sabato 25 marzo 2017

26.03.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. IX par. 2-3

2. La guarigione del cieco nato, le indagini e gli interrogatori del sinedrio

Dopo la discussione avuta coi farisei nel recinto del tempio, e dopo essersi eclissato dal loro sguardo quando erano già pronti a lapidarlo, Gesù Cristo si allontanò dal sacro luogo insieme ai suoi discepoli, e passò per una delle porte dove ordinariamente sostavano i poveri e gl'infelici per domandare l'elemosina.

L'essersi trovato là coi suoi discepoli e l'esservisi fermato conferma che Egli s'eclissò miracolosamente da quelli che volevano lapidarlo.

Passando vide un poverello, cieco dalla nascita, il quale per essere portato là ogni giorno dall'infanzia a cercarvi l'elemosina, era conosciuto da tutti, ed era una di quelle figure che nella loro medesima piccolezza finiscono per interessare il pubblico, e per essere quasi come un motivo insostituibile di certi ambienti.

Dal contesto del racconto si rileva l'indole di questo cieco: di facile parola, affettuoso, riflessivo e un po' psicologo o conoscitore dell'ambiente del tempio; abituato a raccogliere tanti discorsi che facevano i pellegrini e forse tante mormorazioni di quelli che erano addetti al sacro luogo, s'era formato un concetto abbastanza chiaro di quelli che ne avevano il comando. I ciechi s'informano di tutto nel loro piccolo ambiente, proprio perché non vedono, e questo giovane doveva pur sapere che quasi mai i sacerdoti, gli scribi e i farisei facevano scivolare nelle sue mani qualche elemosina, essendo sommamente venali; questo doveva aver disposto l'anima sua a diffidenza e disistima per essi; perciò, quando fu interrogato da loro, si mostrò franco, e non mancò di ribatterli con una certa vivezza, che rivela questo suo stato di animo.

La sua vita era monotona; al mattino era accompagnato al tempio, e vi rimaneva a cercare l'elemosina; a sera era riaccompagnato a casa. Raccoglieva spesso le espressioni pie dei pellegrini, o gl'insegnamenti dei dottori della Legge, ed aveva una certa cultura religiosa, per la quale gli doveva essere familiare il sentenziare ed anche l'ammonire. Era di indole buona, di natura semplice, di carattere espansivo, e timorato di Dio.

Passando vicino al cieco nato, i discepoli, considerandone l'infelicità ed attribuendola a castigo di Dio, domandarono a Gesù: Rabbi, chi ha peccato, costui o i suoi genitori, per nascere cieco? Era infatti persuasione comune tra i Giudei che i mali fisici fossero mandati da Dio in punizione di peccati commessi, o che fossero castigo dei peccati dei genitori; ma i discepoli facevano una domanda insulsa chiedendo se avesse peccato il cieco prima di nascere, giacché questo sarebbe stato impossibile. Essi forse si confusero, e nel domandare se quella cecità fosse stata effetto di colpa, coinvolsero anche il cieco nella responsabilità. Gesù rispose che né quel poveretto né i suoi genitori avevano peccato, ma che quella cecità era stata disposta e permessa da Dio per manifestare in quell'infelice la sua potenza, la sua gloria e la realtà del suo Figlio Incarnato; Gesù infatti soggiunse che Egli doveva compiere le opere di Colui che lo aveva mandato, e con questo mostrò chiara l'intenzione di guarire quel cieco.

Nonostante le minacce dei suoi nemici, e nonostante che quel miracolo li avrebbe più malignamente aizzati contro di Lui, Egli non avrebbe mancato di compiere quell'opera buona, e di dare un nuovo argomento della verità della sua missione. Era per Lui ancora giorno, cioè non era ancora giunta l'ora oscura della sua Passione, quando non avrebbe potuto compiere miracoli, volendo subirla fino all'estrema immolazione. Egli doveva ancora per poco rimanere nel mondo, e finché vi dimorava, voleva dare argomenti di luce a tutti i secoli, nonostante che i malvagi ne avrebbero preso motivo per odiarlo e per irrompere contro di Lui.

