mercoledì 30 aprile 2014

30.04.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 3, par. 3

3. Per la nostra vita spirituale e per il vero bene dei popoli
Nelle vie dell'amore noi andiamo a Gesù sempre di notte; siamo tenebre nel pensiero e tenebre nella vita, ed andiamo a Gesù che è luce vera che illumina ogni uomo. Che cosa direbbe il mondo del discorso di Gesù a Nicodemo, paragonandolo a quelli dei grandi oratori? Eppure i discorsi della terra sono tenebre, nascono da tenebre e spargono tenebre ogni volta che toccano i grandi misteri della vita. Se fossimo persuasi della vanità dell'umana sapienza, invece d'appassionarci a studiarla trascurando quella divina, andremmo da Gesù, solo da Gesù, sempre da Gesù per impararla. La sapienza terrena spesso non giova che a gonfiarci, soprattutto in questi tempi di orgogliosa iattanza, e lungi dall'illuminarci, ci getta nelle tormentose reti del dubbio, e ci riduce nella notte.
Dolorosamente anche quelli che più di proposito debbono conoscere la scienza di Dio, sono abituati ad andare alla scienza profana per cercare luce, e trovano le più pericolose insidie alla loro fede. La povera ed incerta scienza umana, se non è umile ancella di quella di Dio, uccide in noi la fede, diventa la serva padrona della fiaba e, come una serva impettita dall'orgoglio, s'impone con una sfacciataggine a tutta prova.
Noi amiamo l'umile serva, ma aborriamo la serva padrona, e come la serva padrona ha bisogno non della signorilità ma dell'impeto dello sdegno per essere messa alla porta, noi la mettiamo alla porta, abbracciandoci alla divina sapienza, che è stoltezza per il mondo, ed è luminosissima luce tra i misteri ed il positivismo della vita.
Siamo stufi, arcistufi di sentirci ripetere cretinaggini in veste pomposa di accigliata scienza, aneliamo all'aura dei cieli, come asfissiati che vogliono respirare perché sono oppressi e avvelenati dall'acido carbonico. Vogliamo vivere, non gingillarci tra le fiabe, e le fiabe e le leggende non sono nella fede ma nella sapienza del mondo.
Fede, fede, fede; questa sazia l'intelletto e ricolma il cuore; la scienza che non è ancella della fede è ladra di luce, stabilisce un circuito falso con la terra, presumendo d'illuminare fulmina le valvole di sicurezza del nostro intelletto, e lo getta fra le tenebre assolute, o tra i bagliori dell'incendio d'un corto circuito. Il circuito dei contatti con la terra è sempre favilla incendiaria di turpi passioni e di peccati, che portano la rovina nell'anima.
La vittoria del popolo sia nella luce dello Spirito Santo
Nicodemo è un nome greco che significa la vittoria del popolo; egli era parte del sinedrio, e cercando la luce andò da Gesù.
Siamo in tempi nei quali il popolo vuol vincere e far parte delle potenze che reggono le genti: democrazia, comunismo, socialismo, e persino fascismo e nazionalsocialismo, con tutti gli ismi più o meno autentici dei sottoprodotti, dicono di tendere alla vittoria del popolo21 ; possiamo dire che siamo nel regno di Nicodemo. Ma se nella notte delle convulsioni sociali i popoli non vanno a Gesù, e non rinascono di nuovo alla fede, nell'acqua e nello Spirito Santo, per la Chiesa e nella Chiesa, la loro vittoria è una leggenda, e la realtà è invece la loro rovina e la loro morte. Quello che a Nicodemo sembrò un assurdo: rinascere quando si è vecchi e rientrare nel seno materno, deve essere una realtà per i popoli cosiddetti civili, invecchiati ormai nell'apostasia da Dio: devono rinascere, ridiventare popoli giovani per la fede, e rientrare nel seno materno della Chiesa.
Non sono rinati e giovani i popoli che non vanno a Gesù, ma guardano piuttosto ai loro idoli, elevati nel deserto dell'esilio come vitelli d'oro! Quello che è nato dalla carne è carne, e non può stare in un uomo la salvezza, né può un uomo presumere di fare lui un nuovo Vangelo.
Il mondo non rinasce per l'impetuoso vento di una rivoluzione, rinasce invece per la luce e la grazia dello Spirito Santo. Deve riporsi in trionfo la croce di Cristo; e solo la croce, come il serpente innalzato da Mosè nel deserto, può sanare le ferite brucianti e mortali degli insidiosi serpenti dell'errore e dell'apostasia.
I popoli si illudono per l'amore che i diversi mestatori dicono di portar loro, e non sanno che solo Dio li ama e li ha amati, fino al segno di dar loro il suo Figlio, affinché credendo siano salvi per il tempo e per l'eternità. Se si capisse che solo da Gesù Cristo può venire la salvezza, non si cadrebbe nei terrori del giudizio giustissimo di Dio, che abbandona i popoli apostati alle loro forze ed ai loro capricci e permette che si consumino l'uno con l'altro.
Signore Gesù, il tuo discorso a Nicodemo è tuttora di attualità, poiché, ecco, noi siamo nella notte più profonda.
Siamo tuoi figli, ma dolorosamente veniamo a Te fra le tenebre del vile rispetto umano, ed abbiamo timore di manifestarci tuoi seguaci, senza pensare che Tu solo sei la nostra vera ed unica salvezza. Donaci la grazia di rinascere nell'acqua delle tribolazioni che ci angustiano, e nella grazia dello Spirito Santo che ci rinnova, e fa che sospiriamo non a ciò che è carne ma ai beni celesti.
Spiri nella nostra vita il vento divino della tua volontà e la orienti tutta a Te, come il vento orienta la bandiera che sta sulle alture; ridonaci la fiducia nella tua Parola e nella tua verità, ridonaci l'amore a Te Crocifisso per amore, affinché non amiamo le tenebre ma la luce, e troviamo per Te la pace in terra e l'eterna salvezza nei cieli.
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 29 aprile 2014

29.04.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 11, par. 7-9

7. Il privilegio dei piccoli di spirito, e l'invito del Cuore di Gesù
Perché le anime non corrispondono alle grazie del Signore? Perché presumono di se stesse, si gonfiano vanamente, indagano con superba tracotanza quello che dovrebbero adorare e praticamente rifiutano la luce delle divine misericordie. Il Vangelo non si può intendere dai così detti grandi del mondo, perché essi hanno la testa come intontita dalle loro meschinità, e sono avvolti dalla fitta cortina delle loro idee.
Gesù perciò si compiace dei piccoli di spirito, che in realtà sono grandi, e ringrazia il Padre di aver loro rivelato i misteri della verità e dell'amore celati ai così detti sapienti della terra. La sapienza e la prudenza umana è come nebbia che si leva all'orizzonte e impedisce il diffondersi dei raggi del sole; gli uomini la credono sapienza ma in realtà è stoltezza innanzi a Dio. Ne sa più un umile contadino, pieno dello spirito del Signore, che un dotto filosofo, il quale si perde nei vortici delle sue fantasie. È questo un punto importantissimo e fondamentale per andare a Dio, e Gesù mostra in se stesso la grandezza di questo principio: Egli si è umiliato e fatto piccolo per amore, e tutto gli è stato dato dal Padre; è povero innanzi al mondo, ma è ricchissimo innanzi a Dio, perché il tutto donatogli dal Padre è il suo Verbo che termina l'umana natura.
Il Verbo è la conoscenza del Padre ed è la sapienza infinita che lo conosce, il Verbo e il Padre sono perfettamente uguali, benché realmente distinti.
Il Padre conosce se stesso e genera il Verbo nella sua infinita semplicità, ed il Verbo, conoscenza del Padre, lo glorifica in una luce infinitamente semplice.
È dunque la semplicità che trionfa nell'oceano dell'infinita luce ed è attraverso la semplicità che questa luce si comunica. Il Padre la comunica ai piccoli, e il Figlio la comunica a chi vuole; siccome la sua volontà è fonte di bene così è chiaro che la comunica non a capriccio, ma diffondendo il bene con la sua volontà, salvando e redimendo. Il bene raggiunge la creatura nel sacrificio e il sacrificio avvicina la creatura al sommo bene, e per questo Gesù invita a sé tutti i sofferenti per ristorarli col dono della luce e dell'amore di Dio.
8. Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore
Per ricevere la luce di Dio bisogna appartenere al Redentore, e sottoporsi al suo giogo, cioè al suo dominio, che è soave e dolcissimo, e bisogna imparare da Lui come da Maestro. Non basta ascoltare i suoi precetti per intenderli, bisogna prima sottomettervisi ed accettarne la pratica perché i precetti di Gesù non sono teorie filosofiche ma sono via, verità e vita. Bisogna imparare da Lui che è mansueto ed umile di cuore, nella mansuetudine che si sottomette al giogo; e nell'umiltà che sa rinunziare ai propri pensieri; bisogna imparare dal Maestro divino la mansuetudine e l'umiltà del suo Cuore, che sono i segreti della sua intimità col Padre, poiché Egli si sottomette alla sua volontà che lo immola ed, umiliandosi fino alla croce, ne glorifica la grandezza e la maestà.
I moderni esegeti sostengono che Gesù Cristo nel dirci: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore, non abbia voluto proporsi come maestro di queste due virtù ma abbia voluto dire che Egli è un maestro che non fa paura, che è mansueto ed umile nell'insegnare, e lo è non a fior di labbra ma profondamente nel cuore (vedi Sales, pag. 51). A noi questa spiegazione sembra non solo monca nel contesto, ma contraria allo spirito stesso della Chiesa. Gesù, infatti, ci esorta a prendere il suo giogo e ci mostra il Cuore suo per mostrarci che cosa è questo giogo, tutto amore, tutto pace, e tutto bontà. Se il Re è amore, mansuetudine ed umiltà, è logico che anche i sudditi lo siano, poiché i sudditi debbono imparare da Lui. Gesù vuole, precisamente perciò, com'è chiaro dal contesto, che s'impari da Lui la mansuetudine e l'umiltà del suo Cuore.
La vita eterna sta nel conoscere il Padre ed il Figlio, come il Figlio Incarnato conosce il Padre e lo glorifica; Egli si sottomette alla sua volontà e si umilia fino alla croce, accetta con mansuetudine il giogo come vittima e si offre alla croce. I suoi seguaci debbono fare lo stesso e poiché l'amore di Dio include quello del prossimo, debbono essere mansueti ed umili anche nelle relazioni coi propri fratelli.
9. Il Cuore di Gesù, il segreto di una pace internazionale
Gesù Cristo volle precisamente mostrare il suo Cuore e volle additarlo come rimedio supremo all'umanità che rifiuta il suo giogo nell'apostasia universale; il versetto del Vangelo è come il primo annunzio della rivelazione fatta a santa Margherita Alacoque, rivelazione che la Chiesa ha solennemente riconosciuta. Egli è il Maestro, e l'umanità apostata non vuole riconoscerlo, e rifiutando Lui rinnega il Padre, rinnega Dio. L'orgoglio umano scuote il giogo della sapienza e dell'amore, e si dà con pazza violenza alla conquista dei beni terreni; Gesù sfata questa pazzia, affermando che, per raggiungere la pace e la felicità interna, bisogna umiliarsi, farsi piccoli, essere docili e mansueti innanzi a Dio e agli uomini, come Egli lo è stato. Non c'è altra via per mantenersi fedeli alla misericordia che Egli è venuto a portare in terra, e per sfuggire all'ingratitudine che Egli rimprovera a Corazin, a Betsaida ed a Cafarnao.
In un mondo senza pace e senza amore, fondato ormai sulla violenza del più forte, e potremmo dire sul massacro del più debole, non c'è altra via di salvezza che la mansuetudine e l'umiltà imparata dal Cuore Sacratissimo di Gesù.
Bisogna sapersi vincere nelle irruenze del carattere e nella prepotenza dell'orgoglio, e bisogna persuadersi che queste virtù non sono necessarie solo all'individuo, ma anche alla società. Non si può instaurare il dominio della forza brutale e dell'orgoglio che tutto vuole accentrare a sé e tutto vuol dominare, e pretendere che non ci sia altra via per conservare la preponderanza di una nazione sull'altra. Solo a questa condizione è possibile conservare nel mondo la pace.
La pace dell'anima è frutto dell'armonia con tutti e della placida moderazione delle proprie aspirazioni; la pace delle nazioni sta nell'armonia interna ed esterna di uno stato e nel mantenere la propria fisionomia, per così dire, di fronte alle altre nazioni senza presumere di volersi ingrandire a spese delle altre. È necessario sottomettersi a Gesù Cristo, poiché questo è il vero segreto dell'internazionalismo sapiente che diventa cattolico, apostolico, romano. L'internazionalismo che non è fondato sulla piena accettazione del giogo soavissimo del Vangelo non è unione di tutti i popoli, ma è massacro e barbarie, come si è visto dolorosamente nell'internazionalismo comunista, che è passato come un uragano di ferro, di fuoco e di rovine in tutte le nazioni che ha infestate.
Sac. Dolindo Ruotolo

29.04.2014 - Commento alla prima lettera di San Giovanni cap. 1, par. 1

1. Il significato letterale di questo capitolo.
San Giovanni, senza bisogno di annunziarsi o di qualificarsi come apostolo, comincia enfaticamente la sua esortazione ai fedeli che voleva confermare nella verità loro predicata. Era ben conosciuto ai fedeli ai quali si rivolgeva, perché egli dirigeva e vigilava le comunità cristiane dell’Asia Minore. Aveva scritto per loro il quarto Vangelo; sapeva che in quella comunità già si erano infiltrati falsi dottori e falsi pastori, e comincia con un’espressione enfatica per smentirli con un’affermazione recisa ed assoluta: Non avevano né gli Apostoli né lui annunziato cose fantastiche sul Redentore, ma ne erano testimoni oculari, che non solo avevano visto ed ascoltato quello che avevano predicato, ma lo avevano ponderato, lo avevano toccato con mano, e perciò se ne erano accertati in modo razionale ed accurato: Ciò che era da principio, cioè il Verbo eterno della vita, e, come indica l’espressione greca, ciò che era connesso col Verbo eterno, incarnato e manifestato agli uomini, ecco il soggetto e l’oggetto della nostra predicazione.
Non un’idea nostra, non una immaginazione fantastica, come erano e sono gl’insegnamenti di filosofi o di sognatori, ma ciò che era da principio, cioè una realtà divina ed eterna, che era prima del tempo, che esisteva prima che ogni cosa fosse creata.
