domenica 31 agosto 2014

31.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 16 par. 7-9

7. Gesù Cristo rimprovera san Pietro tentato da satana
Dopo la confessione solenne che san Pietro fece della divinità di Gesù Cristo sarebbe sembrato logico che quella grande verità fosse stata divulgata in mezzo al popolo; invece il Redentore comandò ai suoi discepoli di non dire a nessuno che Egli era il Cristo. Il dirlo avrebbe attratto su di essi l'ira degli scribi e dei farisei, la quale, cogliendoli ancora impreparati, li avrebbe travolti. D'altra parte essi in quel momento avrebbero travisato la verità, aspettando, come tutti gli Ebrei, il regno trionfante del Messia ed avrebbero potuto provocare un movimento politico nel popolo per far proclamare re temporale il Redentore. Gesù Cristo volle prepararli a concezioni diametralmente opposte a quelle che essi avevano su di Lui, e cominciò a parlare loro della sua Passione e della sua futura
risurrezione. Gli apostoli non badarono tanto all'annunzio della risurrezione, e si sgomentarono della profezia delle lotte e delle pene.
San Pietro, proprio come capo allora allora proclamato, credette di intervenire con autorità e, preso in disparte Gesù, cominciò a rimproverarlo del discorso fatto, e ad annunziargli con una presuntuosa sicurezza che ciò che Egli aveva detto non doveva avverarsi di Lui e non si sarebbe avverato.
Era lo stesso che volere sconvolgere i piani della provvidenza, era lo stesso che voler impedire la redenzione: quelle parole erano una tentazione. Satana indusse Pietro a pronunziarle quasi per vendicarsi della confessione solenne che aveva fatta della divinità del Redentore, e per questo Gesù lo chiamò satana e lo scacciò lontano da sé.
Il suo amore fu immenso nell'annunziare la sua Passione, poiché gli tardava il momento di dare la vita per noi, e le parole inconsiderate di san Pietro gli ferirono il Cuore acceso d'infinita carità.
8. La via della croce
Non c'era da illudersi con aspirazioni terrene, non c'era d'aspettare un trionfo politico; Egli doveva e voleva immolarsi, e chi avrebbe voluto seguirlo doveva andargli appresso caricato di croce, dopo aver rinnegato se stesso, la propria volontà e le proprie aspirazioni. Non c'era altra via di salvezza e chi avesse voluto salvare la propria vita, cioè conservare le sue false gioie e le sue illusioni, avrebbe perduto la vera, la nuova vita che Egli veniva a dare alle anime. Egli non veniva a restaurare un regno terreno né valori materiali, ma veniva a restaurare il regno dello spirito e i valori soprannaturali. Che cosa, infatti, avrebbe portato di bene all'anima una restaurazione temporale? Anche se avesse portato la prosperità che cosa sarebbe stata questa piccola prosperità di fronte ai supremi ed eterni interessi dell'anima?
La vita passa e viene il giorno nel quale si deve rendere conto di tutto al Giudice eterno; allora nulla varranno onori, ricchezze e piaceri, poiché nulla può darsi in cambio dell'anima.
Nel giorno del giudizio Gesù Cristo verrà nella gloria del Padre suo, cioè nel fulgore della sua divinità, e renderà a ciascuno quello che avrà meritato; il merito non potrà computarsi con la misura che ha il mondo; tutto quello che fa grandi sulla terra sarà nullità in quel giorno, e perciò torna conto di rinnegare se stessi, prendere la croce e camminare in compagnia del Re divino verso l'eterna vita.
Queste parole avrebbero potuto scoraggiare gli apostoli, e forse già si affacciava nel loro cuore una nascosta delusione. Avevano sospirato al regno glorioso del Messia, e sentivano parlare di abnegazione di croce, avevano sperato una immediata proclamazione del Re, trionfatore dei nemici d'Israele, e sentivano parlare di dover perdere tutto per poter guadagnare un regno invisibile; il loro cuore stava per naufragare nel dubbio e perciò Gesù li confortò annunziando vicino il suo regno, e dicendo che alcuni di quelli che erano presenti avrebbero visto la sua venuta prima di morire.
Venuta di Dio nelle Scritture significa giudizio di Dio e manifestazione della sua potenza (Is 3,14; 30,27; 66,15-18; Ab 3,3ss); Gesù, avendo parlato della croce e avendo accennato al giudizio, suprema manifestazione della sua potenza, predice una prima manifestazione di questo giudizio nel castigo che avrebbe avuto Gerusalemme ingrata, castigo che sarebbe stato relativamente a breve scadenza e che alcuni di quelli che lo ascoltavano avrebbero visto. Allora il suo regno si sarebbe dilatato in tutto il mondo e la Chiesa si sarebbe affermata maggiormente. Con questa speranza gli apostoli sentirono che si preparava qualche cosa di grande in un prossimo futuro, e sentirono il coraggio di seguire ancora Gesù Cristo.
9. Per la nostra vita spirituale
Ecco tracciato in questo capitolo un prospetto della vita cristiana nella sua medesima essenza: si cammina nel mondo come in un campo di prova e bisogna guardarsi dal lievito dei cattivi cioè dal male che ci insidia e tenta di corromperci. La vita ha anche le sue necessità e bisogna in esse confidare in Dio, affinché la sollecitudine delle cose temporali non ci distragga dai beni eterni. Nel nostro cammino la luce che ci illumina è Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, come ci è mostrato dalla Chiesa, ed il Papa che ne è vicario, e che è maestro infallibile di verità e di bene.
Satana tenta di illuderci con prospettive di materiale benessere, ma la via del cielo non è questa: è necessario rinnegarsi, prendere la croce e seguire Gesù; rinnegarsi credendo, sperando ed osservando la divina legge, prendere la croce accettando le pene espiatrici e purificatrici della vita, e seguire il Redentore integralmente, senza cedere in nulla alla bassa nostra natura, pensando che nostro supremo guadagno è la vita eterna, è la salvezza dell'anima, che nulla può sostituire, perché, se si perdesse, la sua rovina sarebbe irreparabile.
Si deve notare che Gesù Cristo non ha detto: Rinneghi le cose terrene, ma rinneghi se stesso, perché la vita cristiana sta principalmente nell'anima e non è una posa come quella dei filosofi, o una ipocrisia come quella dei farisei. Rinnegarsi abbracciando la via della virtù, prendere la propria croce abbracciando con pazienza le prove della vita, seguire Gesù, cioè tendere a Lui, e per Lui, con Lui ed in Lui all'eterna gloria.
Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 30 agosto 2014

30.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 25 par. 4

4. La parabola dei talenti
Vigilare non significa rimanere in un'oziosa e snervante attesa, ma significa lavorare per la gloria di Dio e per il bene delle anime, e portare alla presenza del Signore un tesoro di meriti. Questa verità, fondamento dell'onesta e santa operosità, fu espressa da Gesù Cristo con la parabola dei talenti. Egli è il padrone ricchissimo che ha fondato la Chiesa come campo di prova, e si è eclissato, quasi fosse partito per un lontano paese, dando a ciascuno la forza, la grazia e i doni per potere operare il bene, secondo le diverse possibilità.
I doni, che il Signore ci fa, sono di natura e di grazia; quelli di natura sono l'ingegno, la forza, la ricchezza, la sanità ecc.; quelli di grazia sono oltre i doni comuni a tutti nella Chiesa, come per esempio i Sacramenti, anche quelli particolari alle anime privilegiate. Tutti questi doni devono farsi fruttificare, ed anche quelli che sono assolutamente gratuiti, come per esempio il dono di profezia, debbono trovare nell'anima disposizioni particolari di umiltà, di amore, di purezza e di semplicità, perché il Signore possa espandersi di più. Nel giorno del giudizio particolare, che è quello del rendiconto personale, Dio ci domanderà che cosa abbiamo prodotto coi suoi doni, ed esigerà un accrescimento, diciamo così, del capitale che ci è stato assegnato.
Gesù Cristo si rivolge in modo speciale a quelle anime che credono aver fatto molto, quando non hanno fatto un male positivo, e che misurano le loro benemerenze paragonandosi coi ladri, con gli impuri e con gli omicidi. Eppure non basta solo non fare il male, ma bisogna ancora operare il bene e mettere a traffico le proprie attitudini. Il servo della parabola non fece fruttificare il talento ricevuto, perché, secondo lui, il padrone era molto duro ed esigente; avrebbe dovuto essere l'opposto. La mancanza di amore al padrone gli fece seppellire ciò che aveva ricevuto. Chi riceve un dono dal Signore può farlo fruttificare solo nell'amore, che è la leva più potente di tutte le nostre attività. Lo vediamo nei santi, le cui opere sono state prodigiosamente feconde. Il mondo, spinto solo dall'interesse o dalla vanità sembra più attivo dei santi, e le sue iniziative sembrano riempire la terra; ma sotto il frastuono delle iniziative c'è la sterilità, come lo mostrano le famose iniziative della carità civile o laica.
Quando ci troveremo innanzi a Dio per essere giudicati nel giudizio particolare, a chi ha meriti da presentare al Signore, sarà data la vita eterna, ma a chi non ne ha, sarà tolto anche ciò che sembra di avere, perché precipiterà nelle tenebre eterne, privo di vita vera, vuoto di tutto, in preda alla disperazione ed all'affanno senza conforto alcuno.
La ricchezza deve circolare
Non si può rimanere oziosi nella vita presente, e ciascuno nel proprio stato deve produrre ciò che può spiritualmente e materialmente. L'attività di tutti concorre al bene comune, e chi ha speciali attitudini per le arti, le scienze, il lavoro, deve dedicarvi le sue forze per amore di Dio. La ricchezza poi non è un dono che può tenersi nascosto o inutilmente inoperoso; è anche un dovere farla circolare, adibendola nelle sane iniziative sociali. Chi la tiene accantonata per avarizia o per timore di perderla, ne risponde al Signore come se l'avesse sperperata. A chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che sembra di avere', queste parole dell'eterna sapienza sono un canone anche per le ricchezze temporali; quando si mettono a traffico per il bene comune, fruttificano e producono l'abbondanza a chi le possiede; quando si lasciano inoperose per timore di perderle, si consumano e producono la miseria. Chi le tiene inoperose sembra di averle, perché in realtà, praticamente non possiede che il fastidio di custodirle. Centomila lire, per esempio, se si conservano sempre senza spenderle mai, sono un pezzo di carta stampata, se circolano rappresentano un valore reale.
Dio ci dà tanti particolari doni della sua bontà per darci modo di operare il bene e di zelare la sua gloria; compiamo dunque con fedeltà la nostra giornata di lavoro, aspettando la ricompensa dal Padre celeste. E più utile lasciare la ricchezza di molte opere buone, anziché lasciare un peculio che spesso è dilapidato dagli eredi ed è succhiato dalle tasse. Quello che si ha deve lasciarsi; non è dunque un gran merito disporre quando non se ne ha più il dominio; cediamolo al Signore a poco a poco con le opere sante di sua gloria e con quelle di carità, e pensiamo che la nostra proprietà e la nostra dimora si ridurranno, tutto al più, ai pochi metri di terra nei quali verremo sepolti.

Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 29 agosto 2014

29.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 6 par. 3

3. Erode e san Giovanni Battista
Il movimento sempre più vivo e intenso intorno a Gesù e la fama di Lui attrassero l'attenzione di Erode, il quale credette o sospettò ch'Egli fosse Giovanni Battista risuscitato da morte. Questa supposizione nasceva in lui dall'apprezzamento che, malgrado tutto, faceva del carattere e della santità del Precursore.
Giovanni infatti, senza temerne la potenza e la crudeltà, non aveva esitato a rimproverargli il suo adulterio incestuoso, e l'aveva fatto con fermezza, ma senza trascendere nell'irruenza di un tribuno o di chi si crede superiore; traspariva dai suoi rimproveri, anzi, il rammarico che aveva di farli, e la premura con la quale li faceva, per la spirituale salvezza del re.
Tutto questo non dispiaceva ad Erode, il quale sapeva che Giovanni gli era politicamente innocuo, e che non avrebbe mai suscitato una ribellione contro di lui. Egli giungeva fino a consultarlo in tante cose, e gli piaceva sentirlo parlare; gli sembrava un tipo interessante, ma in un altro campo, diverso dal proprio, e quindi inconsciamente gli sembrava di guadagnare in prestigio mostrandosi benevolo con lui. C'era in Erode quel senso di soddisfazione di poter avvicinare il profeta con la libera padronanza di un re, e di poter ostentare quasi come un trionfo la propria deferenza che il Battista gli mostrava in quanto era pubblica autorità!
A differenza di Erode, Erodiade odiava a morte Giovanni, come sa odiare una donna e specialmente una donna corrotta. Conscia dell'illiceità del suo legame, ambiziosa fino all'eccesso della sua pretesa gloria regale, dispettosa e capricciosa come tutte le donne sensuali, truce nel fondo dell'anima sua, perché preda dell'orribile vizio che la consumava, riguardava Giovanni come un pericolo vero per lei, e temeva che presto o tardi avrebbe potuto piegare l'animo di Erode. Questo suo timore era accresciuto dal constatare che, nonostante il suo malvagio ascendente sul tetrarca, non le era riuscito di indurlo ad uccidere il Battista, e aveva solo potuto ottenere che lo tenesse carcerato nella fortezza di Macheronte. Ma anche nella prigione Giovanni le era di ostacolo nelle sue mire, giacché Erode andava a consultarlo, e lo difendeva dalle insidie che la perfida donna gli faceva tendere. Stando al testo greco, egli non solo faceva molte cose col suo consiglio, ma rimaneva agitato per molte cose che aveva fatte, cioè manifestava anche esternamente la preoccupazione e il rimorso che suscitavano in lui le parole del Battista, quando lo rimproverava; questo rendeva addirittura furiosa Erodiade, la quale s'era proposta di disfarsi di Giovanni ad ogni costo.
Un giorno propizio per lei fii quello della festa natalizia di Erode. Questi radunò in corte le persone più ragguardevoli della sua regione, ed offrì loro un banchetto.
Dire un banchetto è lo stesso che dire un'orgia, per la corte del tiranno; non si pranzava solo, ma si trascendeva e, tra i fumi del vino, si cadeva facilmente nell'abbrutimento. Nel banchetto entrò a ballare la stessa figlia di Erodiade, la quale con le sue pose e le sue movenze lascive sconcertò talmente Erode, già avvinazzato, e gli piacque tanto, ch'egli le giurò dinanzi a tutti di volerle dare in premio qualunque cosa avesse domandato, fosse pure la metà del suo regno. Potrebbe sembrare sproporzionata questa promessa ad un semplice giro di ballo, ma la donna nel ballo diventa così multipla nelle sue impure attrazioni da inebriare miseramente i sensi e la ragione.
La diabolica suggestività del ballo di una donna sta proprio in questa molteplice lascivia che emana da lei, e che la fa sembrare inesauribile nel suscitare la passione e il degradante diletto. L'impurità è di per sé stancante, perché è arsura e non sazietà dei sensi; ma la donna che balla dà l'illusione di un mutamento continuo, e di una bellezza sensuale che ha nuove risorse; il ritmo, poi, dei movimenti riveste di grazia la stessa sensualità, e par che, giustificandola con le pretese dell'arte, la renda più penetrante nei sensi, attenuando il rimorso della coscienza che, anche nei più cattivi, costituisce un freno ed una limitazione alla frenesia della carne.
La simpatia che suscita una ballerina moltiplica in chi l'ammira il desiderio dell'espansione del proprio sentimento; non si accontenta di applaudire: desidera di più, vorrebbe donare e donarsi e, non potendolo fare diversamente, ricorre all'offerta.
Lo sanno bene tutti quei poveri allocchi, che si sbancano per offrire un gioiello pregiato ad una donna, e che riguardano come una visione di cielo la visione della povera fogna stagnante, nella quale è riflesso, abissato e capovolto, un lembo illusorio di azzurro, che è infinitamente lontano.
Erode, avvinazzato com'era, si trovò in uno stato anche più deplorevole di frenesia sensuale e, nel fare la sua giurata promessa, non ponderò tutta la malignità di Erodiade e della figlia.
Un'adultera è sempre un'interessata venale al cento per cento; l'idealismo nell'adulterio è una chimera. L'uomo, notevolmente più sciosciammocca in questi campi, può illudersi di aver trovato un tesoro considerando la donna amata, ma la donna è calcolatrice anche quando sembra piena di dedizione e, se non calcola l'interesse materiale, calcola quello sensuale.
Erode s'era invaghito di Erodiade, ma questa s'era invaghita del regno di lui e dei maggiori vantaggi che sperava alla sua corte; astuta e maligna, fingeva un amore che era invece senso e calcolo, e la sua degna figlia la seguiva in questa via. L'unico ostacolo ai suoi progetti totalitari di asservire a sé il corrotto monarca era Giovanni, ed ella credette giunto il momento di disfarsene. Si può supporre che, ascoltando la promessa giurata del tetrarca, avesse fatto capire alla figlia di consultarla prima di rispondere; si può anche supporre che la figlia avesse intuito il desiderio materno; certo il consultarsi rivelò tra loro o un'intesa o un'identità desolante di venale interesse.
La donna indispettita o adirata perde ogni senso di pudore nell'ambiente nel quale si trova; diventa come isolata in se stessa, non sa pensare neppure che ci può essere chi l'ascolta e la biasima, va dritto al suo scopo prescindendo da qualunque conseguenza; non ragiona, è terribile, pur sembrando fredda e magari ponderata. Erodiade era come belva in agguato; la sua ira era vigilante per dare il balzo felino e colpire il suo nemico; non badò alla festa, al banchetto, ai convitati, all'orrore di ciò che faceva domandare: pensò solo che non doveva farsi sfuggire l'occasione propizia, e disse alla figlia di domandare la testa di Giovanni. La figlia si mostrò degna della madre, e non si contentò di domandare la morte del Battista, ma, per timore che Erode cambiasse idea, volle che subito, all'istante, le fosse portata la testa del profeta in un piatto, sapendo con ciò di far cosa graditissima alla madre, od obbedendo ad una sua esplicita ingiunzione.
Erode si turbò e si rattristò perché non avrebbe voluto far morire Giovanni ma pensò che non poteva venir meno alla parola data, e gli sembrò di sminuire il prestigio suo innanzi ai convitati; perciò allora stesso mandò un carnefice a decapitare il santo nel carcere, e gli ordinò di portarne il capo alla fanciulla, la quale lo diede alla madre. E terribile il considerare l'eccesso cui può giungere l'umana perfidia, ed è raccapricciante il pensare al momento nel quale il carnefice portò nel banchetto la testa insanguinata del Battista. Quegli occhi vitrei parlavano ancora, e quel sangue sparso rimproverava al tetrarca e ad Erodiade il loro delitto.
La perfida donna aveva voluto farlo tacere per sempre e non s'accorse che quel capo più che mai era eretto contro di lei! Erode poi con quell'atto si era definito per quel che era, e i convitati, abituati a simili crudeltà, avevano mostrato anch'essi la loro degradazione; si può dire che il Battista era andato per l'ultima volta, ancorché morto, a compiere la sua missione, e che col sangue innocente aveva riparato ancora una volta lo scandalo, smascherandolo.
Il Signore non gli aveva fatto torto; l'aveva reso eroe e martire, e l'aveva tratto così dall'oscurità della prigione, chiamandolo alla gloria. Agli occhi del mondo il Battista sembrò un sopraffatto, ma in realtà egli fu un vincitore, e si offrì come olocausto di amore al suo Re divino, preparandogli per l'ultima volta il cammino: si diminuì perché Egli fosse cresciuto, e sparì volentieri dal mondo per non essergli neppure involontariamente di ombra, data la sua notorietà e l'attaccamento che i discepoli avevano verso di lui.
Sac. Dolindo Ruotolo

giovedì 28 agosto 2014

28.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 24 par. 5

5. Un'appassionante questione: siamo vicini alla fine del mondo?
Benché Gesù Cristo abbia detto che nessuno sa il tempo e l'ora della fine del mondo, pure in tutte le età gli uomini si sono sforzati d'indagarlo con congetture, e si sono creduti prossimi alla fine. San Gregorio stesso affermava questo al suo tempo, e gli sembrava imminente la fine. Premettiamo che se è presunzione il voler determinare l'anno della catastrofe universale, non è contrario alle parole di Gesù l'indagare sui segni che la precederanno, anzi è opportuno per eccitarsi maggiormente a non attaccarsi al mondo ed a vigilare per la salvezza dell'anima. Che noi viviamo in un tempo di eccezionale sconvolgimento e di singolare empietà, questo non può negarsi, e fa pensare seriamente ad una fine non estremamente lontana; potremmo dire che molti l'aspettano. Così per esempio nell'aprile del 1937 la regione del Dniester ed altre dell'infelicissima Russia bolscevica erano percorse da processioni di contadini, che invitavano i compagni a non lavorare e pensare solo all'anima, essendo prossima la fine del mondo.
La stessa incommensurabile e quasi irreparabile scelleratezza degli uomini ci fa pensare che non vi sia altro rimedio che la rovina di tutto. I mezzi di corruzione, infatti, sono tali e tanti, che non si vede come possano eliminarsi senza una catastrofe. Il cinema, la radio, la televisione, la velocità con la quale si comunica con le varie nazioni, costituiscono, assai più della stessa stampa, tali mezzi di propaganda del male, che non se ne può trovare il rimedio. L'impurità dilaga peggio che ai tempi del diluvio, la mania omicida non ha più confini, il capovolgimento dei più elementari valori della vita non fanno sperare più ad un ritorno sulle vie del bene; si attende la catastrofe, e diremmo pure si spera nella catastrofe.
Certo alcuni dei segni precursori della fine ci sono, ma noi non sappiamo quali altre sorprese potrà darci l'umana delinquenza, resa più letale dalle scoperte stesse della cosiddetta scienza. La beata Anna Katharina Emmerick dice nelle sue rivelazioni che la nascita dell'anticristo sarà nel 1956 . Data la precisione impressionante delle sue visioni, è una data che non può ritenersi come una fiaba. L'apostasia universale e la lotta feroce contro Dio, Gesù Cristo e la Chiesa, lotta che non ha avuto mai la tracotanza moderna, ci fa pensare già ai prodromi del maledetto regno dell'anticristo. Si dovrà avere un periodo di trionfo per la Chiesa, una prima risurrezione di tutto in Gesù Cristo, e questo si rileva dall'Apocalisse, ma questo periodo sarà quasi come un giorno sereno per la semina e la raccolta di novelli fiori per il cielo. Il male terribile che già ci soffoca rimarrà come incatenato, ed avrà poi una recrudescenza anche più terribile al tempo dell'anticristo.
Non si può dire nulla di preciso, perché i segni che ora vediamo come caratteristici potrebbero essere seguiti da altri più terribili. Quando si combatté la guerra universale, si credette quasi impossibile andar più oltre nei mezzi di distruzione e nelle scene apocalittiche dei campi di battaglia; eppure oggi quei mezzi già sembrano quasi primitivi. La famosa Berta tedesca, il cannone che tirava a cento chilometri, sembrò un prodigio di balistica, eppure oggi c'è già il cannone che tira a mille chilometri, senza dire che non sappiamo se i segreti militari delle nazioni nascondano altre sorprese. I segni che vediamo e l'incertezza che sempre ci prende debbono farci solo star vigilanti e spingerci a vivere cristianamente, anzi da santi. Oggi noi viviamo come sull'orlo di un vulcano; tutto è precario per noi, tutto è causa di opprimente dolore e di cupa tristezza e non ci rimane che abbandonarci a Dio ed amarlo sopra tutte le cose. Viviamo nell'atmosfera ammorbata dei senza Dio, di quelli che, come nella povera Spagna calcata dal tallone rosso, si salutavano turpemente: Sin Dios, cioè: senza Dio, invece di dire: a Dio! In questa pestifera atmosfera che certo è già anticristianesimo, dobbiamo tener ferme le nostre posizioni di fede, e non farci vincere né dal rispetto umano né dalla vilissima apostasia; dobbiamo portare alto il nostro nome di cristiani, senza cedere al mondo neppure un pollice delle nostre posizioni. Se in ogni tempo è un male cedere al mondo, in questi momenti è un delitto di diserzione.
Non si può aver nulla di comune con l'empietà, neppure nelle forme esterne degli usi mondani; bisogna tenersi fermamente uniti alla Chiesa, e quasi attaccati alle sue vesti benedette, come figli alla madre. Dobbiamo soprattutto vivere cristianamente nella pratica dei Sacramenti e nella vita, affinché l'atmosfera del mondo non ci soffochi, e dobbiamo tener cara la fede come un preziosissimo tesoro. Niente ci faccia vacillare, niente ci affascini, niente ci tragga fuori di Gesù Cristo e della Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana. Non crediamo ai falsi profeti, e ce ne sono tanti, che pretendono predicare nuove religioni, nuove morali, e nuovi ordinamenti sociali; questi, come diceva Pio XI, sono spacciatori di chimere, destinati alla più amara delusione. Ascoltiamo la voce della verità che è nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, e persuadiamoci che mai come in questi momenti di confusione si sente il bisogno di tendere l'orecchio alla verità e le mani alla Madre!
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 26 agosto 2014