Gli scribi e farisei avrebbero voluto che Egli avesse taciuto per sempre e si fosse eclissato, rinunziando alla sua missione; ma Egli questo non poteva farlo, perché era la luce delle anime e la luce dei secoli. Aveva detto poco prima: Io sono la luce del mondo, e volle confermare questa grande e fondamentale verità con un miracolo d'illuminazione materiale, simbolo dell'illuminazione spirituale. Volle donare la vista a quel povero cieco, per significare la vista che voleva dare e che avrebbe dato alle anime; compì esternamente il miracolo che voleva compiere internamente, e si servì di un mezzo inadeguato, anzi contrario, perché si fosse capita l'importanza del mezzo del quale voleva servirsi per redimere il mondo, cioè la umiltà e l'obbrobrio della croce.

Gesù non domandò al cieco se voleva essere guarito né il cieco lo supplicò di guarirlo; andò Egli stesso incontro al povero infelice, come Egli stesso veniva incontro all'uomo peccatore e, sputato in terra, fece con lo sputo un po' di fango, impastando la polvere della strada, lo spalmò sugli occhi del cieco e gli comandò d'andarsi a lavare alla piscina di Siloe.

Il Sacro Testo fa notare che Siloe significa mandato, perché questo nome aveva un mistico significato che ricordava precisamente Colui che doveva essere mandato, ossia il Messia.

La piscina o fontana di Siloe si trovava nella parte Sud-Est di Gerusalemme, fuori delle mura, tra il monte Ofel ed il Sion; il cieco per recarvisi dovette essere accompagnato da qualcuno. Andò, si lavò ed acquistò subito la vista.

sabato 18 marzo 2017

19.03.2017 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. IV par. 2-3

2. II colloquio di Gesù con la Samaritana e la sua esplicita dichiarazione di essere Lui il Messia

Al principio della sua grande missione Gesù Cristo evitava tutto quello che avesse potuto comprometterne il normale sviluppo. Egli avrebbe potuto superare ogni ostacolo con la sua onnipotenza, ma preferiva le vie normali della mitezza e della prudenza, per istruzione dei suoi apostoli, e di quanti avrebbero un giorno continuato nel mondo l'apostolato. Fu per questa regola di prudenza che, avendo saputo che i farisei già si allarmavano perché Egli faceva maggior numero di discepoli e battezzava più di Giovanni, benché non lo facesse Lui direttamente ma per mezzo dei suoi discepoli, lasciò la Giudea e si avviò verso la Galilea.

L'allarme dei farisei costituiva in realtà una grave minaccia; essi, che mal tolleravano Giovanni e già brigavano presso Erode per farlo togliere di mezzo, non volevano ad ogni costo che quell'apostolato, da essi stimato arbitrario, si rinnovasse in altri, e che, soppresso il Battista, ne sorgesse un altro. Giovanni aveva già un grande prestigio nel popolo, ed essi non osavano opporglisi direttamente, ma non erano affatto disposti a tollerare che altri ne pigliasse il posto, e si perpetuasse così un ministero extralegale; erano decisi perciò a tutto pur di stroncare al principio ogni tentativo.

L'uomo, dolorosamente, non capisce quasi mai i disegni di Dio, e mentre lascia correre il male autentico senza protestare, si allarma poi e prende posizione di combattimento contro il bene.

Il male è violento ed audace, ed egli non osa opporvisi, il bene è modesto e pacifico, e vi s'irrompe contro con tutte le forze.

Gesù Cristo nell'andare dalla Giudea verso la Galilea scelse la via più breve attraversando la Samaria che stava fra le due regioni.

La Samaria, abitata in prevalenza da pagani di origine, era considerata dagli Ebrei come una terra scismatica, poiché aveva sul Garizim, che è una montagna che la domina, un tempio rivale di quello di Gerusalemme, ed aveva una religione tutta propria, mista a superstizioni di ogni genere. I Samaritani a loro volta avversavano gli Ebrei propriamente detti, e non lasciavano di ingiuriarli e maltrattarli quando passavano per la loro terra per recarsi al tempio di Gerusalemme. Per questa ragione gli Ebrei evitavano la Samaria allungando notevolmente i loro viaggi. Gesù Cristo stesso aveva vietato ai suoi apostoli di andare nella Samaria a predicare, per non comprometterne il ministero innanzi agli Israeliti, che li avrebbero considerati come scismatici, e non avrebbero accettato la loro parola. Questa Volta però volle andarvi personalmente per convertirvi una peccatrice, e gettarvi il primo germe del regno di Dio.

sabato 11 marzo 2017

12.03.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. XVII par. 2-3

2. Un saggio della divina gloria di Gesù Cristo

Il programma proposto da Gesù ai suoi seguaci: rinnegarsi e prendere la croce, aveva dovuto abbattere non poco gli apostoli, e perciò Egli, nella sua carità infinita, volle sollevarne lo spirito, con una manifestazione gloriosa, che doveva imprimersi nella loro mente per i giorni tristi che sarebbero venuti.

