessuno, onora tuo padre e tua madre. Dunque è assurdo che vi siano altri decaloghi; è empio e nello stesso tempo ridicolo che un uomo di partito ardisca imporre i suoi precetti. La gioventù non può essere educata che nella Legge di Dio e, se una qualunque altra legge prescinde da questa, serve solo a confonderla ed a corromperla.

Forse il giovane del Vangelo, entusiasmato della bontà di Gesù, tratto da un desiderio contuso di misticismo e di perfezione fantastica, comune ai giovani nei loro impeti generosi, immaginò di sentire da Gesù precetti nuovi e regole complesse di vita spirituale; perciò provò un certo disinganno alla risposta che ebbe, e soggiunse, non senza una punta di compiacenza, che quelle cose le aveva osservate fin dalla sua prima giovinezza.

Il Redentore, a questa confessione di fedeltà alla Legge, guardò con tenerezza il giovane e lo amò. Forse gli manifestò questo amore abbracciandolo o ponendogli la mano sul capo, certo gli diede segni di particolare bontà.

Ma non conosceva Gesù che quel giovane era già un osservante della Legge, ed allora perché gliela ricordò? Non sapeva che non avrebbe aderito al suo invito di maggiore perfezione? Ed allora perché lo invitò?

Lo guardò e lo amò; eppure proprio allora quel giovane stava per abbandonarlo pieno di scoraggiamento.

Sembrano tutte oscurità insolubili, eppure non lo sono se si riflette ai pensieri profondi del Redentore: Egli parlava prima di tutto ai giovani più che a quel giovane, e volle affermare solennemente il dovere che essi hanno di porre come base della loro vita la Legge di Dio.

Volle provocare dal giovane una confessione di piena osservanza, per mostrare ai giovani tutti che non è affatto impossibile alla loro età di custodire tutti i comandamenti di Dio. Sapeva che il suo invito ad una maggiore perfezione non sarebbe stato accolto, ma lo fece lo stesso perché la sua misericordia non cessa di chiamarci e non si abbrevia su di noi sol perché gli siamo ingrati.

Egli si rivolse inoltre allora ai giovani ricchi, ai quali la vita sembra sorridere con maggiori attrattive, e mostrò anche ad essi la via dell'eroismo. La loro condizione di privilegio temporale non può giustificare in loro una minorazione spirituale, ed essi possono benissimo giungere alla vetta dell'eroismo, lasciare tutto, darlo ai poveri e, spogli dei beni temporali, cercare quelli eterni. Così hanno fatto nella Chiesa moltissimi santi, e l'invito di Gesù non è rimasto inutile; il giovane al quale parlò se ne andò rattristato e sconsolato, ma tanti giovani, ai quali indirettamente si rivolse, hanno accolto a migliaia il suo invito e la Chiesa è popolata sempre di poveri volontari, che scelgono Dio solo per loro porzione e per loro eredità.

sabato 3 ottobre 2015

04.10.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 10 par. 2-3

2. La questione del divorzio

Gesù partì dalla Galilea e venne nella Giudea per andare a Gerusalemme e subirvi la dolorosissima Passione; ormai la sua vita volgeva all'epilogo, ed il suo immenso amore abbracciava tutte le genti per redimerle.

Come doveva essere doloroso al suo Cuore in questi momenti solenni il vedere la doppiezza, l'incredulità e l'ingratitudine degli scribi, dei farisei e dei sacerdoti, sempre più lontani dall'intenderlo!

Egli camminava pensando alla salvezza di tutti, e i suoi nemici lo insidiavano per trarlo in inganno e per avere il pretesto di condannarlo. È una cosa penosissima il considerare queste stonature dell'ingratitudine umana!

I farisei interrogarono Gesù sulla questione del divorzio, perché in tempi di corruzione e di grande immoralità era quella che avrebbe potuto più facilmente attirargli contro l'odio dei grandi, infetti quasi tutti d'impurità; essi prevedevano quale poteva essere la risposta di Lui, ed erano certi che si sarebbe compromesso.

Anche questo doveva essere penosissimo per il Cuore del Redentore: parlare di divorzio quando Egli si preparava a celebrare le sue nozze di amore nel Sangue del suo sacrificio, e parlarne quando la sinagoga, ripudiandolo, avrebbe consumato il più peccaminoso degli adultèri spirituali!