Queste parole solenni, che delineano l’eternità di Dio in confronto con le cose create, trovano riscontro e conferma nelle parole con le quali comincia il Libro divino: In principio Dio creò il cielo e la terra; quando, cioè, cominciarono le cose e si delineò il tempo, Dio era già, dall’eternità.
Ciò che era da principio trova riscontro anche nella solenne e grandiosa introduzione dell’Evangelo di S. Giovanni: In principio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio, ed il Verbo era Dio. Dunque, solennemente e meravigliosamente: Ciò che era da principio il Verbo di Dio, che era ab aeterno presso Dio, generato dal Padre eterno, è manifestato agli uomini nell’incarnazione avvenuta nel tempo; noi abbiamo inteso, o, come indica l’espressione greca, non soltanto udito, quando il Padre lo dichiarò nel Battesimo al Giordano e nel monte della trasfigurazione, ma abbiamo percepito e compreso profondamente con amore e con fede: achiooàmen.
E non abbiamo solo inteso, annunziato e rivelato a noi come il Verbo di Dio, il Figliuolo di Dio, ma lo abbiamo visto con gli occhi nostri, con un’esperienza vissuta e reale, come indica l’espressione greca. Gli occhi nostri non lo hanno visto come si vede una cosa superficialmente e di passaggio, ma lo abbiamo contemplato come spettacolo magnifico, come indica la parola greca, e la radice di questa parola, teatron, che indica uno spettacolo che attrae tutta l’attenzione visiva, e quindi non lo abbiamo visto con una visione spirituale, o con una immaginazione fantastica, ma con vera visione fisica, quindi come testimoni oculari, quali anche oggi la storia e gli storici considerano come testimoni attendibili e sicuri della verità.
Testimoni oculari, che non videro soltanto, ma si accertarono scrupolosamente di quello che videro, che non toccarono, ma palparono come chi vuole accertarsi di una realtà concreta.
Presentazione mirabile dell’Apostolo e con lui degli Apostoli che annunziarono la verità; presentazione che trova conferma nei quattro Vangeli e che dà risalto maggiore, e, diremmo, lapidario, alle parole fondamentali della lettera e dell’insegnamento dell’Apostolo: Del Verbo della vita, ossia del Verbo nel quale era la vita, come dice S. Giovanni al principio del suo Vangelo (1,4).
Non si tratta, dunque, di una parola o di un discorso che dà la vita, ma del Verbo, logos, Persona divina, nella quale era la vita sussistente ed infinita. Per questo Gesù, Verbo umanato, disse con verità assoluta: Io sono la vita (XI, 25; XIV, 6).
Questa verità fondamentale comprende tutta l’anima ed il cuore di San Giovanni, e perciò egli insiste con una parentesi di marcata conferma, che esce spontanea da chi dice la verità: Sì, la vita si manifestò nell’incarnazione del Verbo, vero Dio e vero uomo, e noi abbiamo visto ed attestiamo ed annunziamo a voi la vita eterna, quella che era presso il Padre e si manifestò a noi.
Che cosa è la vita, S. Giovanni dice ai fedeli, ai quali scrive: Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi, intendendo ritornare sul concetto del Verbo di Dio, con un’espressione più comprensibile, per dichiararne la Divinità. Dio, infatti, è la vita infinita, che non ha né principio né fine, e dal quale ha origine ogni vita. Oggi, come in antico, nessuno dei filosofi è stato capace di intendere e spiegare che cosa è la vita. L’umana stoltezza e miseria si manifesta anche in questo: noi siamo a continuo contatto con la vita, dalla cellula che vive alla pianta, all’animale, all’uomo, all’anima, a tutto quello che vive, certamente vive, e non sappiamo determinare e capire che cosa è la vita.
È un mistero che appare inconoscibile, ma è una spinta a riconoscere Dio che è vita. È assurdo intendere e spiegare la vita senza risalire a Dio, eterna vita. Se tutto ci parla di Dio come un riflesso della sua grandezza, della sua sapienza e del suo amore, la vita ci parla di Dio in una maniera più sintetica e più semplice, poiché ci riporta a Dio che è la vita, eterna ed infinita, nella sua Trinità e nella sua Unità: perciò il termine vita è preferito da S. Giovanni; ricorre 13 volte nelle Lettere e 37 volte nel Vangelo, con diversi significati. È considerata in Dio donde ha origine e negli uomini che ne sono partecipi.
L’aggettivo eterna indica una durata senza fine, che si prolunga oltre il tempo nell’eternità, quando è considerata nelle creature spirituali. Se è considerata in Dio, è tutta in atto, sempre presente, mistero ineffabile che ci riporta all’infinita semplicità di Dio, nell’adorabile Trinità.
Nel Vangelo S. Giovanni dice che nel Verbo di Dio c’era la vita (1,4). Si tratta della vita divina, della Divinità posseduta dal Verbo, Dio come il Padre nella natura divina. Perciò Gesù disse: Come il Padre ha la vita in se stesso così ha dato anche al Figlio l’avere la vita in se stesso (V, 2) *.
Qui, nella lettera, il Verbo che possiede questa vita divina è chiamato il Verbo della vita, ed è Lui stesso come vita eterna. Più innanzi dice che il Figlio di Dio è vero Dio, (V, 20) è la vita eterna. E Gesù disse perciò: Io sono la vita (XI, 25; XIV, 6).
Nel Vangelo San Giovanni dice: Il Verbo era presso Dio (I, 1) qui dice che la vita eterna era presso il Padre, e quindi che la Persona divina del Verbo, detto Verbo della vita, era presso il Padre da tutta l’eternità.
L’espressione greca indica mirabilmente le due verità, espresse nei due testi paralleli del Vangelo e della lettera: Il Verbo era presso Dio, pròs ton Teòn, indica la natura divina del Verbo; la vita eterna era presso il Padre, pròs tòn Patéra, indica un movimento, una relazione di comunione attiva, di consostanzialità, ossia che il Verbo sta presso Dio ed è consostanziale al Padre.
Cosa significa la parola « comunione »
Era logico che S. Giovanni, dopo aver enfaticamente detto che lui e gli Apostoli avevano inteso, visto con gli occhi, contemplato con la mente e toccato con le mani, anzi palpato, e quindi con accuratezza di chi non tocca di passaggio ma indaga ed esamina, il Verbo della vita fatto uomo, era logico che insistesse, nella parentesi, sulla realtà della manifestazione del Verbo di Dio nell’umana carne fatta agli Apostoli, e facesse ponderare la grandiosità del mistero del Verbo di Dio, ritornando a confermare la verità constatata minutamente da lui e dagli Apostoli, dicendo: Ciò che abbiamo visto ed inteso l’annunziamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi.
Facciamo notare questo, perché l’esprimersi di S. Giovanni non è slegato, come potrebbe apparire, da una interruzione, nella parentesi, ma è mirabilmente legato da un nesso logico e psicologico, perché l’Apostolo vuole ben salda la fede nella divinità di Gesù Cristo in quelli ai quali scrive, perché abbiano comunione con lui e con la Chiesa, partecipando ai beni soprannaturali che ci ha dati la Redenzione.
Bisogna approfondire bene questa parola comunione, usata fin dai primi tempi della Chiesa per indicare l’unione delle anime in Gesù Cristo e la comune partecipazione alle grazie della Redenzione. Quando un fedele, un sacerdote e magari un vescovo dissentiva dall’autorità superiore della Chiesa, era eretico o immorale, era dichiarato privo della comunione col centro vitale della Chiesa. Era, in fondo, la dichiarazione di una scomunica, di un anatema che lo divideva dalla Chiesa e dai beni soprannaturali della Chiesa.
Anche oggi questo concetto è vivo nella Chiesa; tanto vivo che noi chiamiamo comunione la partecipazione all’Eucaristia, per la quale veniamo in intima comunione con Gesù Cristo, e siamo partecipi della sua vita e dei tesori delle sue grazie.
Comunione, nel suo significato lessico, si definisce: Unione stretta ed attiva di anime che hanno in comune i beni spirituali o corporali. Da questo concetto si capisce meglio la parola di S. Giovanni: Ciò che abbiamo visto ed inteso l'annunziamo anche a voi, affinché voi pure abbiate comunione con noi.
Gli Apostoli, annunziando ed attestando la dottrina di Gesù Cristo, ddnno origine, per quelli che vi credono e la praticano, a questa misteriosa comunicazione di beni soprannaturali fra loro, i fedeli e Dio. Gli Apostoli sono il tramite per cui i fedeli possono raggiungere la comunione con le Persone divine. Avere comunione con Dio, significa partecipare dei beni divini, anzi di Dio stesso, sommo bene; essere, per la grazia, partecipi della natura divina, come dice S. Pietro nella sua seconda lettera (1,4).
È questa comunione che costituisce la nostra felicità nel Cielo, come la deve costituire fin dalla vita terrena, felicità di pace e di amore che satolla l’anima, e si tocca con mano, allorquando sta in grazia di Dio e, possiamo dire, si controlla e si esperimenta, quando l’anima, pentita e perdonata per l’assoluzione sacramentale, ritorna in grazia di Dio. È un’esperienza che si controlla sempre nei peccatori che si convertono, in qualunque età, dalla fanciullezza alla estrema vecchiaia.
Chi scrive lo ha controllato migliaia di volte nel ministero sacerdotale e l’ha sentito confermare migliaia di volte da altri Sacerdoti. L’anima che, confessandosi bene, ritorna in grazia di Dio, si sente liberata da un peso, si sente leggera leggera, avverte una pace ed una gioia profonda che traspare anche nella luminosità del volto e dello sguardo.
Recentemente, in tempi di astronauti e di voli cosmici, oggi noti anche ai fanciulli per la televisione, un ragazzetto di otto anni diceva, dopo essersi confessato bene la prima volta: Dopo l’assoluzione mi sono sentito leggero leggero, come se avessi perduto il mio peso, proprio come chi vola, ad una grande altezza, perde il suo peso. Mi sono sentito come una piuma.
Autentica testimonianza di un ragazzetto intelligente che era passato dal peccato allo stato di grazia, alla comunione con Dio.
Un vecchio, inveterato nel peccato impuro, aveva creduto impossibile liberarsi delle sue responsabilità, dopo 53 anni, confessandosi; sentì l’anima trasfusa di tanta gioia da sentire il bisogno di dire in Chiesa, innanzi ai fedeli e a chi scrive: Che gioia! Non credevo ci fosse tanta felicità a mettersi in grazia di Dio! Ed il Signore gli confermò la gioia, guarendogli istantaneamente e miracolosamente una sua figlia che era moribonda. Questo avvenne nel 1950 nella Parrocchia di Montesanto a Napoli. E non era un caso sporadico, ma ripetuto cento e mille volte, e chi scrive ne è testimone e lo giura sul Cuore misericordioso di Gesù Cristo.
Una confessione ben fatta, in fondo, è un amoroso ritorno dell’anima peccatrice a Dio, ed una comunione di Dio all’anima; un atto di fede nella parola di Gesù che invita l’anima a penitenza, una corrispondenza amorosa a quell’invito di misericordia, realizzandosi così la parola di Cristo: Se uno mi ama, osserverà la mia parola, ed il Padre mio l’amerà, e verremo a lui e dimoreremo presso di lui (Giov. XIV, 23). È la comunione con Dio per la grazia sacramentale, realizzata per il ministero sacerdotale. È il compimento della preghiera sacerdotale di Gesù Cristo: Padre, conservali nel tuo Nome... Siano una sola cosa con noi, come tu sei in me ed io in Te (Giov. XVII, 21,23).
Considerando questo altissimo mistero della comunione di Dio nelle anime per il ministero apostolico e sacerdotale, S. Giovanni sente il bisogno di confermarlo con una recisa affermazione, spiegando ch’egli scrive ai fedeli perché abbiano comunione con lui e con gli Apostoli ed i Sacerdoti: Sì, la comunione nostra è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo, e queste cose scriviamo noi, affinché la nostra gioia sia completa.
L’Apostolo dice: Scriviamo noi, non per un noi di maestà e neppure per dare al noi il senso personale di io, ma perché scrive non solo riferendosi agli altri Apostoli ed ai Sacerdoti, ma perché ha di mira la Chiesa, nella quale si realizza la comunione con la gerarchia ecclesiastica e per essa tra i fedeli, corpo mistico di Gesù Cristo con Lui capo, e per Lui e la gerarchia ecclesiastica, col Padre e con lo Spirito Santo. Insiste, perciò, su questa verità, perché la nostra gioia sia completa. È logico che nella comunione con Dio, che genera la comunione della carità, la gioia dell’anima è completa.
L’Apostolo, nel testo greco, dice la nostra gioia, non per restringere la gioia nello scrivere una verità tanto bella e consolante, a lui solo, e neppure a lui con gli Apostoli e i Sacerdoti, ma a tutti i fedeli che vivono in comunione con Dio e con la Chiesa; nostra, cioè di tutti.
Non scrivendo egli ad una sola comunità cristiana, ma a quelle dell’Asia Minore, si capisce anche meglio perché usi quel noi, collettivo e non cattedratico, e tanto meno equivalente ad un io letterario, come dicono alcuni moderni, ma usi noi per includere gli Apostoli che avevano fondato le altre comunità cristiane, ed i gerarchi che le governavano continuando il ministero apostolico.
La Volgata determina, poi, la nostra gioia del testo greco, per quello che significa quel nostra gioia, generale e collettivo, traducendo, e più liberamente esprimendo il significato di quella gioia collettiva: Affinché godiate, e la vostra gioia sia piena.
Confermando l’autorità di quello che scrive ai fedeli come testimone oculare, S. Giovanni chiude il prologo della lettera così: È questo l’annunzio che abbiamo ricevuto da Lui, da Gesù Cristo, e che annunziamo a voi.
Dio è luce
Comincia S. Giovanni la prima parte della sua lettera con una espressione bellissima, che di per sé è un’esortazione a camminare nella verità. È un’espressione illuminante, fulgente, come ogni parola del grande Apostolo che fu prediletto da Gesù Cristo e, riposando sul suo Cuore divino, sentì nell’anima sua la luce del Verbo incarnato, generato ab aeterno dalla infinita conoscenza del Padre, luce quindi di conoscenza e glorificazione eterna di Dio, Verbo di Dio che, facendosi uomo, illumina ogni uomo.
Dio è luce, dice S. Giovanni, ed in Lui non v’è oscurità alcuna. Se diciamo di aver comunione con Lui e camminiamo nell’oscurità, mentiamo e non facciamo la verità. Se, invece, camminiamo nella luce, come Lui è nella luce, abbiamo comunione reciproca ed il Sangue dì Gesù Cristo, figlio di Lui, ci purifica da ogni peccato.