26/27.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 23 par. 3

3. Contro quelli che nel corso dei secoli imitano gli scribi e i farisei. La falsa pietà degli eretici
Gli scribi e farisei hanno fatto scuola nel mondo, e dolorosamente si sono moltiplicati specialmente tra quelli che, lontani dalla vera Chiesa, pretendono di rappresentare la vera Religione. I poveri protestanti in questo sono stati e sono all'avanguardia di tutti traviamenti moderni. Chi non conosce il puritanesimo di certe sette protestanti che si atteggiano a baluardi del buon costume, della fede e della carità? Eppure proprio anche in mezzo ad esse cresce la corruzione, la miscredenza e l'odio implacabile. Si mostrano con falso splendore di pietà, di bibbie, di pose mistiche, ma tutte queste apparenze sono solo filatteri e frange che nascondono l'orgoglio, la rapacità e la miseria morale. Troppo facilmente e troppo spesso si dice da certi cattolici da strapazzo che i protestanti per esempio sono gente per bene, o peggio che sono migliori dei cattolici; questo in generale possono affermarlo solo quelli che non conoscono che cosa sia pietà e pratica di virtù cristiane.
È logico che un poveretto che non ha mai visto dei gioielli, scambi per veri quelli che sono falsi; ma chi è intenditore non si lascia sedurre dai falsi bagliori. Quando la pretesa virtù è solo un'illusione di momenti fugaci, o peggio è un'ipocrisia del momento per potere accalappiare gl'incauti, allora non è virtù, ma è insidia alla fede e merita quella maledizione che Gesù scagliò contro gli scribi e i farisei. Gli eretici chiudono in faccia agli uomini il regno dei cieli, ed impediscono alle anime di entrarvi; agiscono per interesse, spesso sono pagati lautamente, e percorrono le terre e i mari per fare proseliti peggiori di loro. Solo chi non conosce da vicino il male che fanno i gruppi settari nelle cosiddette loro missioni, intralciando il cammino della verità, può usare i guanti gialli nello stigmatizzare la loro nefasta ed ipocrita propaganda. Solo chi non pondera che cosa sia il chiudere ad un'anima il regno dei cieli, può trattare alla stregua di galantuomini autentici i ministri del regno di satana. Questo è possibile solo quando la pietà è talmente rilassata e la fede così debole, da non saper distinguere tra l'errore e la verità, tra la virtù e l'ipocrisia, tra la vita e la morte.
È un fatto storico, innegabile, che gli eretici sono sempre alleati coi massoni, con i comunisti e con la peggiore canaglia del mondo, per nuocere alla Chiesa cattolica; essi, dunque, sono conniventi alle stragi che i perversi fanno nel mondo, e nel tempo stesso che fingono di predicare la carità, si macchiano le mani di sangue. La storia delle persecuzioni violentissime del Messico e della Spagna è un argomento irrefutabile di ciò che diciamo.
Non bisogna dimenticare infine quei cristiani falsi e superficiali, che onorano i santi e perseguitano quelli che ancora vivono sulla terra, che edificano tempi sontuosi, preparano feste a quelli che in passato furono colmati di obbrobri e di umiliazioni dai loro padri, e li imitano avversando coloro che operano il bene e zelano la gloria di Dio. È una miseria che dovrebbe finire, poiché troppo spesso le più fiere e pericolose opposizioni alle opere di bene vengono proprio da quelli che dovrebbero sostenerle. Satana non ha, disgraziatamente, migliori aiutanti nel combatterle, e molto spesso riesce a paralizzarle od a stroncarle addirittura. Lasciamo alla legittima autorità la cura di vigilare contro le possibili deviazioni delle sante iniziative, ed aiutiamola con tutte le nostre forze, per riparare l'ingratitudine con la quale gli uomini sogliono rispondere ai divini benefici.
Sac. Dolindo Ruotolo

lunedì 25 agosto 2014

25.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 23 par. 2

2. Giudizio severo contro la falsa pietà dei farisei, e gravi minacce contro di loro
Le insidie che gli scribi e i farisei avevano teso a Gesù, per comprometterlo e sfatarne l'autorità, erano una rivelazione del loro animo perverso. La loro condotta scandalosa, ambigua e ipocrita, secondo i casi, era un ostacolo grande alla conversione del popolo, poiché lo allontanava dalla Legge di Dio e dal Redentore; era però inevitabile e necessaria una chiarificazione da parte di Gesù Cristo che non poteva permettere lo scempio delle anime.
Egli parlò chiaro alle turbe e pur sapendo che si sarebbe attratto addosso l'odio dei nemici, non omise di farlo.
Prima di tutto volle salvare il principio di autorità, affinché il popolo non avesse preso occasione o pretesto dal suo discorso per ribellarsi ai legittimi capi, e perciò disse che sedendo essi sulla cattedra di Mosè, cioè essendo i successori dell'insegnamento di lui, dovevano ascoltarli e praticare quello che insegnavano, ma non dovevano guardare al loro esempio, tanto dissimile dalla dottrina che predicavano. Dicono e non fanno, ecco la triste caratteristica dei pastori infedeli, che non hanno il senso della loro responsabilità innanzi a Dio ed agli uomini; impongono agli altri pesi gravissimi, e non li smuovono neppure con un dito, cioè non fanno nulla. Sono severi con gli altri e indulgenti verso loro stessi. Eppure chi sta a capo e chi insegna agli altri deve prima di tutto dare l'esempio, perché l'insegnamento può illuminare, ma l'esempio trae all'imitazione ed all'azione.
I farisei avevano moltiplicato i precetti, ma non ne facevano nulla; erano solo solleciti di ostentare giustizia, e quindi osservavano esageratamente quello che li poteva fare apparire grandi santi innanzi al popolo, restringendosi ad esteriorità che non riflettevano per nulla lo spirito. Portavano quindi lunghi filatteri e lunghe frange. I filatteri erano strisce di pergamena sulle quali erano scritte quattro sezioni della Legge (Es 13,1-10; 13,11-16; Dt 6,4-9; 11,13-21). Queste strisce erano chiuse in apposite custodie, che venivano legate con nastri sulla fronte e sul braccio sinistro. Per ostentare l'osservanza della Legge, i farisei le facevano di proporzioni più grandi, ed allungavano le frange del mantello, che, nel simbolismo ebraico, figuravano i comandamenti di Dio. Contenti di questo non pensavano ad osservare la Legge del Signore, e segretamente conducevano una vita disordinata.
Si fingevano giusti unicamente per carpire onori e, pieni di orgoglio, amavano di essere tenuti in considerazione dovunque, sia occupando i primi posti, sia desiderando essere salutati e chiamati maestri. Tutto questo rendeva vano ogni loro insegnamento, anche se buono, e concentrava tutta la loro anima in stupide vanità.
Chi sta a capo rappresenta Dio, e logicamente non può presumere di rappresentare se stesso. Come rappresentante di Dio dev'essere benefico e diffondere la verità, la bontà, l'ordine, l'armonia, la pace e la provvidenza. Non può pretendere di avere dei criteri personali o delle dottrine cervellotiche nel governare, né può credersi padrone od anche semplicemente padre del popolo, indipendentemente da Dio. Gesù Cristo non vieta che uno si possa chiamare maestro o padre come rappresentante del Maestro divino e del Padre infinito di tutti, ma vieta che uno possa credersi, diciamo così, fondatore o capo scuola di una particolare dottrina e che possa chiamarsi padre per orgoglio di superiorità.
I sacerdoti della Chiesa di Dio si chiamano padri ed anche maestri proprio per ricordare l'unico Maestro e l'unico Padre che abbiamo; essi, quindi, essendo viva rappresentanza di Gesù Cristo, non solo non contravvengono alla sua parola ma la praticano. S'intende che se volessero essere chiamati così per vanità o per ostentazione di un titolo di benemerenza, cadrebbero nella colpa e trasgredirebbero il comando del Signore.
Chi sta a capo dev'essere servo, ed in realtà è tale quando vuole veramente essere utile agli altri; deve stare a disposizione di tutti e deve provvedere a tutti dimenticando se stesso; dev'essere pieno di umiltà, di affabilità, di carità proprio come una mamma che cura i suoi figlioli servendoli.
La Chiesa non conosce altro concetto di superiorità nel suo seno, e se conserva scrupolosamente la gerarchia e il principio di autorità, non lo conserva in una falsa luce di orgoglio, ma in un'aureola di umiltà e di bontà.
Se possono esserci quelli che vengono meno a questo dovere, essi non partecipano allo spirito della Chiesa e sono lontani dal Vangelo.
La bontà, l'umiltà e l'affabilità sono la luce più bella dell'autorità, e le danno un fascino dominatore che non può essere sostituito da nessuna forza.
L'autorità dev'essere in perfetta unione con Dio per poter essere sua rappresentanza, e quando devia dal Signore non domina che con la forza. La forza non è mai un segreto di dominio, ma piuttosto di oppressione, e lungi dall'unire i sudditi in una sola famiglia, li divide e suscita in loro la reazione e la rivolta. Non accenniamo neppure a quelle esose manifestazioni di dominio tiranno o dittatoriale, quali si vedono proprio in quelle nazioni che pretendono predicare la libertà;
quelle autorità che si reggono con la violenza, dopo aver usurpato il potere, e si dichiarano contro Dio, non sono autorità, sono accolta di delinquenti che è sacrosanto dovere combattere e punire, per restituire alla nazione la tranquillità e la pace.
Dopo avere stabilito il principio di autorità e la vera natura del potere dominante, Gesù si rivolse con severità agli scribi e farisei, sfatando innanzi al popolo quel falso prestigio che avevano, e del quale abusavano per consumare tanti delitti. Egli era Dio, e come tale aveva il diritto di giudicarli; era Redentore, e come tale non poteva tollerare quella malignità che tentava distruggere la sua opera in mezzo alle anime; enumerò quindi le miserie delle quali erano infetti, condannandole con quella terribile parola: Guai a voi! Essi non sarebbero entrati nel regno dei cieli e non permettevano che altri vi entrasse, con la scusa di tutelare la Legge di Mosè. Affettando pietà e promettendo lunghe orazioni, spillavano denaro dalle vedove, fingendo di voler consolare il loro dolore e di voler suffragare i loro morti.
Si mostravano zelanti nel fare proseliti alla Legge, ma con l'unico scopo di formare un numero maggiore di affiliati alla loro setta, più perversi di loro, e figli di perdizione. Il loro insegnamento, infatti, era falsato ed arbitrario, ed essi interpretavano la Legge a modo loro. Gesù Cristo porta un esempio di questa falsità a proposito del giuramento. All'apparenza si mostravano scrupolosi, e mentre era prescritto di pagare solo le decime del finimento e dei frutti (Lv 17,30; Dt 14,22), essi le pagavano anche delle più piccole erbe aromatiche, come la menta, l'aneto e il cumino, ma dimenticavano la Legge nelle sue prescrizioni più gravi, e manomettevano la giustizia coi loro soprusi, la misericordia coi loro inveterati odi e la fede, cioè la fedeltà al Signore, con le loro gravi trasgressioni. Questi erano doveri precisi e gravi che si dovevano compiere, mentre che le opere di supererogazione potevano farsi e in ogni caso dovevano farsi con vero spirito di pietà e non per ipocrisia.
Gli scribi e i farisei, al contrario, temevano di contaminarsi ingoiando un moscerino, e perciò filtravano i liquidi per evitare il pericolo d'ingoiarne nel caso qualcuno, mentre ingoiavano in realtà trasgressioni così gravi contro lo spirito stesso della Legge, che in paragone si sarebbero potuti paragonare alla mole di un cammello. La loro purezza era tutta esterna, e si curavano di lavare i piatti e i bicchieri diligentemente, senza badare a purificare la coscienza dai peccati; erano perciò come sepolcri imbiancati che sembrano belli all'esterno, mentre dentro sono pieni di putredine e di ossa.
Gli scribi e farisei avevano premura di elevare sontuosi monumenti sepolcrali di profeti uccisi dai loro padri, ed apparentemente stigmatizzavano quei delitti; ma essi stessi se ne rendevano rei perseguitando quelli che il Signore inviava loro per convertirli, e perseguitando soprattutto il Redentore. Con questo manifestavano chiaramente di avere il medesimo spirito dei loro padri, ed essendo coi fatti conniventi alle loro malvagità, ne colmavano la misura, e dovevano raccogliere un castigo proporzionato a tanta empietà. Essi avevano lo spirito di Caino nell'uccidere per invidia gl'inviati di Dio, e lo spirito dello scellerato Gioas, che fece uccidere il sacerdote Zaccaria tra il Santo dei Santi e l'altare degli olocausti (2Cr 24,20) perché aveva rimproverato il popolo per la prevaricazione dalla Legge divina.
Gesù Cristo, dicendo che tutto il sangue giusto sparso da Abele a Zaccaria sarebbe caduto sulla generazione che gli era contemporanea, allude evidentemente al delitto che contro di Lui stavano per consumare gli Ebrei, del quale erano figura i delitti passati. Ognuno dei misfatti passati aveva un grado di responsabilità proporzionato alla persona soppressa; ma il delitto di uccidere il Figlio di Dio era tale, che cumulava sulla generazione contemporanea tutte le responsabilità passate che lo figuravano. La nazione poi era un'unica personalità morale, ed era giusto e logico che, colmati i suoi delitti in quello dell'uccisione del Redentore, fosse chiesto conto alla generazione deicida di tutti i delitti, come si chiede conto di un debito agli eredi.
Gesù Cristo apostrofa con parole severissime gli scribi e farisei, chiamandoli serpenti e razza di vipere, cioè astuti avvelenatori del popolo e, perché Egli conosceva bene le loro insidie e le loro congiure, domandava loro come avrebbero fatto a scampare dalla condanna dell'inferno. Evidentemente il suo Cuore era angosciato per questo, ed Egli parlava severamente per allontanarli dall'abisso che minacciava d'ingoiarli. Volgendosi a Gerusalemme poi, l'apostrofò con parole cocenti di amore e con severe minacce, annunziando ad essa e a tutto Israele la completa rovina della nazione e il completo eclissamento del Redentore da loro, fino a che, convertendosi alla fine dei tempi, l'avessero riconosciuto invocandolo come vero Messia: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 19 agosto 2014

