sabato 28 giugno 2014

28.06.2014 - Commento alla prima lettera di S. Giovanni cap. 21, par. 3-4

3. Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi?
Dopo che gli apostoli si furono rifocillati insieme a Gesù sulla riva deserta, Gesù rivolto a Pietro lo interrogò dicendo: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi?
Pietro rispose umilmente rimettendosi questa volta al giudizio stesso del Maestro divino: Certamente, Signore tu sai che io ti amo.
Prima della Passione nella notte della cena, aveva spavaldamente affermato che, anche se tutti l'avessero abbandonato, egli non l'avrebbe rinnegato, ma, posto nell'occasione, aveva invece per tre volte protestato di non conoscerlo e di non essere suo discepolo.
Ora che Gesù vuol fargli riparare la triplice negazione con una triplice protesta di amore, egli risponde con umiltà che lo ama, ma non fa alcun confronto coi suoi compagni, e si rimette al giudizio del Maestro.
Gesù Cristo gli domandò se lo amava più degli altri, per farlo salutarmente umiliare, ricordando la presunzione con la quale s'era creduto più forte e più fedele degli altri; per questo lo interrogò in questa forma solo la prima volta, bastandogli ch'egli si fosse internamente umiliato. Gesù, come è chiaro dal contesto, non volle mettere a confronto l'amore di Pietro con quello di Giovanni, che era un amore più tenero, ma solo volle con delicatezza raccogliere Pietro in un sentimento di umile penitenza, ricordando che aveva preteso di amarlo più di tutti e poi l'aveva rinnegato. Gesù interrogandolo non lo chiamò Pietro, ma Simone, figlio di Giovanni, per mostrargli che per il suo rinnegamento non aveva più meritato quel nome di fiducia che Egli gli aveva dato, e che doveva riconquistarlo con una protesta di amore e di fedeltà.
Alla risposta di Pietro: Signore, tu sai che io ti amo, Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli. Il testo greco ha il diminutivo: Pascola i miei piccoli agnelli, quelli cioè che ora nascono alla fede.
Simone, figlio di Giovanni mi ami tu?
Per la seconda volta Gesù domandò a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Questa volta non disse: Mi ami tu
più di questi? perché non volle ricordare nuovamente a Pietro il suo peccato, ma volle un'esplicita testimonianza di amore per dargli il governo delle anime radunate in ovile, cioè della Chiesa costituita come vera società. Pietro rispose di nuovo: Certamente, Signore, Tu sai che io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli, o come dice molto espressivamente il testo greco: Prenditi cura del mio gregge.
Per la terza volta: Simone, mi ami tu?
Per la terza volta Gesù disse a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Pietro allora si contristò, pensando che Gesù glielo domandasse perché non vedeva in lui l'amore, e perché ricordava ancora il peccato che aveva fatto rinnegandolo, e rispose: Signore, tu sai tutto, tu conosci che io ti amo. E voleva dirgli: tu sai quello che io sono, tu conosci il mio cuore, tu lo scruti nel fondo, e tu sai che, nonostante la mia infedeltà, io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola le mie pecorelle, ossia, secondo il testo greco: le pecore madri, fatte adulte e capaci di procrearne delle altre.
In poche parole Gesù tracciava tutto il cammino della Chiesa, e dava a Pietro e ai suoi successori il primato di giurisdizione su tutto il suo gregge, fino al termine dei secoli. Egli affidava a Pietro le anime che aveva redente col Sangue suo sulla croce, in un amore infinito, e richiese da lui una triplice confessione di amore, perché doveva governarle per amore e con amore. Chiamò Pietro col nome di nascita, Simone, sia perché egli nella Passione del Maestro aveva smesso quel nome come compromettente e Gesù volle ricordarglielo, e sia principalmente perché volle allora compiere ciò che gli aveva detto nell'eleggerlo: Tu ti chiamerai Pietro (Mt 26,18). Nell'eleggerlo gli aveva annunziato che si sarebbe chiamato Pietro, cioè pietra fondamentale e rupe sulla quale avrebbe edificato la Chiesa; ora compiva ciò che aveva annunziato, e chiamava Pietro col nome di origine: Simone, per renderlo di fatto
Pietro, capo visibile e fondamento della Chiesa. Se l'avesse chiamato Pietro, Egli avrebbe supposto già in lui quello che stava per dirgli. Richiestagli la triplice confessione di amore, Gesù gli assegnò su quella base l'ufficio di formare il gregge con l'apostolato, di governarlo con la suprema autorità, e di perpetuarlo formando le pecore madri, cioè governando i pastori delle anime che le generano a Lui in tutto il mondo e in tutti i secoli.
Egli gli dette un triplice regno, e può dirsi quasi che con le sue divine parole cesellò Egli la tiara del pontefice: gli dette il regno delle anime: Pascola i miei piccoli agnelli', gli dette il governo dei popoli cristiani: Prenditi cura del mio gregge', gli dette la giurisdizione suprema su tutti i pastori: Pascola le mie pecore madri che generano gli agnelli. Gesù Cristo è il Re di tutto l'universo e di tutte le genti, e per il suo Sangue ha, di pieno diritto, in eredità le nazioni.
Il potere del Papa è potere d'amore
Gesù costituì Pietro e i suoi successori vicari e rappresentanti di questa sua potestà, e per conseguenza i Papi sono di diritto divino rappresentanti della sua suprema autorità sulle anime, sulle nazioni e sui capi, tanto spirituali che temporali, dei popoli.
Presumere di relegare il Papa in una cerchia ristretta, riguardandolo come semplice capo di una professione religiosa, e pretendere che a Lui non interessi il governo dei popoli, è contrastare direttamente lo spirito e la lettera della parola di Gesù. La teoria delle due parallele che non s'incontrano e stanno ben separate e distinte, il potere civile e quello religioso, è errata dalle fondamenta poiché nessun potere civile può sottrarsi a quello divino ed al Papa che lo rappresenta.
Il Papa, sì, è Re di amore, ma è Re dei Re veramente per diritto divino; qualunque limitazione posta alla sua autorità è essenzialmente contraria alla maniera illimitata con la quale Gesù Cristo l'ha costituita. È un fatto poi confermato dalla storia che i regni che si sottraggono alla Chiesa vanno in rovina presto o tardi, e che i popoli che non riconoscono più nel Papa il Padre universale e il moderatore delle umane potestà, cadono sotto l'esosa schiavitù dei tiranni.
Certo il potere del Papa è potere di amore, non è potere di armi; è anzi potenza di triplice amore, che cura il corpo, l'anima e la vita dei suoi figli, che s'estende alla terra, al Purgatorio ed al Cielo, e riguarda tutte le creature per renderle inno di amore a Dio. Certo il potere del Papa non può ridursi ad un potere politico, nel senso umano e sporco di questa parola, ma il negare che sia una reale potestà su tutte le genti in tutta la loro vita, spirituale e corporale, temporale ed eterna, è lo stesso che negare la potestà di Dio su di ogni creatura.
Gesù velatamente predice a Pietro il martirio
Gesù Cristo, dopo avere dato a Pietro la potestà di pascolare e reggere la Chiesa, gli disse: In verità, in verità ti dico che quando eri più giovane ti cingevi la veste e andavi dove volevi, ma quando sarai invecchiato stenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai. L'evangelista aggiunge che disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. San Giovanni scrisse il Vangelo dopo la morte di san Pietro, e poté controllare meglio la verità dell'analogia e del paragone del quale Gesù si servì per predirgliela. Chi è giovane ha maggiore elasticità nei movimenti, può cingersi la veste da se, e può andare dove gli piace. Chi è vecchio, invece, ha bisogno di un altro che lo cinga e, per farglielo fare più agevolmente, stende le braccia, come se le stendesse in croce; egli poi non può andare dove desidera, ma dove lo accompagnano gli altri ai quali è soggetto.
Pietro doveva terminare la vita con un glorioso martirio, simile a quello del suo Maestro, e doveva glorificare Dio con questa ultima grandiosa testimonianza di amore. Egli fu crocifisso, fu cinto di funi, stese le mani per farsele configgere, ed andò dove non voleva, andò alla morte che ripugna sommamente alla natura. Egli anzi, condannato in Roma alla crocifissione sotto Nerone, nell'anno 67, per rispetto al suo Maestro, e perché i fedeli non avessero confuso la sua croce con quella di Gesù, domandò in grazia ai carnefici ed ottenne di essere crocifisso col capo in giù. In tal modo glorificò veramente Dio con una fedeltà eroica di amore, mostrò la potenza della sua grazia nel sostenere la debole natura, suggellò col sangue i suoi insegnamenti, e consolidò col martirio il santo fondamento della Chiesa. Per questo Gesù, dopo avergli predetto la morte velatamente per non turbarlo, gli soggiunse: Seguimi. Non ebbe quasi il cuore di dirgli: sarai crocifisso come me, ma gli ricordò la seconda parte di quel suo precetto col quale comandava di prendere la croce e seguirlo, e lo esortò a percorrere il suo stesso cammino.
Egli non parlò più esplicitamente, perché era inutile, sapendo che, giunta l'ora del cimento, l'avrebbe sostenuto con la sua grazia. Gli aveva dato un immenso potere, non già perché fosse stato come un re della terra, ma perché si fosse immolato come un buon pastore per le pecorelle che gli aveva affidate; aveva tracciato il programma della vita dei Pontefici, che è vita di rinunzia e di immolazione, anche in mezzo agli onori dai quali sono circondati per rispetto della loro dignità.
Il Papa è un crocifisso
Chi vede il Papa è come affascinato dallo splendore che lo ammanta, dalla corte e dagli ossequi che gli si tributano, e non immagina neppure lontanamente il sacrificio che comporta quella dignità. Il Papa può dire veramente che stende le mani, un altro lo cinge, ed è condotto dove non vorrebbe. Egli perde
ogni libertà personale, ed è stretto da un continuo cerimoniale ed è spesso trasportato dalle persone e dagli eventi dove non vorrebbe. È la caratteristica più spiccata della crocifissione del Papa, poiché Egli per prudenza deve tante volte subire le situazioni del mondo, e non può fare tutto il bene che vorrebbe. Il Papa è un perenne crocifisso, sempre con le mani aperte per benedire, sempre con le mani inchiodate dalla perfidia umana, sempre sanguinante di angoscia.