Cominciamo ad approfondire queste parole di S. Giovanni: Dio è luce. In che senso lo dice? In senso metaforico, per dire che è splendore di verità, o per indicare lo splendore della sua gloria e della sua santità? Dio, infatti, è somma e semplicissima verità, secondo quello che disse a Mosè: Io sono colui che è. Siccome S. Giovanni usa un parallelismo: luce e verità, tenebra e peccato, è chiaro che se Dio è luce di verità è anche luce e splendore di santità.
Come verità penetra l’anima illuminandola con la fede, rivelazione di verità trascendenti; come santità penetra il cuore con la grazia: luce spirituale di elevazione soprannaturale. Come verità è luce che dissipa l’errore, e per questo la fede non è solo una conoscenza speculativa com’è quella dei filosofi, è una conoscenza reale; non è un’opinione, è luce di verità assoluta.
Nessuna verità umana è luce, nel senso stretto della parola, perché è sempre o imperfetta od oscura alla mente o sterile per il cuore. Neppure le verità matematiche possono dirsi luce, perché più progrediscono nel loro sviluppo e meno appariscono luminose. Sono difficili, si complicano nella mente a misura che si conoscono, come lo è, per esempio., il calcolo infinitesimale.
Qualunque entità vera richiede una riflessione, un esame, una analisi per essere conosciuta; solo la luce, nel manifestarsi, si vede e nel vedersi convince: è luce.
La verità è luce quando si conosce per quello che è, è armonia di quello che è. In Dio la conoscenza è sussistente ed infinita: Il Verbo eterno; l’armonia è l’Amore eterno, spirato dal Padre e dal Figliuolo, che li unisce nell’Amore sussistente, persona infinita.
La conoscenza completa e perfetta è luce; l’amore infinito e sussistente è luce, perché è spirato dall’infinito principio e dalla sua conoscenza infinita; amorosa ed infinita unione, per cui Dio è carità nella sua unità infinita e nella sua Trinità. È luce nella quale non c’è oscurità alcuna; luce nella infinita conoscenza e nell’infinito amore. Non si può dire perciò che Dio ha la luce, ma è luce.
Il Verbo Umanato è  luce, che ci rivela e ci fa conoscere Dio, e perciò Gesù disse: Io sono la luce del mondo e chi mi segue non cammina nelle tenebre: è luce, quindi, nella quale non c’è oscurità alcuna; lo Spirito Santo è luce, fiammeggiante splendore che, coi doni che effonde nelle anime, le illumina e le eleva nel divino amore.
Nell’eternità è unione infinita del Padre e del Figlio, splendore di eterna carità; nella Chiesa è unione delle anime a Dio come Padre che è nei cieli, e delle anime a Gesù Cristo, Figlio di Dio, redentore che salva. Lo Spirito Santo le unisce a Dio con la grazia che illumina, con la Sapienza, che splende nell’intelletto, che guida nel consiglio, luce di soprannaturale prudenza; luce che fortifica i vivi germogli della vigna del Signore; luce che è scienza soprannaturale, che è tenerezza di amore per Dio, comunione con Lui, sospirante colloquio di preghiera, adorante riconoscimento della sua maestà; luce fiammeggiante che fa misurare la grandezza divina in confronto dell’umana piccolezza, e, toccando il cuore, lo rende nell’amore arpa di glorificanti armonie della sua infinita grandezza.
Quale ammirabile splendore in questa sola parola di S. Giovanni: Dio è luce, ed in Lui non v’è oscurità alcuna! Eco sublime della sospirante parola del Salmista che cantava: Il Signore è la mìa luce (Salmo 27). Eco di Isaia che invocava Dio: Luce d’Israele (X, 17), e, nel libro della Sapienza, questa è proclamata irradiazione della luce eterna (VII, 26).
La Luce vera dei credenti
La Chiesa raccoglie nel suo spirito mirabile la parola di S. Giovanni invocando Dio come luce: luce vera dei credenti. Vivente nel terreno esilio, tra le tenebre del mondo, esule e pellegrino, invoca Dio vera luce, e sospira a Lui nella luce dell’eternità.
Alla luce si oppongono le tenebre, e quindi alla verità l’errore, alla santità il peccato, ed è assurdo pretendere di conciliare queste due cose opposte. Perciò S. Giovanni soggiunge: Se diciamo di aver comunione con Dio e camminiamo nell’oscurità, se, come cristiani, ci dichiariamo in comunione, in amicizia con Dio, e comminiamo nella oscurità, ossia nell’errore e nel peccato, mentiamo, siamo bugiardi nella vita, mentre ci dichiariamo nella verità e non la facciamo, cioè non la pratichiamo fedelmente e lealmente, come indica la parola ebraica, e l’ebraismo che ne deriva.
È un’ipotesi che fa S. Giovanni, rivolgendosi non solo alle anime alle quali scrive, ma a tutte le anime, includendo anche se stesso in quel noi. Non è un rimprovero, ma è un ammonimento preventivo, per mettere tutti in guardia contro gli errori che allora già serpeggiavano, e contro i possibili ritorni alle superstizioni pagane. Egli perciò soggiunge, in contrapposizione all’ipotesi fatta in senso generale, la realtà del comportamento che debbono avere i cristiani nella loro vita: Se invece camminiamo nella luce, ossia nella verità, come Lui, Dio, è nella luce, se abbiamo comunione reciproca (e vuol dire comunione di obbedienza e di leale dipendenza dalle autorità ecclesiastiche nella dottrina e nella vita morale, condizione assolutamente necessaria per avere comunione con Dio) il Sangue di Gesù Cristo, Figlio di Dio, ci purifica da ogni peccato.
Cosa significa «avere comunione reciproca »
Il Sangue di Gesù Cristo ci purifica, non già ci rende impeccabili, diventa Sangue salvifico, proprio per il ministero della Chiesa, per la comunione che abbiamo coi Sacerdoti quando ci confessiamo.
È evidente questa condizione dal contesto della parola di S. Giovanni: avere comunione reciproca, poiché solo confessando al Sacerdote i nostri peccati noi abbiamo una vera e profonda comunione reciproca: noi ci accusiamo dei nostri peccati, ed il Sacerdote ci assolve, comunione reciproca di umiltà da parte nostra e di misericordia da parte del Sacerdote, che rende per noi salvifico il Sangue versato da Gesù Cristo per la remissione dei peccati.
È una parola luminosamente decisiva contro i protestanti, che presumono confessarsi direttamente con Dio, appellandosi diretta- mente al Sangue di Gesù Cristo, senza bisogno di confessarsi col Sacerdote. Né si possono intendere le parole di S. Giovanni nel senso della carità fraterna, poiché di questa virtù l’Apostolo parla nei capitoli seguenti.
Qui è evidentissimo che per camminare nella luce di Dio, che è luce, come Lui è nella luce, ossia nella verità e nella santità, noi dobbiamo avere luce di verità e di santità, non solo verità nelle dottrine della fede, ma verità nel riconoscimento della nostra miseria e delle nostre colpe, riconoscimento spassionato e limpido come la luce; riconoscimento doloroso e penitenziale, in opposizione alle tenebre delle passioni e dei peccati.
Questo riconoscimento di verità si ha soltanto nella confessione, perché nasce da due luci reciproche, esattamente reciproche, perché dove la luce del riconoscimento delle proprie colpe è imperfetta o claudicante, è completata dagli avvertimenti e dalla luce del ministero sacerdotale. Non c’è comunione più reciproca di una buona confessione. È reciproca anche la macchia che si mostra, e il sapone o il bucato che la deterge. La macchia si fa evidente nella luce e così si mostra; il sapone ha contatto con lo sporco che si mostra, e stropiccia dove la luce la rende più evidente. Il sapone, stropicciando, si consuma, diremmo, si piaga, s’immola per cancellarlo. Un’azione reciproca; la sozzura che diventa evidente mostrandosi nella luce; il detersivo che, consumandosi, la cancella e la purifica.
È tanto evidente, dal contesto, che S. Giovanni parla della confessione fatta ai ministri della Chiesa per avere Comunione di grazia con Dio, che senza questo riferimento logico, quella frase: abbiamo comunione reciproca, sembrerebbe una frase appiccicata, quasi... di palo in frasca, senza nesso con la espressione grandiosa: Comunione con Dio, con Dio che è luce, e nella cui luce un Cristiano deve camminare, liberandosi dalle tenebre del peccato e dell’errore volontario, che è un peccato grave, ottenebrante l’anima.
Quello che diciamo è confermato mirabilmente dalle parole che chiudono questo capitolo, giacché il riconoscere i propri peccati può avvenire soltanto confessandoli a chi rappresenta Gesù Cristo, che, come suo ministro, è giudice nella verità.
Fuori della confessione sacramentale, l’orgoglio umano trova sempre scuse e ripieghi per giustificare i propri errori e le proprie colpe, dichiarandosi non solo ragionevole e giusto, ma più ragionevole e giusto degli altri.
L’esperienza dimostra che i più grandi peccatori, esortati a confessarsi, si presentano sempre come giusti... di eccezione, con espressioni più o meno... stereotipate: Io sono più cattolico degli altri, faccio sempre il bene a chi ha bisogno, ecc. e rifiutano di confessarsi, facendo così la elogiativa confessione del Fariseo, che, in contrasto col pubblicano, stando in piedi innanzi all’altare, si elogiava come giusto, e veniva condannato da Dio.
«Se diciamo dì essere senza peccato inganniamo noi stessi»
Per questo S. Giovanni completa e specifica che cosa intende per comunione reciproca, per avere comunione con Dio, dicendo: Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se, invece, confessiamo i nostri peccati, Dio è tanto fedele e giusto, da rimetterci i peccati, e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver commesso peccato, facciamo bugiardo Lui, e parola sua non è in noi.
Queste parole di S. Giovanni, che dal contesto sono chiarissime, hanno bisogno di essere ponderate per la confusione che vi apportano quelli che errano, interpretandole a modo loro, tanto da determinare ima definizione dogmatica del Concilio Milevitano II (Cartaginese XVI), approvato dal Papa Zosimo nell’anno 418, che può apparire oscura, ed una definizione del Concilio di Trento, che ai cavillosi teologi sembra incompleta.
Confessiamo che, se non si considerano le circostanze particolari storiche per cui furono emanate queste definizioni, sembra quasi impossibile che si siano incontrate difficoltà in un testo così semplice e chiaro come questo di S. Giovanni.
Oh, come è labile e confusa la povera mente umana quando si lascia guidare dai propri lumi!
E non temiamo di aggiungere: Quanto può essere cavillosa la mente dei teologi, ahimè, anche oggi, e forse più oggi, quando non veggono con umile semplicità la verità della fede e si smarriscono nelle opinioni della loro mente; e non raramente nelle supposizioni della loro... critica.
Prima di chiarificare una questione che può apparire intricata, ed in realtà non lo è, anzi che potrebbe addirittura omettersi, consideriamo le semplici parole di S. Giovanni: Se diciamo di essere senza peccato, e perciò rifiutiamo di confessarci (proprio come abbiamo accennato più sopra) per un atto di stupido orgoglio, noi inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi.
Solo Gesù potette dire: Chi potrà riprendermi di peccato?
Solo Maria S.S. fu concepita immacolata e non fu mai macchiata di peccato.
Ogni uomo, qualunque sia la sua condizione, nel presentarsi innanzi a Dio, che è luce, può dire senza mentire di essere senza peccato? Se lo dice, cade già in un peccato di superbia e di presunzione, perché al più superficiale esame della propria vita e della propria coscienza non può non riconoscersi peccatore.
S. Giovanni con queste parole non fa distinzione di peccato mortale o veniale, poiché il peccato, anche veniale, è sempre un peccato, e neppure i più grandi Santi hanno avuto un’innocenza assoluta. Si può dire, anzi, che la coscienza del peccato è più viva proprio nelle anime sante, che non credono di mentire, dichiarandosi peccatrici. Non era nei Santi un atto di umiltà il riconoscersi peccatori, ma un riconoscimento di verità, perché si vedevano nella luce di Dio.
San Luigi Gonzaga svenne nel confessare una fanciullata di infanzia e fece aspre penitenze, proprio perché era puro ed innocente.
La definizione del Concilio Milevitano potrebbe sembrare eccessiva, perché confermata dalla scomunica a chi la contrasta, eppure era opportuna contro quelle eresie che negavano l’universalità del peccato ed interpretavano le parole di S. Giovanni come una semplice espressione di umiltà.
È chiara, così, l’importanza dommatica della definizione di quel Concilio, giacché chi dicesse per umiltà di essere peccatore, farebbe più un atto di modestia umana e civile che di interiore convincimento e non porterebbe alla sincera confessione di peccati innanzi al ministro di Gesù Cristo.
La definizione del Concilio di Trento sul Sacramento della Penitenza era avvalorata dalla citazione delle parole di S. Giovanni (1, 9) e di S. Giacomo (V, 16) ed era contro gli eretici, che negavano la confessione sacramentale, dicendo che bastava confessarsi a Dio con un atto interiore soltanto. Il Concilio non definì il senso delle parole dei due Apostoli, è vero, ma non v’era necessità, giacché il senso era evidente dal testo e dal contesto, e ciò che è evidente non ha bisogno di essere definito.
Del resto il dire di dover confessare i propri peccati, suppone un atto esterno e non interno soltanto, suppone, quindi, una persona alla quale si confessano, una persona che possa avere l’autorità di rimetterli. Confessare i peccati, non significa raccontarli, ma dolersene. Confessarli ad un amico qualunque, può avere persino l’aspetto di una vanteria sconveniente o addirittura talvolta scandalosa, il che non sarebbe, com’è chiarissimo, un atto di umiltà.
Le definizioni quindi dei due Concili erano evidenti o non oscure, evidenti ed opportune per i tempi nei quali furono emanate, e sono parte del magistero infallibile della Chiesa.
Nella confessione, il perdono dei peccati
Con poche parole S. Giovanni dichiara l’effetto della confessione dei peccati nell’uomo e dice: Se confessiamo i nostri peccati, Dio è tanto fedele e giusto, sì da rimetterci i peccati, e purificarci da ogni iniquità. Il perdono dei peccati e la purificazione dell’anima sono i frutti non di un atto interno dell’anima, come pretendono i protestanti, atto molto incerto e discutibile, ma di un atto esterno e doloroso che accompagna e segue l’atto interno, ossia della confessione fatta al ministro di Dio.