19.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 19 par. 6-7

6. Il premio della rinunzia di tutto per amore di Dio
Quando Gesù disse che era difficile ad un ricco entrare nel regno dei cieli, gli apostoli ne furono sbigottiti e dissero: Chi potrà dunque salvarsi? Essi non erano ricchi, eppure tremarono, perché lessero sul volto di Gesù una profonda tristezza. San Pietro, però, quasi a rialzare il coraggio dei suoi compagni, avendo coscienza di aver lasciato tutto, domandò risolutamente che cosa sarebbe toccato di premio ad essi che avevano tutto abbandonato per seguirlo. Quello a cui avevano rinunziato rappresentava in realtà poca cosa, poiché essi erano gente del popolo e pescatori, ma innanzi a Dio aveva un grande valore, perché l'avevano abbandonato per acquistare una ricchezza eterna; perciò Gesù rispose che essi che lo avevano seguito, cioè che avevano fatto di più che rinunziare a povere cose della vita, sarebbero stati come re, elevati su troni di gloria per la potestà spirituale che avrebbero avuto nel regno di Dio, ossia nella Chiesa, ed uniti a Lui nella potestà, sarebbero stati con Lui nell'eterna gloria, ed avrebbero partecipato alla sua glorificazione innanzi a tutte le genti quando sarebbe venuto a giudicare il mondo.
Essi, i disprezzati dagli scribi e farisei, ai quali veniva spesso rinfacciato di seguire un ideale fantastico, dopo la sua morte e la sua risurrezione, e dopo la sua ascesa al cielo, sarebbero stati i giudici delle dodici tribù d'Israele, cioè di tutte le anime del nuovo popolo di Dio, figurato dalle dodici tribù; avrebbero avuto una potestà mirabile che li avrebbe fatti pescatori di anime e custodi degli eterni tesori acquistati dalla redenzione. La storia conferma le parole di Gesù Cristo, poiché se si volesse guardare solo al sepolcro degli apostoli, si dovrebbe dire che nessun imperatore ne ebbe uno più glorioso e magnifico di quello, e soprattutto di san Pietro, il capo di tutti. Se poi si riflette il principato spirituale dei poveri pescatori di Galilea, si vede ancora di più quale premio raccolsero della loro rinunzia. Se si considera, infine, la gloria eterna che li ha coronati, l'anima rimane estatica innanzi alla generosità della bontà del Signore, che non ha confini, e giudica tutte le ricompense umane date ai grandi conquistatori come cose da nulla.
Parlando agli apostoli Gesù Cristo volse il pensiero a tutti quelli che per amore di Dio avrebbero rinunziato alle cose della vita presente per servire Dio solo; pensò ai religiosi, alle religiose, ai sacerdoti, ai missionari, ai poveri volontari, e promise loro come premio il centuplo in questa vita e la vita eterna nell'altra. Parlò di quelli che avrebbero fatto una vera rinunzia, non di coloro che avrebbero voluto conciliare la vita perfetta con le loro proprie esigenze, e promise il centuplo ai primi soltanto. Essi rinunziano ad una famiglia terrena, ed acquistano una famiglia spirituale; rinunziano ad una paternità fisica, ed acquistano quella dello spirito, immensamente più feconda; rinunziano agli agi della vita, e sono provveduti dalla divina bontà in misura abbondante; rinunziano a povere attività terrene ed hanno in cambio attività trascendenti ogni umana potenza. Sono liberi dalle sollecitudini della vita materiale, contemplano le stupende meraviglie della fede, si saziano di grazia, di preghiera e di amore nella pace dello spirito, pace che trascende ogni felicità.
Chi potrebbe essere così stolto o così superficiale da rinunziare alle vie della pace e della vera felicità interna, per camminare per le vie del mondo? Chi potrebbe aspirare ad una creatura che ha solo spine di angustia da dare, e disconoscere l'immensa felicità di appartenere interamente a Gesù Cristo?
Rinascono le aspirazioni della carne e del mondo quando si è avuta la sventura di smarrire quelle dello spirito, per incorrispondenza alla grazia o per abbrutimento nelle colpe; allora chi ebbe il centuplo si trova in realtà vuoto di mondo e vuoto di Dio, e perciò Gesù Cristo ci avverte che molti, che erano i primi nelle vie della felicità, saranno gli ultimi, e quelli che sembrano ultimi perché spregiati dal mondo, saranno i primi, ricchi incommensurabilmente di ricchezze che nulla può equiparare in questa povera terra.
I primi saranno gli ultimi, perché in realtà non c'è essere più infelice di chi si è dato prima interamente a Dio, e poi diventa infedele e desidera nuovamente il mondo; il mondo non lo sazia, e il rimorso della perduta grazia amareggia la vita fino alla disperazione. Gli ultimi saranno iprimi, perché non c'è un cuore più ricco di grazia di quello che nella via di Dio trova le contraddizioni e le croci, né c'è una creatura più lieta di quella che sembra oppressa sotto l'incubo dell'umiliazione, quando la pazienza e l'amore fanno sbocciare dall'umiliazione i fiori della grazia sovrabbondante di Dio.

lunedì 18 agosto 2014

18.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 19 par. 5

5. La gioventù e le false ricchezze che l'allontanano da Gesù Cristo
La delicata carità di Gesù Cristo verso i fanciulli aveva attratto l'attenzione di un giovane che passava di là, il quale, affascinato da tanta dolcezza, si avvicinò a Gesù e lo chiamò Maestro buono, proprio per la bontà che mostrava coi piccoli, domandandogli che cosa dovesse fare di bene per ottenere la vita eterna. Gesù era tutto assorto nel Padre suo, infinita bontà, sommo bene, unica meta delle creature e, sentendosi chiamare buono e interrogare del bene, esclamò, quasi continuando nella sua interiore contemplazione di amore: Perché
m 'interroghi del bene? e secondo san Marco e san Luca: Perché mi chiami buono? Uno solo è buono: Dio, e non si deve stentare a trovare il bene, giacché Egli è il sommo bene, a cui deve tendere l'anima con tutte le sue forze. Gesù forse volle dare anche un ammonimento ai farisei, che con facilità si scambiavano titoli di onore, attribuendosi spesso quello che avrebbero dovuto dire solo a Dio. Ad ogni modo Egli volle indirettamente affermare che quel titolo gli poteva competere unicamente perché era anche vero Dio.
Il giovane, essendo ricco, era naturalmente ampolloso e amante dello straordinario e delle avventure. Questo è comune nelle anime che hanno poco fondamento di virtù, e che, entusiasmandosi in un momento per il bene, immaginano di dover intraprendere vie misteriose, eccezionali, e magari clamorose.
Il giovane aspettava sentirsi parlare di cose grandi, e si illudeva di essere capace di ogni eroismo, perché l'anima sua era tesa verso ideali vaporosi di grandezza spirituale, che, non essendo concreti, non gli offrivano alcuna difficoltà. A chi sogna una perfezione immaginaria sembra facile il martirio, perché in realtà non lo affronta, mentre si disorienta di fronte alle più normali rinunzie della vita. Gesù Cristo disse al giovane che egli doveva osservare i comandamenti. Una risposta che era per lui una delusione, poiché si aspettava l'esposizione di chi sa quali dottrine peregrine. Ma volle insistere, perché sospettò che il Redentore potesse alludere a speciali precetti emanati da Lui, e domandò quali comandamenti dovesse osservare. Gli scribi e farisei avevano estratto dalla Legge di Mosè 613 comandamenti, e forse il giovane pensò anche a questi. Gesù gli rispose accennandogli i comandamenti di Dio, e si fermò su quelli riguardanti il prossimo, perché i più facili ad essere manomessi dai ricchi. Tanto spesso, infatti, i nobili e i benestanti si contentano di qualche sterile pratica di religione, e non fanno conto del prossimo, commettendo con indifferenza ingiustizie, soprusi, disordini e mancanze di carità.
Il giovane rispose che quei precetti li aveva osservati fin dalla sua gioventù, e san Marco soggiunge che Gesù, miratolo, dopo questa risposta, lo amò; egli dunque aveva parlato con sincerità ed era un ricco timorato di Dio. Nel suo vago desiderio di seguire una via più perfetta, insistette a domandare che altro dovesse fare, e Gesù gli consigliò la rinunzia di tutto, il distacco completo dalla sua vita e la generosa carità verso i poveri, esortandolo a seguirlo. Ripugnava troppo a quel giovane il privarsi di tutto, avendo molti possedimenti, e perciò se ne andò contristato. Gesù ne fu addolorato grandemente, come traspare dall'insistenza con la quale disse che un ricco difficilmente sarebbe entrato nel regno dei cieli; Egli anzi, per esprimere questa difficoltà, si servì di un proverbio comune nel popolo ebreo:
E più facile che un cammello passi per la cruna di un ago.
Gesù Cristo non parlò propriamente dell'eterna salvezza, ma dell'entrata nel regno dei cieli, ossia della vita perfetta e santa. Gli apostoli forse capirono che Egli parlava della salvezza, come si rileva dal contesto, ma è evidente che la frase del Redentore si riferiva al discorso avuto col giovane sulla via più perfetta che quegli avrebbe voluto abbracciare. È evidente ancora che Gesù parlava dei ricchi che rimangono tali nell'anima, cioè attaccati alle loro ricchezze, egoisti, duri e mancanti di carità. Certo è difficile che un ricco, soprattutto se è giovane, si dia alla vita perfetta che è vita di sante e salutari rinunzie; il mondo stesso l'attanaglia nelle morse delle supposte esigenze e convenienze del proprio stato, tentando di formare quell'ibridismo religioso e mondano che purtroppo è comune nella nobiltà e nei ricchi. Dissimularselo sarebbe un volersi turlupinare.
Se si riflette che noi siamo per il cielo e che la maggiore gloria che vi conseguiremo dipenderà dai maggiori sacrifici che avremo fatti in vita, quale ricco e quale giovane potrà prendere alla leggera la parola di Gesù Cristo? Anche se per un ricco la salvezza eterna potesse essere relativamente facile, non sarebbe un danno immenso la privazione di un solo grado di gloria eterna?
Il giovane ricco aveva molte proprietà, e non si sentì l'animo di staccarsene, e la gioventù spesso crede di avere molta ricchezza di sentimento, di forza, d'intelligenza, e non segue la via della perfezione, credendola impossibile. Ama divertirsi, e nell'esuberanza delle sue aspirazioni s'illude facilmente, e scambia l'abisso per altezza. Deve darci da pensare quest'aberrazione, che può essere fatale all'eterna salvezza! La via della virtù non è facile, perché è rinunzia, ma non è impossibile, perché la si percorre con l'aiuto della grazia di Dio. Tutto sta a cominciare, ed a rimanere fedeli alle prime mozioni della divina bontà. Quanti giovani cominciano bene la vita, osservano la divina Legge e, quando giungono all'età delle passioni, si arrestano dinanzi alle rinunzie, e cadono nell'abisso dell'impurità e del male! Quanti giovani vorrebbero in quell'età apparire cristiani senza cessare di essere mondani, e volgono le spalle a Gesù, prendendo un atteggiamento da miscredenti che tradisce troppo la loro miseria morale! Inesperti ed ignoranti come sono, vanno cercando la giustificazione della loro bassezza, e abbracciano con stupida acquiescenza tutte le fandonie che i perversi fanno circolare contro la fede e contro la Chiesa, mostrandosi a tutti triste spettacolo d'incoscienza, di presunzione e d'inciviltà morale!

Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 17 agosto 2014

17.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 15 par. 4

4. La Cananea, esempio pratico di una grande virtù sotto umili apparenze
Gli scribi e farisei nelle loro opposizioni al Redentore non si contentavano solo di parole, ma tentavano passare ai fatti e ordivano congiure contro di Lui per liberarsene. Gesù Cristo, per impedire una recrudescenza del loro odio, si allontanò dalla pianura di Genesaret, dove si trovava, e passò nelle parti di Tiro e Sidone, cioè tra gente Cananea. Egli annunziava così col fatto che la parola della verità, rigettata dal popolo ebreo, sarebbe passata ai pagani; non andò in quei luoghi per evangelizzarvi il popolo, ma per indicare quello che sarebbe avvenuto in futuro e, conoscendo tutto, vi andò per mostrare con un esempio pratico agli apostoli, disorientati dalla propaganda farisaica, che cosa significasse avere fede. È evidente dal contesto che Egli stesso attrasse a sé la povera Cananea, che andò a supplicarlo per la figlia indemoniata, anzi può dirsi che sia andato esclusivamente per lei in quelle contrade, non avendovi operato altro.
La fama dei suoi miracoli si era sparsa in ogni luogo, e forse la Cananea aveva tante volte desiderato incontrarsi con Lui, per supplicarlo in favore della figlia. Forse aveva pregato con viva fede credendolo il Messia, il fatto si è che, appena saputo della sua presenza, gli corse incontro, chiamandolo Figlio di Davide e Signore, e confessandolo per Colui che doveva venire.
La sua preghiera fu semplicissima: essa espose il suo caso doloroso, e lasciò a Lui la cura di pensarci.
Pregò con fede nel chiamarlo Figlio di Davide, con umiltà nell'implorarne pietà e con fiducia esponendogli il suo caso doloroso tra grida di suppliche. Gesù non le rispose nulla, sembrò insensibile a quell'angoscia materna, Egli che aveva un cuore infinitamente tenero.
La donna non si scoraggiò, continuò a gridare e gli apostoli, presi dalla compassione, lo supplicarono a sbrigarla. Egli rispose che non era stato mandato che alle pecore perdute della casa d'Israele.
Con queste parole non intese dire di non voler esaudire la preghiera di quella donna, ma volle mostrare agli apostoli, in una durezza che li addolorava, quanto era contrario alla carità la durezza di chi s'irrigidiva in una legge esteriore senza tener conto del suo spirito.
Dal suo Cuore però partivano raggi di carità invisibili che colpirono la donna, la fecero più ardita e la fecero avvicinare a Lui implorando aiuto. Gesù rispose che non era bene prendere il pane dei figli e darlo ai cani. Chiamò cani i pagani, non perché l'amor suo li stimasse tali, ma perché così li riguardavano gli scribi e i farisei.
A bella posta volle far sentire agli apostoli, in un contrasto con una madre supplicante, quanto fosse ingiusto il disprezzo che gli Ebrei avevano dei pagani. Essi vedendo quel disprezzo in confronto con Lui, carità per essenza, ne distinguevano di più l'orrore. Egli poi, dicendo una parola così dura alla povera Cananea, le fece sentire contemporaneamente con quale carità la riguardava; il suo Cuore divino la provava e le dava la grazia per resistere alla prova. La Cananea, infatti, rispose con maggiore fede che anche i cagnolini mangiavano le briciole che cadevano dalle mense dei loro padroni. Era indegna del pane dei figli, e come cagnolina voleva raccogliere solo una briciola di quella potenza taumaturga con la quale Egli colmava di benefìzi tanti poveri infelici. Era questa la più grande espressione di una fede umile e sincera, e Gesù, mutando d'un tratto atteggiamento, ed elogiando tanta fede, la esaudì e, in distanza, con una parola di onnipotenza, le sanò la figlia.
La lezione era tutta rivolta agli apostoli titubanti; essi dovettero riconoscere che non avevano quella fede profonda che sa resistere alle prove; dovettero capire quanto superiore agli scribi e farisei era quell'umile donna, che aveva nel cuore un tesoro di fede sul Messia, e si sentirono rinfrancati nello spirito. Gesù poi, partito di là, e andato verso il mare di Galilea, cioè sulla riva orientale del lago di Genesaret, vi operò moltissimi strepitosi miracoli, confermando così la fede dei suoi apostoli.
Muti, ciechi, zoppi, storpi e molti altri infermi sperimentarono la sua potenza e ne furono consolati spiritualmente e corporalmente.
Quante volte, pregando, ci sembra che Gesù Cristo, la Madonna e i santi non ci ascoltino, e l'anima si disorienta a volte fino a sentirsi venir meno la fede! Quante volte, in questi momenti di tenebre, satana ci suggerisce che è vano pregare e ci getta in una cupa disperazione che è forse il tormento maggiore della vita! Eppure in quei momenti di oscurità, proprio allora, dobbiamo intensificare la preghiera, perché la fede esca ingigantita dalla prova ed ottenga grazie maggiori di quelle che ha richieste. Si può dire con assoluta certezza che nessuna preghiera è vana, e che quando non ci vediamo esauditi ci si prepara una consolazione più grande, temporale ed eterna. Non siamo degli abbandonati nel mondo, non siamo dei reietti, siamo figli del Padre celeste, ed Egli ci riserba il suo pane, cioè la ricchezza delle sue misericordie.

Sac. Dolindo Ruotolo

sabato 16 agosto 2014

16.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 19 par. 4

4. I fiori dell'innocenza in mezzo al lezzo delle umane miserie. Il diritto e il dovere dell'educazione della gioventù spetta alla Chiesa totalitariamente
Mentre Gesù confondeva i farisei ed affermava i diritti della purezza, gli furono presentati dei fanciulli affinché imponesse loro le mani e pregassero per loro. I discepoli li sgridavano, perché quei piccoli non si affollavano intorno al Redentore senza fare ressa e con essa senza il chiasso che è quasi il retaggio di quell'età. Ma Gesù esortò gli apostoli a lasciarli avvicinare, ed implicitamente a non pretendere che stessero quieti. Quei gruppi d'innocenti, infatti, erano come corimbi di fiori appena sbocciati, in mezzo al lezzo delle umane miserie; quelle voci argentine erano come il canto verginale che soffocava le voci rauche degli insidiosi e corrotti farisei; quei piccoli erano i candidati del regno di Dio, poiché essi ne avrebbero più tardi raccolto l'eredità, formando le falangi più belle della Chiesa nascente. Gesù perciò volle vederli e benedirli, imponendo loro le mani, quasi a prenderne possesso e volle con le sue parole di benevolenza consacrare, per così dire, l'apostolato della Chiesa per i fanciulli.
Le nazioni hanno un problema demografico e si preoccupano della natalità per rinnovare le forti generazioni che debbono mantenere intatto il patrimonio morale e materiale conquistato nei secoli, la Chiesa ha il problema meraviglioso delle anime che debbono accrescere le falangi dei beati nel cielo, incamminandosi in terra per le vie della divina Legge. Il mondo scellerato tende le sue insidie ai pargoli, specialmente oggi, e rinnova tanto spesso nello spirito la strage degli innocenti; la Chiesa li tutela e li accoglie, difendendoli con tutte le sue forze. Tutta la potenza dell'apostolato incessante della Chiesa verso i piccoli ha la sua viva radice in queste parole vivificanti di Gesù: Lasciate stare i fanciulli, e non vogliate loro impedire di venire a me, poiché di essi è il regno dei cieli.
L'anima dei fanciulli è naturalmente teologica, se può dirsi così, poiché essi intendono, più degli stessi adulti, le grandezze di Dio, ed accolgono nel candore verginale i più fulgidi raggi della grazia; i piccoli sono capaci di veri eroismi di infantile amore verso Dio, e quando sono curati veramente, non tanto con un'azione esterna e disciplinare quanto con un'azione interna di grazia, sono capaci di virtù commoventi nella loro semplicità. Sono allora piccoli eroi, generosi nei loro slanci e nei loro sacrifici, pronti alle chiamate della grazia, abbandonati all'azione di Gesù, menti limpide come cristalli, nelle quali rifulge il sole dell'eterna verità senza trovare ostacoli nelle oscure diatribe della povera ragione umana.
Negli adulti si può dire che la fanciullezza sta nella ragione e nella volontà, poiché là si annidano le più stupide e puerili concezioni delle verità della vita; nei fanciulli invece la saggezza semplice, che è luce di fede e di grazia, sta nella ragione e nella volontà. Gli adulti specialmente se traviati, hanno spesso delle concezioni infantili nel senso brutto della parola; sono i pettoioni veri e propri, i mocciosi dello spirito, che, come bambini poco educati non hanno più il dominio delle loro funzioni più delicate e lasciano come impronta del loro passaggio l'inopportuno deposito delle scorie della vita e vi giocano come se fossero rigagnoli di bontà e di vita. I piccoli innocenti, invece, i fiori fecondati dal Sole eterno, sono adulti nell'anima, hanno aspirazioni eterne, intendono la dolcezza delle effusioni della grazia, esultano candidamente in Dio, e perciò Gesù disse: Di essi è il regno dei cieli; di essi e di quelli che a loro s'ispirano, come aveva già detto. Lasciate che i fanciulli vengano a me! Con queste parole divine Gesù stabilisce il diritto divino della Chiesa sulla educazione dei piccoli, diritto esclusivo ed insostituibile.
Nessuno stato, sotto qualunque forma o pretesto, può pretendere di monopolizzare la formazione dei piccoli, perché contro questi sforzi si leva la voce di Gesù: lasciateli stare.
I fanciulli per diritto naturale sono affidati alla madre, e nelle vie dello spirito la madre è una sola: la Chiesa. Gli stati sono contingenti, i valori da essi apprezzati sono elastici e spesso capovolti; i fini delle loro attività sono temporali e spesso anche tenebrosi, come avviene negli stati apostati od agnostici, le influenze sotto le quali vivono sono spesso infami, e sempre politiche, cioè opportunistiche del momento e materiate di menzogne; essi non possono con le minacce materiali, che hanno, toccare i fiori innocenti senza sfrondarli, né possono presumere di sfrondare i rami fioriti che debbono fruttificare per l'eternità, per formarne delle nude verghe del fascio littorio o dei militi della conquista umana.
Lo diciamo alto, perché è diritto di Dio, ed è grido della ferita maternità della Chiesa: è delitto contro Dio e contro la società profanare l'innocenza che è di Dio, i figli della grazia e dell'amore, e chiamarli figli della lupa, soffocando i sospiri dell'anima pura nelle atmosfere asfissianti di un brutale militarismo, che disdice a chi può avere solo ali di angelo, come disdirebbe un unghione di tigre sull'aurata farfalla che vola per aspirare la luce.
E spaventoso delitto ed è barbarie senza nome profanare l'innocenza assoldandola fra le falangi di satana, e caricando di dinamite il bocciolo di rosa che dovrebbe aprirsi solo per profumare di bontà l'aria appestata delle città di satana, dove rugge l'ira, esplode l'odio e vibrala spada insanguinata, seminando la strage.
È usurpazione sfacciata il presumere uno stato educatore, perché lo stato non può educare, essendo nella sua stessa essenza adulto, ed esplicando la sua attività nella vita già organizzata, nella società cioè in quanto si muove verso ciò che è mezzo alla vita ed alla convivenza umana. L'anima è affidata alla Chiesa perché è di Dio; è un valore che non può essere oggetto di leggi che vengono dalla terra, è una ricchezza che solo la Chiesa può custodire e deve custodire.
Le scuole, le università, gli istituti di educazione debbono stare nelle mani della Chiesa, e lo stato in questo deve dipendere unicamente da Lei.
Non si tratta, infatti, di comunicare ai piccoli o ai giovani soltanto un'idea filosofica, elastica, equiparabile ad un'altra, si tratta di dare loro la verità e la vita ed incamminarli per la via dell'eterna felicità. Questo compito non può assolverlo lo stato, in nessuna maniera, come non potrebbe il maniscalco coi pesanti martelli del mestiere forgiare l'eburnea statua che deve figurare tra le manifestazioni più delicate dell'arte.
Lasciate che i fanciulli vengano a me! dice il Signore; questo è grido di attualità, e per questo vi ci fermiamo, perché la strage dei fanciulli è generale nel mondo, e la Chiesa geme per questo, come la mamma alla quale sono stati sottratti i figli. Deve finire questa leva in massa dei piccoli unicamente sospinti verso mete più o meno dissimulate di odio, di guerra, di strage, di rovine, di prepotenza, di passioni e di abbrutimenti tanto spaventosi quanto meno hanno il freno della ragione e della legge naturale. I fanciulli delinquenti dei paesi apostati, che girano come piccoli lupi affamati, precoci nel delitto e sommersi nel fango, sono un grido di maledizione contro i monopolizzatori della gioventù, e dicono chiaramente a tutte le genti che negando il diritto assoluto e totalitario della Chiesa nell'educazione, ogni assassino o delinquente, che sale al potere con la forza delle bombe e dei pugnali ha la triste potenza di mutare in pochi anni la nazione in un covo di belve! Il mondo non può negare il diritto della Chiesa senza negare ogni fondamento di giustizia, di civiltà e di elementare tutela di ogni diritto umano; la Chiesa è quella che mantiene acceso il sacro fuoco della nobiltà umana, è l'unica riserva di energie sane, anche umanamente parlando, è l'unica che educando impedisce le catastrofi dei popoli.
Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 15 agosto 2014

