giovedì 31 luglio 2014

31.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 13 par. 12

12. Riepilogo della vita della Chiesa: la rete e la cernita finale
Gesù Cristo aveva parlato della mescolanza dei buoni e dei cattivi nella Chiesa, con la parabola del buon seme e della zizzania, e del riepilogo finale della semina nella mietitura. Il problema era troppo angoscioso, ed Egli v'insiste con un'altra parabola che giustifica la larghezza che un giorno avrà la Chiesa nell'accogliere tutte le anime. Essa, infatti, è come una rete gettata nel mare che raccoglie ogni genere di pesci e, quando li ha tratti a riva, allora scarta quelli che sono cattivi da quelli che sono buoni. E logico che, essendo la Chiesa un campo di prova, accoglie tutti quelli che vi entrano, senza esigere da essi una perfezione già consumata. Con l'apostolato Essa getta la rete, raccoglie le anime, si sforza di formarle ad una vita nuova, ne tollera e compatisce le debolezze come madre, le spinge ad emendarsi, trova nuove industrie di zelo per conquiderle e, quando non riesce nel suo scopo per molte anime, prega, ripara, piange ed attende che il Signore stesso faccia la cernita nel giorno del giudizio. Allora verranno gli angeli e separeranno essi, per mandato divino, i buoni dai cattivi, gettando questi nel fuoco eterno, dove per la disperazione piangeranno e digrigneranno i denti constatando la loro eterna infelicità e il loro implacabile odio.
Dopo aver parlato, Gesù si rivolse ai suoi apostoli e domandò loro se avevano capito tutto ciò che aveva detto. Era logico che facesse questa domanda, dopo che essi avevano mostrato di non aver capito il significato della parabola del seminatore. Forse Gesù aveva tra i suoi ascoltanti qualche scriba di buona fede che lo aveva seguito fin nella casa dove s'era raccolto con gli apostoli, per questo, rivolto ad essi soggiunse: Ogni scriba, istruito in ciò che riguarda il regno dei cieli, è simile ad un padre di famiglia che cava fuori dal suo tesoro cose nuove e cose vecchie. Egli voleva dire: la vostra sapienza non può restringersi ad un pedante attaccamento a tutto ciò che è vecchio, ma deve sapere accogliere anche quello che è nuovo, proprio come un padre di famiglia sa impiegare per il bene della casa le cose vecchie e nuove.
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 29 luglio 2014