Questi frutti non sono immaginari, ma sono il realizzarsi della promessa divina, fatta a chi si confessa, e della giustizia divina, giacché con la confessione noi paghiamo il debito che abbiamo con Dio peccando. Gesù stesso nel Pater noster ci fa implorare il perdono, come la remissione di un debito che si paga. Il perdono è un atto di misericordia e non di giustizia. Ma il rimettere il debito a chi lo paga, ed al pagamento aggiunge l’interesse del debito, è un atto di giustizia.
Nella confessione Dio ci accoglie perdonandoci, e con l’assoluzione ci rimette il debito, restituito con maggiorazioni dei meriti di Gesù Cristo.
L’istituzione del Sacramento della penitenza è di per sé una promessa di perdono e di misericordia a chi lo riceve con le dovute disposizioni. L’assoluzione delle colpe diventa allora il compimento della promessa divina. Dio è fedele nella sua provvidenza; i fenomeni fisici non sono combinazioni o effetti che vengono a caso; sarebbe sommamente stolto il dirlo. La stessa costanza matematica, con la quale si compiono, rivela non un fatto della natura, come oggi facilmente si dice, ma rivela una legge, e la legge suppone di necessità il legislatore intelligente che la impone.
Dio, che ha ordinato le sue creature con mirabili leggi, è fedele nel mantenerle, e la sua provvidenza è un atto di divina fedeltà. Gli astri, per esempio, oggi si muovono come si muovevano milioni e miliardi di secoli passati. Ora, la confessione, ed in generale i Sacramenti, sono come un fenomeno soprannaturale, che si realizza come si compie un fenomeno naturale; quindi, è mirabilmente vero il dire che Dio è fedele nel dare il perdono a chi si pente e si confessa, ridonandogli la grazia che lo purifica da ogni iniquità.
Questo atto di fedeltà verso chi si confessa e si pente, ricevendo l’assoluzione, è anche un atto di giustizia, perché la creatura peccatrice, confessandosi, ripara il suo debito, come si è detto, con un’esuberante restituzione, e quindi, essendo i peccati, nella confessione, un debito pagato, non esistono più neppure come una realtà, un fatto passato. Chi era debitore non lo è più; chi riceve il perdono non è più macchiato; è giusto, per la giustizia divina interamente soddisfatta, per l’ordine della coscienza interamente rimesso. Ecco perché è detto che Dio non ricorda più i peccati del peccatore.
Di fronte ad un beneficio così grande, S. Giovanni considera quelli che non riconoscono di essere peccatori e non si confessano, mentendo nella loro coscienza, e chiude con una frase più energica: Se diciamo di non aver commesso peccato rendiamo bugiardo Dio e la parola di Lui non è in noi.
Dio, infatti, nella Scrittura asserisce che ogni uomo è peccatore, non solo per il peccato originale, che è in tutti per la colpa di Adamo, ma per i peccati attuali che facciamo disgraziatamente noi.
Il Sacramento della confessione, istituzione mirabile, universale per quelli che ne fruiscono, è già una testimonianza divina dello stato di peccato nel quale si trovano i peccatori, come è una testimonianza della realtà di un malanno la medicina fatta per sanarlo. Sarebbe bugiardo chi spacciasse un rimedio specifico per un malanno inesistente; il rimedio, di sua stessa natura universale, è già l’affermazione della realtà di un’infezione generale e pericolosa per tutti.
Chi dice di non aver peccato, e non si confessa, non solo disprezza come vano, inutile e quindi bugiardo il rimedio dato dalla misericordia e dalla giustizia di Dio, ma rifiuta il più efficace mezzo di giustificazione e la parola di Dio non è in lui: la parola della misericordia che perdona e della giustizia che offre il mezzo per riparare.
Non dubitiamo di affermare, nella luce e per la luce che viene a noi dalle parole di S. Giovanni, che una delle manifestazioni più grandi della bontà di Dio ed uno dei frutti più belli della Redenzione è proprio la Confessione, Sacramento che vince la più grande menzogna umana che è l’orgoglio ed il peccato, menzogna di libertà e di dominio, illusione di gioia e di felicità nel peccato, che è invece fonte di somma infelicità, temporale ed eterna.
Per conseguenza non c’è forse una manifestazione più evidente della stoltezza e della ingratitudine umana quanto il disprezzare la confessione, né invidia più maligna di satana quanto l’allontanarci dalla Confessione.
Sac. Dolindo Ruotolo

lunedì 28 aprile 2014

28.04.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 3, par. 2

2. Il mirabile discorso di Gesù Cristo a Nicodemo
Uno dei dottori della Legge, della setta dei farisei, stimato tanto da essere chiamato il maestro in Israele, come appare dal versetto 10 nel testo greco, andò da Gesù di notte per conversare con Lui, per constatare di persona chi fosse e quale valore avesse la sua dottrina, e per indagare sulle sue intenzioni e sui suoi disegni. Si chiamava Nicodemo e, benché avesse un nome greco, cosa abbastanza comune a quei tempi pur fra gli Ebrei integri e totalitari, che amavano la loro legge ed erano attaccatissimi alle loro aspirazioni.
Si rileva chiaro dal fatto che egli, sospirando al regno di Dio, e constatando i miracoli operati da Gesù Cristo, andò subito a visitarlo per indagare se fosse Lui il Messia, o se fosse almeno il profeta tanto atteso che doveva prepararne la via. Andò di notte sia per non compromettersi eccessivamente innanzi al popolo, e sia per avere un momento di maggiore calma per discutere, data l'affluenza di popolo che si determinava di giorno intomo al Redentore.
Nicodemo, uomo certamente retto, dovette essere favorevolmente impressionato dall'impeto di zelo col quale il Signore cacciò i profanatori dal tempio; gli piacque quell'impeto, fu per lui una rivelazione intema sulla rettitudine e santità di Gesù, ebbe cognizione o assistette ai miracoli da Lui operati in Gemsalemme, e pensò che in Lui doveva esserci qualche cosa di straordinario, sospettando persino, vagamente, che potesse essere proprio il Messia. Andò di notte, e notte era ancora nell'anima sua, titubante fra le correnti ostili che si erano determinate contro il Redentore nel sinedrio, al quale egli stesso apparteneva.
Psicologicamente, volendo introdursi a parlare, non volle mostrarsi personalmente conquiso, né volle compromettersi con qualche atto di deferenza personale; per questo parlò in plurale, quasi parlasse a nome di molti: Maestro, noi sappiamo che sei venuto da Dio per insegnare. E specificò con un certo senso di trepidazione e, inconsciamente, di salvaguardia della propria dignità di maestro, che i miracoli che faceva erano segno che Dio era con Lui.
E un momento psicologicamente sottilissimo del suo animo, che rivela la verità del racconto: a lui, maestro d'Israele per studio e dottrina, ripugnava mostrare d'essere andato per imparare, ed essendo parte del sinedrio, non voleva mostrare una piena adesione al Maestro divino; perciò disse implicitamente che si recava a parlare a Lui come ad un uomo straordinario, affermando però semplicemente che i miracoli che faceva rivelavano solo che Dio era con Lui. Si guardò bene dall'esprimere il suo pensiero che fosse proprio Lui il Messia, ma, salutandolo con quelle parole, avrebbe voluto che Egli stesso si fosse svelato per quello che era. Non è improbabile che Nicodemo fosse stato uno di quelli mandati in commissione da Giovanni Battista per indagare chi fosse, e che, avendo ascoltato dalla sua bocca l'annunzio del Redentore con accento di profonda convinzione, abbia voluto accertarsi di persona anche di Gesù Cristo, del quale sentiva già dire cose mirabili. Nonostante la rettitudine che aveva Nicodemo nell'interrogare Gesù, emergeva in lui la natura e il carattere dei farisei, sospettosi, circospetti, pieni di se stessi, e pieni della prudenza della carne; perciò il Redentore, quasi riflettendogli in pieno volto e nel fondo dell'anima un fascio di luce, rispose: In verità, in verità ti dico che se uno non nasce di nuovo non può vedere il regno di Dio. Queste parole erano divinamente comprensive: rispondevano al desiderio nascosto di Nicodemo di raggiungere il regno di Dio e di avvicinarsi al Messia, desiderio da lui non manifestato; gli facevano intendere che per conoscere la verità doveva come rinascere interiormente ed abbandonare i vani sistemi farisaici d'indagini sulla verità, e gli rivelavano l'essenza stessa della redenzione, che non consisteva in un regno temporale e glorioso d'Israele, ma principalmente in una rinascita spirituale.
Nicodemo, da buon dottore fariseo com'era, prese la frase alla lettera, e per quel senso di prevenzione diffidente che aveva, avendo sentito tante volte mormorare di Gesù come di un essere strano, rispose dottoreggiando, secondo l'indole e l'abitudine sua: Come può un uomo rinascere quando è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e rinascere?
L'insistere di Nicodemo sull'assurdo che gli sembrava essere in quella frase, e lo specificare che un vecchio non poteva rinascere, né alcuno rientrare nel seno materno, rivela la stranezza che egli sospettò nel Signore, e lo sforzo, magari subcosciente, che fece per disingannarlo di quella stranezza. È una profonda sottigliezza psicologica che manifesta l'animo del dottore della Legge, già avanzato negli anni, di fronte alla divina e fulgente giovinezza del Signore.
La scena era mirabile: in una modesta casetta, seduti di fronte, Gesù ed il dottore della Legge, al fioco lume d'una lampada, di notte. Fra le placide ombre che proiettava la lampada spiccava la luce divina nascosta tra le nubi dell'assunta umanità, e si moveva al palpitar della fiammella, sul muro, l'ombra di Nicodemo, quasi fosse egli medesimo il simbolo d'una lampada che si spegneva guizzando, e l'ombra d'un mondo che svaniva innanzi alla Luce divina.
Nicodemo, tutto avvolto nei suoi panni e nelle sue fìlatterie, ammantato di simboli, ed il Signore nello splendore della verità che compiva i simboli e fugava le ombre.
Nicodemo tutto preoccupato della stranezza d'un vecchio che rinasce e d'un parto da favola, e Gesù con la fronte mirabile, aperta agli splendori eterni, tutto compreso della rinascita dell'uomo per la grazia.
Rimasero un istante in silenzio; si guardarono: Gesù spirava amore, il Verbo che lo terminava in unità di persona splendeva dai suoi occhi cerulei; sfolgorava da quel vivo azzurro un lampo creativo, come sfolgorò sul nulla quando lo chiamò all'essere.
E rispose proclamando la nuova legge della nuova vita: In verità, in verità ti dico che se uno non nasce dall'acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio.
Intorno si dormiva, poiché era già notte profonda; si sentiva forse nel silenzio il respiro di una vita addormentata, tutta ristretta, nel sonno, alla vita fisica della carne; era un respiro che sembrava dominasse la morte, della quale era simbolo il sonno, era la carne che viveva e palpitava incosciente, esalante vapori di corruzione, albergo di un'anima ancora schiava, inerte, brancolante fra quelle tenebre...
Gesù soggiunse guardando l'umanità che dormiva, e si riproduceva nelle ombre della morte: Quello che è generato dalla carne è carne, e quello che è generato dallo spirito è spirito. L'uomo nasce dal padre e dalla madre nella carne, e rinasce dall'acqua e dallo Spirito Santo nello spirito; un principio esterno e materiale, capace di toccare la carne informata dall'anima ed uno interno e spirituale, capace di ridonare la vita, cioè la grazia dello Spirito Santo. Ciò che è generato dalla carne è carne, e sarebbe carne ugualmente se fosse rigenerato rinascendo nella carne; a che gioverebbe rinnovare la vita umana con tutte le sue debolezze e le sue miserie? Potrebbe mai rappresentare una rinascita di giustizia il discendere per la carne dal popolo ebreo? Forse una discendenza naturale può dare il diritto alla vita soprannaturale? O la redenzione può consistere nel glorificare con uno splendore politico la generazione dei discendenti dei patriarchi antichi? Le generazioni del popolo eletto dovevano semplicemente culminare nel Redentore promesso; dopo la sua venuta sarebbe vano ed ozioso un privilegio legato alla carne; doveva cominciare la generazione dello spirito, per la grazia dello Spirito Santo nell'acqua del Battesimo, doveva cominciare la nuova generazione del vero popolo eletto, quello dei figli che nascono da Dio per la grazia, nella Chiesa novella che Egli veniva a fondare.
Gesù Cristo parlava con sintesi divina, che a noi può apparire magari oscura, ma che rifulgeva per la sua grazia nell'anima di Nicodemo. È il modo di parlare proprio di Dio. Nicodemo era andato da Lui credendo, come Israelita, di aver diritto al regno di Dio, se gli fosse constato che Gesù era proprio il Messia promesso; Gesù invece gli apre gli orizzonti dello spirito e della generazione nuova nello Spirito Santo, e gli mostra chi può avere ingresso nel regno di Dio, non per diritto ma per la misericordiosa effusione della grazia. Il discorso era veramente divino, ed una solennità grande si diffondeva nella piccola camera semioscura, dalla quale il Verbo Incarnato proclamava la nuova economia della generazione dei giusti.
Gesù annunzia a Nicodemo il suo regno universale, ecumenico
La notte intanto avanzava, e col maggior raffreddamento dell'atmosfera cominciò a spirare prima una brezza e poi un vento. Può supporsi, giacché Gesù soleva prendere le immagini e le analogie del suo discorso dalle scene che si paravano innanzi ai suoi ascoltanti. Il vento sibilava fra le fessure della porta, ma non si scorgeva da qual parte venisse. Gesù soggiunse, confermando il suo altissimo concetto della rinascita spirituale non per diritto di eredità nazionale ma per elargizione gratuita di misericordia: Non ti meravigliare che ti ho detto: Bisogna che nasciate di nuovo. Il vento spira dove vuole e ne odi il suono, ma non sai da dove venga né dove vada; così avviene a chi è nato dallo spirito. E voleva dire: Come tu ascolti il sibilare del vento, e non conosci da dove venga né dove vada, poiché esso spira dove vuole, cioè è indipendente dalla tua volontà, e non puoi presumere che obbedisca ad un tuo disegno, così lo Spirito di Dio spira dove vuole, e non è costretto da pretesi diritti di razza.