Dobbiamo pregare per il Papa, affinché venga il giorno del grande trionfo, nel quale Egli possa stendere le mani all'umanità, e farle sentire nella piena libertà tutta la grandezza del suo benefico potere, luce di verità, fiamma di amore, e fonte vera di pace per la terra.
4. Il cammino di Pietro e di Giovanni nel mondo: un'iperbole che non è iperbole
Quando Gesù disse a Pietro: Seguimi, egli andò appresso a Lui credendo che dovesse fargli delle particolari raccomandazioni. Era tutto compreso dell'ufficio assegnatogli, poiché aveva avvertito nell'anima una profonda trasformazione. Era anche tutto compreso dalla profezia fattagli, nella quale aveva capito che si accennava alla sua vecchiezza e, vedendo Giovanni che s'era messo anch'egli a seguire Gesù, ebbe la curiosità di sapere che cosa sarebbe stato di lui. Forse sentendosi dire che sarebbe giunto alla vecchiezza, si preoccupò di sopravvivere a Giovanni che amava di particolare amore, forse desiderò per lui qualche ufficio speciale; si ricordò che quel discepolo era prediletto da Gesù, che nella Cena gli aveva appoggiato il capo sul petto, domandando chi fosse il traditore, ed immaginò che dovesse avere un posto importante. Perciò rivolto a Gesù gli domandò: Signore, di questi che sarà?
Era una curiosità che non importava appagare, poiché quando un'anima è eletta ad una missione, deve pensare a compierla senza preoccuparsi dell'ufficio degli altri. Gesù poi per spiegare a Pietro che cosa sarebbe stato di Giovanni, avrebbe dovuto dirgli tante cose che l'avrebbero contristato, poiché certo san Giovanni ebbe a patire non poco sia per l'esilio a Patmos, sia per le persecuzioni che ebbe, sino ad essere gettato in una caldaia di olio bollente; perciò rispose evasivamente: Se voglio che rimanga fino a tanto che io venga, a te che importa? Gesù Cristo aveva detto altra volta agli apostoli: Quando sarò partito ed avrò preparato il luogo per voi, verrò di nuovo e vi prenderò con me, affinché dove io sono siate anche voi (14,3). Con queste parole aveva loro promesso di assisterli nella morte e portarli in Paradiso. Dicendo a Pietro: Se io voglio che rimanga, finché io venga, Gesù evidentemente non alludeva alla sua venuta finale, ma alla sua venuta amorosa nella morte di Giovanni. Egli voleva dire: lo farò rimanere sulla terra finché io verrò a prenderlo; a te che importa sapere quando verrò a prenderlo? Tu seguimi, cioè tu percorri la tua via appresso a me, e non ti curare di altro.
In questo, alla possibile curiosità di Pietro di conoscere quale ufficio avrebbe avuto Giovanni, Gesù non rispose che con quella parola: Tu seguimi, per indicare che era cosa indipendente dalla potestà di pascolare il gregge che allora allora gli aveva dato. San Giovanni infatti doveva essere profeta, e questo dono gratis dato, dipendeva da una grazia particolare dello Spirito Santo, e non da una comunicazione di grazia fattagli dal supremo ministero di Pietro. Gesù volle così riserbarsi sull'universale potere dato a Pietro quello di elargire Egli, per lo Spirito Santo, le grazie particolari alle anime privilegiate dal suo amore. Certo la risposta di Gesù è oscura, ma dal contesto sembra che questo ne sia il significato.
Gli apostoli e i fedeli aspettavano la venuta finale del Redentore nel giudizio, e la credevano vicina; ora quando si sparse la voce che Gesù aveva detto di Giovanni che sarebbe rimasto fino alla sua venuta, i fratelli, cioè i cristiani, credettero che avesse parlato dell'ultima venuta, e perciò si sparse fra loro la fiaba che quell'apostolo non sarebbe morto. Ma Giovanni ci tiene a smentirla, perché non rispondeva al pensiero del Maestro, e smentisce solo la parte della falsa interpretazione riguardante la durata della sua vita: Se io voglio che rimanga fino a tanto che io venga, a te che importa?, dicendo che Gesù non affermò che non sarebbe morto, ma solo riserbò a sé il conoscere e determinare il giorno della sua morte. L'altra parte della risposta di Gesù a Pietro: Tu seguimi, era chiara, e san Giovanni non ci si ferma sopra.
Basta talvolta un nome straniero, qualche gutturale assonanza per inchinarci credendo superuomini dei poveri incitrulliti miscredenti
San Giovanni chiudendo il suo Vangelo, ci tiene ad affermare due cose: 1) che proprio lui è stato testimone e scrittore veritiero di ciò che ha raccontato; 2) che egli ha scritto solo alcune cose della vita e delle opere di Gesù, poiché, se avesse voluto scrivere tutto, il mondo intero non avrebbe potuto contenerne i volumi. Nel chiamarsi testimone e scrittore delle cose raccontate, Giovanni si appella anche alla testimonianza degli altri discepoli e per questo soggiunge: Noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Lo Spirito Santo sapeva quanti errori la miscredenza avrebbe sparso sull'autenticità del quarto Vangelo, e la prevenne con un'affermazione categorica che nessuna mente equilibrata può mettere in dubbio.
Quando l'evangelista medesimo afferma di avere scritto lui, e l'afferma innanzi ai contemporanei che avrebbero potuto smentirlo se non avesse detto il vero, la sua testimonianza è irrefragabile, e nessuno può presumere di creare la leggenda di un altro scrittore del quarto Vangelo. Quelli che hanno creato e tentato di propagare questa leggenda sono gli autentici ministri di satana, ai quali preme svalutare con un'affermazione cervellotica la testimonianza della divinità di Gesù Cristo che viene luminosa dal quarto Vangelo. I miscredenti, storici da strapazzo, pur di negare la verità, non esitano a negare la storia, e con arbitrarie affermazioni presumono svalutare la testimonianza. Il torto dei cattolici, grande torto, imperdonabile torto, è stato quello di dare troppa importanza a questi poveri fannulloni del pensiero e della scienza, e di rendere loro il servizio di propagandare le loro panzane che oramai si prendono con le molle. È bastato un nome straniero, un sentire qualche barbara gutturale assonanza, Kunkbauer, Kunkfling, Kunku, per credere che si trattasse di superuomini, quando si trattava di gente fossilizzata da preconcetti miscredenti. Quanti hanno avuto fiducia più in questi nomi di barbarie mentale che nell'armonia squillante e folgorante dello Spirito Santo! Quanti hanno fatto naufragio nella fede per accogliere le fantastiche affermazioni di folli paranoici, di miscredenti in mala fede che mentiscono sapendo di mentire!
Quanti volumi ci sarebbero voluti per scrivere tutti gli eventi della vita di Gesù!
L'evangelista, dicendo che se avesse voluto scrivere ad una ad una tutte le cose fatte da Gesù avrebbe dovuto scrivere tanti volumi che il mondo intero non avrebbe potuto contenere, non fa, strettamente parlando, un'iperbole. Egli ha proclamato nel suo Vangelo la divinità di Gesù Cristo, Verbo eterno di Dio, e le opere sue come Verbo e come Redentore sono immense. Se si volesse scrivere minutamente sul creato, su
tutte le singole sue parti, e su tutti i misteriosi ricami della salvezza e della santificazione delle anime, non basterebbe davvero il mondo a contenerne i volumi.
Questi misteriosi volumi però sono scritti già, sono squadernati, per così dire, nell'eternità, alla luce eterna di Dio, e sono l'oggetto della nostra eterna contemplazione e felicità. San Giovanni, con la sua affermazione, ha voluto darci proprio una vaga idea dell'immensa fecondità e meraviglia delle opere del Verbo eterno, fatto uomo per amore, Redentore e vita nostra per infinita misericordia; e noi alla sua affermazione dobbiamo cadere in ginocchio, adorando Colui che in principio era il Verbo, e che per amore si è fatto carne.
Sac. Dolindo Ruotolo

28.06.2014 - Commento alla lettera ai Galati cap. 1, par. 2

2. San Paolo si annuncia solennemente ai Galati apostolo di Gesù Cristo, veramente apostolo per diretta missione avutane da Dio, e immediatamente istruito da Gesù Cristo risorto nel Vangelo.
San Paolo comincia la sua lettera con un’introduzione più breve di quella delle altre lettere, e senza la solita azione di grazie a Dio, perché va subito all’argomento che vuole trattare contro quelli che svalutavano il suo apostolato per rendere vana la sua attività tra i fedeli da lui evangelizzati. Egli, perciò, esclama quasi ex abrupto: Paolo, apostolo non dagli uomini né per mezzo di un uomo, ma
per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo risuscitò da morte, e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia. Egli è apostolo nel più stretto senso della parola, non perché ne abbia avuta la missione dagli uomini, come da causa principale, né per mezzo di un uomo, come da causa secondaria e immediata, ma da Gesù Cristo come da causa prossima e immediata, e da Dio Padre come da causa ultima. Egli, infatti, ricevette da Gesù Cristo medesimo la missione di evangelizzare tutti, e specialmente i pagani, e perciò è uguale agli altri apostoli, e dagli uomini non ricevette che la comunicazione episcopale (At 13,1).
Agli altri apostoli come a lui Gesù Cristo diede la missione di evangelizzare dopo la sua resurrezione, ed egli che non lo seguì quando ancora viveva sulla terra, lo seguì, poi, quando risorse da morte, essendosi a lui manifestato, ed avendolo istruito personalmente sulle verità da predicare ai popoli ed alle genti.
Scrivendo san Paolo a tutte le Chiese della Galazia, scrive anche in nome di tutti i fratelli che sono con lui, ossia dei suoi collaboratori, e in particolare di quelli che lo aiutarono nella fondazione di quelle Chiese, per dare maggiore importanza alle sue parole, e risvegliare nei Galati il ricordo dei primi tempi della loro vita cristiana. Invoca su di essi la grazia di Dio e la pace che viene dalla grazia di Dio, grazia e pace meritate a noi da Gesù Cristo con la sua morte, per la quale ci unì a se stesso e ci sottrasse al dominio del presente secolo maligno, ossia del mondo, il cui tristo principe è satana.
Il presente secolo è la vita transitoria in opposizione al secolo futuro che è la vita eterna; il presente secolo maligno è il regno del peccato in opposizione al futuro secolo
di giustizia e di santità. Essere liberato dal mondo e dal peccato è l’aspirazione di ogni cristiano ed è il grande beneficio meritatoci da Gesù Cristo, è la santa e vera libertà dei figli di Dio secondo il volere del nostro Dio e Padre che per il Figlio suo ce l’ha data, ed al quale ne ridonda la gloria nei secoli dei secoli.