15.08.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 1, par. 5-13

5. L'incontro con sant'Elisabetta. La fede che dona un linguaggio di vita: Magnificat anima mea Dominum!
Maria si pose in viaggio per le vie deserte dei monti e camminava frettolosamente. Cercava la solitudine, perché aveva un gran bisogno di amare in silenzio, e correva perché era quasi come spirito e non avvertiva il peso del corpo.
Chi ha provato un momento d'intimo amore con Dio sa quanta vita esso trasfonde in tutto il corpo, rendendolo più sottomesso all'anima, più docile strumento dello spirito; questa vita dovette essere immensa in Maria, tutta avvolta dalla fiamma dell'eterno Amore. Non poggiava quasi sul suolo e, come colomba librata al volo, divorava la via. Correva senza affannare, spinta come da un vento, giacché la creazione le faceva quasi riverenza, e l'aria stessa s'apriva innanzi a Lei, per non opporre resistenza ai suoi passi. Correva esultando nel suo spirito, con passo sicuro e senza timore, giacché la gioia pura dell'anima dà anche al corpo un novello vigore ed una maggiore decisione nei suoi movimenti. I suoi sentimenti si arguiscono da quelli espressi a sant'Elisabetta, espressione magnifica dell'anima sua benedetta: glorificava Dio, esultava in Lui Salvatore, vivente nel suo seno, si umiliava e considerava la sua grande missione nei secoli, attribuiva al Signore tutta la propria grandezza, e considerava le conseguenze della misericordia fatta da Dio alla terra, la dispersione dei superbi, l'umiliazione dei grandi e l'elevazione degli umili. Era piena di Dio, conversava con Lui, lo amava d'intenso amore, piena di riconoscenza per il compimento delle promesse fatte da Lui ad Abramo ed alla sua discendenza; cantava nell'esultanza del suo spirito, ed esplose nella pienezza del suo amore innanzi alla santa cugina.
Il saluto di Maria
Giunse presto in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta, dice il Sacro Testo. Non salutò il consorte di lei o per delicatezza, sapendolo muto e non volendolo mortificare parlando, o perché sapeva che era momentaneamente assente. Salutò con le parole allora più in uso. La pace sia con te, o con altra simile espressione, ed al suono della sua voce il bambino di Elisabetta trasalì di gioia nel seno di lei, ed essa fu ripiena di Spirito Santo.
La voce benedetta di Maria era come la voce stessa del Verbo Incarnato in Lei, giacché Egli ne possedeva e ne elevava tutta la vita; era voce santa e santificante che operò quello che diceva come augurio di pace, ed operandolo nello stesso tempo santificò il Battista nel seno materno, e ne santificò la madre riempiendola di Spirito Santo.
Elisabetta vide Maria nello splendore della sua sovrumana bellezza e ne rimase profondamente colpita. Il cammino fatto sollecitamente le aveva anche fisicamente ravvivato il colore del volto: l'espansione con la quale le si rivolse aveva fatto come affiorare tutta l'anima sua nelle linee del corpo purissimo era come un'opera d'arte mirabile, un misto di semplicità e di maestà grande, un insieme di umiltà e di gloria, un'armonia di gioia profonda e di compostezza imperturbabile; era bellissima come non lo fu mai nessuna creatura, e rapiva perché spirava santità e pace da ogni movimento e da ogni parola.
Era ancora fanciulla, aveva poco più di quindici anni, e benché fosse già sviluppata, portava nella sua persona la casta ed affascinante ingenuità propria dell'adolescenza. Era come un fiore aperto alla vita e, perché aperto per virtù dello Spirito Santo, conservava intatto quel candido fulgore di integrità che è proprio delle vergini. Sembrava un angelo del Paradiso, più di un angelo, fulgente nei raggi della divinità che in Lei riposava, e diffondeva intorno una soavissima unzione di grazia che saziava lo spirito e lo inebriava di amore verso di dìo. La sua voce non era voce di umana creatura: aveva qualche cosa di misterioso, penetrava il cuore come grazia, e lo pacificava con una grande soavità; era come una melodia sommamente espressiva tratta da uno strumento dolcissimo.
Il saluto di sant'Elisabetta
Sant'Elisabetta, perciò, al vederla così grande e così bella, esclamò per ispirazione interna dello Spirito Santo: Benedetta sei tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno. L'abbracciò, la strinse al cuore quasi con effusione materna, giacché essa era già avanzata di età; ma nello stringerla sentì in lei qualche cosa di divino, capì per grazia il mistero della sua Maternità divina, sentì che abbracciava la Regina del cielo e soggiunse: E da dove a me questa grazia che la Madre del mio Signore, cioè del mio Dio fatto uomo per la salvezza di tutti, venga a me?
Con queste ispirate parole fu come scolpita per i secoli la testimonianza della divina Maternità di Maria e della sua ineffabile grandezza. Essa non è indifferente ai salvati dal Redentore, lo porta loro, lo dona, effonde la sua grazia e la sua misericordia, dona la sua gioia, santifica in suo nome, ed è inseparabile da Lui nell'opera della salvezza.
Se fosse stata solo un canale per il quale passò il Redentore, come dicono stoltamente i poveri protestanti, Elisabetta, ripiena dello Spirito Santo, si sarebbe rivolta non a Lei ma al Figlio divino che le stava nel seno; essa invece la esaltò benedetta fra le donne, e chiamò frutto suo il Redentore, frutto della sua pianta purissima, che, evidentemente, Essa sola poteva dare. La pianta non è un semplice canale del frutto, lo genera, lo nutre; lo matura e lo dona; bisogna andare alla pianta per averlo, e senza la pianta è impossibile coglierlo.
Elisabetta vide in Maria tutto quello splendore di vita, e lo paragonò inconsciamente all'umiliante abbattimento nel quale il suo sposo, muto e sordo era venuto a lei dopo la visione dell'angelo, capì che la fede nella parola dell'angelo aveva in lei realizzato il grande mistero, come l'incredulità del marito aveva cagionato a lui la mutezza e la sordità. Psicologicamente quell'infermità del marito le era stata cagione di non pochi fastidi nel governo della casa, e quindi esclamò: Te beata che hai creduto poiché si adempiranno le cose dette a te dal Signore.
Il cantico sublime di Maria
Maria a quelle parole di lode sentì l'anima sua tutta tratta in Dio; l'umiltà le dava il senso della sua nullità innanzi a Lui; la riconoscenza le faceva attribuire tutto alla sua infinita misericordia; la luce divina che la illuminava le faceva guardare i suoi disegni su di lei ed i trionfi delle sue misericordie nei secoli, fino alla fine del mondo; perciò levando al cielo gli occhi esclamò: L 'anima mia magnifica il Signore.
Mai uscì da labbro umano un cantico più sublime di gioia, mai un cuore si aprì a Dio con tanto riconoscente amore, mai l'umiltà più profonda fu armonizzata così mirabilmente con la verità, in modo da formare una melodia di annientamento e di grandezza, di piccolezza e d'immensità, di bontà e di forza che affascina l'anima e la unisce alla gioia ed ai sentimenti di Maria.
Le reminiscenze scritturali del cantico di Anna, dei salmi e dei profeti che si trovano nel sublimissimo cantico, non mostrano solo la familiarità di Maria con le Sacre Scritture, ma sono come la luce delle profezie e delle figure passate che s'incontrano con la realtà e col compimento delle promesse di Dio e, lungi dall'offuscare l'originalità del canto, lo rendono nella sua concisa semplicità più splendente e più bello. Esso è come il fiore di tutto l'antico patto ed è la gemma feconda del nuovo; è il compimento delle antiche speranze e la speranza nelle nuove misericordie; è la sintesi delle compiute aspirazioni del passato, è un rapido sguardo alla storia del futuro, fino al compimento dei secoli, è il programma della vita di un'anima redenta e la sintesi delle sue elevazioni di amore; è, infine, lo sprazzo fulgente della vita del Verbo Incarnato e della medesima Madre che lo portava nel seno. In tutta la storia del regno di Dio è una voce sempre viva, in tutto lo sviluppo della Chiesa è un programma sempre attuale, in tutte le ascensioni dei santi, è una voce sempre armoniosa, che può raccogliere in un suono di amore le mirabili armonie della grazia in loro; è un cantico fecondo e verginale, come il cuore dal quale sgorgò ricco di significati e semplice nella sua espressione, che la Chiesa canta e ricanta ogni giorno, senza che esso esaurisca la sua gioiosa e fresca scaturigine, è il canto dei pellegrini che vanno verso la Patria eterna, degli apostoli che percorrono la terra diffondendo il lieto messaggio, dei martiri che attestano la verità col loro sangue, dei confessori che la propagano, delle vergini che la vivono, dei contemplativi che la gustano, degli angeli che la esaltano, delle creature tutte nelle quali ha echi di amore, ed è nota squillante del cantico eterno nell'eterna gloria.
Se si recita è una preghiera soave, se si canta è un inno trionfante che lancia lo spirito esultante in Dio, se si medita è come orto fiorito, ricco di profumi celesti. Ha un sapore sempre nuovo, un fascino sempre vivo, una delicatezza sempre verginale, che i secoli non hanno potuto mai invecchiare, perché è un cantico di vita. Che gioia, o Vergine Santa, ricevere la grazia, ricevere Gesù e poter cantare con te: Magnificat anima mea Dominami Che pace il trovarsi sul Calvario della prova e poter ripetere con te anche lacrimando, nella piena rassegnazione del cuore: Magnificat anima mea Dominum! Che dolcezza interiore elevarsi a Dio sprezzando le gioie del mondo, e ripetere nel volo dell'anima al Bene eterno: Magnificat anima mea Dominum! Che poesia d'amore recitare con la Chiesa le grandi preghiere liturgiche, sentirsi sazi di elevazioni interiori, e volgere tutta l'anima a Dio in questo canto deH'anima tua, o Maria: Magnificat anima mea Dominum! Che conforto nelle aridità dello spirito, quando la povera nostra fontana s'è come essiccata e non dà una goccia, ravvivare la scaturigine del cuore con questo tuo canto, e dare la vita alla povera terra inaridita: Magnificat anima mea Dominum!
Anche a costo di dilungarci noi non possiamo passare oltre senza dare almeno uno sguardo fugace a questi aspetti luminosi del cantico di Maria, ed a dilettarci nella molteplice rifrazione di questa gemma preziosissima del Nuovo Patto.
Non possiamo non commentare il profondo significato di questo canto di amore, che c'è stato donato per cantare a Dio la riconoscenza del nostro amore, perché uniti alla voce verginale della Mamma nostra, possiamo essere meno ingrati all'Amore che per noi discese dal cielo, e per amore ci redense col suo preziosissimo Sangue.
San Zaccaria non credette all'angelo e rimase muto e sordo fino al compimento della promessa; Maria credette e parlò, anzi cantò con una melodia che abbracciò tutti i secoli. Noi, figli suoi, cantando con Lei viviamo della sua grande fede, partecipiamo alla beatitudine del suo cuore: Beata quce credidisti, e ci rendiamo meno inetti al compimento dei disegni di Dio in noi.