29.07.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 11 par. 2

2. Il mirabile racconto della risurrezione di Lazzaro nelle sue circostanze storiche e psicologiche
Pochi racconti nella medesima Sacra Scrittura hanno la vivezza storica e psicologica del miracolo che meditiamo. San Giovanni ne fu certamente testimone oculare, e la commozione grandissima che provò innanzi ad un prodigio così grande, glielo impresse indimenticabilmente nell'anima.
Non si può leggere questo racconto senza sentirsi presenti al fatto e senza piangere. La tenerezza di Gesù commuove, il dolore delle sorelle del defunto fa fremere, l'atteggiamento della folla dei visitatori ci fa vivere nella casa di Marta e di Maria, desolata dalla morte e movimentata dalle premure della carità. Tutto nel racconto è naturale e spontaneo come avvenne, e tutto è vivo come se il fatto si rinnovasse innanzi a chi lo legge.
Lazzaro, abbreviativo di Eleazaro, abitava con due sue sorelle, nel villaggio e castello di Betania, distante circa tre chilometri da Gerusalemme. Era un benestante, come appare dal contesto, ed era, con le sue sorelle, devotissimo a Gesù, che lo amava con particolare predilezione. Forse questa sua devozione dovette avere origine o per lo meno intensificarsi per la conversione di sua sorella Maria. Il Sacro Testo ricorda infatti non senza ragione la circostanza più bella di questa conversione, e cioè l'unzione che la povera peccatrice fece ai piedi di Gesù, quando in casa di Simone andò a domandargli perdono e misericordia.
Per una famiglia onorata e benestante Maria Maddalena era stata una vergogna grandissima, e la sua conversione aveva stabilito col Redentore dei rapporti di grande, amorosa
gratitudine da parte di tutti, ed in particolare forse di Lazzaro, che, come uomo e come capo di casa, aveva dovuto essere il più sdegnato dall'indegna condotta della sorella. In Betania, da non confondersi con la Betania della Perea, la famiglia di Lazzaro per la sua signorilità era tenuta in deferente considerazione, come appare dal concorso di gente che affluì nell'occasione del lutto sofferto; il modo stesso come mandarono a pregare Gesù quando il fratello si ammalò, e il modo come si lamentarono della mancata visita confermano questa signorilità, che nel pregare si contentò di un accenno, e nel lamentarsi usò un'espressione piena di rispettosa deferenza. Da queste circostanze poi si deduce anche la fede che tutta la famiglia aveva in Gesù Cristo, vero Figlio di Dio. Nella preghiera, infatti, che gli fecero non gli dissero di andare subito dall'infermo, non lo premurarono a guarirlo in distanza, non lo pressarono con espressioni accorate, ma gli esposero solo il caso doloroso, e fecero appello al suo Cuore: Ecco, colui che ami è infermo.
Gesù amava Lazzaro e la sua famiglia e la sottopose alla prova del dolore
Il Sacro Testo non ci dice quale fosse l'infermità di Lazzaro né è possibile arguirla. Certo era un malanno grave, poiché le sorelle dell'infermo mandarono a Gesù delle persone, non potendosi nessuna delle due staccarsi dal letto dell'infermo; era un malanno che richiedeva cure continue. Dato che si era nell'inverno può supporsi che fosse una polmonite.
Quando le sorelle videro che si aggravava, mandarono a pregare Gesù temendo una complicazione. Non vollero fare pubblicità per evitare poi l'affluenza di visite fastidiose, e mandarono a pregare Gesù segretamente, come è chiaro dal contesto. Gesù rispose agl'inviati rassicurandoli che quel malanno non era mortale, ma doveva servire per la glorificazione del Figlio di Dio. Egli parlò così riferendosi al miracolo che voleva fare, ma gli inviati credettero che li rassicurasse sul malanno, e dovettero essere non poco delusi quando, tornati a Betania, constatarono che subito dopo la casa piombò nel lutto.
Il Signore parla per farsi intendere da noi, e parla anche per manifestarci i suoi disegni ed esigere da noi la fede; a volte le sue parole sembrano fallire secondo il nostro modo di vedere, e possiamo anche scandalizzarcene; ma se Dio è Dio, dobbiamo avere anche l'umiltà, l'elementare umiltà di pensare che siamo noi che non le intendiamo. Giudicare le parole di Dio con la presunzione di vagliarle e criticarle è lo stesso che esporsi al pericolo di capirne poco o nulla, e di smarrirsi.
Gesù disse che la malattia non era mortale, mentre Lazzaro morì in quel giorno stesso; lo disse, oltre che per il miracolo che voleva fare, anche per non spaventare né le sorelle dell'infermo né l'infermo, e forse per questo il Sacro Testo soggiunge che Egli voleva bene a Marta, a Maria ed a Lazzaro.
Egli poi amava quella famiglia di amore divino, e la sottoponeva alla prova del dolore; l'amava e la metteva nelle circostanze di fare un atto di fede più cieca e più completa in Lui. Quella morte doveva servire alla glorificazione del Figlio di Dio, ossia a rivelarne ancora una volta la potenza innanzi al popolo e, come dice Andrea Cretese (in Catena), alla glorificazione dolorosa della croce, giacché la risurrezione clamorosa che la seguì, fu per il sinedrio il pretesto per decidere e stabilire la morte di Gesù; ora questi, per raggiungere fini tanto grandi, volle anche il concorso della fede e della pena della famiglia che prediligeva.
E il modo di operare di Dio, che noi dobbiamo solo adorare: rassicurò la famiglia per non disorientarla in un momento di scoraggiamento; la morte del fratello amato fu accompagnata così da un barlume di speranza che la rese meno atroce fino all'ultimo; poi nell'improvvisa delusione Gesù raccolse come gemma preziosa il dolore delle sorelle del morto, e lo raccolse come concorso alla gloria di Dio; infine andando di
persona nella loro casa utilizzò la morte per esigere da loro una fede più viva, e donò loro una consolazione immensa che le ripagò ad usura della prova. Se avessimo un pochino di maggiore fiducia in Dio, non staremmo a cavillare sulle tenebre che crediamo scorgere nella sua parola, ma l'adoreremmo in pace attendendo i suoi tempi e i suoi momenti.
Gesù decide di andare da Lazzaro
Gesù voleva bene a Marta, a Maria sua sorella ed a Lazzaro. Era una famiglia della quale poteva fidarsi, una famiglia che aveva in Lui una fede vera e soprannaturale, benché forse ancora un poco poco deficiente. La prova la scosse, senza dubbio, perché vide fallita una sua rassicurazione, ma la stessa scossa servì poi a fortificarla e ad ingigantirla, essendo scritto che virtus in infirmitate perficitur, la virtù nell'infermità si perfeziona.
Quando Gesù seppe che Lazzaro era infermo, si fermò ancora due giorni nella Perèa dove si trovava, per evangelizzare e curare il popolo che gli si affollava d'intorno. Dovette fare forza al suo tenerissimo Cuore, per così dire, giacché Egli conosceva bene che Lazzaro era morto, ma con la sua amorosa ed invisibile misericordia sostenne da lontano le desolate sorelle del defunto. I giorni che passarono dalla morte alla risurrezione di Lazzaro servirono poi a far meglio rifulgere il miracolo che voleva fare. Dopo due giorni cominciò ad accennare ai discepoli la necessità che aveva di ritornare in Galilea. Essi erano spaventati dalle minacce del sinedrio e del popolo, e Gesù volle predisporli per non agitarli, dicendo loro: Andiamo di nuovo nella Giudea.
Non manifestò loro in quel primo momento lo scopo del viaggio, e domandò quasi il loro parere, per dare ad essi l'agio di manifestare prima il loro timore. È divinamente psicologico: quando infatti l'anima reagisce in pieno ad un progetto che le incute spavento, sfoga tutto il suo timore, ed è più capace
poi di rientrare in sé quando capisce la ragionevolezza di quello che le si propone. Se le si ragionasse nello stato di spavento o di eccitamento, svaluterebbe le ragioni senza riflettervi, e sarebbe più difficile convincerla. Gesù nella sua grande delicatezza non volle condurre con sé gli apostoli senza il loro consenso, e quasi trepidando disse loro: Andiamo di nuovo nella Giudea. Essi supposero che volesse andare a Gerusalemme e spaventati gli dissero: Maestro, ora proprio i Giudei cercavano di lapidarti e di nuovo tu tomi colà? Gesù rispose con un paragone, che non c'era nulla da temere. Gli Ebrei dividevano in dodici ore la durata del giorno, dalla levata al tramonto del sole, e queste ore erano più corte nell'inverno e più lunghe nell'estate. Ora, finché durava il giorno, non c'era pericolo per chi viaggiava d'inciampare; solo nella notte poteva urtare e cadere. Egli stava ancora nel giorno della sua attività, e nessuno avrebbe potuto impedirgliela, nonostante le maligne intenzioni che avevano i suoi nemici. Andassero dunque con Lui senza timore.
Gli apostoli rimasero ancora titubanti; non risposero, ma mostrarono col loro atteggiamento che non avevano piacere di ritornare in una regione ostile e minacciosa. Gesù allora per scuotere la loro titubanza disse: Il nostro amico Lazzaro dorme, ma io vado a svegliarlo dal sonno. Non disse apertamente in quel primo momento che era morto, perché Lazzaro era amato anche dai discepoli. Nella sua infinita delicatezza non volle spaventarli d'improvviso con un annunzio ferale, e lasciò ad essi medesimi di arguirlo a poco a poco. Gli apostoli capirono che parlasse del sonno naturale, ed avendo saputo anch'essi che Lazzaro era infermo, credettero che quel sonno fosse un segno di guarigione, e quindi con più calore sostennero che non c'era ragione di andare nella Giudea a esporsi ad un pericolo mortale. Allora Gesù disse apertamente che Lazzaro era morto, ma per non rattristarli lasciò subito capire che voleva andare a risuscitarlo con un miracolo, dicendo che Egli godeva per loro di non esservi andato prima, perché il miracolo li avrebbe confermati nella fede.
Se Gesù fosse andato da Lazzaro all'invito delle sorelle di lui, non avrebbe resistito alle loro lacrime ed alle loro preghiere, ed avrebbe guarito l'infermo. Ora questo miracolo non sarebbe stato così persuasivo e commovente per gli apostoli come quello della risurrezione di un morto. Essi evidentemente erano scossi nella fede per l'opposizione minacciosa del sinedrio, ed avevano bisogno d'una luce novella per ripigliare lena e coraggio. Perciò Gesù senz'altro li invitò a seguirlo, e lo fece con tanta efficacia che essi, pur tremando, non osarono resistergli di più.
Erano mesti, intimoriti, angosciati, come chi va incontro ad un pericolo mortale, e perciò Tommaso, facendosi eco di questo stato di animo, esortò i compagni ad andare a morire col Maestro. Forse disse questo per fare un ultimo tentativo di dissuaderlo ad andare, e forse anche lo disse per amore, giacché era certo che Gesù sarebbe andato incontro alla morte. Betania distava da Gerusalemme circa quindici stadi; essendo lo stadio circa 185 metri, il cammino era breve, e Tommaso temeva molto che gli scribi e farisei avrebbero avuto molta facilità di catturare Gesù. Il miracolo, forse pensava egli, sarebbe stato un incentivo maggiore al loro furore, ed avrebbe preferito che non fosse avvenuto.
Lazzaro probabilmente morì lo stesso giorno nel quale Gesù ricevette l'invito di andare a risanarlo; Gesù rimase poi ancora due giorni nella Perèa, ed al terzo giorno si mise in viaggio, giungendo a Betania il quarto giorno dalla morte e quindi dalla sepoltura del defunto, che, secondo l'uso ebraico, si faceva lo stesso giorno del decesso. Essendo breve la distanza di Betania da Gerusalemme ed essendo la famiglia di Lazzaro tenuta in grande stima, molti Giudei erano venuti a partecipare al suo dolore. Gesù non era giunto ancora presso l'abitato del villaggio, che qualcuno corse ad avvertire Marta
della sua presenza. Marta aveva il maneggio e l'amministrazione della casa, ed era più distratta dal suo dolore per la gente che l'affollava, mentre Maria rimaneva in casa in preda a più profonda afflizione. Non fece meraviglia perciò il vedere Marta uscire in fretta, e la gente immaginò che andasse a sbrigare qualche faccenda urgente.
Appena vide Gesù, Marta gli disse: Se Tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. Non osò lamentarsi che non fosse venuto prima ma gli espresse il dolore dell'anima sua e quello che tante volte forse aveva detto insieme alla sorella. Vedendo poi la dolce serenità e bontà di Gesù, sentì nascersi nel cuore la grande speranza di veder risorto il fratello, ma non osò dirlo apertamente e soggiunse: Ma anche adesso io so che qualunque cosa Tu domanderai a Dio, Dio te la concederà. E dovette scoppiare in pianto perché Gesù consolandola le disse: Tuo fratello risorgerà. Marta per scrutare le sue intenzioni, e per costringerlo ad esprimersi più chiaramente, soggiunse: So che risorgerà nella risurrezione, nell'ultimo giorno. E continuò a piangere, perché le si affacciò il triste pensiero dell'ineluttabilità della morte. Gesù lesse nel cuore di lei quest'angoscia e questa titubanza di fede, e volle rianimarla esigendo da lei un atto pieno di fiducia in Lui. Io sono, soggiunse, la risurrezione e la vita; chi crede in me quand'anche fosse morto vivrà, e chiunque vive e crede in me non morirà in eterno. Credi tu questo? Marta nel supplicarlo aveva creduto che Gesù potesse domandare a Dio il miracolo, senza pensare che Egli stesso era Dio, e poteva farlo di piena potenza e autorità; Gesù corregge la pochezza della fede di lei, e si proclama Egli stesso risurrezione e vita dei morti, e vita dei viventi per la risurrezione spirituale e la grazia che loro concede. Marta capì di aver errato, e piena di fede soggiunse: Sì, o Signore io ho creduto che Tu sei il Cristo il Figlio di Dio vivo che sei venuto in questo mondo.
Il Maestro è qui e ti chiama
La fede le suscitò nel cuore la speranza, e sicura di quello che Gesù avrebbe fatto andò in casa e chiamò la sorella sottovoce, dicendole: Il Maestro è qui e ti chiama. Evidentemente Gesù dovette domandare di lei nel primo incontro con Marta, sapendola più affettuosa e quindi più addolorata. Marta la chiamò sottovoce per evitare che la gente si raccogliesse intorno a Gesù, giacché nei grandi dolori si desidera rimanere soli con le persone più care.
Appena Maria seppe che Gesù era venuto, si levò di scatto e corse da Lui, ansiosa di sfogare il suo dolore. Il saper presente Colui che essa amava di amore intenso le rinnovò l'angoscia della morte del fratello, come suole avvenire a chi sta in lutto, ed alzandosi scoppiò in pianto; per questo i Giudei che erano in casa, supposero che in un impeto di rinnovato dolore essa andasse al sepolcro che era nell'orto della casa, per piangervi più amaramente, e la seguirono per sostenerla e consolarla. Essa non badò neppure alla gente che la seguiva, ma corse diritto da Gesù, ed al vederlo, estremamente commossa gli si gettò ai piedi e disse piangendo dirottamente: Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto. E continuò a piangere tanto accoratamente che anche i Giudei presenti piansero.
Gesù, vedendola piangere e vedendo che tutti piangevano con lei, si turbò profondamente e fremette nel suo cuore, commosso per il dolore umano e per la poca fede di quella gente, ch'era come gregge abbandonato alla mercé delle tempeste della vita, senza conforto e senza la visuale sublime della vita eterna. Compassionò Maria, e compianse il popolo, sicché quasi ebbe fretta di operare, per consolare Maria e per illuminare il popolo, e domandò dove avessero posto il cadavere di Lazzaro.
Marta e Maria, due caratteri diversi
Si noti la differenza profonda fra il dolore di Marta e quello di Maria, e la diversità di quei due caratteri, che emerge mirabilmente dal Sacro Testo.
Marta, più abituata alle faccende di casa, era più distratta ed assillata dalle necessità della vita in quella circostanza dolorosa, non aveva quasi il tempo di riconcentrarsi nella grave perdita subita. Maria invece, tutta raccolta in se stessa, angustiata forse anche dai gravi dolori dati al fratello per la sua vita passata, dolori che le apparivano allora più gravi e come ravvivati dalla morte, era inconsolabile, ed esplodeva in tutto il suo affanno. Gesù Cristo misurò questo dolore in tutta la sua profondità, vide in lei tutte le anime gementi sulla terra per la morte delle persone care, considerò la fragilità umana nello scorgere la tomba alla quale lo accompagnarono, e lacrimò Egli pure, mescolando le sue lacrime all'angustiante pena di tutti.
E Gesù pianse
E Gesù pianse. Come sono incisive queste parole, e come sono commoventi! Pianse senza strepito, soavemente, stillando nel suo pianto balsamo di consolazione per le pene che si provano alla morte dei propri cari, e pianse meritandoci il suo conforto.
Il momento fu solenne; Gesù rimase per un poco in silenzio; era bellissimo nel suo aspetto accorato e triste, e le lacrime gli scorrevano giù per le guance divine: piangeva, era allora più che mai affratellato all'umanità che geme e piange in questa valle di lacrime; piangeva, e mostrava in quel pianto tutta la tenerezza del suo amore, tanto da suscitare le meraviglie dei circostanti, i quali esclamarono: Vedete com'Egli lo amava!
Piangeva sulla morte spirituale di tanti che lo circondavano, e specialmente degli scribi e farisei, che neppure in quella
dolorosa circostanza disarmarono, ed esclamarono: Non poteva costui, che aprì gli occhi al cieco nato, fare che quest'uomo non morisse? Pianse e fremette pensando a questa cecità ostinata, e pregò internamente il Padre perché si fosse glorificato innanzi a quella moltitudine.
Lazzaro vieni fuori!
Giunse innanzi alla tomba, che era una caverna scavata nella roccia, e coperta da un gran masso, e disse risolutamente: Togliete la pietra. Tutti tacevano, c'era intorno una mestizia profonda, e già un cattivo odore si sentiva venire dalla caverna. Marta perciò disse a Gesù: Signore, puzza già perché è di quattro giorni. Non andò all'idea che Gesù volesse aprire per sempre quel sepolcro, e suppose che volesse solo benedire la salma, o vederla per curiosità. Ma Gesù le replicò: Non ti ho detto che se crederai vedrai la gloria di Dio?
Tolsero dunque la pietra, e dovettero toglierla due uomini robusti. Tutti tacevano, anzi quasi trattenevano il respiro. Dall'aperta caverna si diffuse intorno un puzzo nauseante di cadavere in putrefazione. Non c'era dubbio che quell'uomo fosse veramente morto*. I più vicini allo speco vedevano fra le ombre la bianca sagoma della salma tutta avvolta da fasce, e col volto parimenti nascosto e legato da un sudario.
Gesù stava in mezzo al popolo, che gli si accalcò intorno per vederlo. Sollevò gli occhi al cielo, ed in quell'atteggiamento sembrò gigante in mezzo alla moltitudine. Il suo volto divino rifulgeva di maestà insolita, e le tracce del dolore vi avevano impresso una nota di commovente amabilità. Pregò: Padre, ti ringrazio di avermi esaudito. Io però sapevo che Tu sempre mi esaudisci, ma l'ho detto per il popolo che mi circonda affinché creda che Tu mi hai mandato. Egli dunque compiva quel miracolo per mostrare che era veramente Dio, chiamando il Padre, e che era veramente uomo supplicandolo ad esaudirlo. Si fermò un istante con gli occhi in alto, e il cielo era riflesso in quegli occhi e in quel volto, poi gridò a gran voce: Lazzaro vieni fuori!
La voce si ripercosse lontano, echeggiò nei cieli, e subito il morto si levò, e si trascinò fra le bende che lo impacciavano fin sull'ingresso della caverna.
Rimase lì, dinanzi al suo Creatore che lo aveva richiamato alla vita. Il popolo istintivamente arretrò, spaventato e meravigliato, e un grido si levò dalla moltitudine. Gesù rimase tranquillo; il volto gli rifulgeva d'amore; ordinò che slegassero il morto risuscitato, perché potesse andare liberamente a casa.
Il sinedrio teme la crescente popolarità di Gesù
Il Sacro Testo nella sua mirabile concisione non ci parla dell'impressione che produsse questo miracolo; ci dice solo che molti dei Giudei che erano venuti da Maria e da Marta, e che avevano visto quello che Gesù aveva fatto, credettero in Lui e che alcuni andarono dai farisei a raccontare quello che era avvenuto. Ci fu dunque un movimento di fede ardente nella moltitudine, che probabilmente non esplose in soverchi gridi di entusiasmo; certo non poterono mancare manifestazioni di giubilo, di stupore e di lode a Dio, ma i Giudei che si convertirono erano i più; rimasero come atterriti, e riconobbero d'essersi ingannati nel pensare e dire tanto male del Redentore, ripigliando la via del ritorno alle loro case. Alcuni andarono a riferire ai farisei, cioè al sinedrio, quello che aveva fatto Gesù, probabilmente non con mal animo, ma per indurli a riconoscere la verità.
La conclusione che il sinedrio ne trasse ce lo fa supporre, giacché si preoccupò che tutti potessero credere in Gesù.
L'ambasciata dunque che ricevette era per esso un argomento dell'impressione che i miracoli di Gesù facevano sul popolo.
Marta e Maria, nel vedere il fratello risorto, dovettero venir meno per l'emozione; la stessa reticenza del testo ce lo fa intuire. I più coraggiosi si avanzarono presso il sepolcro e sciolsero Lazzaro dalle bende; queste erano forse già inzuppate di tabe cadaverica, e certo mandavano il pessimo odore del morto che avevano avvolto. Lazzaro, sciolto dai legami, rientrò in casa per lavarsi tutto. Come gli dovette sembrare strana la sua dimora, dopo che l'anima sua era andata già nell'altra vita! Si guardò intorno, percorse le stanze come trasognato, si preoccupò delle sorelle, le chiamò, rinvennero, si lanciarono verso di lui ebbre di gioia, e piansero a lungo tra singulti di esultanza.
Quali momenti impossibili da descrivere! Gesù rimase ancora in casa per quel giorno; può supporsi, giacché quella casa, ospitale per Lui, non avrebbe potuto permettere che fosse andato via senza rifocillarlo insieme ai suoi discepoli. Poi dovette eclissarsi, come subito si vedrà, perché era cercato a morte dai suoi nemici, quasi che avesse commesso un'azione cattiva!
È incredibile il pensare fin dove possa giungere la scellerata ingratitudine umana verso Dio!
Sac. Dolindo Ruotolo

lunedì 28 luglio 2014

28.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 13 par. 9-10

9. Il granello di senapa
Il mondo affascina le anime perché ostenta una grandezza che in realtà non ha; esso si sviluppa come pianta cattiva che subito cresce e dà frutti di morte. La Chiesa, invece, appare come una piccola cosa, e diremmo quasi come un'utopia innanzi a quelli che la rinnegano. Ma questa piccolezza apparente ha in realtà in sé una forza di vita che nessuno sospetta, e costituisce il riposo delle creature che cercano Dio. Gesù Cristo espresse questa vitalità con la parabola del granello di senapa. È questa una pianta annuale, con numerosi rami e larghe foglie, che appartiene alla famiglia delle crocifere. Cresce abbondantemente in Palestina e raggiunge l'altezza di tre o quattro metri, in modo che veramente gli uccelli vi possono nidificare. La semente di questa pianta è piccolissima di fronte al suo sviluppo, e per questo Gesù la chiama una delle più piccole. Ora la Chiesa ha nella sua apparente piccolezza una vita meravigliosa e, come granello di senapa, cresce, si espande, fruttifica e raccoglie nelle sue braccia le anime.
10. Il lievito
Il Vangelo agli occhi del mondo sembra una cosa piccola e spregevole, senza lo splendore di quella orgogliosa e gonfia sapienza umana che cerca il suo successo nei paroloni; eppure le sue parole semplici sono come il lievito che, in piccola proporzione, messo in tre stàia di farina, cioè in circa 39 litri, la fermenta tutta e lievita la pasta dalla quale si fa poi il pane. La parabola del seminatore con tutta la semente inutilmente caduta sulla strada, fra le pietre e tra le spine, avrebbe potuto far credere quasi inefficace la predicazione della divina parola, e per questo Gesù soggiunge che essa ha una grande forza di germinazione e di espansione là dove cade, e che riempie la terra come fermento di vita nuova che muta le anime elevandole ad una vita soprannaturale altissima.
Quanti santi si sono formati alla santità e sono ascesi nelle vie della perfezione con una sola parola del Vangelo! San Francesco d'Assisi ascoltò solo quella che esortava alla povertà ed in lui essa fu veramente come fermento che gli fece concepire un grande amore alla vita umile e spregiata, e lo unì tutto a Gesù Cristo.
Chi annunzia la divina parola non deve scoraggiarsi, vedendo l'insensibilità di quelli che l'ascoltano; deve rendere lievito quella parola nel proprio cuore, pregando ed infiammandosi di amore, con la certezza che così fecondata non penetra mai invano in un cuore e lo trasforma a poco a poco.
Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 27 luglio 2014