Con queste parole Gesù Cristo demoliva tutta la mentalità di Nicodemo, rigido conservatore del principio fondamentale del suo popolo, d'essere una stirpe eletta e privilegiata, unica erede delle promesse; il pensiero di Gesù era chiarissimo, ma a Nicodemo sembrò impossibile la sua realizzazione, e perciò, quasi sgomento dall'idea di un regno universale, senza distinzione di razza o di nazioni, esclamò: Come mai può essere questo? Gesù gli rispose: Tu sei maestro in Israele o, secondo il greco, come si disse: Tu sei il maestro in Israele, il maestro per eccellenza, e non lo sai? In più parti delle Scritture, infatti, si parla dell'azione misteriosa dello Spirito Santo (Ez 11,19; 36,25; Zc 13,1, ecc.) ed in più parti si fa allusione al regno di Dio, universale e senza distinzione di razze, che doveva riempire tutta la terra.
A Nicodemo sembrò quasi che Gesù vaneggiasse, tanto gli sembrava utopistica l'idea di un regno universale, fondato non sulla forza e sulla politica, ma sull'azione dello Spirito Santo; rimase quindi perplesso, pensoso, e guardava il Redentore quasi per vedere se fosse in sé; si rileva chiaro dalla risposta di Gesù, il quale, penetrando il suo cuore e la sua mente, soggiunse: In verità, in verità ti dico che noi parliamo di quello che sappiamo, ed attestiamo quello che abbiamo veduto, e voi non accettate la nostra testimonianza. E voleva dire: tanto i profeti che hanno predetto il regno di Dio, quanto io stesso che in questo momento te lo annunzio, parliamo con piena coscienza di quello che diciamo, non solo, ma parliamo attestando quello che abbiamo veduto, cioè, per i profeti, quello che hanno visto per rivelazione divina, e per me quello che io stesso ho visto e vedo nel seno del Padre. Né le profezie, quindi, che ti ricordo né ciò che ti dico è vaneggiamento, ma è la testimonianza più autentica della verità, e ciò nonostante che voi scribi, farisei e dottori della Legge non accettiate la nostra testimonianza. Eppure ciò che ti dico, soggiunse Gesù, non è uno di quei misteri altissimi che si contemplano solo nel cielo, ma è un mistero di grazia che si compie sulla terra, e del quale voi potete vedere nella vostra medesima storia lo svolgimento graduale e mirabile; ora se non credete quando vi parlo delle cose terrene, cioè, secondo il testo greco, di ciò che avviene in terra, come crederete se vi parlerò delle celesti, cioè, secondo il greco, di ciò che è o che avviene in cielo?
Ti stupisci che ti parlo del regno di Dio in terra per la grazia dello Spirito Santo, e ti sembra una cosa incomprensibile, eppure ci sono misteri più grandi dei quali io non parlo, perché non li potresti intendere, misteri che sono nel regno eterno di Dio, come l'eterna generazione del Verbo, l'eterna processione dello Spirito Santo, l'Unità e Trinità di Dio, la gloria eterna e sostanziale di Dio, ecc.
Di questi misteri Gesù non parla a Nicodemo, ma poiché egli è andato da Lui per indagare se veramente è il Messia promesso, Gesù Cristo velatamente gli accenna alla sua divinità, alla sua umanità, all'economia della redenzione, alla necessità della fede per usufruirne ed al giudizio che Egli farà di tutti gli uomini.
Il discorso di Gesù Cristo a noi appare oscuro ed arduo senza una spiegazione, ma per Nicodemo era luminoso, giacché la luce del Signore gli penetrava l'anima e la illuminava. Per noi il discorso è come una lampada che ha bisogno di essere accesa per essere scorta nei suoi particolari, per Nicodemo era una lampada fulgentissima.
Avviene in piccolo anche a noi che comprendiamo od intuiamo perfettamente quello che un valoroso declamatore ci
dice, e lo intuiamo, diremmo, non tanto per le parole o per i gesti che fa, quanto perché riflette nel gesto e nelle parole quello di cui egli vive intimamente.
L'attore veramente geniale è tale perché vivendo di ciò che dice, lo riflette fuori di sé, quasi in una proiezione spirituale; l'attore, al contrario, che si sforza di parlare e gesticolare macchinalmente, come trova scritto o come gli viene suggerito, non riesce a formare in noi con le sue parole un'immagine viva. Chi percepisce intensamente, per esempio, le movenze di una tigre, e la imita col gesto, la fa quasi vedere perché nel gesto proietta quasi l'immagine che ha nella fantasia.
È questa una riflessione di grandissima importanza, ed è una meschina analogia che ci fa intendere quale sublime e magnifica luce dovette inondare Nicodemo mentre Gesù gli parlava. Il Redentore non gli proiettava solo nell'anima, per così dire, un'immagine concepita nella fantasia, come può fare un oratore o un attore, ma gli proiettava la luce infinita della sua divinità e la luce soavissima della sua umanità. Per questo non è da stupire che Nicodemo diventasse fin d'allora suo discepolo, e gli fosse fedele anche nella tragedia del Calvario, curando la sepoltura del suo Corpo divino, perché non fosse profanato dai nemici.
Stavano di fronte Gesù e Nicodemo, e questi, al rimprovero fatto da Lui all'umana incredulità, dovette avere un sentimento di rammarico per la propria diffidenza, ed all'accenno di Lui alle cose celesti, dovette sentire un desiderio di conoscerle e scrutarle, perché spirava dal volto di Gesù qualche cosa di arcano, che faceva intuire l'arcano splendore dei cieli etemi. Nicodemo, al vedere in quel volto divino riflessa la luce celeste, dovette dire fra sé: che cosa vi sarà nel regno eterno? E chi è colui al quale io parlo? Non gli sembrava in quel momento solo il Messia promesso, ma qualche cosa di immensamente più grande; egli però non giungeva ancora a capire che il Messia era Dio stesso, l'eterno Verbo Incarnato, e non intendeva ancora l'economia della redenzione; la sua fede stava ai confini della verità ma non li aveva ancora oltrepassati.
Gesù Cristo lo illuminò solo con un lampo di luce, in modo da gettare in lui il germe della verità senza forzarne la mente; il germe sarebbe a suo tempo spuntato. Se gli avesse detto in quel momento, apertamente: Io sono il Figlio sostanziale di Dio, Nicodemo si sarebbe smarrito; perciò, rispondendo all'intimo desiderio che aveva avuto di conoscere le cose celesti, soggiunse: Nessuno è salito in cielo e, secondo il testo greco che usa il passato, nessuno è stato in cielo all'infuori di colui eh'è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo che sta nel cielo. Delle cose celesti ed eterne, che non si svolgono su questa terra, voleva dirgli, può parlartene solo Colui che è stato nel cielo ab eterno, è disceso dal cielo, facendosi uomo, e sta nel cielo perché non cessa di essere Dio.
Non disse altro Gesù su questo grande argomento, ma Nicodemo sentì nell'anima sua lo splendore della luce divina, poiché chi gli parlava era proprio il Verbo eterno disceso dal cielo, il Verbo Incarnato per la salvezza di tutti. Questo era il concetto vero che doveva avere del Messia. Il Messia non era un profeta, e tanto meno un principe politico; era invece il Verbo di Dio Incarnato, vero Dio e vero uomo, esaltato non su di un trono di gloria, ma su di un patibolo d'immolazione per salvare le anime e dare loro l'eterna vita. Gesù Cristo per gettare nell'anima di Nicodemo anche il germe di questa verità, gli ricordò il simbolo e la figura più ardua della redenzione, cioè il serpente di bronzo elevato da Mosè nel deserto per ordine di Dio, quando i figli d'Israele furono, per castigo, aggrediti da velenosi serpenti che li mordevano (Nm 21,9). Essi allora levavano gli occhi al serpente elevato su una specie di croce e, contemplando solo la figura di Colui che doveva immolarsi per tutti, erano guariti.
Il Verbo Incarnato sarebbe stato elevato non su di un trono, come pensavano allora i dottori della Legge, ma su di un patibolo, ammantato della veste del colpevole, guinosa degli uomini peccatori, come il serpente di bronzerei, immagine dei serpenti velenosi che mordevano gli Ebrei. Il mondo tutto, bruciato dalle piaghe del peccato, doveva volgere lo sguardo alla Vittima divina, doveva credere, incorporarsi a Lei, operare per Lei il bene, arricchirsi di meriti, e conseguire la vita eterna. Era questa l'economia della redenzione.
Nicodemo, come dottore della Legge, non ignorava certo l'episodio ricordatogli da Gesù, ma per l'interna luce che Egli gli comunicava nell'anima si sentì come in un mondo nuovo, capì il mistero di quella figura profetica, e ne fu sorpreso, ne godette, come gode chi vede risplendere la verità da poche parole semplici, e tacque pieno di ammirazione. Le parole dei profeti riguardanti l'immolazione del Redentore risuonarono nel suo cuore; guardò Gesù con grande compassione, intuendo che voleva immolarsi, e lo amò intensamente perché sentì in quelle parole che gli aveva detto tutto l'amore che lo comprendeva. Gesù, infatti, parlando velatamente del suo sacrificio, manifestò dal volto una tenerezza infinita, che avvolse Nicodemo come in un calore di misericordia e lo conquise. Egli però aveva un concetto severo di Dio, non immaginava tanta misericordia in tanta grandezza, non pensava che l'esigenza della sua giustizia potesse armonizzarsi con la sua pietà; perciò Gesù, rispondendo al suo pensiero, soggiunse che la redenzione era frutto dell'infinito amore di Dio, di un amore che era giunto fino a fargli donare il suo Figlio Unigenito, per dare la vita eterna a quanti avrebbero creduto in lui, riconoscendolo, accettandone la dottrina e praticandone i precetti.
Ma come si concilia questa misericordia universale col Dio della Sacra Scrittura, severissimo con gli empi pagani?
Nicodemo pensò allora ai pagani che opprimevano il popolo ebreo, pensò alle scelleratezze da essi commesse, ed al giudizio terribile che meritavano, e dovette domandarsi internamente: come si concilia questa misericordia universale col giudizio severo promesso agli empi nelle Sacre Scritture? Il suo spirito, abituato a considerare i pagani come una massa dannata, e il popolo ebreo come l'unico erede della promessa, abituato a concepire il Messia come un re terribile e inesorabile, che doveva schiacciare ed annientare i nemici d'Israele, non sapeva capire come potesse attuarsi la redenzione senza una condanna inesorabile del mondo. Fu un pensiero che gli dovette sorgere in mente come un lampo, e può arguirsi dalla risposta di Gesù:
Dio non ha mandato il suo Figlio nel mondo per condannarlo, ma perché il mondo per mezzo di Lui sia salvato.
Il giudizio severo ci sarà non contro le altre stirpi o nazioni, ma contro chi non crede in Lui', e non sarà neppure un giudizio fatto con apparati esterni di grandezza o di forza, poiché chi non crede nel Figlio di Dio, non usufruendo della sua misericordia, può dirsi già giudicato, perché rimane nel suo peccato e da se stesso si condanna, non avendo in sé la forza di risorgere e vivere la vita eterna.
Il giudizio, soggiunge Gesù per stabilire definitivamente l'esclusione assoluta di ogni principio di razza o di nazionalismo dal concetto della redenzione, non riguarda più la massa umana decaduta, perché la redenzione la rialza; riguarda gli uomini singolarmente che, avendo la luce, preferiscono le tenebre alla luce ed operano il male. Gli ignoranti, e quelli che senza loro colpa non hanno la luce ed operano naturalmente il bene, troveranno un giudizio di misericordia, i cui limiti li conosce Dio solo, ma quelli che facendo il male odiano la luce, e non vi si accostano, positivamente, per non sentire rimorso e non sentirsi rimproverare, saranno già giudicati, trovandosi fuori del regno di Dio. Chi opera secondo verità, cioè secondo la legge naturale posta da Dio nel cuore umano, s'accosta alla luce appena la vede e non ne ha timore, perché cerca il bene, simile a colui che, operando onestamente, non teme, come i ladri, la luce del giorno, ed anzi ha piacere di essere veduto nelle opere buone che fa.
La redenzione non è un trionfo politico...
E questa dunque la retta idea del Messia e l'economia della redenzione, espressa dal discorso di Gesù a Nicodemo: non si tratta di un trionfo politico esterno, riservato al solo popolo ebreo, ma di una rinascita spirituale nell'acqua del Battesimo e nello Spirito Santo, possibile a tutti gli uomini. Le idee di un diritto al regno di Dio conseguente alla generazione della carne e alla discendenza naturale dal popolo ebreo non reggono poiché il vero popolo eletto sarà quello formato dallo Spirito Santo per la grazia, sarà la Chiesa universale.
E questo ciò che hanno annunziato i profeti, ed è questo che annunzia Gesù, portando sulla terra, piena e completa la luce di Dio. Egli non è semplicemente Un uomo eletto e privilegiato, è Colui che era in principio presso Dio, è disceso in terra facendosi uomo, e non ha cessato di essere in cielo, essendo anche vero Dio. È disceso in terra per immolarsi ed essere innalzato sulla croce, e per salvare col suo sacrificio tutti gli uomini. Egli non limita il suo sacrificio ad alcuni soltanto, ma dà la pienezza della redenzione e dei meriti a tutti; tocca agli uomini usufruirne, credendo in Lui ed incorporandosi a Lui nella sua Chiesa. Dio, invece di colpire il mondo con un giudizio ed una condanna inesorabile, confesso meriterebbe, gli dà la massima testimonianza di amore, donandogli il suo Figlio, e glielo dona perché sia salvato credendo in Lui, operando per Lui il bene ed osservando i suoi precetti.
La redenzione quindi non è un giudizio di condanna ma un dono di misericordia; solo chi non l'accetta si condanna da se stesso.
Chi non conosce la redenzione senza sua colpa è già un redento poiché il Redentore ha salvato tutti ed ha pagato per tutti, virtualmente, il prezzo del riscatto. Se opera il bene, anche naturalmente, e vive secondo i dettami della legge naturale, appartiene all'anima della Chiesa e trova misericordia. Perisce chi, conoscendo la luce, preferisce ad essa le tenebre e vive da malvagio, odiando la luce per non lasciare la vita perversa che conduce.
Come si vede il discorso di Gesù non è involuto, è completo nella sua mirabile sintesi, degna della sua mente divina. Egli poi, parlando, come abbiamo detto, lo illuminava della sua luce e penetrava profondamente l'anima di Nicodemo.