giovedì 14 agosto 2014

14.08.2014 - Commento al vangelo di S. Luca estratto cap. 11 par. 4

Beato chi ascolta la Parola di Dio
Mentre Gesù parlava così, una donna alzò la voce in mezzo alle turbe e disse: Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai succhiato.
Evidentemente quella donna sentiva nelle parole del Redentore l'accento della verità e lo sentiva per qualche penosa esperienza personale che aveva fatta con quelli che gli si opponevano. Psicologicamente, infatti, l'applauso a chi parla è tanto più spontaneo e caloroso, quanto più le sue parole coincidono vivamente con le nostre esperienze personali. Chi è stato vittima di sopraffazioni da parte di prepotenti senza aver potuto reagire, e sente uno che ha il coraggio di affrontarli e di confonderli, esce in espressioni di plauso e di benedizione, che manifestano tutta la soddisfazione del suo animo, e sono uno sfogo indiretto del proprio risentimento.
L'esclamazione della donna, dopo un discorso piuttosto oscuro di Gesù, non si spiegherebbe senz'ammettere che essa medesima avesse avuto ragioni di risentimento contro gli scribi e i farisei. Perciò Gesù Cristo, senza contrastare la lode che essa dava alla sua santissima Madre, anzi confermandola ed integrandola, rispose: Anzi, beati quelli che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica. Egli voleva dire: sì, mia Madre è beata perché mi ha generato ed allattato, ma è più beata perché ha ascoltato e praticato la Parola di Dio; tu, perciò, non ti consolare dei rimproveri fatti ai tuoi oppressori, ma ascolta la parola di Dio e mettila in pratica usando carità.
inoltre, quella donna riguardava Maria come madre comune, e Gesù con le sue parole la dichiarò velatamente Madre di Dio. Essa, infatti, aveva ascoltato il messaggio celeste e vi aveva creduto, aveva accolto nel seno il Verbo sostanziale del Padre e 1' aveva custodito col suo amore, aveva ascoltato da Lui la Parola di Dio e l'aveva praticata.
Non l'aveva generato e nutrito come qualunque donna, ma aveva generato il Verbo Incarnato per opera dello Spirito Santo e l'aveva custodito come Uomo-Dio, e non come può custodirsi un qualunque figlio generato dalla carne. La donna esaltava in Maria la Madre di un profeta, e Gesù replicò per esaltare in Lei la Madre del Verbo.
Come si vede, l'interpretazione di questo versetto del Vangelo è tanto, immensamente tanto lontana dall'arbitraria interpretazione protestante, che vi vorrebbe vedere una diminuzione di Maria. Se si riflette poi che san Luca nel suo Vangelo ha voluto far rimarcare in modo particolare quello che esaltava Maria, si vede anche meglio com'è assurda la blasfema ipotesi di alcuni protestanti.
La risposta di Gesù Cristo alla donna che lo esaltava era anche diretta contro l'insinuazione degli scribi e dei farisei, che lo avevano voluto mostrare amico di satana; si direbbe, era un'esplosione dell'amore di Gesù verso il Padre fatta in pubblico, un volere stornare da sé la lode che gli si faceva, per mostrare che si curava solo della gloria di Dio e per convincere meglio le turbe che Egli era contro satana. E psicologico, infatti, anche per noi quando siamo accusati a torto di empietà, il colpire tutte le occasioni per manifestare la nostra pietà e la nostra devozione; certi sentimenti che rimarrebbero celati nel nostro cuore vengono espressi con maggiore energia, e si prospettano come esclusiva nostra preoccupazione.
Gesù Cristo ci tenne a mostrare al popolo quanto Egli apprezzasse la Legge di Dio e quanto fosse lontano da operare prestigi diabolici per raccogliere gloria, e perciò, alla donna che lo esaltò magnificando la beatitudine della Madre di Lui nell'averlo generato ed allattato, rispose con forza magnificando la beatitudine di chi ascolta la Parola di Dio e la custodisce praticandola.
Sac. Dolindo Ruotolo

14.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 18 par. 8

8. La parabola del debitore dei diecimila talenti
Per confermare questa verità Gesù raccontò la bella parabola del debitore dei diecimila talenti e di quello di cento denari. Diecimila talenti, se computati col talento attico di argento, usato in Palestina ai tempi di Gesù, equivalevano a circa 55 milioni, se computati col talento ebraico, equivalevano al doppio.
Il servo infedele dunque era debitore di una somma enorme, impagabile nonostante ogni suo sforzo. Simbolo bello questo del peccato diretto contro Dio, che non può soddisfarsi senza una misericordia infinita. Cento denari equivalevano a circa 86 lire, e stabiliscono nella parabola la proporzione dell'offesa fatta a noi in confronto di quella fatta a Dio.
Se il Signore è tanto misericordioso con noi da perdonarci ad un semplice atto di supplicante penitenza, anche noi dobbiamo essere misericordiosi verso chi è debitore verso la società, verso la Chiesa, o verso di noi di offese, o di danni.
Gesù condanna assolutamente la spietatezza verso i poveri peccatori, anche se questa spietatezza sembrasse giustificata dalla necessità di conservare l'ordine. La spietatezza non produce alcun bene, soffoca, opprime, toglie la libertà di rinsavire, inasprisce, ottenebra.
Bisogna dunque compatire e perdonare, poiché questo è l'esempio che ci dà Dio, e questo è il retaggio che Gesù Cristo ha lasciato alla sua Chiesa, perdonando sulla croce anche ai suoi crocifissori. Abbiamo, sì, orrore del peccato, riproviamolo, condanniamolo, ma abbiamo misericordia per il peccatore, pensando che anche Dio ci ha usato tante misericordie, assai maggiori di ogni nostra valutazione. Certe forme di zelo spietato non piacciono a Dio, e praticamente non giovano a nulla, poiché la durezza inasprisce e incancrenisce le piaghe. Se invece di essere spietati si pregasse per i poveri traviati, quanti frutti di penitenza si raccoglierebbero nella Chiesa!
Sac. Dolindo Ruotolo

mercoledì 13 agosto 2014

13.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 18 par. 7

7. La correzione, la preghiera e la misericordia
Avendo parlato dell'importanza di evitare gli scandali, Gesù parla della necessità di eliminarli dalla sua Chiesa, che è l'arca di salvezza per tutte le anime, esortandoci alla scambievole correzione fraterna. Se uno ha mancato contro di te, cioè se ha commesso un'azione che ti dispiace perché scandalosa, offendendoti in ciò che ti dev'essere più caro di qualunque tesoro, cioè la gloria di Dio, tu va e riprendilo fra te e lui solo. Cerca cioè di fargli capire il male che ha fatto e di esortarlo ad emendarsi.
Se lo scandaloso non ascolta la correzione, è necessario fargli parlare anche da altri, affinché l'autorità di una o più persone lo convinca, come si fa in un giudizio legale. Se neppure così si emenda bisogna avvertirne l'autorità della Chiesa, affinché provveda con le sue esortazioni o con le sue sanzioni. Se non ascolta neppure la Chiesa, allora questa lo recide da se stessa, e lo scandaloso deve essere evitato come un pagano senza fede o come un peccatore pericoloso per gli altri. Gesù ci avverte che ciò che legherà la Chiesa sarà legato nel cielo, e ciò che scioglierà sarà sciolto nel cielo, e quindi non è da pigliarsi alla leggera una sentenza da essa pronunziata. Questo è l'estremo rimedio contro gli scandalosi.
Ma Gesù non vuole che si giunga a questo che in estrema necessità perché si può vincere un'ostinata volontà, con la preghiera in comune e con la misericordia; per questo ci dice che la preghiera ispirata dalla carità è ascoltata dal cielo, e che Egli stesso, Redentore delle anime, sta in mezzo a quelli che si uniscono nel suo Nome per salvarle. Gesù Cristo, dicendo questo, parlava anche dell'efficacia di qualunque preghiera fatta in comune, ma direttamente intendeva parlare della preghiera fatta per gli scandalosi, volendo con questo insinuare maggiormente la necessità di usare misericordia. Perciò san Pietro, come capo già eletto della Chiesa, e come colui al quale dovevano far capo le cause dei fedeli, accostatosi a Gesù gli domandò fino a quante volte dovesse perdonare un peccato, e subito, credendo di proporre un limite di generosità, domandò se doveva farlo fino a sette volte. Ma Gesù gli disse: Fino a settanta volte sette, cioè quasi senza confini, perché la misericordia usata verso i peccatori attrae la misericordia di Dio verso la Chiesa e i suoi membri, avendo tutti dei debiti più o meno gravi, innanzi al cospetto divino.
Sac. Dolindo Ruotolo