27.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 13 par. 11

11. Il tesoro nascosto e la perla preziosa
Chi ascolta la divina parola non può illudersi che possa raggiungere il regno di Dio senza sacrificio e senza rinnegare se stesso. L'eterna salvezza è un tesoro nascosto al mondo ed è una perla d'inestimabile valore; non si può scavare il tesoro scoperto senza dare tutto quello che si ha per acquistare il campo che lo raccoglie, né si può possedere la perla inestimabile senza pagarla a caro prezzo, formato con la vendita e la cessione di beni minori. La vita cristiana non è e non può essere un divertimento, perché non ha per fine il passare più o meno gioiosamente il tempo che ci è stato assegnato da Dio, ma tende alla conquista dell'eterno tesoro, di Dio, infinita grandezza ed infinita bellezza.
Se chi scopre un tesoro nel campo vende tutto ciò che possiede per comprarlo, e chi trova una perla inestimabile dà tutto quello che ha per comprarla, chi potrà dire inutile la rinunzia di tutto fatta dalle anime consacrate a Dio, per cercare solo l'eterno tesoro?
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 19 luglio 2014

19.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 12 par. 4

4. L'uomo dalla mano arida. La congiura dei farisei
Gesù Cristo entrò nella sinagoga per insegnare, ed ecco gli fu presentato un uomo che aveva la mano arida. Probabilmente glielo presentarono apposta perché, essendo giorno di sabato, i farisei volevano vedere come il Redentore si sarebbe regolato in ordine all'infermo. Gesù tacque, ed allora essi stessi lo interrogarono e gli domandarono: È lecito curare in giorno di sabato? Se Egli avesse risposto che era lecito, avrebbero detto che andava contro le loro tradizioni; se avesse affermato che non era lecito, lo avrebbero accusato di durezza presso le turbe.
Essi, infatti, avevano come tradizione non solo di non curare, ma anche di non mettere a posto una gamba rotta in giorno di sabato, mentre la legge non comandava questo. Gesù rispose richiamando la loro coscienza su di un fatto da essi ammesso unicamente perché riguardava il loro egoismo: se una loro pecora fosse caduta in un fosso in giorno di sabato, ammettevano bene che la si poteva cavar fuori; come mai non capivano che un uomo valeva più di una pecora, e come non intendevano che il fare del bene non poteva essere una violazione del sabato?
Ad ogni modo Gesù non diede loro neppure il pretesto di poterlo rimproverare, e sanò l'infermo con una parola, ordinandogli solo di stendere la mano.
Questo miracolo avrebbe dovuto convincerli della verità del Redentore ed avrebbe dovuto convertirli; invece essi si radunarono in conciliabolo per trovare il modo di ucciderlo.
Ecco a quale eccesso li portava la falsa giustizia, poiché facevano scrupolo a curare un infermo, e non si facevano scrupolo a congiurare contro il Redentore per ucciderlo, ed a congiurare proprio in giorno di sabato.
È terribile l'accecamento al quale può condurre la falsa giustizia e la falsa coscienza!
Gesù Cristo avrebbe potuto stigmatizzare fortemente la condotta dei farisei, confondendoli innanzi alle turbe, ma preferì andarsene e si ritirò presso il lago di Tiberiade (Me 3,7). Molti del popolo lo seguirono, ed Egli li curò tutti, continuando col fatto ad affermare la liceità di fare del bene in giorno di sabato; solo comandò loro di non parlare a nessuno dei miracoli ottenuti, per non eccitare maggiormente la malvagità dei farisei, e renderli così più rei. Agì con infinito amore e con perfetta mansuetudine ed umiltà, e mostrò in se stesso l'avveramento della profezia di Isaia (42,1-4) che annunziava il Messia come esemplare di giustizia e di mansuetudine, e come ripieno di tanta delicata carità da non finire di rompere la canna spezzata, o spegnere il lucignolo fumigante, quasi avendone pietà, e da conquidere con questa carità immensa le nazioni, e guadagnarle al suo regno tutto spirituale.
Non era ancora giunta l'ora del suo sacrificio, e per questo fuggiva innanzi alla minaccia di morte, ma fuggiva per mansuetudine, per amore e compassione, non volendo rendere maggiormente colpevoli quei poveretti che per malvagità l'avversavano. L'uomo dalla mano inaridita era simbolo dello stato nel quale si trovava la medesima sinagoga, e in generale l'uomo impotente ad agire soprannaturalmente. La sua attività spirituale era torpida per l'accidia, contratta nelle cose terrene per l'avarizia, e inaridita per la mancanza di grazia; Gesù la distese ridonandole il movimento di vita, la dilatò facendola liberale verso i poveri, la rianimò con lo zelo e il fervore.
La sua parola operò questo miracolo di grazia poiché all'annunzio del Vangelo ed all'effusione della grazia dei Sacramenti l'uomo si sentì rinascere, distese nuovamente la mano destra operando il bene, e si sentì ridonato alla vita tendendo al Signore le mani supplicanti nella preghiera.
Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 18 luglio 2014

18.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 12 par. 2

2. La falsa giustizia ostacolo nella via della santità: gli apostoli che colgono le spighe e la risposta di Gesù ai farisei scandalizzati
Gesù Cristo aveva rimproverato alle città ingrate la loro ostinazione nel male, ed aveva protestato che la verità e il regno di Dio erano patrimonio dei piccoli; con questo aveva tracciato la via per non essere ingrati alla grande misericordia della redenzione. Corrispondere alla grazia facendosi piccoli innanzi a Dio con atti di sincera umiltà e di tranquilla mansuetudine era un cammino diametralmente opposto a quello degli scribi e farisei, i quali ponevano come base della loro giustizia l'orgogliosa stima di se stessi e il disprezzo degli altri.
L'evangelista raggruppa in questo capitolo dei fatti che mostrano questo falso spirito farisaico e, riportando le parole divine di Gesù, traccia con le stesse espressioni dell'eterna sapienza la via che ci conduce alla verità ed al bene.
Gesù passava di sabato per i campi ripieni di messe matura, e i discepoli, avendo fame, cominciarono a cogliere delle spighe ed a mangiarle. Questo era espressamente permesso dalla Legge (Dt 23,25) e non costituiva perciò un fùrto. I farisei, però, gretti e chiusi nei loro pensieri, riguardavano il cogliere le spighe un lavoro, quasi fosse una mietitura, e siccome la Legge vietava la mietitura di sabato (Es 20,10), se ne scandalizzarono e ne mossero lamento a Gesù.
All'apparenza sembrava che essi zelassero la piena osservanza della Legge, ma, in realtà, coglievano l'occasione per manifestare il loro astio e, perciò, il Redentore rispose con un atto di delicata carità, difendendo e scusando i suoi discepoli con un argomento che sembrerebbe sproporzionato alla questione, se non fosse dettato dalla carità, e se non rivelasse il mistero della presenza di Lui, tempio vivo di Dio in mezzo all'umanità.
Davide, fuggito a Nobe ed avendo fame, ebbe dal sacerdote Achimelec i pani santi della proposizione perché non ve ne erano altri. Questo atto sarebbe stato una profanazione se non ci fosse stata l'impellente necessità39, e nessuno oserebbe tacciare di male quello che fece Achimelec. Questi si lasciò convincere a dare i pani santi, perché credette vera la scusa di Davide, che affermava di essere andato là per compiere una missione segreta del re (1Re 21,2). Ecco gli apostoli sono raccolti intorno a Lui per compiere una grande e vera missione; fuggono dall'ira di satana, e vanno al suo Cuore divino, tempio vivo di Dio, ora sono spregiati e perseguitati ma saranno come i re delle anime che saranno loro affidate, essi dunque sono più di Davide in realtà e ciononostante non giungono nella necessità a sorpassare una legge severa ma si cibano per sostenersi, come era loro permesso. Gesù con quella sua risposta manifestava dunque un mistero, o meglio parlava guardando la realtà di ciò che avveniva, e che superava di gran lunga il penoso cammino che percosse Davide per conseguire il suo regno; il vero Davide era qui, e cominciava la sua carriera di pene per conseguire il suo regno; i suoi discepoli erano i compagni del suo cammino; avevano tutto abbandonato e potevano cibarsi delle spighe assai più di quello che non poterono Davide e i suoi cibarsi dei pani sacri riservati ai soli sacerdoti.
Questo significato misterioso delle parole di Gesù risulta dal contesto, anzi acquista maggiore importanza se si considera l'altro argomento che il Redentore porta in difesa dei suoi discepoli; i sacerdoti nel tempio compiono, in giorno di sabato, molte azioni che sarebbero in sé un lavoro: uccidono le vittime, le scorticano, le pongono sul fuoco, e nessuno osa dire che violano il sabato.
Con un atteggiamento solenne Gesù soggiunse: Io poi vi dico che vi è qui uno più grande del tempio. Egli è il tempio vivo di Dio, gli apostoli ne sono come i sacerdoti; la loro vita è tutta dedicata a Lui ed essi, raccattando in elemosina le spighe dei campi, perché hanno tutto lasciato per amore, rinnovano la loro spontanea immolazione. Quel gesto che era permesso dalla legge proprio per i poveri, diventava in loro una testimonianza della loro povertà e quindi era come il rinnovarsi del loro sacrificio fatto al Signore per seguirlo; poteva perciò considerarsi come un atto sacerdotale, e non doveva considerarsi come un lavoro, ancorché fosse stato così disposto dalla Legge.
Parlando di sacerdoti e di tempio, mentre gli apostoli coglievano le spighe di grano, Gesù aveva presente il suo sacrificio eucaristico e, guardando lontano, considerava gli apostoli come veri mietitori della spiga del cielo; quell'atto diventava un simbolo ed una figura4 , e come tale non poteva essere un reato, ma l'annunzio di una grande misericordia; per questo Egli soggiunse misteriosamente: Se voi comprendeste quel che vuol dire questa parola: Io voglio la misericordia e non il sacrificio, non avreste mai condannato individui senza colpa. Ai farisei volle dire che Egli non voleva tante restrizioni, ed amava la bontà e la carità verso tutti, ma guardando più lontano, Egli alludeva a quella misericordia infinita che doveva supplire col sacrificio del suo Corpo e del suo Sangue, sotto i veli eucaristici, i sacrifici cruenti, e riguardava perciò gli apostoli come gli anticipatori di questo annunzio in quel gesto che misticamente aveva altro significato.
Del resto, soggiunse Gesù, il Figlio dell'uomo è padrone anche del sabato, e con queste parole confermò che Egli stesso aveva mosso internamente gli apostoli o li aveva autorizzati esplicitamente a cogliere le spighe. Anche se fosse stato un lavoro, Egli l'aveva loro permesso come padrone del sabato, essendo Dio, a cui apparteneva il sabato. Come padrone del sabato, un giorno lo farà abolire per sostituirvi la domenica e, poiché la nuova Legge cominciava con Lui, era anche padrone di dispensare allora stesso dalla legge del sabato.
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 15 luglio 2014