Partendo dai pressi di Cesàrea di Filippo, giunse alle falde di un monte che la tradizione individua nel Tabor, e presi con sé i suoi apostoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, ascese alla sua cima, elevata a 780 metri sul lago di Genesaret ed a 400 sulla pianura di Esdrelon. Non prese con sé tutti gli apostoli, perché avrebbero fatto pubblicità inopportuna, ma volle solo tre testimoni affinché avessero potuto sostenere la vacillante fede negli altri apostoli, scossa dalla continua propaganda ostile degli scribi e farisei.

Dal modo come san Luca narra l'avvenimento, si rileva che dovette avverarsi nella notte (Le 9), Gesù era infatti salito sul monte per pregare, ciò che faceva di notte, e ne discese il giorno dopo, passando la notte sull'altura. Le tenebre e la solitudine dettero all'avvenimento un maggiore risalto. Il Redentore si mise in orazione, e si raccolse tutto nella gloria del Padre. L'anima sua attratta dalla divinità si trovò in piena visione beatifica, ed il corpo fu reso glorioso dalla luce divina. L'ineffabile purezza di quel Corpo divino non offrì neppure il più piccolo ostacolo alla luce eterna che tutto l'avvolgeva, lo penetrava e lo rischiarava, di modo che fu tutto luce e splendore. Il volto divenne come sole, in un'ineffabile espressione di gloria e le vesti per la gran luce che emanava dal corpo, si fecero bianche come la neve, o come dice il testo greco, come la luce. Era uno spettacolo grandioso, ineffabile che rapiva l'anima, e la trasfondeva tutta di pace, di godimento e di amore.

I tre apostoli, come nota san Luca, prima aggravati dal sonno, si svegliarono certamente allo splendore di quella luce divina, videro due personaggi che discorrevano con Gesù e per divina ispirazione riconobbero in essi Mosè ed Elia.

Furono presi da timore e subito dopo da una gioia interiore così grande che non sapevano esprimerla.

Psicologicamente, nelle grandi gioie che danno all'anima un senso di riposo e di raccoglimento, la fantasia s'accende e fa progetti per conservare o accrescere il benessere che si prova. Gli apostoli si voltarono intorno, videro giù le oscure valli e d'ogni parte le tenebre, ebbero orrore del mondo nel quale vivevano e pensarono subito di voler rimanere sempre in quella felicità.

Si scambiarono certamente delle parole, perché nelle grandi sorprese, ognuno crede che chi gli sta vicino non se ne dia conto abbastanza, e ci tiene a manifestare le proprie impressioni, e a tener desta l'altrui attenzione.

Scambievolmente si additavano lo splendore di quella gloria, e scambievolmente si dicevano di non volere ad ogni costo staccarsene, perciò san Pietro, parlando a nome di tutti, si avvicinò a Gesù e gli disse: Signore, è buona cosa per noi lo stare qui; se vuoi, facciamo qui tre tende, una per Te, una per Mosè ed una per Elia.

Egli non sapeva quello che dicesse, dice san Luca, e difatti le sue parole erano povere ed inceppate, come lo sono sempre in una grande emozione di gioia, ed innanzi ad una grande maestà. San Pietro avrebbe voluto dire tante cose e non sapeva quello che dovesse dire, voleva esprimere tanti progetti di stabile felicità, e non seppe proporre che l'erezione di tre tende. È profondamente psicologico, poiché nelle grandi emozioni, i progetti della fantasia quando si esprimono sfumano e di tutta una ridda d'immagini che sembrano grandiose, non rimane che l'espressione di un semplice desiderio rozzamente manifestato. I progetti della fantasia sfornano come un sogno che si dilegua e la parola diventa anche più povera non sapendosi adeguare a ciò che è già di per sé inafferrabile.

sabato 4 marzo 2017

05.03.2017 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. IV par. 2-7

2. Il primo scontro tra il Redentore e satana

Gesù Cristo, venuto dal Cielo per liberarci dalla schiavitù e dalle insidie di satana, e per tracciarci il cammino della vita, volle affrontare il maligno per smascherarlo innanzi alle anime, per confonderne la tracotanza, e glorificare Dio con atti di dedizione e di amore, che dovevano riparare le nostre deficienze. La tentazione che Egli volle subire è certamente un altissimo mistero, così ricco di verità e d'insegnamenti, che l'anima vi si smarrisce.