Volubilità dei Galati
San Paolo dopo questa breve introduzione, senza dire ai Galati parole di benevolenza o di lode, come fa con i fedeli ai quali indirizza le altre lettere, entra subito in argomento con un biasimo accorato, che indica tutto il dolore deH’anima sua: Mi stupisco - egli esclama - che voi così presto passiate da Colui che per la grazia di Cristo vi ha chiamati, ad un altro Vangelo, sebbene non ce ne sia un altro, ma vi sono alcuni che vi conturbano e vogliono capovolgere il Vangelo di Cristo.
I Galati avevano abbracciato il Vangelo con grande trasporto di fede (4,13), e san Paolo aveva lasciato le loro Chiese in uno stato fiorentissimo (At 16,5); erano fermi nella fede e arricchiti di ogni dono spirituale (3,2). Ma, appena partito l’Apostolo, si erano fatti abbindolare da falsi apostoli giudaizzanti e, leggeri com’erano di carattere, erano passati da Dio che li aveva chiamati alla fede per la grazia di Gesù Cristo, ad un altro Vangelo, cioè ad una falsa dottrina, presentata loro dai turbolenti come un altro Vangelo, ossia come un nuovo annuncio di salvezza, che in realtà non è quello del Vangelo, ma ne è solo il capovolgimento, poiché non porta alla salvezza ma alla perdizione.
Con parole energiche e sublimi san Paolo pronunzia una condanna di maledizione contro i mistificatori della verità, iniziando così gli anatema che in tutti i secoli pronunzierà nei suoi Concili e per autorità del Papa, contro i propagatori di false dottrine: Quand’anche noi stessi o un angelo del Cielo vi annunciasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema. E ripete la maledizione perché s’imprima bene nell’anima dei Galati: Come vi dissi già per Vinnanzi a voce, quando ero tra voi, mettendovi in guardia contro le false dottrine, dico anche adesso: Se alcuno vi annuncerà un Vangelo diverso da quello che riceveste, sia anatema.
Nel pronunciare queste energiche parole, san Paolo sapeva di urtare la suscettibilità di quelli che si arrogavano autorità tra i Galati, ma egli non poteva avere tentenna- menti di rispetto umano di fronte all’integrità della dottrina fondamentale della fede, e perciò protesta che non gli importa nulla dell’ostilità dei suoi avversari esclamando: E forse il favore degli uomini che io cerco adesso, o quello di Dio? Ovvero cerco di piacere agli uomini? Ma se tuttora io piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo. Egli che si faceva tutto a tutti per guadagnare tutti a Gesù Cristo (1Cor 10,33; 2Cor 5,11) non poteva in nessun modo condiscendere all’errore, senza apostatare da Lui e cessare di servirlo nell’apostolato che gli aveva affidato.
Contro i mistificatori, san Paolo è vero apostolo
I falsi apostoli, per diffondere i loro errori, svalutavano l’apostolato di san Paolo, e logicamente egli comincia con lo stabilirne la saldezza soprannaturale, mostrando di
aver ricevuto il Vangelo e la missione di predicarlo, direttamente da Gesù Cristo: In verità vi dichiaro, o fratelli - egli esclama - che il Vangelo da me predicato non è opera umana, poiché non l’ho ricevuto né l’ho appreso da uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
Nessun cristiano può ricevere il Vangelo dagli uomini ma, all’infuori degli apostoli e di pochi discepoli, ogni cristiano lo riceve dalla bocca di quelli che hanno missione di annunciarlo. San Paolo dichiara di essere stato istruito come gli altri apostoli direttamente da Gesù Cristo (At 9,5ss; 26,15ss; 2Cor 12,1 ss), e lo conferma, ricordando la sua conversione, e il miracolo del suo profondo e radicale mutamento da persecutore in apostolo per Gesù Cristo medesimo che gli si manifestò, lo istruì e lo guidò.
Voi avete sentito dire - esclama san Paolo - quale fosse una volta la mia condotta nel giudaismo, cioè prima di convertirmi, come oltre ogni misura perseguitavo la Chiesa di Dio e la devastavo. Egli stesso aveva dovuto raccontarlo ai Galati nel suo apostolato fra loro, ma la fama della sua furibonda ira nel perseguitare la Chiesa si era sparsa dovunque, e i Galati ne avevano avuto notizia anche da altri, poiché egli aveva sparso il terrore tra i cristiani, dovunque era passato.
Il suo ardore nel perseguitare la Chiesa era stato uguale al suo ardore per la Legge di Mosè poiché egli si avanzava nel giudaismo sopra molti coetanei della sua nazione quando lo studiava e, giunto a maturità, sì era mostrato tutto acceso di zelo per le tradizioni dei suoi padri.
Nell’impeto maggiore di questo suo fanatico zelo fu chiamato da Gesù Cristo sulla via di Damasco, e fu chiamato perché Dio fin dal seno di sua madre e ab aeterno lo
aveva eletto e predestinato ad essere apostolo, per glorificarsi in lui e servirsene nell’opera della conversione dei pagani. Dio gli rivelò il Figlio suo, e gli fece conoscere l’ineffabile mistero della redenzione direttamente per Gesù Cristo, ed egli, ricevuta la divina rivelazione, non prese consiglio né dalla carne né dal sangue, cioè non si lasciò guidare dai lumi umani né sentì il bisogno del consiglio degli altri né andò a Gerusalemme da quelli che erano apostoli prima di lui, perché la missione la ricevette direttamente da Gesù Cristo, come la ricevettero gli altri apostoli.
Egli sentì il bisogno, spintovi evidentemente da Gesù Cristo medesimo, di prepararsi nella solitudine alla grande missione, e Gesù volle che, come gli apostoli erano stati tre anni con Lui nella sua vita pubblica, egli pure fosse tre anni alla sua diretta scuola, e apprendesse così dalla sua bocca divina il Vangelo. Se ne andò in Arabia, probabilmente nell’Arabia Petrea, per sottrarsi agli sguardi degli altri, e soprattutto dai sacerdoti del tempio, che se ne erano serviti validamente per perseguitare la Chiesa. Non avrebbe potuto rimanere nella Giudea prima di essersi fortificato, consolidato e preparato al combattimento, e questo lo fece lontano da tutti i suoi antichi correligionari, nell’Arabia, recandosi solo di passaggio due volte a Damasco.
San Luca non ci parla negli Atti (9,19-28) di questo viaggio e di questa dimora dell’Apostolo, benché supponga che si sia fermato due volte a Damasco (9,19.22); evidentemente san Paolo visse completamente segregato nell’Arabia, e la sua preparazione spirituale durò tre anni.
Una conferma del primato di Pietro
Dopo questo lungo tempo, sentì il bisogno, prima di cominciare la sua attività, di andare a Gerusalemme per visitare san Pietro come capo della Chiesa. Il testo greco indica chiaramente lo scopo di questa visita di sottomissione e di omaggio al capo della Chiesa, poiché usa un verbo, istorèin, visitare, che si usa quando si tratta di persone o di cose che per la loro eccellenza meritano di essere vedute e conosciute da vicino.
È una conferma magnifica del primato di san Pietro, come riconoscono tutti i Padri. Stette presso san Pietro quindici giorni, non per apprendere il Vangelo, ma per sottoporre al capo della Chiesa la propria missione, e per confermarsi in tutto quello che aveva appreso da Gesù Cristo stesso. Fu in questa circostanza che egli conobbe anche san Giacomo di Alfeo, parente del Signore, ma lo conobbe di passaggio e non per apprendere da lui il Vangelo che già aveva appreso da Gesù Cristo. San Paolo annette tanta importanza al fatto di aver ricevuto direttamente dal Signore la missione dell’apostolato e la rivelazione del Vangelo, da sentire il bisogno di confermare con un solenne giuramento, che suole usare nelle cose più gravi ed importanti (Rm 1,9; 9,1; 2Cor 1,23; 10,10), sia la sua affermazione sia i fatti che la confermavano.
È logico, infatti, che una missione ricevuta diretta- mente da Dio, benché sempre col controllo e l’intesa del capo della Chiesa, abbia un’importanza e una sicurezza maggiore di qualunque missione ricevuta dagli uomini. Chi è mandato dagli uomini è un portavoce degli altri e può errare, ma chi è mandato direttamente da Dio ha doni particolari dello Spirito Santo, per i quali è diretto in ogni
passo della sua attività. La luce ricevuta per rivelazione certa di Dio è immensamente superiore a qualunque luce che ci venga per il tramite umano e per lo studio.
San Paolo conferma ancora una volta che non poté essere istruito dagli apostoli, dicendo che da Gerusalemme andò nelle regioni della Cilicia e della Siria. Fuggito, infatti, da Gerusalemme, perché cercato a morte per la sua conversione, andò a Cesarea, di dove poi si recò a Tarso nella Cilicia. Eccetto, quindi, che a Gerusalemme, dove era stato con san Pietro quindici giorni, egli era sconosciuto di persona dalle altre Chiese della Giudea, e quindi non aveva avuto contatto con altri apostoli. In quelle Chiese si era solo sparsa la notizia della sua conversione, e quindi della sua vocazione all’apostolato, e ne davano lode a Dio, riconoscendone anche con questa glorificazione del Signore l’autenticità. Come potevano, dunque, i falsi apostoli della Galazia svalutare l’apostolato suo, ricevuto direttamente e soprannaturalmente dal Signore?
Sac. Dolindo Ruotolo

28.06.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 2 par. 5

5. L'infanzia. Lo smarrimento di Gesù e la sua vita nascosta
Maria e Giuseppe, dopo aver compiuto tutto ciò che ordinava la Legge, se ne ritornarono nella Galilea, andando a dimorare col Figlio divino nell'umile borgata di Nazaret. Siccome san Giuseppe, quando ritornò dalla fuga in Egitto, voleva fissare il suo domicilio a Betlem (Mt 2,22) si può supporre che, dopo la purificazione, la sacra Famiglia sia andata a Nazaret per un certo tempo, per ritornare poi a Betlem, dove più tardi avvenne l'adorazione dei Magi, e poi la fuga in Egitto ed il definitivo stabilirsi a Nazaret.