15.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 11 par. 9

9. Il Cuore di Gesù, il segreto di una pace internazionale
Gesù Cristo volle precisamente mostrare il suo Cuore e volle additarlo come rimedio supremo all'umanità che rifiuta il suo giogo nell'apostasia universale; il versetto del Vangelo è come il primo annunzio della rivelazione fatta a santa Margherita Alacoque, rivelazione che la Chiesa ha solennemente riconosciuta. Egli è il Maestro, e l'umanità apostata non vuole riconoscerlo, e rifiutando Lui rinnega il Padre, rinnega Dio. L'orgoglio umano scuote il giogo della sapienza e dell'amore, e si dà con pazza violenza alla conquista dei beni terreni; Gesù sfata questa pazzia, affermando che, per raggiungere la pace e la felicità interna, bisogna umiliarsi, farsi piccoli, essere docili e mansueti innanzi a Dio e agli uomini, come Egli lo è stato. Non c'è altra via per mantenersi fedeli alla misericordia che Egli è venuto a portare in terra, e per sfuggire all'ingratitudine che Egli rimprovera a Corazin, a Betsaida ed a Cafarnao.
In un mondo senza pace e senza amore, fondato ormai sulla violenza del più forte, e potremmo dire sul massacro del più debole, non c'è altra via di salvezza che la mansuetudine e l'umiltà imparata dal Cuore Sacratissimo di Gesù.
Bisogna sapersi vincere nelle irruenze del carattere e nella prepotenza dell'orgoglio, e bisogna persuadersi che queste virtù non sono necessarie solo all'individuo, ma anche alla società. Non si può instaurare il dominio della forza brutale e dell'orgoglio che tutto vuole accentrare a sé e tutto vuol dominare, e pretendere che non ci sia altra via per conservare la preponderanza di una nazione sull'altra. Solo a questa condizione è possibile conservare nel mondo la pace.
La pace dell'anima è frutto dell'armonia con tutti e della placida moderazione delle proprie aspirazioni; la pace delle nazioni sta nell'armonia interna ed esterna di uno stato e nel mantenere la propria fisionomia, per così dire, di fronte alle altre nazioni senza presumere di volersi ingrandire a spese delle altre. È necessario sottomettersi a Gesù Cristo, poiché questo è il vero segreto dell'internazionalismo sapiente che diventa cattolico, apostolico, romano. L'internazionalismo che non è fondato sulla piena accettazione del giogo soavissimo del Vangelo non è unione di tutti i popoli, ma è massacro e barbarie, come si è visto dolorosamente nell'internazionalismo comunista, che è passato come un uragano di ferro, di fuoco e di rovine in tutte le nazioni che ha infestate.
Sac. Dolindo Ruotolo

lunedì 14 luglio 2014

14.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 10 par. 11-12

11. La lotta col mondo...
Gesù parla dei maggiori cimenti ai quali saranno esposti i suoi cari, e minaccia di non riconoscere innanzi al Padre chi non lo confesserà; che cosa deve dire di quei poveri cristiani smidollati che lo rinnegano per un vilissimo rispetto umano? Per lo sguardo di un povero stolto, per una falsa convenienza umana, per un misero interesse temporale, per non rinunziare ad una vanità, ad una degradazione della dignità cristiana, tanti fingono di non credere o di non praticare la loro fede, e si associano ai perversi, pur non consentendo con loro! Sono atti di viltà indegni di un cristiano, sono colpe che meriteranno un giorno la condanna del Giudice Supremo, il quale non ci potrà riguardare come suoi discepoli.
Non ci può essere conciliazione alcuna tra il mondo e Gesù, tra la verità e l'errore, fra il male e il bene, e per questo il Redentore proclama solennemente che non è venuto a mettere sulla terra la pace ma la guerra. Anche se tra il padre e il figlio, la madre e la figlia, la nuora e la suocera c'è divergenza di aspirazioni e di idee, ed uno tira per il mondo e l'altro per il Cristo, essi sono irriconciliabili in questo. I suoi fedeli seguaci debbono aspettarsi la lotta persino dai più intimi parenti, e debbono saper rinunziare anche agli affetti più cari per seguire la verità e il bene.
Chi ama il padre e la madre, il figlio o la figlia più di Gesù Cristo, cioè contrastando al suo amore ed alle sue massime, non è degno di Lui, perché è impossibile conciliare un amore che si lega tutto alla terra e ne segue le degradazioni, con un amore ineffabile che trae l'anima al cielo e la sublima nelle eterne aspirazioni.
Solo un Dio poteva parlare così, solo un amore ineffabilmente divino poteva attrarre e volere attrarre a sé tutte le anime, solo il Redentore che porta la croce per salvare poteva invitare categoricamente i suoi seguaci a portare la croce per salvarsi.
I mestatori lusingano le passioni, ed anche quando esigono la separazione dalle persone più care, non sanno dare in cambio l'amore, ma l'odio, la ribellione, il fanatismo, la crudeltà.
Gesù Cristo esige l'amore pieno ed incondizionato, perché vuol dare l'amore pieno e generoso del suo Cuore; sottrae il suo seguace all'amore della carne quando gli è d'impedimento alla vita dello spirito e lo trae appresso di sé sulla via del Calvario, per incamminarlo sulla via dell'eterna gloria. È un programma meraviglioso; non curare la vita presente per guadagnare la vita eterna, non far caso delle miserie di un momento per conquistare le ricchezze immarcescibili; è la vera sapienza, è il vero orizzonte di una vita eroica che solleva la creatura alle altezze eterne.
12. Gesù identifica gli apostoli con la sua persona
In mezzo alle angustie della vita di prova, che Gesù prospetta ai suoi apostoli e ai seguaci di tutto il mondo e di tutti i secoli, Egli dà loro il conforto più bello quasi identificandoli con la sua persona: chi riceve con amore un suo discepolo riceve Lui stesso, riceve Dio stesso, che riguarda fatto a sé quello che si fa alle sue creature predilette. Chi riceve un profeta come profeta, aiutandolo nel suo ministero, ricevere la mercede del profeta, perché partecipa ai suoi meriti, e chi riceve un giusto, cioè un uomo santo, riceve la mercede che merita l'uomo di Dio per la stessa ragione; un apostolo è profeta ed è giusto, perché annunzia la verità e glorifica Dio con la sua vita santa; chi lo riceve dunque e lo aiuta nei suoi lavori apostolici partecipa ai suoi meriti, e persino chi gli dà un bicchiere di acqua fresca, riguardando l'apostolo come figura del Redentore, non perderà la sua mercede. Gesù sapeva bene di poter contare sull'amore che le anime avrebbero avuto per Lui, sapeva che in tutti i secoli al solo suo Nome si sarebbero fatti i più grandi sacrifici; Egli perciò vuole che si riguardi come Lui stesso un suo apostolo e un suo sacerdote, e vuole che gli si faccia quello che si farebbe a Lui stesso.
Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 13 luglio 2014

13.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 13 par. 2-5

2. L'insegnamento sul regno di Dio in parabole
Gesù parlava quasi sempre per similitudini e paragoni presi dalla vita o da particolari circostanze, per rendere più vivi i suoi insegnamenti, e più penetranti nell'anima. La parabola ed il paragone, infatti, sono come una scena viva che attrae chi ascolta, gli rende difficile il distrarsi, previene le sue difficoltà, e gli fa accogliere più facilmente la Parola di Dio.
Nelle parabole raccolte nel presente capitolo Gesù volle mostrare lo sviluppo del regno di Dio sulla terra, ossia della Chiesa, e parlò velatamente affinché i malintenzionati, che aspettavano un regno temporale del Messia, non ne avessero preso occasione per disorientare maggiormente il popolo. Con la parabola del seminatore descrisse lo sviluppo del regno di Dio nel cuore degli uomini e nell'apostolato; con quella del grano e della zizzania mostrò che nello sviluppo esterno della Chiesa i buoni sono mescolati ai cattivi; con quella del granello di senapa e del lievito mostrò la rapida diffusione del regno di Dio coi mezzi più umili; con quella del tesoro e della perla ne mostrò la preziosità, e con quella della rete il riepilogo della fine dei tempi.
Siccome poi, il regno di Dio è anche dentro di noi, così le parabole possono avere una particolare applicazione all'anima. Gesù fece egli stesso l'applicazione della parabola del seminatore all'anima, e quella del grano e della zizzania alla vita della Chiesa.
Uscì dunque il Redentore dalla casa che l'ospitava, e sedette in riva al mare. Egli che aveva detto ai suoi apostoli: vi farò pescatori di uomini, s'era fermato sulla riva per pescare quasi le anime, attraendole con la sua bontà. Si radunò infatti intorno a Lui una gran turba di popolo, ed Egli, per meglio parlare e farsi ascoltare, prese posto in una barca e parlò così al popolo che stava sulla riva. Non era un gesto casuale, perché quella navicella rappresentava la Chiesa, ed Egli che vi prese posto ne annunziava il magistero infallibile.
3. La parabola del seminatore
La prima parabola che propose al popolo era come uno sguardo che dava al cuore e alle disposizioni del suo uditorio, poiché in quel momento Egli gettava la semente della divina parola nelle anime e la gettava con vario frutto. Un seminatore che lasciasse cadere la semente sulla strada fra i sassi e fra le spine non sarebbe un seminatore accorto, ma, avendo sovrabbondanza di semi, la sua stessa ricchezza gliene farebbe cadere una parte sulla strada, tra pietre e tra le spine. Gesù Cristo è venuto in terra per seminare la divina parola, è venuto con una sovrabbondanza di misericordie per salvare tutti e per dare a tutti i mezzi di salute; Egli dunque semina dovunque, anche nei cuori duri, benché sappia che in realtà la sua semente andrà perduta; benefica tutti, muore per tutti senza accettazione di persone, ed attende il frutto dell'umana corrispondenza.
È sempre Gesù che fa la grande semina della divina parola, perché gli apostoli e i loro successori lo rappresentano ed agiscono in suo nome; la semente che Egli dona è sempre buona e atta a germinare, perciò non c'è caso nel quale l'uomo possa dire di aver ricevuto un aiuto insufficiente; non è cattiva la semente, ma la terra dove essa cade, quando non produce frutto, o lo produce imperfettamente.
Il seminatore viene dalla strada col grembiule pieno di semi, e logicamente per entrare nella terra percorre prima un tratto di strada, poi attraversa la maceria del campo, poi la siepe irta di spine e infine va nella terra buona e fino ai luoghi meglio esposti e più ubertosi. E questa la ragione per cui dal sovraccaricato grembiule sfugge parte della semente sulla strada, tra le pietre e tra le spine. Anche il predicatore della divina parola, per giungere alle anime capaci di fecondità, deve parlare a tutti, e passa quasi per la strada del mondo tra le pietre delle anime superficiali, e tra le spine di quelle assalite dalle passioni.
Il popolo ebreo fu per Gesù come la strada per giungere a tutte le anime, e in mezzo ad esso la parola fu come divorata dal maligno, senza portare frutto. Dagli Ebrei la parola passò ai popoli circostanti ed ai Greci, dove sembrò germinare perché accolta con esultanza, ma poi non fruttificò perché cadde tra le pietre della cultura umana e non pose radici. Dal mondo greco passò a quello romano, irto di spine di passione, e fu soffocata dalle sollecitudini del secolo presente e dalla seduzione delle ricchezze. Essa però trovò la terra buona nelle anime che sinceramente fecero parte della Chiesa, e fruttificò, come dice sant'Agostino, il cento per uno tra i martiri, il sessanta tra i vergini, il trenta fra quelli che vivono santamente nel mondo.
Nel campo particolare delle anime avviene spesso che molti ascoltano la divina parola ma pochi ne traggono frutto, secondo quello che dice Gesù Cristo stesso spiegando la parabola.
Vi sono quelli che ascoltano più per curiosità che per trarne profitto, e la parola viene loro rapita dal maligno; ascoltano e poi dimenticano tutto, o non vi fanno più caso e ritornano ai loro vani pensieri.
Vi sono quelli che ascoltano, provano un diletto spirituale nell'evidenza della verità, propongono anche di confessarsi e cambiare vita, ma alle prime contraddizioni e persecuzioni mutano pensiero e ritornano alla vita di prima.
Vi sono infine quelli che accolgono la divina parola, ma pretendono conciliarla con la sollecitudine delle cose terrene e delle ricchezze, e la soffocano nel loro cuore.
Per ricevere con frutto la parola di Dio bisogna essere terra buona, cioè bisogna avere le disposizioni interiori per meditarla, svilupparla e metterla in pratica.
4. Perché Gesù parla in parabole?
Gli apostoli si meravigliarono che Gesù parlasse in parabole, perché non capirono che cosa Egli avesse voluto dire con quella del seminatore. Dopo il semplice e chiaro discorso delle beatitudini, sembrava ad essi enigmatico il parlare con parabole delle quali non riuscivano a capire l'applicazione. Perciò vollero interrogarlo; ma, ricordando le severe parole che Egli aveva dette agli scribi e farisei (vedi capitolo precedente), non ebbero il coraggio di domandare una esplicata spiegazione a Gesù, temendo forse di averne un rimprovero, e perciò si limitarono solo a chiedergli perché avesse parlato a quel modo. Questo si rileva chiaro dalla risposta del Signore. Egli infatti rispondendo al loro desiderio nascosto, disse: Perché a voi è stato concesso di intendere i misteri del regno dei cieli ad essi invece non è stato concesso. Cominciò col promettere loro la spiegazione di ciò che aveva detto, perché essi ascoltavano la divina parola con semplicità, e protestò con rammarico di non poter fare la stessa spiegazione agli scribi e farisei, perché, con la loro opposizione maligna alla verità, avevano perduto la stessa possibilità d'intenderla e di farla fruttificare in loro. Erano stati chiamati alla fede, ma avevano rifiutato la verità, ed avevano perduto anche ciò che avevano rendendosi incapaci di intenderla.
Chi ha la grazia e vi corrisponde sta nell'abbondanza spirituale, ma chi di proposito non corrisponde perde anche la grazia che aveva. Gesù espresse questa grande verità con un proverbio comune dicendo: A chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha; il ricco acquista facilmente nuove ricchezze, ed il povero, non avendo proventi, perde facilmente quel poco che ha; così avviene nel campo della grazia. Gli scribi e i farisei saranno privati anche del poco che hanno, e Gesù, applicando loro un passo difficile d'Isaia (6,9), giustifica meglio perché parla loro in parabole: Egli vuole renderli meno rei, e ritardare in essi la perdita definitiva di ciò che hanno, per concedere loro altro tempo di penitenza. Essi infatti, vedendo evidentemente i prodigi che Egli compie, non vedono perché li attribuiscono a satana, e udendo la divina parola, non l'ascoltano perché ne travisano il senso; questa grande ingratitudine fu annunziata già da Isaia come una causa prossima dell'accecamento del loro cuore, e Gesù per renderli meno responsabili parla in parabole ed annunzia velatamente le grandi verità del regno di Dio, che essi traviserebbero innanzi alle turbe. L'ingratitudine degli scribi e farisei è tanto più grave, in quanto che essi vedono ed ascoltano quello che gli antichi desiderarono vedere ed ascoltare, e che i posteri invidieranno loro, rendendo vano in essi così un beneficio divino unico e singolare.
5. Il mondo è senza pace, perché rifiuta il Vangelo!
La Chiesa semina nel mondo la parola del regno di Dio, insegnando con la sua infallibile autorità le verità eterne; ma quante volte il mondo rende vano il suo insegnamento, lo stronca e lo soffoca, rimanendo nelle sue barbarie, anche quando sembra avere fulgori di civiltà!
Le strade del mondo sono piene di insidie diaboliche, poiché l'errore vi circola, le appesta e fa sparire ogni segno di verità. Dove sembra che la fede ancora alligni, spesso è semente sbocciata fra le pietre e fra le spine; non ha vita rigogliosa, ma pochi germogli che intristiscono senza frutto.
E così che la vita di tanti popoli cristiani a mano a mano si paganizza, e di tanta semina fatta dai primi apostoli non rimangono che sterpi inutili, apparenza senza vita, rami disseccati, senza frutto.
Il Vangelo avrebbe potuto dare alle nazioni una vita di vera prosperità e di profonda pace, e il mondo l'ha rifiutata; si dibatte fra le strette di morte e non capisce che non avrà pace finché non sia ritornato alla luce del Vangelo nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana.
Quante volte il Signore ci fa ascoltare la sua parola per mezzo dei sacerdoti, e noi l'accogliamo come se fossimo pubbliche strade, con animo dissipato, o come pietre, col cuore indurito, o come spine, soffocati da tante passioni! Raccogliamoci in Dio, ed offriamogli un cuore fecondo come terra buona, dove la sua grazia possa germinare. La terra è buona quando è vangata e concimata, e il nostro cuore è concimato dal dolore e dalla tribolazione, ed è vangato dalle umiliazioni della vita, e dalle persecuzioni del mondo.
O mio Gesù, quale ricchezza produrrebbe questo cuore se fosse tutto tuo, se non si facesse avvelenare dalle miserie della natura, se si aprisse a Te nella più profonda umiltà!
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 12 luglio 2014