Il Sacro Testo non ci dice che cosa abbia detto Nicodemo in fine del discorso, ma questa medesima reticenza ci fa capire che rimase in silenzio profondo, tutto compreso della verità che lo illuminava. Per la prima volta da che approfondiva la legge, aveva avuto un'idea chiara sul Messia e sulla sua divina Missione. L'anima sua ardeva in quel momento, poiché un mondo nuovo gli si era aperto davanti. Egli allora non seguì materialmente Gesù, ma gli rimase attaccato, e si propose di osservare attentamente come si sviluppasse la sua missione. Quando il sinedrio decise di far catturare Gesù ed ucciderlo, egli insorse per difenderlo, protestando che, secondo la Legge, non lo si poteva condannare senza ascoltarlo (7,50-51). Era ancora impressionato dal discorso di quella notte, e sperava che il sinedrio, parlandogli direttamente, si sarebbe ricreduto sul suo conto.
Rimase sempre... di notte, è vero, non osando apertamente schierarsi per il Redentore, ma lo fece con animo retto, stimando che, come parte dell'autorità suprema, egli non poteva impegnare il proprio giudizio in un fatto che aveva tanti aspetti di innovazione religiosa. Credette di attendere in un prudente riserbo, ed il Signore lo compatì, nella sua misericordia. Ma quando seppe che Gesù era stato crocifisso, e lo vide pendente dalla croce, allora certamente si ricordò delle solenni parole ascoltate nella beata notte nella quale gli aveva parlato: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così è necessario che sia innalzato il Figlio dell'uomo, la sua fede si scosse, germinò, fiorì, e volle egli insieme a Giuseppe d'Arimatea togliere il Corpo divino dalla croce, diventando subito un seguace aperto del Maestro divino (19,39-41). Staccando il Corpo divino dalla croce ne contemplò le piaghe, e commovendosi si sdegnò contro il sinedrio che l'aveva così martoriato, ne contemplò la calma divina, ravvisò in quel volto l'amore col quale gli aveva parlato in quella notte e, staccandosi definitivamente dal sinedrio, si unì alla Chiesa nascente.
Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 27 aprile 2014

27.04.2014 - Commento alla prima lettera di Pietro cap. 1, par. 1

1. Il significato letterale di questo capitolo.
San Pietro comincia la sua lettera con un prologo, nel quale indica il suo nome, quale gli fu imposto da Gesù Cristo nel suo primo incontro con lui, in luogo o in aggiunta al suo nome di nascita, e manifesta la sua qualifica principale, apostolo di Gesù Cristo. Scrive lui posto a capo della Chiesa, e perciò si annunzia col nome che gli fu posto proprio per designarlo come capo e salda pietra fondamentale della Chiesa che Gesù Cristo cominciò a fondare eleggendo ad uno ad uno i dodici suoi discepoli, e poi unendoli in un solo corpo, chiamandoli precisamente Apostoli.
Questo corpo fondamentale con a capo S. Pietro lo formò dopo lunga orazione. S. Luca, infatti, così racconta l’elezione degli Apostoli: « Avvenne in quei giorni che Gesù andò sopra un monte a pregare, e stava passando la notte in orazione a Dio. E, fattosi giorno, chiamò i suoi discepoli, e scelse dodici di essi, ai quali diede anche il nome di Apostoli: Simone, cui diede il soprannome di Pietro, e Andrea suo fratello; Giacomo e Giovanni, Filippo e Bartolomeo, Matteo e Tommaso, Giacomo d’Alfeo e Simone chiamato Zelote, e Giuda di Giacomo, e Giuda Iscariota, che fu il traditore (Luc. 6, 14).
Anche S. Matteo e S. Marco parlano di questa elezione dei dodici, con la stessa particolarità di S. Pietro al primo posto. Il primo posto era dato per dignità di capo, come l’ultimo era dato per indegnità di traditore (Matt. 10, 2; Marc. 3, 16).
Dopo essersi presentato col suo nome di autorità postogli da Gesù Cristo, e con la sua qualifica di Apostolo, avendo la missione di annunziare la parola di Dio, S. Pietro elenca i destinatari della lettera, e li chiama eletti pellegrini della diaspora, ossia cristiani, chiamati alla fede perché oggetto di una speciale scelta gratuita da parte di Dio. Li chiama pellegrini sia perché ogni uomo sta sulla terra solo di passaggio sia perché i cristiani ai quali scrive erano dispersi in varie regioni, fuori della loro patria. Come cristiani, però, benché in minoranza, erano eletti, come lo era stato il popolo ebreo, perché formavano il novello popolo di Dio.
Le regioni nominate da S. Pietro sembrano indicate secondo l’ordine col quale doveva percorrerle Silvano, nel portare questa lettera di S. Pietro: Ponto, Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia, regioni che si trovano nella zona centrale e settentrionale dell’attuale Anatolia. La Galizia propriamente detta, o Gallogrecia, abitata da Celti, era nel centro dell’Anatolia con le città di Ancira, oggi Ankara, Pessinunte e Tavia. La provincia romana imperiale, detta Galazia, invece, comprendeva anche le regioni vicine, Pisidia, Frigia, Licania, parte del Ponto ecc. S. Pietro usa il termine Galazia nel senso stretto, perché la distingue dalle regioni appartenenti alla provincia galatica.
In quelle regioni Silvano doveva portare il messaggio del capo degli Apostoli, agli eletti di Dio, ai cristiani, eletti non per proprio merito, o come seguaci di una nuova dottrina, ma eletti per grazia speciale, secondo la prescienza di Dio Padre, la prima Persona della SS. Trinità, alla quale si attribuisce l’elezione degli uomini alla fede con un suo disegno provvidenziale non di semplice prescienza, ma di amore, per il quale li elegge alla salvezza mediante la santificazione dello Spirito, che si concretizza nella infusione della grazia santificante, per la quale l’elezione amorosa di Dio, fatta ab aeterno, si realizza nel tempo, per la fede e per i meriti del Sangue di Gesù Cristo.
Dio Padre, per suo eterno decreto, stabilisce di eleggere e chiamare gli uomini all’eterna felicità dopo averli creati per questo fine altissimo. Li elegge ma non li forza, perché li ha fatti liberi, e la libertà è il fondamento del merito e quindi del premio della felicità eterna dovuta al merito. Gli eletti, e sono tutti, perché Dio vuole che tutti si salvino, sono aiutati nella loro libertà dalla grazia dello Spirito Santo, eterno amore di Dio, e sono arricchiti per l’aspersione del Sangue di Gesù Cristo, ossia per i meriti suoi.
Gli eletti da Dio, debbono obbedire a Lui, accettando la parola dell’eterna verità, e quindi, per la fede, aiutati dalla grazia dello Spirito Santo, e debbono santificarsi unendosi a Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, mediatore di grazia per il suo Sangue, versato per amore; Sangue di alleanza tra l’uomo e Dio; Sangue di remissione dei peccati, nei quali l’uomo, perché libero, può cadere ed è caduto; Sangue d’infinito valore che arricchisce l’anima che si unisce a Gesù Cristo, Sacerdote e Vittima sull’Altare della Croce e nella SS. Eucaristia.
In poche parole, mirabilmente feconde di profondo significato, S. Pietro traccia tutto il disegno divino nella creazione e nella salvezza degli uomini, e lo traccia ai fedeli ai quali scrive, che già sono nella luce della fede, e perciò li saluta con un augurio di grazia e di pace: Grazia a voi e pace abbondi!
Dice grazia, per significare ogni favore divino adatto a conseguire la salvezza: dice pace, perché questa parola per gli Ebrei significava il complesso di tutti i beni messianici, ed il compimento dell’amore divino per gli uomini, e per questo Gesù ripetutamente disse agli Apostoli: « Vi lascio la mia pace, vi dono la mia pace (Giov. 14, 27). E protestò che la sua pace non era quella che dava il mondo, sterile parola di semplice augurio di tranquillità oziosa, ma la ricchezza dei suoi doni e della sua grazia.
Il mistero della SS. Trinità, col quale S. Pietro comincia la sua lettera, doveva orientare i fedeli nella loro vita soprannaturale di fede, poiché è il grande mistero che ci dà la conoscenza di Dio, nella sua verità: Un solo Dio in tre Persone, uguali e distinte, nella sua vita divina, ad intra, come si dice teologicamente. Un solo Dio nelle operazioni all'infuori della vita divina trinitaria; ad extra, operazioni che sono comuni a tutte e tre le Persone divine, ma che si distinguono per una particolare manifestazione della grandezza e della bontà divina rispetto a noi, creati da Lui.
Quindi per appropriazione, a maggiore intelligenza della reale distinzione delle tre divine Persone, noi attribuiamo le operazioni di potenza al Padre, le operazioni di redenzione al Figlio, che s’incarnò per salvarci, e le operazioni di santificazione allo Spirito Santo. Vediamo così in tre splendide luci che giungono a noi, l’infinita luce di Dio: nel Padre la decisione, nel Figlio l’esecuzione, nello Spirito Santo il compimento ed il perfezionamento.
Nelle operazioni ad extra, fuori della vita trinitaria di Dio, operazioni che sono la diffusione della sua bontà per la sua gloria, noi riconosciamo la potenza creatrice di Dio, principio e fine di tutte le cose; la misericordia provvidenziale di Dio che scende fino alle sue creature ragionevoli, cadute nel peccato, e risana l’abuso della loro libertà con l’obbedienza ed il sacrificio del Figliuolo incarnato; l’amore infinito di Dio, che con la grazia eleva e santifica le creature redente.
La vita divina ad intra, intima di Dio, infinita potenza, infinita sapienza, infinito amore. Eterno principio che conoscendosi per quello che è nella sua infinità, genera il Verbo eterno, ed amandosi, spira l’eterno Amore, lo Spirito Santo, che procede, come da unico principio, dal Padre che genera e dal Figliuolo che è generato; Amore infinitamente sussistente, eterna felicità di Dio in Se stesso, che si diffonde ad extra creando, redimendo e santificando le sue creature ragionevoli, fatte ad immagine e somiglianza sua, per operare per la sua gloria, cooperandovi con l’obbedienza alla sua parola ed alla sua Legge, arricchendosi dei meriti del Verbo Umanato, perfezionandosi per lo Spirito Santo, ed amando Dio sopra tutte le cose, precetto supremo della Legge divina, suprema Legge della vita umana nel tempo e nell’eternità.
Dio, padre di misericordia
Per queste profondissime verità da S. Pietro accennate in una mirabile sintesi nel suo prologo, l’Apostolo sente una gratitudine grande a Dio e perciò esclama: « Sia benedetto il Dio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, il quale Dio per la sua grande misericordia ci rigenerò ad una speranza viva, mediante la resurrezione di Gesù Cristo dai morti. Con la sua resurrezione dalla morte Gesù Cristo dette il più grande argomento della sua verità; primogenito della resurrezione, ci dette la speranza viva della nostra resurrezione, e c’incorporò a Lui col Battesimo, per il quale con Lui risorgiamo a novella vita. S. Pietro benedice e quindi ringrazia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre in modo unico e specialissimo, perché lo ha generato ad aeterno.
Dio è anche Padre nostro, perché ci ha creati, e come tale Gesù ce lo fa invocare nel Padre nostro, ma solo del Verbo eterno, anche nell’assunta umanità può dirsi veramente Padre. Dio per la sua grande misericordia ci ha rigenerati, per mezzo del suo Figliuolo umanato e morto per noi, aprendo così l’anima nostra all’eterna speranza. Misericordia e rigenerazione, due parole che muovono il cuore di S. Pietro a grande riconoscenza.
Misericordia nel significato della parola greca eleos, significa: animo prono a soccorrere i miseri, beneficenza verso i miseri, ed include perciò il concetto di un’anima disposta a soccorrere gl’infelici, e la beneficenza effettiva verso i miseri. Il termine ebraico: besed significa bontà, benignità, e quindi la misericordia di Dio è effusione della sua bontà, ed è benignità che si effonde abbracciando e perdonando, soccorrendo con infinito amore.
Non è, quindi, una semplice compassione per una cosa spregevole o indegna; non è una tolleranza, come potrebbe essere la misericordia di un padre che lascia correre gli errori del figlio suo, o di un maestro che lascia nel compito gli spropositi dell’alunno, segnandoli solo con un frego di matita rossa, attraendo solo sterilmente l’attenzione di lui; è invece un richiamo di amore, che può suscitare il pentimento in chi pecca, un richiamo anche doloroso, che nel dolore, risveglio dell’anima, effonde la grazia per la sua rigenerazione. La misericordia di Dio, perciò, non è separata mai dalla giustizia, è come l’abbraccio affettuoso e profondo che si fa con la destra e con la sinistra, è come un sorriso di bontà accompagnato da un gesto di rammarico.
Supremo atto di misericordia fu il sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce, atto di misericordia che abbracciava tutte le umane responsabilità, tutti i secoli, amore immenso che fu unito ad un dolore spaventoso. La lampada, illuminando le tenebre, si consuma; il fuoco, riscaldando quello che è gelido, sfavilla, sì, ma si riduce in cenere; la terra, alimentando la pianta, porta lo splendore della fecondità nei campi, ma cede ai morti semi tutto quello che ha, e li risuscita alla vita.
La misericordia di Dio è luce, è calore, è vita, ma a prezzo del sacrificio del Figlio suo umanato. Per Lui, la terra fu piena della misericordia di Dio, come cantò il Salmista (33, 5). Per lui e per il suo sacrificio. Dio è pietoso ed indulgente, paziente e pieno di bontà: (Salmo 103, 8). Per Lui presso il Signore è la misericordia, e da Lui viene generoso riscatto (131, 7). La misericordia di Dio si estende a tutti: Il Signore scioglie i prigionieri; il Signore apre gli occhi ai ciechi; il Signore raddrizza i curvati; il Signore ama i giusti; il Signore protegge i forestieri; mantiene l’orfano e la vedova, e sventa le insidie dei malvagi (147, 8, 9). Alla sua misericordia ricorse Davide quando peccò: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia (Salmo 51, 2).
Nella pienezza dei tempi, Maria SS., piena del Verbo di Dio che in Lei si era incarnato, visitando S. Elisabetta, cantò per prima la misericordia di Dio, che, per lei, si sarebbe effusa di generazione in generazione su quelli che temono Dio (Lue. 1, 50). Ed era logico che cantasse Lei per prima la misericordia divina, avendone nel seno suo il pegno ammirabile, ed in Lei, immacolata e piena di grazie, il frutto più bello.