In questa dimenticata borgata Maria allevò il suo Bambino, e san Giuseppe cercò di sopperire alle necessità della casa col suo lavoro. L'idea che ebbe più tardi di stabilirsi a Betlem ci fa intendere che a Nazaret il lavoro doveva esservi scarso, e che la vita della sacra Famiglia conoscesse le angustie della povertà; ma in quella povertà splendeva Gesù, tesoro divino, ed era la felicità della casa. Il Sacro Testo dice che egli cresceva e s 'irrobustiva, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era in Lui. Da queste brevi parole, che san Luca attinse dalla bocca di Maria, si può arguire quale fosse la sua vita col Figlio divino. Ogni madre è attratta teneramente a considerare il crescere e l'irrobustirsi fisico del figlio, ed è incantata dalle prime manifestazioni della sua intelligenza e del suo cuore.
Chi alleva un figlio sa quanta gioia si prova nel vederlo sano, forte, intelligente e buono, ossia nel constatarne lo sviluppo fisico e morale. Questa soddisfazione di amore in Maria era immensa, poiché Essa sentiva dalla vita del Redentore una continua comunione di grazie, ed era come immersa nei raggi della sua divinità. Cresceva Gesù e cresceva l'amore di Maria; si irrobustiva il piccolo corpo ed aumentava la sua tenerezza materna; Egli non balbettava ma le parlava da Dio al cuore, e le rivelava i tesori della sua carità.
Maria, quindi, era in continua contemplazione. Nessuna maternità fu più gioiosa della sua. Cresceva e s'irrobustiva Gesù, e quindi cominciava a camminare ed a prestare piccoli servigi in casa e nella bottega di san Giuseppe.
Quale tenerezza e quale esempio l'intimità della casa di Nazaret! Vi regnava sovrana la pace, il raccoglimento, la più intima e pura gioia, e la luce divina la mutava in un tempio. Che cosa era Gesù al petto materno! Con quale umilissimo amore Essa gli continuava a dare nel latte la sua vita, con quale tenerezza si sentiva succhiare la vita! Una delle più tenere funzioni materne è l'allattamento; aprirsi quasi il cuore, donare se stessa, sentirsi leggermente mordere, notare la soddisfazione del piccolo infante, i suoi occhi, la sua stessa avidità commuove le sue viscere. Si sente alleggerita dal suo piccolo, perché si vuota di quella pienezza che il suo amore vuol donare, e quando lo vede staccato dal suo petto, nel sonno, rimane a guardarlo e lo bacia soavemente, lo sfiora con un soffio di amore.
La Chiesa sintetizza questa funzione materna di Maria con una frase ammirabile: Sola virgo lactabat, ubere de coelo pieno-, aveva il petto verginale pieno di cielo perché fecondo per opera dello Spirito Santo. Essa dunque non gli donava solo il latte verginale, ma effondeva in Lui la sua vita di amore, e lo avvolgeva nei profumi della sua purezza e della sua umiltà. Quel petto immacolato era veramente un campo di gigli dove il Diletto suo discendeva per pascolarsi di amore, ed Essa gli donava tutto il suo Cuore Immacolato, attingendo a sua volta da Lui quella grazia della quale era ripieno.
Sapeva benissimo, poi, di avere al petto il Figlio di Dio, e la sua umiltà a quel contatto doveva essere immensa, ineffabile. Lo toccava come un'Ostia consacrata, lo avvolgeva con le sue braccia più dell'angelo dell'Arca, era tutta splendente di amore, era la Madre di Dio, l'unica Madre nella quale questo nome era veramente divino!
Cresceva Gesù e s 'irrobustiva, dando i primi passi, e poi prestando i primi servigi, come s'è detto. Il piccolino dolcissimo camminava per le umili stanze come una visione celeste; perfettissimo di forme, tutto riccioli d'oro, rifulgente nella sua divinità, amabile, soave, e i suoi occhi brillavano di un'intelligenza che costringeva all'adorazione. Era soffuso da una leggera mestizia, perché era, Vittima d'amore, e Maria nel guardarlo penetrava i misteri di quel Cuore infinito e li conservava nel suo Cuore gemendo in un profondo dolore. La profezia di Simeone le era sempre presente, ed il passare degli anni l'avvicinava sempre più al Calvario. Essa lo sapeva, ma si univa tutta alla divina volontà e pregava per gli uomini.
Cresceva Gesù [...] pieno di sapienza, e la grazia di Dio era in Lui. Egli, infatti, possedeva, come uomo, in modo mille volte più perfetto degli angeli e dei santi, la scienza beata e la scienza infusa, ed aveva anche la scienza sperimentale od acquisita proporzionata alla sua età ed alla perfezione ammirabile delle sue facoltà naturali. La sua anima umana era rivestita della pienezza della grazia santificante, e possedeva in sommo grado i doni dello Spirito Santo, le grazie gratis datce e tutte le virtù infuse od acquisite. Era perfettissimo anche nella piccola età, e spirava tale soave maestà da conquidere. Ogni atto suo era divino, e dai piccoli servizi che prestava spirava qualche cosa di solenne, perché Egli faceva tutto adorando, riparando, ringraziando e pregando il Padre per gli uomini che era venuto a redimere. La piccola casa di Nazaret, quindi, risuonava di arcane lodi più che un tempio, ed a quelle lodi divine rispondevano i Cuori di Maria e di Giuseppe, due cuori che palpitavano all'unisono col Verbo Incarnato.
Gesù, smarrito e ritrovato nel tempio
Ogni anno Maria si recava con san Giuseppe a Gerusalemme per la solennità della Pasqua, benché, essendo donna, non vi fosse obbligata; gli uomini dovevano andarci tre volte l'anno, nella Pasqua, nella Pentecoste e nella festa dei Tabernacoli; le donne ne erano dispensate, e solo le più pie vi si recavano nella Pasqua; i fanciulli, poi, contraevano questi obblighi legali all'età di dodici anni. Maria andando a Gerusalemme portava con sé anche Gesù, ma quando Egli giunse all'età legale, dovette farlo viaggiare nella comitiva degli uomini, com'era di uso, e fu così che al ritorno non si accorse che Egli era rimasto in Gerusalemme. Credettero, tanto Essa che san Giuseppe, che fosse in mezzo agli altri, e camminarono una giornata. Alla prima sosta, però, constatarono che mancava e lo cercarono inutilmente tra i parenti ed i conoscenti. Col cuore estremamente angosciato, allora, ritornarono in Gerusalemme, e per ritornarvi impiegarono un altro giorno; non sapendo come rintracciarlo, stettero un giorno intero a fame ricerche, e nessuno seppe dare loro indicazioni perché non lo conoscevano. Finalmente il terzo giorno andarono al tempio, forse per supplicare Dio a farlo loro ritrovare, ed attraversando le sale annesse all'edificio sacro, dove i rabbini si radunavano per insegnare la Legge, riconobbero la voce dell'amatissimo Figlio, che in mezzo ai dottori stava seduto come un discepolo, ascoltandoli e proponendo loro varie questioni.
È impossibile formarsi un'idea del dolore di Maria e di Giuseppe nello smarrimento di Gesù; bisognerebbe poter misurare l'amore che gli portavano. Erano angosciati, agonizzavano, temevano di avere essi provocato quell'allontanamento per la loro indegnità, trepidavano per la sua incolumità, gemevano nella maniera più straziante.
Gesù era tutta la loro vita, e l'anima loro era straziata senza di Lui. Che cosa furono quei giorni di ricerche! Non perdettero la pace, perché erano santissimi; ma perdettero, potrebbe dirsi, il cuore, perché se lo sentivano straziato. Gesù Cristo conosceva il loro strazio, ma permise quella terribile prova per santificarli di più e per esempio di tutti. Il suo Cuore divino ne soffriva più di loro, ma, nel momento nel quale Egli iniziava la sua vita legale, per compiere l'opera sua, era necessaria una grande immolazione di amore che rendesse l'uomo degno d'accogliere il suo amore.
La spaventosa indifferenza delle creature per ciò che appartiene a Dio, e l'agitazione del mondo nelle miserie delle sue stupide attività, tutte orientate alla materia, esigevano quell'agonia di due anime tese solo a Dio e viventi solo per Dio. La terribile resistenza che fanno tanti cuori alle chiamate di Dio, preferendo i loro disegni alla sua volontà, esigeva il sacrificio che Gesù faceva del suo amore a Maria ed a Giuseppe, come riparazione e come preparazione ad accogliere il disegno della divina volontà. Egli doveva affermare il diritto di Dio sulla gioventù, speranza della vita delle nazioni, doveva distruggere d'un colpo le pretese delle tirannidi sui cuori che appartengono solo a Dio, doveva dare una luce che non doveva spegnersi più, sull'educazione dei figli e sulla loro vocazione, ed ebbe bisogno di un grande dolore per affondare nel duro cuore dell'umanità questa semente di vita. Se avesse prevenuto Maria e Giuseppe delle sue intenzioni, non avrebbe conseguito l'altissimo scopo che voleva conseguire; fece, dunque, forza al suo cuore, s'appartò, ritornò al tempio, e schiuse la sua mente agli insegnamenti della Legge, per insegnare ai giovani ad aprire la loro vita a Dio, e a seguire, senza riguardi umani, le ispirazioni particolari della divina volontà su di loro.
A dodici anni Gesù era ben sviluppato, a giudicare dalla statura che raggiunse nell'età matura. Era di forme perfettissime, bellissimo, splendente, affascinante. La sua chioma intensa, a modo dei Nazirei, gli scendeva sulle spalle, ed incorniciava il volto come in un'aureola di gloria. I suoi bellissimi occhi rivelavano il mistero divino che in Lui si nascondeva, avevano una espressione arcana ed una luce ineffabile; penetravano, per così dire, i cuori. Entrò nella sala dov'erano i dottori e sedette ascoltandoli. Il suo Cuore si saziava della divina Parola, ed ardeva per la gloria del Padre. Attrasse subito l'attenzione di tutti, poiché, interrogato, diede risposte profondissime e fece domande che stupirono tutta l'assemblea. Di che cosa parlò? Il Sacro Testo non ce lo dice, ma si può supporre che parlasse della pienezza dei tempi e del Messia, e parlasse del Padre suo celeste, come potrebbe rilevarsi dalla risposta che diede a Maria. Parlò di Dio, e per la prima volta sulla terra echeggiò una parola divinamente luminosa fra tante tenebre che gravavano sugli uomini.