12.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 10 par. 9-10

9. Fortezza nella prova e umiltà nella forza
Gesù Cristo non vuole che si affrontino inutilmente le opposizioni e i pericoli, perché non esorta alla pazienza nelle persecuzioni quasi per ostentare un eroismo umano; vuole la fortezza nella prova e l'umiltà nella stessa fortezza, indulgendo alla umana debolezza che non sempre sente la forza di affrontare i pericoli; perciò esorta i suoi apostoli, e per essi tutti, a fuggire in un'altra città quando sono perseguitati, e di allargare così sotto l'uragano stesso della persecuzione la diffusione della buona novella. Egli parla direttamente ai suoi apostoli, che dopo la sua morte si sarebbero visti costretti a nascondersi, ed accennando alle difficoltà dell'evangelizzazione di Israele, dice loro che non termineranno di annunziare il Vangelo alla loro nazione, prima che venga il Figlio dell'uomo, cioè prima della fine del mondo.
La prospettiva delle persecuzioni doveva essere penosa per la umana debolezza e perciò Gesù Cristo confortò i suoi cari col suo esempio: Egli è stato trattato e sarà trattato come faranno con loro gli uomini; anzi è stato vilipeso fino ad essere chiamato Beelzebùl, demonio. Egli va avanti nella via della croce, e un suo discepolo dev'essere contento di rassomigliargli, perché un discepolo non può essere dappiù del maestro, né un servo più del padrone. Essi debbono annunziare la verità senza timore, pensando che si dovrà conoscere tutto quello che ha fatto il Signore, per la sua gloria, e che nel giorno del giudizio si conoscerà la verità, e si saprà valutare la grandezza vera di chi l'ha accolta e l'ha praticata.
I  persecutori possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l'anima, e quindi anziché aver timore di loro e tacere la verità, bisogna temere Dio che può perdere l'anima e il corpo nell'inferno. Queste parole di Gesù hanno suscitato l'eroismo dei martiri cristiani, i quali dinanzi ai tormenti più terribili, non hanno esitato un momento, ed hanno conservato tutta la sublime e placida fierezza del loro carattere cristiano. Basti citare l'esempio recentissimo del celebre giureconsulto spagnolo Victor Pradéno, che catturato dai bolscevichi, e posto dinanzi al plotone di esecuzione, col Crocifisso in mano gridò ai suoi carnefici: Io muoio ma Cristo non muore; muoio pregandolo affinché Egli renda buoni i vostri figli, o Spagnoli. In questa croce è la via, la verità e la vita. Parole sublimi di un martire glorioso che non temeva quelli che uccidono il corpo.
II  celebre generale Moscardo, difensore dell'Alcazar, protagonista di quella storica epopea di eroismo mai visto nella storia, chiamato al telefono dal figlio, catturato dai comunisti, pochi momenti prima della fucilazione, gli gridò da forte, l'ultimo saluto: Viva Cristo Re, viva la Spagna!
Era il grido di un padre che innanzi al massacro del proprio figlio, non temeva quelli che uccidono il corpo. Le parole di Gesù Cristo hanno suscitato e suscitano sempre il più puro e il più forte degli eroismi, un eroismo senza ostentazione e senza alterigia, senza odio e senza violenza, grande nell'immolazione, nell'amore, nella bontà, nella placida e modesta bontà. Il mondo non ha conosciuto e non conoscerà nulla di più bello e di più luminoso.
10. Tutto il Signore dispone per il nostro bene
Ma non basta non temere i malvagi, Gesù vuole nei suoi un pieno abbandono alla divina volontà, sapendo che tutto è disposto dal Signore per il nostro maggior bene e che nulla accade senza la sua permissione. Due passeri si comprano per un asse, cioè per circa 7 centesimi37, eppure uno di questi animaletti di così poco prezzo non cade sulla terra senza il permesso di Dio. Con quanta maggiore cura il Signore penserà a noi, dei quali conosce anche il numero dei capelli?
Egli permette le persecuzioni per il nostro maggior bene, e noi dobbiamo confessare il suo Nome a fronte alta innanzi a tutti, con le parole e con le opere per non essere sconfessati da lui dinanzi al Padre nel giorno del giudizio.
Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 11 luglio 2014