Dio ci ha rigenerati
S. Pietro benedice Dio e lo ringrazia, proprio per la grande misericordia di Dio che ci ha generati alla vita soprannaturale per Gesù Cristo. La parola greca che usa S. Pietro nel dire che Dio ci ha generati: anaghennan, rigenerare, far nascere di nuovo, ricorre solo qui in tutta la Scrittura, ed è perciò detta petrina, ossia propria e solo di S. Pietro. Anche questa sfumatura rivela l’ardore della gratitudine a Dio per averci rigenerati, e la grandezza di questa rigenerazione: psicologicamente, infatti, quando si parla di una cosa che prende tutta l’anima, è facile, anche nelle forme dialettali, creare una parola nuova, un neologismo unico per l’idea che si esprime.
Dio ci generò, anaghennan, c’infuse una novella vita, come la infuse ad Adamo, rendendo, col suo soffio il corpo fatto dal fango, anima vivente. Ci rigenerò dal fango del peccato, che ci traeva tutti alla terra, ad una speranza viva, che ci trae al cielo con una vita soprannaturale di grazia. Ci rigenerò e ci rigenera ad una novella vita nel Battesimo, come risorse Gesù Cristo, ad una novella vita immortale, tre giorni dopo la sua morte, poiché nel Battesimo noi risorgiamo con Lui. L’immersione nell’acqua ci rende come morti con Lui.
Nasciamo nel peccato, nasciamo per la vita terrena, perché nasciamo in questo mondo, e la nostra speranza, allora, è crescere nella carne e nelle aspirazioni della terra, speranza che non può dirsi viva, perché dalla nascita termina e si esaurisce nella morte. Ma col Battesimo, incorporati a Gesù Cristo risorto glorioso, noi siamo rigenerati, anaghennan, nasciamo ad una novella vita, risorgiamo da una vita terrena che è morte, ad una vita di grazia, che non ci dona come speranza la terra, ma ci orienta alla vita eterna, con l’esercizio della perfezione in tutta la vita terrena, e col conseguimento della gloria nella vita eterna, eredità incorruttibile, immacolata nella perfetta giustizia e santità, inalterabile, perché non può venir meno.
Trasalite di gioia...
Questa eredità, soggiunge S. Pietro, esortando i fedeli a custodirla menando una vita santa, questa eredità è serbata nei cieli per voi che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, come in una fortezza. S. Pietro usa un termine militare per indicare la forte custodia che, per la fede, l’anima fa del dono immenso della salvezza, che si manifesterà completa nell’ultimo tempo, nel giudizio universale, quando Gesù Cristo suggellerà con la grande sentenza finale per i fedeli, il possesso dell’eterna felicità: «Venite, o benedetti dal Padre mio, possedete il regno che vi ha preparato fin dalla costituzione del mondo (Matt. 25, 34).
Il termine militare che usa S. Pietro, per indicare la forte custodia che, per la fede, si fa del dono dell’eterna eredità, include il concetto del combattimento che deve sostenersi per conquistare il regno preparato da Dio ai suoi eletti, giacché la milizia è fatta proprio per il possesso e la custodia di un regno.
Perciò l’Apostolo, con logica illazione, esorta i fedeli a combattere sostenendo le pene e le tribolazioni della vita non solo con pazienza ma con gioia, perché per le pene e le tribolazioni la speranza viva dell’eterna ricompensa e dell’eterna gloria diventa realtà immortale che non può perdersi più: « Per questo motivo — egli dice — trasalite di gioia, anche se conviene che, anche per poco tempo, co- m’è il breve percorso della vita terrena, siate molestati da prove di vario genere, affinché la vostra fede sia provata, ben più preziosa dell’oro che perisce, e che pur viene saggiato dal fuoco.
Gioite nelle tribolazioni, perché la vostra fede sia trovata degna di lode, di gloria e di onore nella manifestazione di Gesù Cristo. Nelle prove, voi senza averlo visto lo amate, ma nel quale ora senza vederlo credete, ed esultate di gioia ineffabile e gloriosa, conseguendo lo scopo della vostra fede, la salvezza delle anime vostre.
Gli Ebrei dispersi fuori della Palestina non avevano visto Gesù personalmente; eppure per la fede che avevano in Lui lo amavano, e, senza vederlo nel mistero Eucaristico, gli credevano; e questo rendeva la loro fede più meritoria, secondo la parola di Gesù Cristo e S. Tommaso: « Beati quelli che non veggono e credono » Giov. 22, 29).
Le profezie messianiche
La fede, però, di chi crede senza vedere poteva apparire ai fedeli quasi come un assenso superficiale, quasi incosciente, quasi irragionevole se non superstizioso; e perciò S. Pietro conferma nei fedeli ai quali scrive, e per essi a noi, la profonda ragionevolezza della nostra fede, con l’argomento delle profezie che annunziarono la salvezza che doveva venire al mondo per il Redentore. Esse, infatti, sono argomento saldissimamente teologico della verità. Con divino acume teologico, S. Pietro determina l’origine e la natura delle profezie messianiche, che non erano indovinelli, ma anche oscure diventarono luminose e comprensibili nel loro pieno avveramento che i fedeli potevano constatare nella fede loro insegnata.
I Profeti erano illuminati dallo Spirito di Cristo che era in loro, cioè dallo Spirito Santo; profetizzavano per lume divino intorno alla salvezza che doveva venire al mondo per il Redentore, per il Messia, mediante i suoi dolori e il suo sacrificio; ma essi stessi, ricevendo quei lumi soprannaturali, meditavano e scrutavano con grande diligenza il loro significato. Intorno alla salvezza della quale vi parlo, soggiunge S. Pietro, indagarono e scrutarono i Profeti che pronunziarono i vaticini riguardanti la grazia destinata a voi, poiché per voi si sono compiuti nella Redenzione, e nel loro compimento sono riusciti evidente prova della verità della fede.
I Profeti non avevano la visione chiara del futuro, quasi fossero naturali chiaroveggenti... chiromanti; il che non avrebbe dato valore alla loro profezia, non essendo frutto di luce divina, ma di umana intuizione. Essi vedevano solo gli aspetti parziali della figura e dell’opera del Messia. Non comprendevano essi stessi il senso pieno o i sensi tipici intesi da Dio nelle loro profezie, come i personaggi biblici, che furono tipi profetici del Redentore; non intendevano quello che rappresentavano come preannunzi divini del disegno di Dio.
Così Isacco, caricato delle legna dell’olocausto e ascendendo il monte del sacrificio, non capiva di rappresentare il futuro Redentore, caricato della Croce, che ascese al Calvario; ma ne viveva, diremmo, lo spirito, obbedendo al Padre suo. Proprio in questa oscurità misteriosa sta il valore divino dei tipi e delle profezie riguardanti il Redentore, argomento e luce della verità della Fede.
Dio tracciava il suo disegno nei tipi e nelle figure, ed annunziava per i Profeti quello che sarebbe avvenuto nel compirsi il mistero della Redenzione, con parole di accenno fugace, che dovevano intendersi come chiaro argomento della verità del loro compimento, da quelli che dovevano ricevere la salvezza e credervi per ottenerla. Un’oscurità tipica o profetica poteva servire proprio a scrutare con la meditazione la grande promessa divina, credendovi e sperandovi con fiducia in Dio, proprio con la fede di Abramo che credette e sperò contro la speranza.
L’oscurità dei Profeti, che erano uomini santi, tutti di Dio, animava la loro fede e la loro preghiera, perché si compisse la grande misericordia divina. Ecco perché S. Pietro dice che i Profeti intorno alla salvezza indagarono e scrutarono a quale tempo ed a quali circostanze accennasse lo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo che era in loro, e che li faceva profetizzare in antecedenza le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che dovevano seguirle. Essi non profetarono per loro, come dice S. Pietro, ma per voi, avevano la missione di preannunziare quelle verità che ora vi furono predicate da quelli che, mossi dallo Spirito Santo mandato dal Cielo, vi comunicarono la lieta novella.
I Profeti normalmente non vedevano chiaramente la successione dei tempi. E perciò scrutavano meditando a quale tempo ed a quali circostanze accennasse lo Spirito Santo in antecedenza, le sofferenze destinate a Cristo, e la gloria che doveva seguirle. Non tutti i Profeti vedevano tutte le circostanze del futuro, e per questo occorrevano loro indagini per investigare a che cosa il Signore in realtà accennasse con le visioni concesse al loro intelletto, alla loro fantasia o ai loro sensi esterni.
I dolori ed i trionfi del Messia predetti soprattutto da Davide nel Salmo 22, e da Isaia nei carmi del servo di Dio, specialmente nei capitoli 52 e 53, formavano l’oggetto delle indagini amorose dei Profeti e dei giusti dell’Antico Testamento; tanto è vero che i dottori della Legge, alla domanda di Erode dove sarebbe nato il Messia, risposero prontamente: in Betlem di Giuda. Evidentemente era per essi molto familiare l’indagine sulle profezie riguardanti il Messia.
Nella luce della verità della fede gli Angeli stessi bramano curvare lo sguardo
Dopo la Passione e la Resurrezione di Gesù Cristo, apparve pieno e chiaro il senso delle profezie messianiche, e Gesù Cristo stesso lo spiegò ai discepoli di Emmaus (Lue. 24, 26, 27). L’argomento dedotto dalle profezie era preferito da S. Pietro nei suoi primi discorsi apologetici, che miravano a togliere lo scandalo della Croce (Atti, 2, 23-36; 3, 18).
Nella luce delle verità della fede predicate dagli Apostoli, compimento delle figure e delle profezie, gli Angeli stessi bramano curvare lo sguardo, soggiunge S. Pietro, e secondo l’espressione del verbo greco: parachipto, usato da S. Pietro, che significa curvarsi per vedere meglio, guardare chinando il capo su quello che si vede, considerare attentamente qualche cosa, indica che gli Angeli sono in gioiosa contemplazione delle verità della fede quando sono annunziate ai fedeli, ammirandone la realtà divina col lume della gloria. Mentre la fede si predica ai fedeli con oscurità inevitabili alla limitazione della loro mente, nel terreno pellegrinaggio, gli Angeli ne contemplano la ineffabile luce, e questo accresce la loro felicità, perché nella luce di quelle verità per loro evidenti, essi fruiscono della bontà e della verità di Dio non solo col lume della gloria, ma anche col lume del loro intelletto angelico.
La fede annunziata ai fedeli è come un’armonia orchestrale meravigliosa; è come un firmamento di stelle lontane, delle quali, con le umane conseguenze, si apprezza velatamente l’ordine e lo si crede con un’ammirazione di silenziosa pace. La fede, per quelli ai quali è predicata, è un godimento di Dio, ma è come un’armonia che si percepisce e s’intuisce dai movimenti dei sonatori della lontana orchestra. La fede si percepisce nelle parole che si credono, ma le parole del divino annunzio sono come accenni di una realtà infinita, che, credendo, beatifica nella speranza di raggiungerla e di possederla.
Sulla terra noi siamo come chi vede di lontano i movimenti degli strumenti che suonano in un’orchestra, e prova la gioia di quell’ordine armonico, unicamente credendolo, intuendolo dai movimenti di... un violinista che solleva o abbassa il suo arco sulle cetre, e con la mano tremula, su due corde dissonanti, ne trae certamente un suono che nel semitono diventa espressivo, gemente ed esultante. Lo crede perché conosce teoricamente l’ordine di un’orchestra insegnatogli da un maestro.
Il cuore può anche vibrargli, vedendo l’energica percussione dei timpani, o il pizzicare delle lunghe corde di un contrabasso. Crede, intuisce l’effetto magari dai gesti del maestro direttore che agita la bacchetta di comando; indica con essa, come con un dito teso, l’entrata di una viola, l’intermezzo di un violoncello, il risuonare delle trombe, l’irruente tremolare di tutti gli strumenti, il troncarsi sincopato di suoni. Conosce l’armonia di quell’orchestra lontana, e, benché non la senta, vi crede, e credendola può dilettarsene.
Ma quando sulla terra si annunziano le verità della fede da quelli che, mossi dallo Spirito comunicano ai fedeli la lieta novella della verità, la sua ammirabile armonia non risulta agli Angeli in un silenzio intuito, in un assenso di fede: credo, ma nella realtà armonica erompente come da un’orchestra vicina, della quale non intuiscono solo, ma percepiscono la gioiosa armonia, pur nelle sfumature che sulla terra sono come armonie in sordina, e per essi sono come carezzevoli armonie di provvidenza e di amore.
Le verità della fede non sono per gli Angeli come stelle lontane, che si percepiscono solo col tremulo scintillare nella notte, come lo sono per chi le ascolta e vi crede; sono luci fulgenti nella realtà divina; sono come movimenti sibilanti, quasi cantici, nelle maestose orbite, e nei saettanti movimenti, quasi di danza, di forza e di dolcezza; sono come abbracci di luci nelle costellazioni, ordine immenso nei loro intrecci, stupefacente sorpresa nel loro arcano svelato.
Per questo S. Pietro dice con profonda verità: Nelle verità a voi predicate, gli Angeli stessi bramano curvare lo sguardo, «parachipto», curvando l’angelico sguardo sulle armonie dell’eterna verità, considerandone con adorante meditazione la sublime bellezza, e lodandone Dio. La Passione di Gesù Cristo, preannunziata dai Profeti e compiuta sul Calvario, è una scena di delittuosa crudeltà umana, ma nella luce della fede è una sublime armonia di amore, e la gloria che seguì la Passione è come uno scintillare di stelle sulla tenebrosa foschia del delitto consumato dagli uomini.
Gli Angeli si estasiano nel contemplare il Calvario, e godono di essere stati e di essere umili ministri del trionfo di Gesù abbattendo la pietra sepolcrale suggellata dal Sinedrio per suggellare per sempre nell’oblio Colui che avevano odiato e crocifisso, per avere la certezza della sua morte ammantata dell’obbrobrio di un malfattore, fra due ladri. Messaggeri di gioia e di pace sulla grotta di Betlem, quando nacque Gesù, squarciarono il velo del Tempio, velarono il sole e scossero la terra quando Gesù morì. Osannanti lo accompagnarono al Cielo quando ascese alla destra del Padre, e adoranti lo circondano nascosto nell’Eucaristia, riparando l’ingratitudine e la vergognosa dimenticanza umana.
Curvano il loro intelletto quando sulla terra si annunzia il finale giudizio che compie il trionfo di Gesù, e fremono le ali del loro potente e nobilissimo spirito nello sconvolgere la terra con le ampolle della divina giustizia, e nel richiamare col potente soffio del loro spirito, come con voci di tromba, i morti dalle tombe, per suonarle trionfanti nella trionfante sentenza: per i cattivi: In ignem aeternum, e per i buoni: Venite benedicti in regnum Patris.