Maria e Giuseppe entrarono nel sacro recinto, e furono stupiti che Gesù si fosse manifestato così al pubblico. Il suo amore al nascondimento era così profondo che non lo credevano possibile. Forse si stupirono che fra tanto loro dolore Egli si fosse mostrato insensibile, sapendo quanto era affettuoso ed amabile. Maria non poté frenare il suo amore materno; corse là dove stava il Figlio, lo interruppe nel suo discorso ed esclamò: Figlio, perché ci hai fatto Tu questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di Te.
Tutto il suo dolore era espresso in queste poche parole: lo chiamò figlio, e con questo disse che lo cercava da madre, e da Madre divina; gli domandò perché aveva fatto quella cosa, e con questo manifestò tutte le trepidazioni angosciose del suo cuore e di quello di san Giuseppe; espresse la pena immensa con la quale l'aveva rintracciato, e con questo espresse l'amore che aveva reso un'agonia il suo materno affanno e quello di san Giuseppe.
Gesù Cristo non rispose duramente, come potrebbe apparire dal Testo; noi, abituati ad adirarci quando siamo contraddetti e leggendo l'episodio con passionalità, possiamo facilmente essere indotti a dare un senso di durezza alla risposta di Gesù; Egli invece rispose con immensa dolcezza, e con infinita compassione al loro dolore: Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo attendere a ciò che riguarda il Padre mio? Se avessero riflettuto all'amore che loro portava ed alla missione che aveva, non avrebbero dubitato del suo affetto, ed avrebbero capito che s'era trattenuto al tempio. Egli voleva dire: come potevo io trascurarvi, e come potevo non tener conto del vostro dolore? Ma lo sapete che io sono Figlio di Dio, e potevate supporre che io fossi attratto dalla Casa del Padre mio e dagl'interessi della sua gloria.
Il Sacro Testo soggiunge che essi non compresero quello che loro aveva detto, non perché non fossero in grado di capire le sue parole, ma perché l'emozione e l'amore li concentravano in Lui solo. Era così bello nel sacro recinto, così fulgente di amore nelle sue parole, così profondo nelle sue risposte, che essi rimasero come incantati, e non rifletterono alle sue parole. Tardava loro solo il momento di averlo di nuovo, e per questo il Testo soggiunse: E se ne andò con loro, e fece ritorno a Nazaret, ed era loro sottomesso. Non fecero attenzione alle sue parole, dunque, perché lo invitarono a non lasciarli più soli; ed Egli, infatti, immediatamente obbedì.
Se avesse risposto per rimproverarli non li avrebbe seguiti, ed avrebbe continuato a parlare, invece tacque all'istante; la voce materna era per Lui un comando e doveva esserlo sempre; per questo Maria, passando dall'impeto del suo amore ad un sentimento di profondissima umiltà, meditava nel suo Cuore quello che s'era svolto, ed il mistero dell'amore che Egli le portava. Egli le obbediva, Egli il Figlio vero del Padre! La sua Maestà divina si piegava innanzi alla sua Parola! Tutt'altro che mostrare noncuranza o trattarla male, come dicono i protestanti, Egli lasciava di occuparsi del Padre suo divino per occuparsi della Madre, e mostrava che l'amava d'uno stesso amore, e che per Lui il consentire a ciò che Essa voleva era lo stesso che glorificare Dio suo Padre.Ritiratosi a Nazaret, Gesù vi rimase nascosto fino a che non cominciò la sua vita pubblica. Che cosa faceva nel suo arcano nascondimento? Evidentemente s'occupava delle cose del Padre suo, cioè della sua gloria, e se ne occupava umiliandosi, obbedendo e lavorando. Il Sacro Testo dice che Egli cresceva in sapienza, in statura ed in grazia presso Dio e gli uomini, e da queste poche parole si può intuire qualche cosa del mistero di quella vita divina: cresceva in sapienza non perché studiasse, ma perché manifestava sempre più gli arcani della sua scienza beata ed infusa, e meditava con la scienza acquisita, cioè con la energia della sua anima umana, le divine meraviglie, parlandone con la Madre, con san Giuseppe e con altre persone familiari. Era logico che facesse così, perché Egli voleva innalzare e nobilitare in sé l'umana natura, e non c'è cosa più nobile quanto il meditare le meraviglie celesti.
Cresceva in statura perché l'età s'avanzava, ed Egli essendo veramente anche uomo, lo mostrava in tutta la sua vita. Aveva però nella sua statura, cioè nel suo aspetto fisico attrattive mirabili che colpivano quanti lo vedevano, e quindi cresceva in queste attrattive come cresce il sole a misura che sale sull'orizzonte. Cresceva in grazia non secondo l'abito che era in Lui perfetto ed immutabile, ma secondo gli effetti, compiendo sempre più opere mirabili che ne manifestavano la pienezza. Presso Dio la sua vita era un'offerta sempre più grande, presso gli uomini era una manifestazione sempre più bella; a Dio donava gli atti della vita che progrediva e, seguendo lo sviluppo naturale, cresceva in questi doni di amore; agli uomini dava lo spettacolo di una grandezza sempre più attraente per la sua bontà e soavità.
Sac. Dolindo Ruotolo

venerdì 27 giugno 2014

27.06.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 11 par. 7-8

7. Il privilegio dei piccoli di spirito, e l'invito del Cuore di Gesù
Perché le anime non corrispondono alle grazie del Signore? Perché presumono di se stesse, si gonfiano vanamente, indagano con superba tracotanza quello che dovrebbero adorare e praticamente rifiutano la luce delle divine misericordie. Il Vangelo non si può intendere dai così detti grandi del mondo, perché essi hanno la testa come intontita dalle loro meschinità, e sono avvolti dalla fitta cortina delle loro idee.
Gesù perciò si compiace dei piccoli di spirito, che in realtà sono grandi, e ringrazia il Padre di aver loro rivelato i misteri della verità e dell'amore celati ai così detti sapienti della terra. La sapienza e la prudenza umana è come nebbia che si leva all'orizzonte e impedisce il diffondersi dei raggi del sole; gli uomini la credono sapienza ma in realtà è stoltezza innanzi a Dio. Ne sa più un umile contadino, pieno dello spirito del Signore, che un dotto filosofo, il quale si perde nei vortici delle sue fantasie. È questo un punto importantissimo e fondamentale per andare a Dio, e Gesù mostra in se stesso la grandezza di questo principio: Egli si è umiliato e fatto piccolo per amore, e tutto gli è stato dato dal Padre; è povero innanzi al mondo, ma è ricchissimo innanzi a Dio, perché il tutto donatogli dal Padre è il suo Verbo che termina l'umana natura.
Il Verbo è la conoscenza del Padre ed è la sapienza infinita che lo conosce, il Verbo e il Padre sono perfettamente uguali, benché realmente distinti.
Il Padre conosce se stesso e genera il Verbo nella sua infinita semplicità, ed il Verbo, conoscenza del Padre, lo glorifica in una luce infinitamente semplice.
È dunque la semplicità che trionfa nell'oceano dell'infinita luce ed è attraverso la semplicità che questa luce si comunica. Il Padre la comunica ai piccoli, e il Figlio la comunica a chi vuole; siccome la sua volontà è fonte di bene così è chiaro che la comunica non a capriccio, ma diffondendo il bene con la sua volontà, salvando e redimendo. Il bene raggiunge la creatura nel sacrificio e il sacrificio avvicina la creatura al sommo bene, e per questo Gesù invita a sé tutti i sofferenti per ristorarli col dono della luce e dell'amore di Dio.
8. Imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore
Per ricevere la luce di Dio bisogna appartenere al Redentore, e sottoporsi al suo giogo, cioè al suo dominio, che è soave e dolcissimo, e bisogna imparare da Lui come da Maestro. Non basta ascoltare i suoi precetti per intenderli, bisogna prima sottomettervisi ed accettarne la pratica perché i precetti di Gesù non sono teorie filosofiche ma sono via, verità e vita. Bisogna imparare da Lui che è mansueto ed umile di cuore, nella mansuetudine che si sottomette al giogo; e nell'umiltà che sa rinunziare ai propri pensieri; bisogna imparare dal Maestro divino la mansuetudine e l'umiltà del suo Cuore, che sono i segreti della sua intimità col Padre, poiché Egli si sottomette alla sua volontà che lo immola ed, umiliandosi fino alla croce, ne glorifica la grandezza e la maestà.
I moderni esegeti sostengono che Gesù Cristo nel dirci: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore, non abbia voluto proporsi come maestro di queste due virtù ma abbia voluto dire che Egli è un maestro che non fa paura, che è mansueto ed umile nell'insegnare, e lo è non a fior di labbra ma profondamente nel cuore (vedi Sales, pag. 51). A noi questa spiegazione sembra non solo monca nel contesto, ma contraria allo spirito stesso della Chiesa. Gesù, infatti, ci esorta a prendere il suo giogo e ci mostra il Cuore suo per mostrarci che cosa è questo giogo, tutto amore, tutto pace, e tutto bontà. Se il Re è amore, mansuetudine ed umiltà, è logico che anche i sudditi lo siano, poiché i sudditi debbono imparare da Lui. Gesù vuole, precisamente perciò, com'è chiaro dal contesto, che s'impari da Lui la mansuetudine e l'umiltà del suo Cuore.
La vita eterna sta nel conoscere il Padre ed il Figlio, come il Figlio Incarnato conosce il Padre e lo glorifica; Egli si sottomette alla sua volontà e si umilia fino alla croce, accetta con mansuetudine il giogo come vittima e si offre alla croce. I suoi seguaci debbono fare lo stesso e poiché l'amore di Dio include quello del prossimo, debbono essere mansueti ed umili anche nelle relazioni coi propri fratelli.
Sac. Dolindo Ruotolo

27.06.2014 - Commento alla prima lettera di S. Giovanni cap. 4, par. 1

1. Il significato letterale di questo capitolo
Come distinguere i falsi dottori dai veri
La carità fraterna, sulla quale insiste tanto S. Giovanni, è il comandamento principale della Legge antica annunziata da Dio, ed è il comandamento di Gesù Cristo, Redentore nostro, il suo comandamento, che definì come nuovo, perché proclamato in un tempo di odio e di guerre, e per il popolo ebreo, in un tempo di isolamento... diremmo, razziale, con vocabolo di moda. Dio, proclamando la suprema legge dell’amore che gli dovevano le creature, e dell’amore scambievole che si dovevano gli uomini tra loro per amore suo, si rivolgeva al popolo eletto, e quindi la legge era ristretta ad esso per necessità riguardava la sua particolare posizione nel mondo. Separato dagli altri popoli, l’amore fraterno non poteva riguardare che l’amore per i propri connazionali. Non era, dunque, come facilmente si asserisce, un precetto imperfetto.