11.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 19 par. 7

7. La felicità della rinunzia per amore di Dio. La verità del centuplo che frutta in questa vita
Prima di terminare questo capitolo, sentiamo la necessità d'insistere sulla profonda felicità di chi tutto lascia per Gesù Cristo, e sui frutti che la rinunzia produce in questa medesima vita. Abbiamo anzi per un giorno intero pregato e fatto pregare il Signore per avere lumi speciali in proposito, giacché è troppo amaro e desolante lo spettacolo che offrono tante anime consacrate a Dio, le quali riguardano come una sventura il loro stato, e si arrovellano in pene disperate, quando potrebbero godere di una pace patriarcale e profonda nelle mani di Dio. Le lacrime che versano, le ire che sentono contro se stessi e la società, lo stato di esasperazione cui giungono, desiderando vanamente la morte invece di orientarsi subito alla vita vera, l'avversione che nutrono verso quelli che li circondano e verso i propri parenti più intimi, quasi in cerca del responsabile di uno stato anormale, tutto questo non è che la feroce irrisione di satana che si proclama dominatore nuovo in un novello
Eden profanato nuovamente dal desiderio di cogliere e mangiare un frutto proibito, un frutto di morte! Dove mai si orientano quelle povere anime che si chiamano fallite, e che cercano avidamente l'aria che manca ai loro polmoni tra le esalazioni dei pantani del mondo?
Che cosa cercano questi cuori atrofizzati e inaciditi, che vorrebbero domandare in elemosina un sorriso beffardo della creatura, mentre potrebbero essere tra i sorrisi dell'eterno Amore?
Che cosa vogliono conseguire questi cuori invecchiati dalla brama del male, che in età già tarda cercano un nuovo innesto di vita, come poveri Voronoff disillusi66, e trovano solo l'innesto ghiandolare di una mutilata scimmia?
Quale ingiuria non fanno al Signore questi falsi testimoni, esploratori mendaci della terra promessa, che portano a spalla come frutti della terra benedetta i frutti della loro miseria, e pretendono mostrare la sterilità del fuoco sacro, ostentando la mota del loro cuore, tempio desolato, dove al posto dell'altare di Dio fu posto quello di Belial?
Che cosa dicono questi poveri infelici che vogliono trovare la logica nelle circonvoluzioni della follia e che dall'abisso delle tenebre del peccato levano le scarne ed infedeli mani, prima consacrate dall'amore, atteggiandosi a nuovi legislatori, e nuovi Mosè che, invece di promulgare la Legge di Dio, segnano sulle tenebrose tavole del traviato cuore la legge della più esosa schiavitù della carne?
Dove vanno questi esseri smarriti, che frugano fra le macerie dei sepolcri per trovarvi la scintilla della vita? Non si leva per essi, sulle plaghe desolate, dove errano, sulle valli agghiacciate, rimbombanti dei laceranti scrosci delle valanghe che rovinano, sui crepacci aperti sotto i loro piedi, dove mugola il vento della tempesta, sulle scoscese e strapiombanti rocce alle quali sono sospesi in cerca di emozioni, una voce amica, patema, anzi materna che gridi dalla vetta da essi smarrita e li chiami perché ritrovino la via?
Vorremmo avere la voce dei profeti, voce ricalcata sulle grandi visioni della verità che essi avevano, per mostrare alle anime smarrite la via che percorrono e per additare loro quella che è loro vera felicità; vorremmo essere in questo momento come riflettore potente dell'eterno Amore, per illuminare la notte profonda di queste creature infelici, che molte volte con le loro mani stesse aprono i vestiboli delle tenebre eterne, e picchiano alle porte di satana per avere almeno la vita dei sensi, affogando miseramente nella tabe dei morti!
Esse si proclamano infelici, e disperate cercano chi almeno le compatisca; si voltano d'ogni intomo come navicella nel vortice e, quando tendono l'orecchio per ascoltare una voce amica, ascoltano il muggire della tempesta, e più disperate odiano tutto e tutti, anticipando il coro spaventoso delle maledizioni eterne verso le quali vanno come legni di naufragio tra il mulinare del vortice!
Le lacrime di Geremia non sono sufficienti a piangere su tanta sventura, purtroppo non rara tra le anime elette alla felicità, le sole che nell'esilio potevano respirare l'aria della Patria, le sole che nell'intelletto potevano ricevere la luce eterna, e nel cuore l'ineffabile amore che non tradisce mai. Come mai siede solitaria sulle sue rovine l'anima prima arricchita di grazie? Come mai è schiava quella che era sovrana, ed è sottoposta al tributo colei che era affrancata? Il nemico ha steso la mano sopra ciò che le era più caro, ed essa ha veduto entrare nel santuario del suo cuore quelli che non avrebbero dovuto toccarne neppure il vestibolo. Un fuoco di concupiscenza è nelle sue ossa, una rete è tesa ai suoi piedi, il giogo delle sue
iniquità s'è rinnovato, ed essa è calcata nel pressoio delle sue disperate angustie!
Fugge l'anima infedele all'amore, come avesse alle spalle l'incendio
Fugge l'anima infedele all'amore, fogge come chi ha alle spalle l'incendio; grida, invoca aiuto e guata se stessa come se fosse in fiamma; eppure basterebbe che si fermasse un momento solo, e mirasse quello da cui fogge, per vedere non più un incendio distruttore ma un'aurora rutilante, promessa di un giorno di eterna luce!
Che cosa è in realtà la rinunzia che Gesù Cristo domanda alle anime che volontariamente gliela promettono? Siamo sempre pellegrini, e non dobbiamo dimenticare che questa terra è valle di lacrime; tutto quello che possiamo avere è sempre un fiore pieno di spine; tutto quello, invece, a cui rinunziamo per amore fiorisce nell'amore. La casa è angusta, anche se fosse una reggia, perché il posto del pellegrino è sempre ristretto; le mura non dilatano il cuore, lo restringono, e la rinunzia della casa fatta per amore dà all'anima la libertà di spaziare nel desiderio dell'eterna dimora. La cella che si abita con amore diventa cento volte più larga, più alta, più luminosa; è il vestibolo del posto che ci è assegnato nel regno eterno, dove la meditazione quotidiana ci fa spaziare, dove il cuore sospira e si sazia.
Che cosa sarebbe per noi una casa cento volte più bella di quella che abbiamo? La stamberga sarebbe un palazzo, la piantina che ne adorna l'entrata e sembra che pianga anch'essa, cisposa, con le foglie ingiallite dell'umido, sarebbe invece un giardino; le pareti lichenose, chiazzate di muffa, sarebbero affrescate da belle scene... Null'altro! Non si potrebbe desiderare di meglio, e chi lasciasse la stamberga per il palazzo farebbe la sua fortuna. Ora guarda la cella dove cerchi veramente Dio: è senza angustia, poiché le mura e la soffitta confinano col cielo eterno; non è ornata ma Tadorni tu con le mirabili scene che ti rappresenta la fede nella meditazione; quelle mura le diresti bianche quasi per ricevere tante proiezioni di vita. Più è piccola e più si fa grande, poiché lo spirito in quella povertà si dilata, e in quella piccolezza si fa gigante.
Nella casa del mondo potresti trovare un pianoforte, qui trovi le armonie dei canti dell'anima, accompagnati non da un misero accordo, ma da campane osannanti, da luci accese di aurore e di tramonti, da gioiosi gorgheggi di uccelli, e persino delle lontane voci del povero mondo, dei venditori, dei chiassoni, degli arruffoni, che giungono a te come gemiti di infelicità, accordi minori e dissonanze squillanti che fanno risaltare il canto dell'anima tua.
Non è un modo di dire di Gesù, è la verità; tu hai trovato il centuplo per la casa lasciata per suo amore.
Nella casa del mondo sei in gabbia, perché tutto ci rende schiavi,
nella casa di Dio sei libero, anche se avesse la grata;
quel cancello non chiude te, ma il mondo;
non è il ferro della tua prigione,
ma è quello della prigione del mondo;
tu spazi nella vita,
esso s'agita nella morte!
Questa è la realtà!
La famiglia religiosa
Tu lasci per amore di Gesù i fratelli, le sorelle, il padre, la madre, la moglie o i figli; considera qual è il centuplo che puoi aspettarti: fratelli più numerosi, aventi un sol pensiero con te, incapaci di sfrattarti e di tradirti, sorelle nell'amore
dello Sposo divino che è padre di tutti, e nell'amore di Maria Santissima Mamma incomparabile...
Tu m'interrompi, e guardi con pessimismo queste ricchezze di affetti, perché ti sembra di sperimentare l'opposto!
Non è un difetto della promessa di Gesù ma è una lacuna del tuo cuore, chiamato ad un amore soprannaturale e non già alle misere espansioni della fantasia. Se i tuoi fratelli di spirito fossero lontani dall'anima tua, se fossero anche cattivi, tu li riguarderesti come fratelli infermi, e il tuo amore soprannaturale si sazierebbe di carità, unica fratellanza vera che fiorisce nel cielo. E se neppure questo ti fosse possibile per la solitudine morale o materiale che ti circonda, tu troveresti i fratelli e le sorelle del cielo nel coro dei santi, dove la fratellanza è gioia eterna della famiglia immortale.
Considera in realtà che cosa sono nella vita i fratelli e le sorelle, salvo qualche eccezione rara che può trovarsi solo nel campo dello spirito. Spesso non c'è elemento più disunito quanto quella della propria parentela: la diversità di carattere, di aspirazioni, di interessi, di vita può stabilire profonde divergenze ed anche profonde scissure tra quelli che sono più vicini. Se formano famiglia a parte sono concentrati nella loro famiglia, se non la formano sono attratti dal loro egoismo. E poi, anche se sono fusi nell'amore, declinano, e ad uno ad uno spariscono dalla scena del mondo, lasciandoci in retaggio la desolazione.
Tutto invecchia, fuorché la famiglia religiosa, dove continuamente fiorisce la vita e dove l'elemento giovane è fuso col vecchio, in una sola aspirazione comune, che trascende ogni interesse terreno.
La famiglia del mondo
Che cosa sarebbero la moglie, il marito, i figli nella vita? Basta dare uno sguardo al mondo per convincersene. La poesia diventa prosa affannosa, gl'ideali si sfrondano, le bellezze si sfiorano, le miserie s'accrescono, le responsabilità si moltiplicano, le amarezze s'accumulano, e quello che di lontano può apparire felicità da vicino è solo, come dice san Paolo, tribolazione della carne. Tu invece consacrandoti a Dio lasci la moglie e sposi la Chiesa, lasci il marito e sposi Gesù, rinunzi ai figli, e formi una generazione spirituale cento volte più bella e più feconda. Questa è la verità. L'invidia con la quale il mondo guarda quelli che hanno rinunziato a tutto per amore di Dio è testimonianza eloquente del centuplo che hanno trovato. Satana può illudere gl'incauti cuori che non hanno in realtà rinunziato a nulla, perché non hanno seguito Gesù con amore, ma non potrà distruggere queste verità che sono esperienza di vita.
Le cosiddette rinunzie dei religiosi
Chi non segue Gesù e cammina nelle vie dell'amore senza avere il cuore acceso di amore non raccoglie il bene dello spirito, e si capisce che riguarda come una sventura la perdita dei supposti beni della carne; chi non ha dato ma s'è creduto derubato, non prova le dolcezze dell'amore divino, che superano ogni dolcezza; chi va cercando il mondo nel chiostro o nel Sacerdozio è logico che non ve lo trovi, e rimanga deluso ed esasperato. Il fanciullone che non ama lo studio, non crede di aver fatto un guadagno nell'aver lasciato il giocattolo per lo studio. Giuda, che era ladro e sfruttatore, non poteva trovare in Gesù il riposo della sua anima; fu infelicissimo e finì per tradirlo. Un'anima consacrata a Dio, che miseramente tradisce i suoi doveri, s'infanciullisce nel più stretto senso della parola, diventa banale, irrequieta, reagente, impaziente, disperata, ed allora s'intende bene che, non seguendo Gesù, non trova il centuplo; se guardasse almeno con serietà la vita e ne considerasse la realtà qual è, non si perderebbe in tante stranissime pazzie, che fanno pena e muovono a sdegno.
Gesù elencò tutte le rinunzie che, fatte per seguire Lui, cioè per amore vero, per il suo nome, per la sua gloria, danno il centuplo: la casa, i fratelli, le sorelle, il padre, la madre, la moglie, i figli e i campi. Egli parlava degli apostoli del Vangelo, di quelli che si danno tutti a salvare le anime per far conoscere il suo Nome, e nessuno potrà negare che in tutti i tempi le sue parole siano verità certissima. Essi infatti, invece della casa hanno la Chiesa ed il mondo, invece dei fratelli, delle sorelle, della moglie e dei figli, hanno la famiglia cattolica, invece dei campi, delle misere proprietà terrene, cariche di noie e di affanni, hanno la ricchezza della provvidenza.
Chi si dona a Gesù con vero spirito di apostolo, per propagare, difendere e riparare l'onore del suo Nome, trova veramente il centuplo in questa vita, ed ha la dolce speranza, che può dirsi certezza, di trovare la vita eterna. Sfidiamo chiunque a smentirci! Chi conosce da vicino le anime scontente del loro stato nobilissimo di amore divino sa che non sono quelle che hanno lasciato tutto, ma quelle che hanno voluto trarre il centuplo dalla corona dell'amore; sono i miseri Giuda che seguono il Maestro per il piatto, il posto, le comodità, il benessere, e non trovando né questo né il Re d'amore si disperano miseramente come Giuda!
Gettano via anche quello che hanno raccolto, non godono neppure il frutto della loro avidità traditrice, si soffocano e rimangono senza respiro sul vuoto orribile della loro miseria morale!
Chi scrive queste pagine vuol rendere testimonianza a Gesù Cristo, e lo fa con animo riconoscente e osannante al Signore. La sua vita è stata tutta un intreccio di tribolazioni amarissime, che a volte hanno fatto piangere chi ne è stato semplice spettatore; si sarebbe detto il più infelice dei sacerdoti, e tale l'hanno creduto quelli che non l'hanno avvicinato. Egli per amore del Nome di Gesù e per la Chiesa ha perduto veramente tutto, anche nello stato che aveva abbracciato con immenso amore, per Dio solo; eppure può proclamare a fronte alta che non poteva ricevere un centuplo più pieno.
Se si volesse valutare poi il valore di una croce, di un dolore, di una privazione, di uno stato di obbrobrio e di povertà, esso non sarebbe cento volte, anche incomparabilmente di più, di ogni guadagno materiale e di ogni ricchezza anche morale?
Chi può dire le ricchezze interiori, nascoste a tutti e sconosciute ai profani, che Gesù dona a chi per suo amore è immolato e ridotto come un verme?
Chi può dire quale fioritura producano le croci nella vita di un sacerdote?
Chi può dire di quante dolcezze sono sparse le stesse amarezze, tonico della vita soprannaturale, addolcito dalla croce del Redentore?
Non siamo fanciulli nelle vie di Dio, per carità non siamo come ragazzaglia che apprezza solo ciò che è futile e non sa guardare che al proprio egoismo marcio!
Siamo seri, almeno seri nella vita e, guardando la meta a cui si corre con tanta velocità, non ci perdiamo a cercare le farfalle sotto l'arco di Tito.
Anche se si credesse di avere sbagliato via, che importerebbe? Non si sarebbe mutato la reggia per il carcere, ma il carcere per la reggia, e si potrebbe, anzi si dovrebbe rimanere pieni di riconoscenza a Dio d'essersi trovati per scambio col manto di re e con la corona di regina sul capo. Non si può e non si deve fare a Dio l'ingiuria di mostrare come sventura lo stato più nobile a cui Dio possa chiamare un'anima, e invece di perdersi nelle miserie di stupide aspirazioni di terra, bisogna supplicare Dio a renderci degni di Lui, ed a plasmarci il cuore a nuovo con la sua grazia.
L'infelicità di chi torna indietro...
Il fatto dimostra che tutti quelli che abbandonano il loro stato privilegiato finiscono per essere davvero i più infelici di tutti; essi dunque passano dalla ricchezza alla povertà e, coi gridi della loro pena, a volte spaventosamente disperata, mostrano di avere lasciato il centuplo e di essere caduti nella più squallida miseria! Sono precisamente questi poveri traviati quelli che erano i primi e diventano gli ultimi, sono i falliti della vita proprio perché hanno disconosciuto il beneficio di Dio, sono i poveri inebetiti che si sono scimuniti appresso alle faville di un misero amore umano, e che non sanno apprezzare più i tesori che hanno ricevuti. Sono còme quei poveri barbari dell'America primitiva, che, attratti dal luccicare di uno specchio, davano oro per quell'inutile pezzo di vetro.
Un povero sacerdote traviato od una povera suora infedele portano in loro le stimmate dell'infelicità, anche quando appaiono contenti alle anime superficiali, e testimoniano essi stessi, senza volerlo, della realtà dei beni che hanno perduto.
Il magnificat del sacerdote
Allorché Maria, accogliendo il messaggio dell'angelo, divenne Madre di Dio, corse ai monti per comunicare la grazia alla famiglia di sant'Elisabetta, ed elevò al Signore quel cantico mirabile di riconoscenza e di amore che risuona sempre sulla terra: Magnificat anima mea Dominum. Questo deve essere il grido di un sacerdote, elevato al più alto principato, e quasi formato nuova creatura da misericordie specialissime dello Spirito Santo. Deve terminare l'ingratitudine nera dei poveri traviati, che per giustificare la loro degradazione, tentano offuscare lo splendore della loro dignità...
L'anima mia ti glorifica, o Signore, perché mi hai fatto sacerdote, tutta la mia vita esulta in te, Dio mio Salvatore, perché
sono sublimato dalla tua potenza. Non meritavo tanta grazia, e tu hai guardato solo la mia piccolezza, per colmarmi di benedizioni e rendermi veramente beato nella vita presente e nella futura. Mi hai fatto grande dandomi il tuo stesso potere, e mi hai fatto ministro del tuo Santo Nome per chiamarmi alla più alta santità. Non posso più respirare che in quest'atmosfera di cielo; ho le ali robuste della tua carità per dimorare sulle altissime rocce, e se scendo nella mefitica valle del mondo, dove tutto è esalazione acidula di carne, rimango soffocato!
Mi hai fatto grande perché io effonda la tua misericordia di generazione in generazione su quelli che ti temono; mi hai dato la tua potenza perché levi il mio braccio e disperda la superbia del mondo con l'umiltà della tua croce; come potrei tendere il braccio verso gli abissi, ed esaltare la miseria della mente traviata o dei sensi sconvolti? Hai elevato in me la piccolezza umana, e come potrei degradarla? Mi hai saziato di beni eterni, e come potrei sospirare a quelli della terra? Mi hai ricevuto come tuo servo prediletto, e come potrei abbrutirmi fino a diventare servo del peccato?
Misericordia del mio Dio, l'anima mia ti glorifica, piena di riconoscenza per il dono che mi hai fatto, ed il mio cuore, di cui tu sei geloso, esulta solo nel tuo amore. Guarda la mia piccolezza e la mia fragilità, e sostienimi con la tua grazia, perché io ti sia fedele; rettifica i miei apprezzamenti, perché io riguardi te solo come mio sommo bene, effondi in me il tuo Spirito, perché io viva di amore; rendimi fiamma, perché io accenda tutti del tuo amore; chiudimi nel silenzio solenne della tua magnificenza, perché ascolti Te solo ed ami Te solo, cantando le tue lodi, immolando la Vittima divina, effondendo la grazia nelle anime come sole splendente, e consumando la mia vita per Te solo!
Magnificat anima mea Dominum: l'anima mia ti glorifichi; ti lodi il mio essere fatto quasi tutto anima, solo anima, perché debbo ignorare la carne e debbo essere per la purezza
come corpo glorioso nella tua Chiesa. Esulti il mio spirito in te, mio Salvatore, perché Tu solo sei e devi essere tutta la mia esultanza, essendo Tu solo la mia porzione e la mia eredità. La grandezza di cui mi hai rivestito non può insuperbirmi, perché è regale dignità che adorna un umile servo; la potestà che mi hai data non può rendermi tracotante, perché è potestà di amore che disperde le miserie e solleva al fasto del tuo trono le anime umili; le ricchezze che mi hai donate non mi gonfiano, perché sono effluvi della tua carità che sostengono i miseri nelle vie dello spirito; non sono tesori di terra, ma tesori di cielo, non sono monete, ma stille di Sangue divino; non sono gioielli ma gemme di grazie; non sono distesa di campi ma distesa di cieli, non sono covoni di messe ma corone di anime!
L'anima mia ti glorifica e ti ringrazia, ti esalta e ti loda, gemendo di pena per tante ingratitudini con le quali ho ripagato il tuo amore, e proponendo di corrisponderti e di amarti con tutte le mie povere forze! Fa' che io sia come angelo, e se vedi spuntare in me un sol germe di mondo, castigami; fammi sentire la tua mano divinamente gelosa di me, affinché sotto le percosse dell'amor tuo io riprenda il mio volo nelle altezze celesti e ti glorifichi lacrimando, cercando il tuo Cuore, serrandomi al tuo petto, nascondendo la mia vita tutta in Te: Magnificat anima mea Dominumì
Sac. Dolindo Ruotolo