Prima di tutto è misteriosissimo il fatto stesso della tentazione, giacché il Redentore era perfettissimamente ordinato in tutte le sue potenze ed era la stessa sapienza, l'ordine, la santità, l'armonia; non poteva dunque subire una tentazione, che importa per necessità o un turbamento nelle potenze, o un'illusione di falsa luce. Anche noi, pur potendo essere tentati in tanti modi, non potremmo essere tentati, per esempio sulla inesistenza del sole, quando esso ci riscalda e ci illumina.

La tentazione suppone nell'anima o nella natura fisica una debolezza che satana sfrutta, perché, in fondo, la tentazione è un'insidia che potremmo chiamare anche una feroce irrisione. Ora su quale debolezza del Redentore satana avrebbe potuto montare la sua tentazione? Fu Gesù stesso, nel suo amore e nella sua carità, a mettersi nelle condizioni di avvertire una debolezza, e non potendola sentire nell'anima perché perfettissima, la sentì nel corpo digiunando per quaranta giorni e quaranta notti. Il novello Adamo aveva un contatto col primo, al quale, innocente e santo, satana non poté dare altra tentazione che sfruttando la necessità naturale che egli aveva di cibarsi. Non poteva penetrare l'anima, non poteva agitarne le potenze armonizzate e sottomesse alla ragione, e tentò penetrarvi attraverso la necessità del cibo, e turbarne così le aspirazioni.

Gesù Cristo, subito dopo il battesimo di Giovanni, fu condotto dallo Spirito Santo, disceso in forma di colomba su di Lui, fin nelle aspre regioni deserte che si stendono ad Ovest di Gerico, su di una squallida montagna alta 473 metri, chiamata anche oggi montagna della Quarantena; vi fu condotto per esservi tentato dal diavolo.

Il primo Adamo fu messo nell'Eden, giardino delizioso, per subirvi la prova e meritarsi il premio; il secondo Adamo, che doveva riparare le colpe del primo, fu condotto in un'orrida solitudine per subirvi una prova. Il primo Adamo ebbe ogni abbondanza di frutti prelibati, e gliene fu proibito uno solo, il novello Adamo digiunò completamente, e stette fra aride ed infeconde pietre. Digiunò nel corpo ed espanse nel Padre tutta l'anima sua con tale veemenza di amore, da non avvertire la fame che quando ritornò a quella vita normale di terreno pellegrinaggio da Lui stesso accettata ed abbracciata. Strettamente parlando potrebbe dirsi anche naturale il suo lungo digiuno, perché, quando l'anima è quasi tratta fuori del corpo in un'estasi di pacifico amore, le necessità fisiche sono minime, ed il corpo potrebbe anche conservarsi in vita, nutrendo i suoi organi a spese delle riserve accumulate prima.

Era logico che il novello Adamo opponesse al primo un pieno digiuno, e l'opponesse contemplando le divine grandezze; Egli additò così all'uomo la via per essere simile a Dio nei riflessi della sua gloria e del suo amore, la via maestra delle rinunzie generose per le conquiste del divino.

Satana aveva detto che il segreto per essere simile a Dio era il non rinunziare neppure all'unico frutto proibito, il ribellarsi, il dare il sopravvento ai sensi, Gesù Cristo additò la via opposta, e lungi dall'andare presso l'albero della proibizione, come Adamo, andò in mezzo alle pietre.

Anche questo è sublime! Le pietre, il deserto, lo squallore non potevano avere attrattive per i sensi, spingevano l'anima al cielo, l'anima che cerca solo ciò che è grande. Il Redentore cercò l'arida solitudine per insegnare alle anime nostre a non fermarsi alle piccole cose della terra, ed a tendere a Dio attraverso le stesse privazioni delle quali la vita ci dà occasione.