Venuto in terra il Figliuolo di Dio, per redimere e salvare non gli Ebrei soltanto, ma il mondo, ma tutti gli uomini, era logico che il precetto della carità fosse esteso a tutti gli uomini, e perciò fosse una luce nuova per tutti, escludendo ogni divisione ed ogni odio.
Morendo per tutti, Gesù volle unirli tutti nel suo amore, e fondò la Chiesa, ovile di raccolta per le sue pecorelle.
Diamo un esempio recentissimo, per dare un’idea di questa unione di tutti in Gesù: nella stazione sperimentale di piante subtropicali di Sotchi, c’è un grosso albero che è stato battezzato albero dell’amicizia e quindi indirettamente dell’amore, per i frutti diversi che vi maturano. Sullo stesso tronco si trovano i frutti di mandarini giapponesi, di limoni italiani, di pompeimi americani, di arance cinesi, ecc. Si arriva alla cifra di cinquanta diverse varietà di frutti su di un solo albero.
Ebbene, la Croce è il vero albero dell’amore, sul quale debbono maturare, per la carità, i frutti della redenzione di tutti i popoli della terra, senza distinzione di colore, di razza o di abitudini nazionali, uniti in quella dolcissima parola di Gesù Cristo: Amatevi come io vi ho amati.
La carità, quindi, viene nelle anime dalla fede viva in Gesù Cristo che, morendo, ha dato l’esempio della somma carità, confermando col suo Sangue il precetto che aveva dato. Con stretta connessione di idee, nella luce soprannaturale che lo illuminava, S. Giovanni esorta i fedeli alla purezza della fede e li mette in guardia contro i falsi dottori, che con i loro errori mettevano dissensioni profonde nelle anime.
Non è, quindi, come dicono i moderni, per il suo gusto letterario che ritorna sulla necessità di una fede pura, prima di continuare ad insistere sulla carità con nuovi argomenti. Non si tratta di gusto letterario, che potrebbe avere anche l’apparenza di una certa confusione personale nell’ordine delle idee e nell’insegnamento delle verità: non si tratta di un ritorno su concetti già espressi ma di un avviso opportuno e necessario per mettere un saldo fondamento alla pratica della carità.
S. Giovanni, perciò, dice: Diletti, non ad ogni spirito prestate fede, ma mettete alla prova gli spiriti, per sapere se sono da Dio; infatti, molti falsi profeti hanno fatto irruzione nel mondo.
Ogni falso dottore, nel propagare false dottrine sulla fede, le presentava come ispirazione di Dio, contraffacendo i carismi dello Spirito Santo, che allora erano comuni nella Chiesa. Lo Spirito delle tenebre si trasformava in angelo di luce per ingannare le anime e disgregarle nell’unità della fede, e perciò nella unione fraterna della carità.
Non ad ogni spirito prestate fede — dice S. Giovanni — e che cosa intende per spirito? La parola greca, che usa, pneuma, nel significato letterale significa soffio, alito, vento, indipendentemente da ogni altro concetto; ma può significare e designare gli esseri immateriali, come Dio, gli Angeli, i demoni e le anime, per analogia. Il soffio, il vento, l’alito, infatti, non si veggono, e si percepiscono quasi come una cosa immateriale.
La parola pneuma, spirito, si estende pure agl’influssi degli esseri immateriali ed alle persone che agiscono mosse da tali influssi. Si dice, quindi, spirito di verità; spirito di menzogna, spirito maligno; spirito santo, ecc.
Evidentemente S. Giovanni parla di spiriti, intendendo significare quelli che predicavano o insegnavano con l’apparenza della verità o con la mistificazione di carismi o di ispirazioni che non avevano, e mette in guardia i fedeli, perché non si fossero fatti illudere da ipocrite apparenze di verità o di progresso o di ispirazioni soprannaturali. Egli soggiunge, infatti, che molti falsi profeti avevano fatto irruzione nel mondo. Gesù stesso aveva prevenuto gli Apostoli ed i suoi seguaci contro il pericolo di falsi dottori, dicendo: Sorgeranno molti pseudocristi e pseudoprofeti e sedurranno molti (Matt. XXIV, 18, 24).
Al tempo di S. Giovanni già serpeggiavano tra i fedeli false dottrine, e falsi dottori se ne facevano propagatori, quasi fossero stati profeti mandati da Dio, simulando il carisma della profezia che riviveva in forma straordinaria nei primi tempi della Chiesa.
C’era, dunque, necessità di avere un criterio per distinguere nettamente i falsi dottori dai veri, e S. Giovanni lo dà in forma sintetica ma chiarissima: In questo conoscete lo spirito di Dio: ogni spirito il quale professa che Gesù è il Cristo, venuto nella carne (e si sottintende necessariamente: da Maria Vergine) è da Dio, mentre che ogni spirito che non professa questo Gesù, con la sua Madre, non è da Dio, anzi costui, questo spirito, è proprio quello dell’anticristo, del quale avete inteso che viene, anzi è già nel mondo.
Non è arbitrario il pensare che S. Giovanni, parlando di Gesù Cristo venuto nella carne, abbia sottinteso necessariamente da Maria Vergine, e, che quindi, professare che Gesù è il Cristo, credere in Lui, venuto nella umana carne, implica di necessità il credere in Maria SS. Professare Gesù, significa credergli, onorarlo, adorarlo come vero Liglio di Dio, e significa credere, onorare e amare Maria SS. dalla quale, per opera dello Spirito Santo, prese l’umana carne *.
S. Giovanni stava con Maria, alla quale Gesù l’aveva affidato; conviveva con Lei nella stessa casa, in sua; aveva in Lei l’argomento vivo della realtà del Cristo venuto nell’umana carne; era tutto compreso della grandezza e della immacolata purezza della piena di grazia, e non poteva dare come certo contrassegno dello spirito di Dio il credere nel Cristo venuto nella umana carne, senza dare implicitamente, ma luminosamente, come contrassegno dello spirito di Dio il credere in Maria SS.
Chi manca di questa fede, lo intendano i poveri protestanti, non può avere altra caratteristica che quella di anticristo e non può illudersi di avere lo spirito di Dio. È un argomento fortissimo che dovrebbe disingannarli.
In conformità alla dottrina cattolica, secondo la tradizione apostolica, e non secondo una libera, ossia cervellotica, arbitraria interpretazione della sacra Scrittura, è contrassegno dello spirito di Dio, dal quale viene come conseguenza la rettitudine morale. È il contrassegno che diedero gli Apostoli per distinguere i veri profeti dai falsi; è il contrassegno che danno i Padri ed i dottori della Chiesa.
Chi pretende di credere in Gesù senza riconoscere Maria, dissolve Gesù solvit lesum, come traduce bellamente la Volgata; lo dissolve, perché lo divide dalla Madre, ed un figlio, separato dalla Madre, non ha vita, è un misero aborto; e se, nato, volesse vivere o pretendere di vivere senza la madre, prescindendo da lei, o, peggio, rinnegandola con malcelato disprezzo, sarebbe solo un orfano cencioso, sporco, affamato ed abbandonato! Chi è antiMaria diventa per necessità anticristo.
Gli errori, che insinuavano i falsi dottori tra i fedeli erano precisamente contro la reale umanità assunta dal Figlio di Dio in Maria, ed altri errori simili, che tentavano dissolvere l’unità della Chiesa nella carità, in un solo pensiero, in una sola anima, in un solo cuore.
S. Giovanni dice che l'anticristo attualmente è già nel mondo, alludendo agli errori che si diffondevano dai falsi dottori contro l’integrità e l’unità della fede, come già l’aveva inteso nel capitolo secondo (18, 19,22). Con questo non voleva dire che l’anticristo, del quale parla nell’Apocalisse, che si manifesterà alla fine del mondo, fosse già venuto.
Nel secondo capitolo egli lo ritiene come l’insieme delle forze malefiche di errori e di seduzioni che allontanano le anime dalla fede e dalla integrità dei costumi, il che dolorosamente è anche nel nostro tempo e forse più nel nostro tempo.
Gli anticristi del mondo
Per questo subito (S. Giovanni) parla del mondo e dello spirito del mondo, che, allora come oggi, è l’anticristo; parla dei disseminatori di errori, che sono anticristi perché vivono dello spirito del mondo e ad essi contrappone i fedeli ai quali scrive, compiacendosi della integrità della loro fede, ed esclama: Voi da Dio siete, o figliuoli, e li avete vinti gli anticristi, emissari del maligno, come Gesù Cristo ha vinto il mondo, perché è più grande Quegli che è in voi di colui che è nel mondo, dell’anticristo o dei suoi seguaci. Essi dal mondo sono, per questo secondo il mondo parlano ed il mondo li ascolta.
L’errore, infatti, trascina facilmente le anime, perché carezza le loro passioni disordinate ed indulge alla loro vita di corruzione, anzi la incoraggia. I fedeli che sono da Dio non si lasciano sedurre dal
mondo e lo vincono per la forza divina della grazia che opera in loro, per Gesù Cristo. Egli, infatti, disse: Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi animo, io ho vinto il mondo (Giov. XVI, 33).
E come lo aveva vinto, se Egli stesso era perseguitato, e lo fu sino ad essere crocifisso, apparendo come un vinto anziché come un vincitore? Lo vinse con la luce della sua dottrina, con la luce della verità; lo vinse proprio con la Croce, levando sul Calvario il vessillo della vittoria.
Quelli che seguono Gesù Crocifisso e la sua dottrina, predicata dagli Apostoli e dai loro successori, vincono il mondo, vincono gli anticristi. Noi, soggiunge S. Giovanni, noi apostoli, da Dio siamo, ed annunziamo la verità per mandato di Gesù Cristo. Chi conosce Dio ascolta noi, segue non gli errori, ma il magistero della Chiesa, avendo detto Gesù: Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me (Luc. X, 16).
Per la sicurezza del mandato avuto da Gesù Cristo di ammaestrare tutte le genti (Matt. XXVIII, 19) e per questa esplicita parola del Redentore, S. Giovanni soggiunge: Chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo riconosciamo lo spirito della verità e lo spirito della menzogna.