giovedì 10 luglio 2014

10.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 10 par. 4-6

4. Le direttive di Gesù ai suoi apostoli ed a quelli di tutti i secoli
Il Redentore come si è detto, mandò i suoi apostoli prima di tutti alle pecorelle perdute d'Israele, per prepararle ad accogliere il regno di Dio. In questa santa missione volle che la loro opera fosse non solo gratuita, ma prescindesse da tutti i ritrovati del prestigio umano. Egli raccomandò ad essi di non avere né oro, né argento, né denaro di bronzo nelle tasche delle cinture, né bisaccia, o, diremmo noi, valigia per il viaggio, né due vesti, né scarpe di ricambio, né bastone di apparenza, quasi ricco ornamento. Egli vuole che la loro fiducia sia in Dio solo, e comandando la povertà vuole che anche nel sostentamento e nelle cose della vita si affidino al Signore, quasi operai suoi, provveduti da Lui stesso. E un fondamento indispensabile ad ogni apostolato, poiché la verità e la grazia non si diffondono coi mezzi materiali e con le risorse umane.
I poveri protestanti che avanzano sempre ben fomiti di dollari o di sterline, con tutto l'apparato delle comodità della vita, e persino con la moglie, possono ben distinguersi e vedere da quale spirito vengono. Gli scellerati propagandisti del regno di satana, comunisti, socialisti, massoni, e simili traviati, possono intendere che solo il male, per propagarsi, ha bisogno di milioni, dei quali essi fanno sperpero a danno dell'umana società.
Dicendo Gesù: Non vogliate avere né oro, né argento, né denaro, non intende dire che non si possa avere il necessario alle spese del medesimo viaggio. Egli vieta il superfluo, come lo vieta nelle vesti. Se si sta poi al testo greco, le parole di Gesù hanno il significato di non ricevere denaro da quelli ai quali si predica, e questo senso risponde meglio a ciò che dice prima: Date gratuitamente ciò che gratuitamente avete ricevuto.
5. La Chiesa non riconosce l'oratoria vana: vuole l'istruzione del popolo
A questo proposito è indispensabile dire una parola che potrebbe sembrare un poco dura, ma è una necessaria conseguenza delle parole del Redentore: non sono apostoli i mercenari della divina parola, quelli che la riducono ad un mezzo per arricchirsi. Si potranno escogitare tutte le scuse per poter giustificare la propria condotta, ma non si potrà negare innanzi a Dio che la predicazione fatta, o peggio pattuita a suon di denaro, non è apostolato, ma è vana oratoria che non produce nulla di bene, e anzi produce spesso molto male perché accarezza solo l'udito. Dolorosamente la predicazione non è più apostolato; quando si è preoccupati della buona figura oratoria e, diciamo così, dell'arte, si lascia il tempo che si trova. Panegirici, discorsi di occasione, e spessissimo anche i quaresimali, i mesi di devozioni speciali, si riducono a vane spampanate oratorie, quando si ricerca il cosiddetto oratore di grido, e non l'apostolo.
La Chiesa non riconosce l'oratoria vana, vuole l'istruzione del popolo e l'annunzio dell'eterna verità, vuole l'apostolato, che si fa sempre per amore di Dio e per propagare il suo regno, contentandosi di ciò che serve al sostentamento e non badando ad altro.
Che cosa direbbe Gesù degli oratori che vanno accuratamente vestiti, pettinati e lisciati, e che pongono come base del loro prestigio quel fasto esterno di posa o di prestigio che è la morte dell'apostolato vero? Invece di formare gli oratori bisogna formare i santi e i dotti conoscitori della divina Parola, affinché predicando propaghino il regno di Dio.
Il demonio maledetto ha mutato molti pulpiti in trappole di sacerdoti e di anime, e spesso si sganascia dalle risa alle spalle del predicatore ascoltando quelle parole che non vengono dall'eterna verità, e quegli slanci di oratoria che non vengono dal fuoco dello Spirito Santo.
Che dire poi di quei predicatori che si credono dispensati dalla preghiera della Chiesa quando predicano, e che credono dover mangiare meglio e darsi riposo per assolvere bene il loro mandato? Se c'è un tempo nel quale bisogna pregare e far penitenza, è proprio quello nel quale si predica, perché allora bisogna vincere la durezza dei cuori ed attrarre su di essi la grazia, la misericordia e la pace!
Gesù richiede un sol prestigio nel predicatore: quello della vita onesta e santa; perciò comanda ai suoi apostoli che giungendo in una città non vadano a dimorare presso chiunque, ma ricerchino una persona degna, capace di non generare sospetti, anzi capace di aiutarli spiritualmente. Il predicatore sotto questo aspetto deve essere geloso della sua reputazione, perché egli non va a villeggiare, ma va a salvare anime, alle quali è debitore. Non può stare in un ambiente di comodità materiali o di fasto, non può mettere o far mettere la casa a soqquadro per provvedere alle proprie esigenze, dev'essere come messaggero di Dio, come angelo di purezza, come profumo sereno di virtù, e perciò Gesù dice ai suoi che entrando nella casa che li ospita debbono dire con le parole e coi fatti: La pace sia a questa casa.
6. La pace a questa casa
Questa espressione augurale era presso gli orientali il saluto ordinario, ma è evidente dal contesto che Gesù dà ad essa un senso più ampio e più soprannaturale; non vuole che si auguri la pace ma che si porti pace di anima, pace di cuore, pace di armonia familiare; vuole che all'augurio corrisponda la grazia e che questa sia attratta sulla casa dall'apostolo che vi entra, vuole che sia la prima effusione di bene spirituale che deve fare chi evangelizza in nome di Dio, e che equivalga alla riconciliazione di quella casa col Signore. Per questo soggiunge che, se non c'è alcuno che sia degno di accogliere la pace, essa ritorna su chi la effonde, ritorna come merito dell'opera di apostolato, e ritorna come tranquilla coscienza di aver compiuto il proprio dovere.
L'opera di apostolato non è mai vana, e quando non ha prodotto il frutto in una casa, per il dolore stesso che cagiona all'apostolo e per la conseguente umiliazione del suo animo diventa nelle sue mani un mezzo più efficace di conversione. È una sottigliezza spirituale che merita rilievo, perché è un mezzo per non scoraggiarsi nell'insuccesso: chi vuole convertire un'anima ha quasi sempre una certa occulta vanità o una certa mancanza di carità nel trattare con lei; si fonda sull'aiuto di Dio ma crede inconsciamente anche alle risorse della propria facondia.
L'insuccesso umilia profondamente lo spirito, e si muta in una benedizione che ritorna sull'anima dell'apostolo, la purifica, la feconda, e la rende più forte in un'altra opera di conversione. In generale nelle opere di apostolato la soddisfazione di ciò che si fa è proprio un segno negativo del successo; se si parla credendo di aver detto cose belle, persuasive e brillanti, si constata invece che non hanno approdato a nulla; se si raccolgono onori ed applausi non si raccolgono anime; è l'agonia dello spirito, l'umiliazione, la contraddizione che è segno vero di successo perché le umane industrie non giovano a nulla nelle vie dell'apostolato. È logico del resto, che colui che dona veramente si senta vuoto e chi genera spiritualmente provi, per così dire, i dolori del parto; chi si sente sazio di ciò che crede aver dato, s'è cibato lui, non ha cibato gli altri, e chi non geme nel generare un'anima non la genera veramente. L'apostolo genera per la crocifissione come Gesù Cristo, ed ogni croce deve consolarlo pensando che proprio allora la sua opera è feconda.
La croce viene quasi sempre dai cattivi, ed è causata dalla ripulsa alla grazia: è una benedizione ricacciata, che, secondo la parola di Gesù, ritorna sull'apostolo. È inutile illudersi: le grandi opere dell'apostolato si fanno nella luce del martirio; martirio di cuore e martirio di vita.
Le contraddizioni che si ricevono sono tutte come concimi che fecondano e sviluppano il germe buono, rassodandolo nella terra del soprannaturale. A noi non sembra, perché amiamo il successo immediato, eppure è così. L'opera contraddetta, ritardata, sfigurata dalla malignità o dall'incuria degli uomini è in realtà radicata, rassodata e sviluppata secondo il disegno di una vita perenne nei secoli e nell'eternità. La Chiesa, opera divina per eccellenza, ha avuto secoli di sangue, ed ha tuttora contraddizioni mortali dall'inferno, eppure si rassoda, e prepara sulla terra e nei secoli eterni il suo trionfo immortale.
La fecondità della tribolazione per l'apostolo non giustifica la malvagità di chi ne è causa, perché la fecondità viene dalla grazia di Dio, e perciò il Redentore vuole che gli apostoli mostrino anche con un gesto esterno la responsabilità gravissima di chi resiste alla grazia. I rabbini comandavano ai Giudei di scuotere dai loro piedi la polvere quando venivano da città pagane, per mostrare di non condividerne la responsabilità; Gesù Cristo, spiritualmente, comanda lo stesso contro quelle case o quelle città che non ricevono la divina parola, per indicare quanto è grande il peccato del quale si rendono ree.
L'apostolo scuote la polvere dei piedi, rimettendo al giudizio di Dio la responsabilità della perdita di un popolo o di una casa, quasi a testimonianza che egli ha fatto tutto ciò che poteva per la loro salvezza.
7. L'orribile peccato di chi rifiuta il Vangelo
Gesù Cristo ha un'espressione severissima per indicare la gravità del peccato di chi rifiuta la parola del Vangelo, un'espressione che dovrebbe far pensare a quelle anime e a quei popoli che apostatano dalla fede e pretendono formare nuove fedi cervellotiche. Sodoma e Gomorra furono due città peccatrici, orribilmente peccatrici, che per la loro iniquità furono bruciate dal fuoco caduto dal cielo; esse rimangono come l'emblema della corruzione, del disordine e del castigo di Dio. Nel giudizio però le loro iniquità appariranno di minore responsabilità di fronte a quella di cui si rende colpevole chi rifiuta il Vangelo.
È terribile, ma è Parola di Dio! I Sodomiti stravolsero l'ordine della natura e lo profanarono; i nemici del Vangelo stravolgono l'ordine della grazia e della misericordia, e rendono vana la divina semente che deve generare la vita soprannaturale in un'anima. I Sodomiti furono avviliti nella carne, rendendola turpe termine di godimento brutale; i miscredenti abbrutiscono l'anima nella materia, e rendono vana la luce della verità! Rifiutano il Vangelo per attaccarsi all'errore e, rifiutando la verità, rendono vana la redenzione; spargono nella polvere e nel fango il Sangue divino che doveva vivificarli, per non rinunziare alle loro brutali degradazioni; compiono nel campo dello spirito e in quello soprannaturale quell'abominevole peccato che i Sodomiti consumavano nel corpo; rifiutano l'unione vivificante della grazia, per unirsi al male e cadere al di sotto dei bruti; chiudono il cielo e vanno ricercando l'obbrobrio di una vita impura nello spirito e nella carne.
Ognuno vede a questi semplici accenni quanto è vera la parola di Gesù, e in quale abisso si precipitano le nazioni apostate.
Qual meraviglia che i flagelli divini le colpiscano e che non trovino misericordia? Se uno spegnesse il sole, di quale colpa non si renderebbe reo, per le conseguenze di questo ipotetico atto insano?
Chi rifiuta il Vangelo compie nell'ordine soprannaturale quello che sarebbe impossibile in quello naturale; spegne nelle anime il sole della verità e della grazia, e le riduce come una landa deserta, priva di vita e coperta di ghiaccio!
Quale tremenda responsabilità pesa oggi sulla Russia bolscevica, sulla Germania nazionalsocialista, sulla Francia massonica, sul Messico comunista, e sulle nazioni in generale che positivamente rifiutano il Vangelo e pretendono affermare nuove ideologie scellerate, utopistiche, rovinose, cariche di tempeste di fuoco e di turpitudini per le genti!
Sac Dolindo Ruotolo