Vivete austeramente, dice S. Pietro
Da quello che ha detto ai fedeli, chiamati da Dio al possesso della vita eterna, rigenerati da Gesù Cristo, che per loro ha patito ed è morto, è risorto ed ha dato loro la grazia di risorgere in Lui nel Battesimo, S. Pietro trae le conseguenze pratiche del suo profondo insegnamento.
La prima conseguenza l’ha tratta dal ricordo della morte e passione di Gesù Cristo, compimento delle figure e delle profezie che l’annunziarono, esortandoli a sopportare con pazienza e con gioia le pene della vita, prove della loro fede e purificazione delle loro anime per ottenere la salvezza eterna. Ma non bastava questo per ottenere il possesso dell’eterna verità; occorreva meritarla con una vita santa, conforme all’insegnamento delle verità del Vangelo loro annunziato da quelli che ne ebbero la missione da Dio. Verità sublimi, che gli Angeli stessi bramano meditare come oggetto della loro felicità.
L’allusione che S. Pietro fece agli Angeli compresi di ammirazione nel considerare il disegno di Dio nella Redenzione del genere umano per la Croce, incantevole suggello della sua sapienza e del suo amore, fa uscire S. Pietro, che ne aveva il cuore pieno, in una forte esortazione ai fedeli affinché vivano conforme agli insegnamenti avuti. Una gradazione di motivi eloquenti per giungere a quella conclusione.
Essi, infatti, sono eletti da Dio secondo la sua prescienza eterna, mediante la santificazione dello Spirito Santo, eletti per obbedire alla parola di Dio con la fede, e per santificarsi per i meriti del Sangue di Gesù Cristo. Per il suo Sangue furono rigenerati ad una speranza viva, certissima, immarcescibile, eterna, e perciò non debbono scoraggiarsi nelle sofferenze ma accoglierle con gioia, come purificazione e prezzo dell’eterna vita in unione dei dolori di Gesù Cristo.
Grandioso disegno di amore, predetto dai Profeti, compiuto da Gesù Cristo, manifestato per la predicazione degli Apostoli, disegno ammirabile nel quale s’incantano gli Angeli stessi, abituati alla contemplante adorazione di Dio, Uno e Trino nella sua ammirabile potenza, sapienza ed amore.
Ed allora — soggiunge S. Pietro con logica illazione — potete voi prendere la vita alla leggiera, e non dovete riguardarvi piuttosto come pellegrini che viaggiano verso la patria eterna, e come lavoratori intenti ad un lavoro costante, senza inceppi per avere la mercede? Servendosi proprio dell’uso che avevano i pellegrini nel viaggiare ed i lavoratori nella fatica, di sollevare l’ampia tunica e stringerla ai fianchi con una cintura, per avere più libero il passo e meno inceppate le mani e i movimenti del corpo, S. Pietro esclama: Tenete succinte le reni del vostro spirito, vivete austeramente, per andare verso la vita eterna senza impacci di vita terrena, vivendo santamente, senza lasciarvi sedurre dalle passioni, con la piena speranza della grazia della salvezza e dell’eterna gloria che vi sarà apportata nella manifestazione di Gesù Cristo, ossia quando Egli vi giudicherà nel suo ritorno sulla terra per il giudizio universale
S. Pietro, dopo aver esortato con una parola energica e forte a non essere pigri od incoscienti nel provvedere alla salvezza dicendo: Tenete perciò succinte le reni del vostro spirito, vivete austeramente, abbiate piena fiducia nella grazia che vi sarà apportata nella manifestazione di Gesù Cristo, continua affettuosamente, spiegando che cosa significa vivere austeramente, ossia, come indica la parola greca, vivere perfettamente desti e temperanti in tutto da figliuoli obbedienti alla parola ed alla Legge di Dio, non modellate la vostra vita in modo conforme alle passioni del passato, di quando eravate nell’ignoranza, ma secondo l’immagine di Colui che vi chiamò, che è santo, diventate anche voi santi in tutta la vostra condotta, perché sta scritto-. Siate santi, perché io sono santo.
Dio, autore della vostra vocazione alla fede ed all’eterna salvezza, è santo per natura, e voi imitatelo, perché siete stati creati ad immagine sua; imitatelo e siate santi in tutta la vostra vita. Siate perfetti in tutte le virtù, nell’agire, nel parlare, nel camminare, nel
prendere cibo, nelle dispute, nel lavorare, nel comandare, nell’obbedire, nel dormire, ecc. Tutta la vostra vita interna ed esterna sia cristiana, pura, santa, angelica. I cristiani, infatti, nei primi tempi venivano chiamati santi.
Siate dunque santi...
S. Pietro esorta ad una santità completa, ad immagine di Dio, nella propria vita cristiana, ed adduce per convincente motivo di questo dovere la parola che Dio disse ai Leviti: Siate santi perché io sono santo (11, 44, 45; 19, 2; 20, 7, 8). Se questa Legge valeva per i Leviti dell’antico patto, sol perché ministravano al Tempio, semplice figura di Gesù Cristo, molto più valevano per i cristiani che vivevano in comunione viva col Redentore, ai quali disse Gesù: Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli (Matt. 5, 48).
Per i Leviti il dovere della santità era sentito non solo per la santità di Dio al quale servivano, ma anche per il timore dei castighi che Dio poteva loro infliggere in ogni loro vizio o difetto. Questo santo timore doveva anche comprendere i cristiani, e perciò S. Pietro soggiunge: Se voi chiamate Padre Quegli che giudica senza riguardi personali, secondo l’opera di ciascuno, abbiate una condotta timorata nel tempo del vostro pellegrinaggio terrestre, perché la vostra responsabilità nel mancare di santità è maggiore innanzi a Dio.
Voi, è vero, lo chiamate Padre, nell’orazione domenicale, ma sapete pure che è giusto nel ponderare ogni vostra azione, specialmente dopo che vi ha redenti. Sappiate, infatti, che non a prezzo di metalli corruttibili, argento o oro, siete stati riscattati dalla vostra vana forma di vita trasmessavi dai padri, ma con il prezioso Sangue di Cristo, immolato come agnello illibato ed immacolato sulla Croce.
Uno schiavo si riscattava col prezzo di oro e di argento, ma voi cristiani, schiavi del presente, siete stati riscattati dal prezioso inestimabile Sangue di Cristo, immolatosi per noi come Agnello illibato ed immacolato sulla Croce.
La grandezza del nostro riscatto, che c’impone di essere santi e menare una vita santa, si desume dal fatto che prima ancora della creazione del mondo, nei disegni di Dio era già decretata la salvezza delle libere creature che voleva creare, prevedendo la loro caduta. Dio, dunque, prima di crearci, ci amava già di amore eterno, prede
stinando nel suo Figliuolo umanato il prezzo del nostro riscatto e della nostra salvezza. Mistero ineffabile di amore!
Volendo creare l’uomo ad immagine sua, libero, e quindi capace di merito, per essere associato alla sua eterna felicità; libero, e perciò anche capace di demerito, che poteva allontanarlo da Lui, per infinito amore, il Signore manifestò, con la volontà di creare l’uomo, la volontà salvifica di riscattarlo dal peccato per mezzo del suo stesso Figliuolo. È ammirabile!
Conoscendo Se stesso, generò ab aeterno il Figliuolo, e conoscendo, nella sua prescienza divina la caduta della libera creatura che voleva creare a sua immagine, predestinò il Figliuolo suo umanato per salvarla, riscattando così l’uomo caduto. Quando già ab aeterno il Figlio del Padre era Dio, esercitò la sua divina attività salvifica nella storia, infondendo il suo spirito nei Profeti; fu manifestato visibilmente per l’incarnazione in Maria SS., immagine santissima e perfettissima di Dio, poiché come Dio generò il Figliuolo ab aeterno, Essa lo generò, vero Figlio suo, nel tempo, per opera dello Spirito Santo.
Essa fu così adombrata dalla virtù dell’altissimo, generando nell’immacolata purezza, che la rendeva più spirito che creatura di carne, come le disse l’Angelo nell’annunziarle il disegno eterno di Dio: Lo Spirito Santo sopravverrà in te, e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà. Nato nel tempo da Maria Vergine, Gesù si donò come agnello illibato ed immacolato, s’immolò col suo sacrificio visibile, si fece riconoscere uomo nell’immolazione e Dio nella resurrezione gloriosa. Si donò così nella pienezza dei tempi a noi cristiani, privilegiati nell’umana storia, perché abbiamo visto e viviamo dell’opera divina che i patriarchi ed i Profeti bramarono vedere.
Col compimento dell’opera della Redenzione, si manifestò l’uomo Dio, vero Figlio di Dio anche come uomo, e l’uomo in Lui e per Lui fu adottato come Figlio di Dio. L’umanità peccatrice, riscattata per il Sangue di Gesù Cristo, fu elevata in Lui, che perciò vivendo in terra volle chiamarsi Figliuolo dell’uomo, rappresentando Egli tutta la umanità. Figliuolo eterno di Dio lo era per natura, generato ab aeterno dal Padre; ma, incarnatosi per amore dell’uomo, amò chiamarsi Figliuolo dell’uomo, perché sublimava per lui in Dio Padre, per lo Spirito Santo, tutta l’umanità.
Dal fango della terra vergine Dio creò l’uomo, innocente e santo, elevandolo allo stato soprannaturale di grazia; ma l’uomo peccò, perdette lo stato di grazia, e Dio ne rinnovò, per così dire, la creazione, formando il corpo del secondo Adamo nel seno della Vergine Immacolata, e perciò Gesù Cristo, nato da Maria SS., amò chiamarsi Figliuolo dell’uomo. Era l’Eterna Sapienza che si dilettava così di essere tra i figli degli uomini, come predisse e cantò il libro della Sapienza.
È questo l’ammirabile mistero di amore che S. Pietro annunzia col suo stile sinteticamente divino: Sappiate che non a prezzo di metalli corruttibili, argento ed oro, foste riscattati dalla vostra vana forma di vita trasmessavi dai padri, ma col prezioso Sangue di Cristo, immolato come agnello illibato ed immacolato. Egli fu predestinato prima della creazione del mondo, e manifestato negli ultimi tempi per voi, che per mezzo suo credete nel Dio che lo risuscitò dai morti, e gli diede la gloria, così che la vostra fede è anche speranza in Dio.
Credendo in Gesù Cristo Redentore, logicamente si crede nella salvezza che Egli ci dona a prezzo del suo Sangue, e, credendolo risuscitato da morte, glorioso alla destra del Padre, l’anima non crede solo di salvarsi, per Gesù Cristo Redentore, ma crede e spera anch’essa di risorgere un giorno dalla morte, per Lui, che, risorgendo, primizia dei morti, ci meritò di risorgere un giorno. Si chiamò Figliuolo dell’uomo per redimerci con l’assunta umanità; s’immolò e morì come Figliuolo dell’uomo per darci la vita eterna; risorse come Figliuolo dell’uomo, primizia dei risorti, per trarci dalla tremenda umiliazione della morte.
All’uomo peccatore Dio disse: Peccando morirai, morte morieris, sei polvere ed in polvere ritornerai. Questa terribile sentenza fu cancellata per la resurrezione gloriosa del Figliuolo dell’uomo. Sulla Croce Gesù Cristo cancellò il chirografo della colpa, morendo; e nel sepolcro cancellò la sentenza della morte, risorgendo. È così che, come dice S. Pietro nel suo stile sintetico, la nostra fede è anche speranza in Dio.
Ma la fede unisce tutti gli uomini, nella Chiesa, in una sola famiglia, e perciò ancora una volta, con logica illazione, S. Pietro fa una viva esortazione alla carità. Non è un’esortazione staccata dal contesto come in impeto di carità, ma è strettamente legata al contesto di quello che ha detto. Egli, infatti, ne trae una logica conseguenza, dicendo: Dopo che avete purificato le anime vostre con l’obbedienza alla verità, cioè ricevendo la fede col santo Battesimo, che vi unisce in un sol corpo nella Chiesa, per possedere un amore fraterno senza finzioni, di cuore, a vicenda amatevi continuamente, senza liti, senza dissensioni, con un cuore che non si spezza mai ed è costante, poiché foste rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, mediante la parola di Dio viva e permanente.
Gli uomini si chiamano fratelli e si considerano tali quando sono generati dallo stesso padre e da una medesima madre, e quindi da uno stesso seme umano, che è corruttibile, e può subire alterazioni nel carattere e nell’indole di quelli che sono stati generati nella carne.
Ma i Cristiani col Battesimo sono rigenerati, come da uno stesso seme incorruttibile, dall’acqua e dalla Parola divina che accompagna l’acqua che si versa o nella quale si è immersi, nel caso di Battesimo per immersione, come si faceva in antico. È infatti per le parole o, come si dice teologicamente, per la forma che accompagna e si unisce al segno del Sacramento, che l’anima è rigenerata, rinasce.
La Parola divina, la forma del Sacramento, è veramente viva e permanente, perché dona la vita soprannaturale ed imprime carattere; perciò quelli che sono battezzati sono veramente fratelli, più di quelli che lo sono nella carne; e debbono amarsi senza finzioni di cuore costantemente.
Il Battesimo, negli adulti, come era nei primi tempi della Chiesa, supponeva un catecumenato, cioè l’istruzione della fede in perfetta obbedienza alla verità. Sono le verità della fede che orientano l’anima nella vita, e la purificano dagli errori e dalle illusioni del mondo. Per questo S. Pietro dice ai fedeli battezzati ai quali scrive: Dopo che avete purificato le anime vostre con l’obbedienza alla verità per avere il Battesimo e farvi fratelli in Gesù Cristo e per Gesù Cristo, amatevi con amore fraterno, senza finzioni, di cuore, a vicenda, continuamente, ricordando il saldo fondamento di questo amore fraterno, perché siete generati per la stessa parola di Dio; nella mente con le verità della fede, e nell’anima con le parole sacramentali.
Il Battesimo è, perciò, un vincolo fraterno che rimane in eterno, e S. Pietro lo conferma con le parole di Isaia (40, 6-8), citate anche da S. Giacomo nella sua lettera (1, 10, 11) opponendo alla fraternità della carne quella che viene dalla parola di Dio:
Ogni carne è come erba, ogni gloria sua è come fiore d’erba.
Seccò l’erba, cadde il fiore...
Ma la parola del Signore rimane in eterno...
E conchiude il pensiero dicendo: Questa è la parola che venne predicata come lieta novella in mezzo a voi. Parola di verità che vi istruì con la predicazione del Vangelo e che vi rigenerò con la parola sacramentale del Battesimo.
Sac. Dolindo Ruotolo