martedì 12 agosto 2014

12.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 18 par. 2-6

2. La vera grandezza innanzi a Dio, la piccolezza che sublima
La speciale considerazione di Gesù Cristo verso san Pietro nel pagamento del tributo e molto più le grandi parole con le quali precedentemente gli aveva promesso di farlo fondamento della sua Chiesa, aveva fatto supporre agli apostoli che fosse vicino il trionfo, ed aveva acceso in loro il desiderio di parteciparvi con posti eminenti. Gesù aveva più volte parlato ad essi della sua Passione, ma quelle parole non erano scese nei loro cuori, ed essi non le avevano neppure comprese nel loro profondo significato. Chi si trova in un avvenimento straordinario, infatti, in generale rifugge dall'idea dell'immolazione e sogna sempre trionfi. Guarda il termine e la meta senza guardare la strada che vi conduce e le difficoltà che s'incontrano.
Anche nelle cose comuni della vita avviene così: chi deve fare una gita in montagna, per esempio, si entusiasma della poesia del panorama e non riflette sull'asprezza della salita; una giovane che si sposa si entusiasma dell'abito, della carrozza, della festa, e magari dello sposo; pensa alla casetta propria, al dominio che vi eserciterà, alle dolcezze della vita, e non pensa alle difficoltà terribili del nuovo stato che abbraccia.
Gli apostoli stavano sempre in attesa di trionfi impressionanti, tali da umiliare i nemici del Signore. Seguivano Gesù con amore, ma pensavano pure al quid ergo erit nobis, cioè a quello che avrebbero avuto in seguito.
È probabile anche che l'ascesa dei tre prediletti sul Tabor nella notte della trasfigurazione, e l'emozione che avevano mostrato al loro ritorno, abbia fatto sospettare agli altri apostoli che qualche cosa di grande era avvenuto, o che avessero avuto qualche speciale mandato, quindi per introdursi presso Gesù e sapere di che si trattasse, proposero la domanda: Chi è il maggiore nel regno dei cieli? Gesù Cristo rispose chiamando a sé un pargolo che stava lì presso, un fanciullo dallo sguardo pieno d'ingenuità, che spirava candore, lo pose in mezzo ad essi e disse quelle profonde parole, fondamento di ogni grandezza vera nella Chiesa e nelle anime: In verità vi dico che se non vi cambierete e non diventerete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Chiunque pertanto si farà piccolo come questo fanciullo, questi sarà il più grande nel regno dei cieli.
Gli apostoli parlavano del regno dei cieli intendendo alludere al regno del Messia come essi lo sognavano, e Gesù parlò del vero regno dei cieli, della via di Dio e della gloria eterna, unica meta ed unico scopo della redenzione. Tutto quello che è grandezza umana è nulla di fronte all'eternità, e per raggiungere le vette della verità e le altezze della virtù che conducono al Signore, bisogna farsi piccoli ed avere le virtù dei piccoli. I fanciulli, non ancora viziati da cattive inclinazioni, sono semplici, umili, senza invidia, senza pretensioni, senza livore, tutti della mamma e del babbo, abbandonati a loro e pronti ai loro cenni. Non ragionano che col ragionamento dei genitori, non giudicano che col loro giudizio, non confidano negli estranei, non li ascoltano, non li seguono. Rifulge in loro soprattutto la semplicità e l'abbandono, perché essi intendono o meglio sentono che la loro vita dipende da quella dei genitori e massimo da quella della mamma che li alimenta e li cura più direttamente.
Gesù Cristo, invitandoci ad essere come fanciulli, c'invita a questo abbandono filiale ed a questa piena fiducia nel Padre celeste e nella sua adorabile volontà. Per questo abbandono l'anima crede, spera ed ama; crede senza presumere di criticare le eterne verità, spera senza dubitare della divina bontà, ama apprezzando Dio come unica grandezza ed unica meta. Non si entra nella luce ineffabile degli eterni misteri senza avere un'anima semplice e senza prima fare un atto di fede illimitata ed incondizionata.
Non è la propria logica, la propria limitata ragione così piena di tenebre, lo strumento ottico, per così dire, che ci fa scorgere questo firmamento sublime. I ragionatori che, in realtà, ragionano tanto poco, i critici e gli ipercritici che vivono di sciocchezze, e spessissimo di fantasie, tutti ristretti in pochi scartafacci, come tarli che se ne alimentano, quelli che non sanno puntare il cannocchiale verso il cielo, ma verso le valli, non capiranno mai nulla del Signore. La logica, il ragionamento, la ragione, sono luci che si accendono dopo avere acceso la luce della fede con infantile semplicità.
Si vede la logica della fede quando si è creduto per grazia divina, non già si crede dopo aver visto la logica della fede.
Si ragiona quando la mente è piena della verità, ma non la si ricolma di luce ragionando col povero e ingarbugliato criterio umano; pretendere di vedere nel divino senza aver prima elevato l'occhio interiore al divino, per vederlo limpidamente, è lo stesso che pretendere di numerare le stelle nelle profondità dei cieli, senza prima averle affissate col telescopio.
Dio ai cosiddetti grandi del mondo, che viceversa sono infimi nelle loro visuali, non si rivela per delicato rispetto alla loro libertà; non li richiama in alto se essi non vogliono ascendervi; solo all'anima semplice ed infantile che è tutta aperta a Lui quasi corpo diafano, si rivela, perché la sua verità non vi trova ostacoli. Il sole non penetra un corpo opaco, lo illumina solo esternamente; se la sua luce e il suo calore lo volessero penetrare lo dovrebbero bruciare come fa il fuoco quando investe un corpo.

lunedì 11 agosto 2014

11.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 17 par. 6-7

6. La tassa per il tempio
Camminando insieme ai suoi discepoli per la Galilea, Gesù profetizzò ancora una volta la sua Passione, ed essi ne furono grandemente contristati, perché intuirono che annunziava qualche cosa di triste, ma non capirono perché parlasse così. Egli invece volle che incominciasse a penetrare in loro l'idea del sacrificio supremo che voleva consumare per la salvezza di tutti, perché l'ostilità dei suoi nemici si faceva sempre più manifesta e pericolosa. Questa ostilità e la propaganda fatta contro di Lui provocarono la domanda degli esattori del tributo del tempio. Ogni Israelita dall'età di 20 anni doveva pagare ogni anno mezzo siclo per il servizio del tempio. Il mezzo siclo equivaleva a circa 1,75 lire e veniva pagato da una doppia dramma, moneta greca che valeva circa 87 centesimi. La tassa veniva riscossa da appositi impiegati, il 15 del mese di Adar, corrispondente alla seconda metà di febbraio ed alla prima di marzo.
Fino ad allora per il rispetto che avevano di Gesù, i collettori non gliel'avevano domandato, ma data la propaganda a Lui contraria, ne avevano fatta richiesta a san Pietro, come al primo dei suoi discepoli. Pietro rispose che il Maestro l'avrebbe pagato, ed entrò nella casa dove Gesù si trovava per parlargliene. Ma Egli lo prevenne, e pur volendo pagare, mostrò di essere Dio, ed affermò la sua padronanza su tutto. I figli dei re non pagavano né il tributo che si riscuoteva sulle mercanzie, né il censo che era l'imposta che gravava sulle persone, sui campi, ecc. Ora Gesù, prendendo occasione da quest'uso, afferma solennemente che Egli come Figlio di Dio non dovrebbe pagare l'imposta per il tempio. Ma per non scandalizzare gli esattori, ignari della sua divinità e del suo diritto, la paga, pur mostrando con un miracolo il suo supremo e regale dominio su tutte le creature.
Ordina a Pietro di gettare l'amo, e ordina ad un pesce di portare nella bocca uno statere, cioè quattro dramme, per far pagare la tassa sua e quella di Pietro. Il pesce sente il dominio del suo Creatore e obbedisce lasciandosi prendere e, morendo, dona il prezzo dell'imposta per Gesù e per Pietro.
Era un segno della divina potenza del Redentore, e si può dire era una delicata immagine di quello che Egli avrebbe fatto per pagare a Dio il tributo di amore che l'uomo gli aveva negato. Egli obbedì e portò il prezzo dell'espiazione e del riscatto alle sue creature; si fece prendere dalla divina volontà, si donò per donare il prezzo della liberazione dal peccato, e morì donando questo prezzo di amore.
7. Per la nostra vita spirituale
Nella nostra vita spirituale molte volte siamo avvolti da tenebre e la fede vacilla. La natura prende il sopravvento, e l'anima si lascia attrarre dai beni terreni, cercando le soddisfazioni e i trionfi del mondo. Non si può uscire da questi stati di depressione spirituale senza elevarsi con Gesù sui monti della fede e della preghiera.
Credendo e pregando, il mondo ci appare tutto tenebre e Gesù tutto luce di verità e fiamma di amore.
Credendo e pregando ci sentiamo tratti all'osservanza della divina legge, ed intendiamo le vie di Dio che conducono all'eterna salvezza, soprattutto la via della croce.
Dobbiamo ascoltare Gesù, presentato dal Padre sul monte come il Legislatore della nuova alleanza, dobbiamo credergli ed obbedirgli. Qualunque altra voce che non sia eco fedele della sua è menzogna ed inganno.
La nostra natura può chiamarsi veramente lunatica: quanti capricci, quante passioni e quante miserie la rendono epilettica nel più stretto senso della parola! Siamo agitati quando diamo libertà ai sensi, e siamo preda di satana quando cadiamo nei peccati, e soprattutto in quelli d'impurità. Siamo trascinati allora nell'acqua e nel fuoco, nel gelo di ogni sentimento santo e nel triste ardore delle passioni ed abbiamo come retaggio il dolore irrequieto, che non ci fa trovare pace. Non basta ricorrere allora a rimedi umani, che non valgono nulla, bisogna andare a Gesù, perché Egli solo può liberarci, a Gesù vivente nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana. Il padre dell'epilettico
andò dai discepoli di Gesù, quando essi avevano poca fede, avevano quasi naufragato, e la loro azione non valse a nulla. Chi non fa parte della Chiesa cattolica è interamente naufragato e non può né far bene all'anima inferma né scacciare da essa il demonio.
Ci lamentiamo spesso del dominio della corrotta natura e di satana, e cadiamo in tante colpe degradanti, disperando di poterci emendare. Per vincere occorre fede, orazione e digiuno, fede per andare a Dio, orazione per parlargli filialmente, digiuno per dominare noi stessi. Digiuno di cibo e di mortificazione.
Una piccola rinunzia può determinare in noi un rinnovamento radicale e può darci in mano il primo anello di una lunga catena di grazie.
Si trasfigurò Gesù Cristo e parlò con Mosè ed Elia della sua passione; scese dal monte e l'annunzio ai suoi cari, guarì il lunatico e ne parlò ancora. Oh, quanta vita c'è nella meditazione della Passione, quanta luce di verità, quanta forza di sanità spirituale, quanta consolazione nelle afflizioni dell'anima!
Uniamoci alla Passione di Gesù Cristo con l'unione alla divina volontà nelle prove della vita, e paghiamo anche noi questo tributo di amore a Dio nel tempio dell'infinita sua gloria.
Non ci illudiamo con falsi miraggi d'infeconde aspirazioni alle povere cose della terra. La vita è una prova ed è un tributo di amore a Dio! Se non siamo capaci di dargli questo tributo, domandiamolo a Gesù Cristo nostro Salvatore, e cerchiamolo nel mare delle sue misericordie.
Dobbiamo anche noi trasfigurarci con una nuova vita, tutta orientata a Dio nella meditazione della sua parola e nell'unione con Gesù Cristo; dobbiamo guarire delle nostre miserie, e darci a Dio interamente. Solo così cammineremo dall'esilio alla Patria eterna.
Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 10 agosto 2014

10.08.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 14 par. 4-8

4. La tempesta del lago e la presenza di Cristo Gesù
Al miracolo grandioso della moltiplicazione dei pani, come si rileva da san Giovanni (6,15), il popolo fu preso da tale entusiasmo, che pensò di proclamare Re Gesù Cristo. L'idea di un Messia politicamente potente, radicata nella mente di tutti, e il pensiero di un Re che avrebbe potuto provvedere alle necessità temporali della vita senza sforzo, eccitarono il popolo a voler senza indugio inaugurare un regno di benessere materiale.
Il popolo in quel momento faceva capo agli apostoli, che allora non erano immuni dal comune pregiudizio di un Messia glorioso, e perciò Gesù ordinò loro di passare all'altra riva del lago, mentre Egli licenziava le turbe. L'amor suo non poteva non rispondere agli atti di fiducia e di riconoscenza delle turbe, e chi sa quante parole dolcissime dovette dire, e quante benedizioni dovette dare a ciascuno di quelli che gli tendevano le mani. Egli doveva anche sentire compassione per quella gente che si entusiasmava tanto per un beneficio temporale. Mai come in quel momento avevano avuto una manifestazione di fede più clamorosa, e mai questa fede era stata più meschina, tutta ristretta nelle cose fugaci della terra!
Licenziato il popolo, Gesù salì sopra di un monte per pregare, mentre annottava; era la seconda sera. Gli apostoli erano lontani nel lago e, poiché il vento era contrario, la loro barca, sbattuta dai flutti, non riusciva a prendere terra. Era la quarta vigilia della notte, cioè erano le tre del mattino.
Gli apostoli erano stati quasi tutta la notte alle prese con la tempesta, e forse avevano rivolto il pensiero a Gesù, per implorarne il soccorso. Gesù ascoltò il loro gemito e venne in loro soccorso camminando sulle acque. Discendeva dal monte dove aveva pregato tutta la notte e, in quella sublimissima orazione il suo corpo attratto dall'estasi dell'anima, s'era fatto leggerissimo, molto più di quello che non avvenga nei santi rapiti in alto. Scese dal monte dunque come in volo, e camminò sulle acque non già rendendole solide con un miracolo, ma sorvolandovi sopra per l'altissima estasi della sua orazione. La sua andatura veloce, quasi come nube che passa, giustificò l'impressione degli apostoli che lo credettero un fantasma. Essi gridarono per lo spavento, ma Gesù li rassicurò dicendo: «Abbiate fiducia, sono io, non temete». Era distante dalla barca, com'è chiaro dal contesto, e forse il medesimo vento contrario sospingeva lontano il suo corpo fatto leggero.