mercoledì 9 luglio 2014

09.07.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 10 par. 2-3

2. La missione degli apostoli nella terra d'Israele. Un quadro sintetico della vita della Chiesa. La grandezza degli apostoli
Tra i discepoli che lo seguirono più fedelmente, Gesù ne elesse dodici, come risulta da san Marco (3,14) e da san Luca (6,13), e chiamò i discepoli col nome di apostoli, cioè inviati e ambasciatori, perché avessero fondato la Chiesa di Gesù in tutto il mondo.
Ne elesse dodici, come dodici erano stati i figli di Giacobbe, dai quali era stato formato il popolo eletto, affinché essi fossero stati i patriarchi del nuovo popolo di elezione.
Li elesse e li mandò ad evangelizzare prima di tutto il popolo d'Israele, quasi per addestrarli in una missione più facile, prima di mandarli poi fra i pagani. Non volle il Maestro divino che si fossero trovati di fronte a gente mancante di fede, com'erano i pagani, od a gente disordinata nella vera fede com'erano i samaritani, perché non avessero avuto cimenti troppo ardui. Come principianti li inviò alle pecorelle perdute della casa di Israele.
Non li mandò senza dar loro quasi le credenziali della missione ricevuta, e perciò con la sua onnipotente podestà, conferendo loro quasi i primi ordini, comunicò loro il potere di scacciare gli spiriti immondi dagli ossessi, di guarire gli infermi e persino di risuscitare i morti. In tal modo essi avrebbero dato argomento pratico della verità della loro missione.
Non è detto in qual modo Gesù comunicò loro questa potenza; ma anche senza un gesto esterno, bastò che lo dicesse per dare all'anima loro la facoltà di attrarre da Dio le grazie necessarie per produrre effetti meravigliosi.
Essi dovevano annunziare la prossima realizzazione del regno di Dio; erano quasi precursori dell'apostolato che avrebbero compiuto dopo la redenzione, e la potenza di fare miracoli figurava la potenza straordinaria che avrebbero avuto di compiere le opere della grazia. Essi dovevano essere medici delle anime, risurrezione dei morti alla grazia, purificatori della lebbra dello spirito e fieri avversari di satana, che avrebbero dovuto principalmente cacciare dalle anime. Un giorno, assodate la fede e la Chiesa, non si sarebbero avuti più strepitosi miracoli corporali nell'evangelizzazione delle anime, ma sarebbero sempre avvenuti quelli figurati da essi. In realtà è più grandiosa la risurrezione di un'anima o la sua guarigione spirituale, che tutti i miracoli possibili.
San Matteo ci dà il catalogo dei nomi di quelli che furono eletti all'apostolato e questo catalogo ci è dato anche da san Marco (4,16), da san Luca (6,14) e dagli Atti (1,13). In tutti, al primo posto c'è san Pietro, che san Matteo chiama esplicitamente il primo, proprio per indicare che era il capo di tutti, giacché il primo nella vocazione fu sant'Andrea, e il primo nella predilezione fu san Giovanni.
All'ultimo posto c'è sempre Giuda Iscariota, che tradì Gesù; solo nell'elenco degli Atti non è nominato, perché già aveva tradito il Signore ed era morto disperato. Gli altri nomi sono divisi in tre gruppi di quattro ciascuno, che hanno sempre gli stessi nomi benché non sempre nel medesimo ordine.
Dodici apostoli, dodici fondamenti della novella spirituale Gerusalemme che doveva essere eretta dalla potenza del Redentore; dodici stendardi della gloriosa armata che doveva percorrere il mondo e i secoli, dodici aspetti delle virtù di questa falange gloriosa.
Simone che significa colui che ascolta, obbedisce, pone ed è posto, è chiamato da Gesù anche Pietro, perché pietra angolare della sua Chiesa. Egli e i suoi successori parlano in nome di Gesù, dicono quello che ascoltano dalla sua bocca per interna ispirazione; obbediscono alla sua volontà perché in qualunque evento la compiono, anche se la loro vita individuale, per ipotesi, lasciasse a desiderare. Sono posti dal Signore e pongono a loro volta a capo delle anime i pastori che le governano. Carattere primo della Chiesa, quindi, è l'ordine e la gerarchia, è l'avere il capo posto da Gesù, capo indefettibile ed infallibile.
Andrea, virile, strenuo eroe, ed egli lo fu nella vita santa e nel desiderio della croce abbracciata come un talamo nuziale per l'anima sua; lo fu e significa il carattere virile, strenuo, eroico della Chiesa che si abbraccia alla croce e combatte il male senza cedere mai alle sue lusinghe ed alle sue prepotenze fino alla gloria del martirio.
Giacomo, il soppiantatore, detto il maggiore, per distinguerlo da Giacomo di Alfeo; soppiantatore di satana, è simbolo vivente della virtù della Chiesa che soppianta il regno di satana, e quasi gli tiene il calcagno impedendogli di soppiantare il regno di Dio nelle anime.
Giovanni, grazia, dono, misericordia del Signore, prediletto da Gesù, è figura delle predilezioni di amore che egli ha per le anime vergini, monumento vivo delle grazie, dei doni e delle misericordie che sono il tesoro vivo della Chiesa.
Filippo, bellicoso, amante dei cavalli, quasi figura di quello spirito ardito col quale la Chiesa conquista le anime, e corre attraverso il mondo e le generazioni, forte della missione avuta dal Signore.
Bartolomeo, figlio di Tolomeo, il solco mio fatto con l'aratro, cumulo di acque, che sospende le acque, vessillo della potenza con la quale la Chiesa coltiva il campo del Signore, fecondandolo con le acque della grazia e della misericordia.
Tommaso, gemello detto anche dal greco: Didimo, figura della somiglianza che le anime hanno col Redentore, per la Chiesa, gemelle quasi del Figlio di Dio perché figlie di adozione.
Matteo, dono del Signore, rappresentanza del dono della misericordia che rinnova le anime e le muta in nuove creature.
Giacomo di Alfeo, soppiantatore, figlio del dotto, figura della sublime attività con la quale la Chiesa, figlia dell'eterna sapienza, soppianta gli errori e li confonde.
Taddeo che loda, chiamato prima Giuda, e soprannominato Taddeo per distinguerlo dal traditore, figura della lode che la Chiesa eleva al Signore per amore, nello spirito e nella verità, a differenza dei traditori della verità e del bene, figurati da Giuda Iscariota. Giuda Taddeo, si direbbe quasi lode che loda il Signore, lode di amore, e Giuda Iscariota, lode del Signore, mercenaria, fatta per sterminare, omicida, che riceve la sua mercede, significati dell'apposizione Iscariota che, oltre a determinare il traditore, figurano i traditori del Corpo mistico del Redentore, che lodano Dio come Giuda baciò il Maestro, per mercede pattuita, per uccidere le anime con quell'ipocrita pietà che copre gli errori e le degradanti passioni, come fanno i protestanti. Simone infine, che ascolta, obbedisce, pone ed è posto, figura dell’altro fondamento della vita della Chiesa, che sta nell’ascoltare la voce della verità, nell’obbedire all’autorità, nel porre la vita per amore di Dio, e nell’accettare quelle missioni di zelo che ci dona l’autorità. Simone, il capo che è pietra angolare, e Simone i sudditi che ascoltano l’autorità e le obbediscono. Pietro l’ascolta da Dio, e il popolo cristiano l’ascolta da Pietro.
3. L'elenco degli apostoli termina sempre con Giuda Iscariota
Tutto è santo nella Chiesa, come furono santi gli apostoli, ma come tra essi non mancò il traditore, così nella Chiesa militante non mancano i Giuda, gli eretici e gli scismatici, veri traditori della redenzione perché veri traditori della verità, del bene e delle anime.
L'elenco degli apostoli termina sempre con Giuda Iscariota, il traditore, quasi ultima tappa del cammino apostolico della Chiesa, che, cominciato dal Redentore e continuato attraverso i sommi pontefici, trova all'ultima tappa, alla fine dei secoli il Giuda Iscariota per antonomasia, l'anticristo che tenta darle la morte. Essa cominciò il suo cammino ascoltando la viva voce del Signore, Simone; combatté con animo strenuo, virile ed eroico le battaglie della fede, Andrea; soppiantò il regno di satana col trionfo che riportò sul paganesimo, Giacomo; fu piena di grazie, di doni celesti e di misericordie nella sua fioritura di santi, Giovanni; fu bellicosa nella sua lotta contro l'islamismo, Filippo; fu quasi figlia di acque sospese e minaccianti la sua vita nell'inondazione degli errori dell'apostasia irrompente come tempesta sul suo capo, Bartolomeo. Si direbbe che, come san Bartolomeo fu scorticato vivo, essa fu quasi priva del suo aspetto di gloria, e spogliata dei suoi beni, diventata così gemella del Signore, spogliata sulla croce, quando il razionalismo, volendo toccare tutto con mano, a somiglianza di san Tommaso, tentò di travolgere ogni verità rivelata.
In queste angustie intellettive, fredda lotta dell'errore contro la verità, essa riceve il dono del Signore, Matteo, nella luce smagliante dei suoi dottori, e soppianta con la potenza della verità le aberrazioni dell'eresia, Giacomo di Alfeo. Rinasce nelle anime la lode di Dio, Taddeo; con la preghiera liturgica, rinasce l'obbedienza alla Chiesa col grande trionfo della sua autorità e della sua dottrina, Simone, ed infine viene l'uomo omicida, che taglia e stermina, che riceve la sua mercede perché tradisce la verità per interesse, l'Iscariota, l'anticristo, il traditore delle anime che appare quasi come dio, come lode di gloria, ed è il traditore scellerato che provoca la catastrofe finale, come Giuda Iscariota provocò quella del Calvario.
Certo non fu a caso che Gesù scelse i suoi dodici apostoli con quei nomi, che anzi Egli stesso mostrò di tenerne conto aggiungendo a Simone il soprannome di Pietro, ed a Giacomo e Giovanni il soprannome di Boanerges, figli del tuono, per la vivacità del loro carattere. Se negli antichi patriarchi Dio tracciò le linee fondamentali della storia del mondo, nei nuovi patriarchi poté tracciare quella della storia della Chiesa.
Dodici apostoli, dodici fondamenti preziosi della celeste Gerusalemme, compreso san Mattia che sostituì Giuda Iscariota, visti da san Giovanni nell'Apocalisse (21,19), come dodici pietre preziose che, secondo Cornelio A Lapide, li caratterizzano: il diaspro, figura di san Pietro per la fermezza della fede; lo zaffiro figura di sant'Andrea, per la celeste vita ed i costumi santi; il calcedonio, figura di san Giacomo il maggiore per lo zelo ardente; lo smeraldo, figura di san Giovanni verdeggiante nella sua verginale giovinezza; il sardonico, figura di san Filippo per il candore dell'animo; il sardio rosseggiante, come san Bartolomeo nel suo martirio; il crisolito color del mare, figura di san Matteo penitente; il berillo luminoso, figura di san Tommaso, illuminato dal Signore nella sua trepidante incertezza dopo la risurrezione; il topazio, figura di san Giacomo il minore, raggiante di aurea santità; il crisopraso, figura di san Giuda Taddeo; il giacinto, figura di san Simone per i soavissimi costumi ed infine l'ametista, figura dell'umile san Mattia.
I dodici apostoli, le dodici porte per entrare nella celeste Gerusalemme, le dodici fonti di Elim, che fecondano la terra, le dodici pietre del razionale del pontefice, le dodici meraviglie sacerdotali, le dodici pietre dell'altare della nuova alleanza, i dodici pani della proposizione, posti per gloria di Dio ed alimento delle anime, i dodici esploratori delle divine grandezze nella terra promessa dei cieli, le dodici pietre del passaggio del Giordano, ricordo vivo delle divine misericordie, le dodici stelle della corona della Chiesa, sposa dell'Agnello.
Certo i dodici apostoli - s'intende con Giuda già sostituito - rappresentano un dono meraviglioso fatto da Dio alla terra, e rappresentano non semplicemente Vescovi della Chiesa nascente, ma uomini arricchiti di doni e di prerogative specialissime, che non passarono e né poterono passare ai loro successori. Il Signore, nel compiere le grandi opere che guidano l'umanità in una nuova via, si effonde sempre con doni specialissimi sui primi che elegge, doni che non passano agli altri, ma sono una prerogativa speciale, incomunicabile.
Così fece con Abramo, Isacco e Giacobbe, così con Mosè ed Aronne; così con gli apostoli suoi. È deplorevole che i fedeli oggi dimentichino quasi la devozione agli apostoli, e li dimentichino molto più ora che la tristezza dei tempi e le angosce della Chiesa reclamano un loro aiuto particolare. Il mondo moderno deve essere affidato alla protezione di quelli che l'hanno evangelizzato per primi, perché essi hanno grazie singolari da poter diffondere contro la miscredenza e l'apostasia. Sarebbe onore delle nazioni ridomandare alla Chiesa come feste di precetto le feste degli apostoli, per onorare i veri eroi della trasformazione della società pagana, i grandi trionfatori nel nome di Gesù Cristo della battaglia contro satana e contro la barbarie umana.
Sac. Dolindo Ruotolo