Con queste categoriche parole, S. Giovanni esorta i fedeli a non essere divisi per la propaganda dei falsi dottori, ma ad essere uniti in perfetta carità nell’unità della fede. Perciò, con logica connessione di idee, ritorna sull’argomento della carità e dell’amore fraterno, per inculcarlo con motivi anche più forti e luminosi: Diletti, amiamoci l’un l’altro, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Iddio. Chi non ama non conosce Iddio, perché Dio è amore.
Dio è amore
Una mirabile definizione di Dio: Iddio è amore, non semplicemente Dio, in una idea generica di divinità, teos nel greco, idea che può riferirsi al concetto di divinità e si diceva persino degl’idoli, ma Iddio, o teos, il vero Dio, l’unico Dio, nell’adorabile Trinità. Se Dio è amore, la definizione vera, e, diremmo, filosofica dell’amore non può darsi che nella luce di Dio, non può approfondirsi che rispecchiandoci
nella essenza stessa di Dio Uno e Trino, in unità perfettissima di natura, e nella Trinità, in perfettissima unione di amore.
Oceano di amore nel quale l’anima può rispecchiarsi per intendere che cosa è amore. I filosofi si sono sforzati di definirlo, e l’hanno chiamato indefinibile, perché o non hanno conosciuto Iddio, come i pagani, o lo hanno rinnegato in una confusione di concetti falsissimi, o addirittura nell’ateismo, come i miseri filosofastri moderni, che si atteggiano a pensatori e nel loro orgoglio non si accorgono di cadere nell’assurdo.
Che cosa intende S. Giovanni per amore fraterno, quando dice: Diletti, amiamoci l’un l’altro, e che cosa intende per amore divino, quando dice che Iddio è amore?
È un concetto difficile da chiarirsi, per capire la grandiosità di quello che dice S. Giovanni. Prima di tutto l’Apostolo qualifica l’amore con la parola greca agape, parola sconosciuta negli scritti precristiani non biblici, nei quali ricorre solo una o due volte. Da agape venne chiamato il banchetto eucaristico, che è il banchetto dell’amore divino e della carità fraterna.
Per i greci pagani l’amore era chiamato eros, dal quale deriva, nella nostra lingua, erotico. L’eros greco, tutto materiale e carnale, si estende ad ogni sentimento focoso, appassionato, specialmente a quello sensuale; è la brama che trascina verso il piacere impuro, verso la nudità maschile o femminile che lo provoca, e perciò i latini lo chiamavano Cupido, deificandolo come un fanciullo bendato che saettava. Cupido, concupiscenza, desiderio di connubio; bendato, perché acceso dalla passione, che, trascinata dal senso, non ragiona, non vede più ciò che è retto, e dardeggia nel cuore, per ferire nei sensi.
Platone, nella elevazione della sua grande mente, innanzi alla quale i moderni filosofastri spariscono come esamfeli di palude che sorgono dal pantano, per suggere e avvelenare di malaria i poveri cervelli umani, tentò idealizzare l’eros nel suo Convivio e lo denominò: desiderio di bellezza corporea, che, evolvendosi, ascende dalla carne allo spirito, e dallo spirito alla bellezza divina, alle idee eterne.
Sforzo che possiamo dire nobile in un pagano, abituato a vedere la divinità nella meravigliosa arte con la quale erano scolpiti gli idoli dell’Olimpo.
Per Platone, quindi, l’amore era una passione carnale, che intensificandosi, si purificava, evidentemente perché non soddisfaceva. Dalla materia passava all’ideale della bellezza, dalla bellezza corporale, che non si restringeva e si confondeva nella sensualità, si elevava nella estetica di tutto il corpo, ed appariva nella luce della bontà, della proporzione, dell’ordine, spirando pace nell’ammirazione.
Da questo, nell’idea di Platone, l’anima poteva assurgere alla bellezza divina, perché, dall’idolo di forme corporali perfette, poteva elevarsi alla bellezza divina, prescindendo dalla materia.
Come si vede, in un pagano, che con la sua profonda ragione era giunto al concetto di Dio come unico, pur vivendo tra numerosi idoli, era un concetto immensamente più nobile di quello dei filosofastri moderni, che confondono l’amore con la sensualità.
La Sacra Scrittura dice che Dio, nel creare le cose materiali, vide che erano buone; le vide nell’ordine delle leggi che le regolavano, e nella bellezza della loro armonia, corrispondente al fine per le quali le creava, compiacendosene. Il suo compiacimento era amore, era come suggello della loro perfezione materiale; vide come l’artista che guarda l’opera d’arte da lui fatta e, compiacendosene, la definisce perfetta. Il suo sguardo è come l’ultima mano alla perfezione dell’opera, perché non vi riconosce difetti.
Come è profonda l’espressione della Sacra Scrittura: Dio disse: Sia fatta la luce. E la luce fu. E Dio vide che la luce era buona. Dio disse: Si radunino le acque in un sol luogo ed apparisca l’arida. E così fu fatto. E Dio nominò terra l’arida, e la raccolta delle acque la chiamò mari. E Dio vide che ciò era buono (Gen. 1, 3, 4, 9, 10).
L’amore, come lo definisce S. Giovanni, l'agape non è una passione purificata, ma è Dio stesso: Iddio è amore. Dio che si dona prima di tutto e dall’eternità, nella generazione del Verbo, del Figlio suo che è nel seno del Padre (Giov. 1, 18), Dio che per il Verbo suo si dona al mondo: Iddio ha tanto amato il mondo, fino a dare l’unico Piglio suo (Giov. Ili, 6). Il Verbo incarnato è la manifestazione suprema di Dio amore, e l’amore di Dio, che per il Figlio suo incarnato ci purifica col suo Sangue, è propiziazione per i nostri peccati e per quelli del mondo intero (I Giov. 1,7). È il mediatore di amore fra noi e Dio, Padre giusto — disse Gesù nella sua sublime preghiera —
io ho fatto loro conoscere il tuo Nome, e lo farò loro conoscere ancora, affinché l’amore col quale mi hai amato, sia in loro, ed io pure sia in loro (Giov. XVII, 26).
Iddio è amore, e l’amore suo non è uno sguardo di compiacimento, ma è una forza potente che ci sospinge all’azione, è la sua grazia che ci rende partecipi della sua natura divina. Per la grazia noi lo amiamo, e la nostra corrispondenza al suo amore, che Egli esige da noi perché ci ama, è frutto della sua medesima grazia, si manifesta e si testifica nella carità, e perciò chi non ama rimane nella morte (III, 14) e chiunque ama è generalo da Dio e conosce Dio.
L’amore vero trasforma l’uomo, lo riscalda di carità operosa verso Dio e verso il prossimo; non è una sterile espressione di parole, ma è amore che si manifesta nella verità sincera e si attiva nelle opere (III, 16). Iddio è amore, e noi, creati ad immagine e somiglianza di Dio, dobbiamo essere amore nella carità. L’amore perfetto scaccia il timore (IV, 16, 18) è fonte di gioia (Giov. XV, 9-12; III, 20) è pace (Giov. XIV, 27).
Di fronte a questa mirabile concezione dell’amore in Dio e in noi, che cosa sono le meschinissime idee umane?
O misere idee, erranti come pipistrelli nella notte, in cerca di insetti, e riposanti nello speco oscuro, capovolti!
Amiamoci l’un l’altro
Quale accento di verità hanno le parole di S. Giovanni: Amiamoci l’un l’altro, perché l’amore è da Dio, e chiunque ama è generato da Dio e conosce Iddio. Chi non ama non conosce Iddio, perché Iddio è amore. La carità diffusa per mezzo dello Spirito Santo che ci fu dato (Rom. V, 5) è da Dio e proviene da Lui. Chiunque ama il prossimo con questo amore soprannaturale infuso da Dio è generato da Dio, è figlio di Dio, perché per lo Spirito Santo, Amore eterno di Dio, possiede in sé un germe divino e conosce Dio; lo conosce abitualmente come presente, secondo l’espressione della parola greca, lo conosce con la vera scienza, per la fede; sa che Dio è sommo bene che brama effondersi e si effonde nella creazione e nella grazia; lo sa e cerca imitarlo effondendosi nella carità ed osservando la Legge di Dio, poiché
tutto il decalogo non è altro che la legge della carità verso Dio e verso il prossimo.
Chi non ama il prossimo con amore soprannaturale, chi non ha per il prossimo rispetto, stima, bontà, servitù santa di soccorso, tenerezza di compatimento, dolcezza di tratto, ma, al contrario, si contrasta, ne mormora, lo giudica male, lo guarda con antipatia, gli serba rancore, è facile al ripicco o alla vendetta, ecc. non conobbe Dio, non è giunto nemmeno all’inizio della vera conoscenza di Dio, come indica l’espressione greca, ouk egno, perché Iddio è amore.
La misura, dunque, della nostra vita spirituale è la nostra carità verso il prossimo. Se manchiamo di carità, dolorosamente non stiamo neppure all’inizio della vita cristiana e tanto meno della perfezione. È per il rammarico, che gli cagiona la mancanza di carità, segno che non si sta neppure all’inizio della vita cristiana e perfetta, che S. Giovanni esce in quella vibrante definizione di Dio: Iddio è amore!
È l’esplosione di un affetto intensamente vissuto da lui, che aveva attinto dal Cuore di Gesù, sul quale aveva riposato, dall’intima conversazione con l’Unigenito di Dio, fattosi uomo e sacrificatosi per noi. Questo amore gli suggerì l’espressione forte: Chi non ama non conobbe Iddio, ouk egno, non è giunto neppure all’inizio della conoscenza di Dio.
Anche noi, nel parlare comune, per notare l’errore altrui, che ci sorprende e ci addolora, diciamo fortemente: Non sei neppure all’inizio della virtù, ti mancano i primi elementi della carità, ecc. Per questo S. Giovanni rafforza la sua espressione: Iddio è amore, richiamando le anime alla somma manifestazione del suo amore tra gli uomini, dicendo: Per questo rifulse l’amore di Dio tra noi; il proprio Figlio suo, l’Unigenito, ha mandato Iddio nel mondo, affinché avessimo la vita per mezzo di Lui. In questo sta l’amore: non noi amammo Iddio, ma Lui amò noi, e mandò il Figlio suo come propiziazione per i peccati nostri. Non poteva, dunque, Dio darci una maggiore manifestazione di amore per noi.
Questa riflessione rafforza la sublime definizione che S. Giovanni ha data di Dio, come sintesi mirabile dei suoi divini attributi, spinta, perciò, all’anima cristiana nell’esercizio della carità.
L’Apostolo aveva detto che Dio è luce (1, 5), perché è somma verità e santità, per esortare le anime a credere fermamente. Ma non bastava la fede, occorrevano le opere, e le opere della fede si sintetizzano nella carità; perciò S. Giovanni manifesta un attributo essenziale di Dio, che poteva spingere alla carità, dicendo: Iddio è amore.
È mirabile! È un volo sublime di aquila al di sopra di ogni concetto che l’anima può avere di Dio. È il luminoso sorpasso di amore al di sopra delle povere idee che l’uomo ha su Dio o si è formato di Dio.
Perciò S. Agostino, ammirando questa definizione divina, che da sola può accendere l’anima di amore per Lui e può espanderla nella carità, per suo amore, esclama: Che cosa potrebbe dirsi di più grande, o fratelli? Se in tutte le pagine di questa epistola ed in tutte le pagine delle Scritture nulla udissimo intorno alla lode dell’amore, e questo solo sentissimo dalla voce dello Spirito di Dio, che Iddio è amore, nulla di più grande vi dovremmo cercare.
Iddio è amore, non è solo una definizione astratta di Dio; Dio è ancora nella sua natura divina e nella sua adorabile Trinità, unita nell’amore dello Spirito Santo, persona divina che procede dal Padre e dal Figliuolo e li unisce nell’eterna carità.
« Non noi amammo Dio, ma Dio amò noi »
Iddio è amore rifulgendo tra noi con la Redenzione dell’uomo, per mezzo del suo Figliuolo umanato, fatto vittima di propiziazione per i nostri peccati; manifestazione luminosa della carità di Dio. La carità, l’amore è diffusivo, e come la divina bontà si è effusa nella creazione, rivelando la potenza di Dio, così l’amore si è effuso nella Redenzione. Voleva espandersi e creò l’uomo. Lo creò libero, e permise che per la libertà fosse anche caduto nel peccato, ma lo permise per espandere il suo amore nella Redenzione. Poteva forzare l’uomo a non peccare, ma non lo fece, diremmo, per forzare quasi se stesso a manifestarsi nella carità, nell’amore. Nella Redenzione l’amore si manifestò proprio all’uomo. Per questo l’Apostolo soggiunge: In questo sta l’amore'. Non noi amammo Dio, ma Lui amò noi, e mandò il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati.
L’espressione non noi amammo Iddio, ma Lui amò noi è logica,
mirabilmente logica, perché Dio ci creò per manifestare a noi il suo amore col supremo atto di amore: la Redenzione, per la Passione e la morte del Verbo umanato, fatto vittima per noi.
Mirabile mistero di amore, che potremo vedere solo nell’eternità, nel suo splendore: Amore nel crearci, amore nel farci liberi; amore sì, osiamo dirlo, nel permettere la nostra caduta, per farci più belli con la sua carità infinita, dandoci il suo Figliuolo, e per Lui effondendo in noi lo Spirito Santo, il suo eterno Amore. Padre amoroso che ha permesso che il suo figliolino cadesse, giocando liberamente nel campo, per sollevarlo nelle sue braccia, tempestandolo di baci mentre piange ed ingemmandolo di perle per quante lacrime ha sparso, nell’espansione dell’amore eterno che lo rende felice.
Iddio è amore, divino artista che ha fatto, creando l’uomo, un’immagine sua e, vedendola deteriorata dal peccato, l’ha fatta più bella, non con i colori della primitiva tavolozza, ma col Sangue del suo Unigenito, che rende la creatura conforme alla sua immagine sostanziale.
Amore mirabile, che la nostra povera mente non può intendere; amore per il quale si smarrisce, lamentandosi con Dio, ma che la Chiesa canta nella luce dello Spirito Santo con un’espressione che appare paradossale, ma che abbraccia l’amore di Dio, in una stretta di riconoscenza: O felix culpa, o colpa felice che ci donò un Redentore così grande! E più smarrendosi nella riconoscenza canta: o certe necessarium Adae peccatum, o certamente necessario il peccato di Adamo, che fu cancellato dalla morte di Cristo.
Espressioni ardite, che vorremmo dire esagerate? No, espressioni di riconoscente amore per Dio, che per primo ci amò, perché noi lo amassimo.
Psicologicamente, anche l’amore umano non si accende che quando la prima favilla scocca dalla persona che si vuole amare. Un sorriso può far risplendere un volto bello, e determinare in chi lo raccoglie un amore di simpatia; una parola buona o un gesto, che rivela un cuore ed un’anima buona, può suscitare un amoroso apprezzamento di chi, manifestandosi a noi, ci si rivela. Un sacrificio, sopportato per nostro amore, ci fa piangere di tenerezza per chi lo ha fatto e ci trasporta con tutto il cuore verso di lui. Una manifestazione di amore tocca il nostro cuore e lo costringe ad una corrispondenza di amore.
Anche il bimbo sorride alla mamma, se questa per prima gli sorride; è attratto alla mamma, se essa per prima gli fa suggere la vita dal suo petto; si stringe alla mamma e riposa sul suo cuore, se la mamma l’addormenta cantando, lo dondola .carezzandogli con lo sguardo dolcissimo gli occhi che si chiudono in un amoroso abbandono, e dormendo sorridono, e il bimbo, sorridendo, muove le labbra come se ancora succhiasse.
O amorosissimo Iddio non è tutto un sorriso tuo la creazione nelle tue meraviglie, che ci fanno scorgere in pallido riflesso la tua grandezza e la tua bellezza?
E non fu un sorridente soffio di amore, un soffio tuo, l’anima che infondesti nel corpo che si formava tra i misteri della mamma che ci generava? E non fu un meraviglioso gesto di amore il tuo, nella grazia che ci infondesti nel Battesimo?
O infinita bontà che ci redense col sacrificio del Figlio tuo; o infinita carità del Figlio tuo che ci alimenta di sé nell’Eucaristia; o Spirito Santo Dio, che spiri dal Padre e dal Figlio, e, spirando in quella infinita altezza, ti degni riempirci di te, scendendo fino a noi, o amore di Dio, come ci ami! Coi tuoi doni ci sorridi, con la tua dolcezza ci carezzi, con la tua grazia ci abbracci, con la tua misericordia ci fai riposare nella tua pace, ci rassereni nelle nostre tempeste, ci addolcisci nelle nostre amarezze, ci porti nel gaudio eterno, o Amore Eterno, o Dio infinito come il Padre e il Figlio, o Dio che sei Amore!
Il segno che Dio è in noi...
E qual’è la conseguenza di questo infinito amore che viene a noi dall’adorabile Trinità? La trae S. Giovanni con un argomento a fortiori, cioè con più forte ragione, dicendo: Diletti, se a tal punto Dio amò noi, anche noi dobbiamo scambievolmente amarci. Se Dio ha amato gli uomini tanto inferiori a Lui per natura, se li ha amati, pur essendo essi peccatori, anche noi, che siamo della stessa natura, maggiormente dobbiamo amarci scambievolmente (anche quando i nostri fratelli sono difettosi, anche quando ci urtano) per amore di Dio che ci ha amati. Nessuna scusa può esimerci dal dovere della carità, e nessuna mancanza di carità può essere giustificata. Il giudizio, che subiremo dinanzi a Gesù Cristo alla fine del mondo, sarà tutto sulla carità per meritare la sentenza di gloria, e sulle mancanze di carità per meritare la sentenza di dannazione.
Ero affamato, e mi avete dato da mangiare... venite benedetti...
Ero affamato, e non mi avete dato da mangiare, andate maledetti nel fuoco eterno (Matt. XXV, 31-46).
Iddio è amore; dunque, agire contro la carità è agire contro Dio, in qualunque modo noi pretendiamo scusare le nostre mancanze di carità.
S. Giovanni insiste sulla carità e sull’amore fraterno, proprio perché la carità è il precetto più importante per la vita della Chiesa, ed è la manifestazione pratica del nostro amore a Dio. Perciò, insistendo, dice: Iddio nessuno mai l’ha contemplato. Sì, ci sono i Santi contemplativi che lo hanno contemplato con l’amore e per l’amore nell’orazione, ma la Divinità non può essere contemplata com’è, faccia a faccia, da nessun occhio mortale e neppure da nessun intelletto mortale.
Qualunque affermazione contraria a questa verità è errore, è eresia condannata dalla Chiesa e condannata dalla logica. Siamo troppo meschini e ristretti per poter vedere Dio; anche nell’eternità non possiamo contemplarlo e bearci di Lui, senza un lume speciale che è chiamato il lume della gloria. Non possiamo vederlo nella vita terrena, ma per la carità possiamo sentirlo in noi, poiché se ci amiamo l’un l’altro, Dio in noi dimora con la sua grazia, e l’amore per Lui in noi è giunto a perfezione, perché la carità fatta per amor suo ritorna a Dio come corrispondenza all’amore che Egli ha avuto ed ha per noi.
Chi vuole controllare se sta in grazia di Dio e se lo Spirito Santo in lui dimora può farlo con certezza, vedendo il grado di perfezione della sua carità verso il prossimo, poiché la carità è un segno della grazia divina in noi, ed è un frutto dello Spirito Santo, che ci attesta la sua presenza in noi. In questo, cioè nella carità che abbiamo, conosciamo che Lui, Dio, è in noi e noi in Lui, nel fatto, cioè, constatando, per la carità, che Egli, Dio, del suo Spirito ci ha fatto dono.
L’inabitazione di Dio in noi, per la grazia, e l’azione dello Spirito Santo in noi, con i suoi doni, hanno, dunque, un controllo certo nella carità fraterna. Chi manca di carità deve ponderarlo, poiché dalle
sue mancanze di carità può dedurre con certezza che non è in grazia di Dio e che non è animato dallo Spirito Santo.
Gesù Cristo è venuto sulla terra come Salvatore per unirsi a Dio, per attrarre in noi la grazia divina; per questo ci ha dato come precetto suo particolare la carità. È questo il fuoco che venne a portare sulla terra e che bramò che si accendesse; è questo l’esempio vivo che ci diede, salvandoci col suo sacrifizio sanguinoso; esempio che volle confermare nell’ultima cena, lavando i piedi ai suoi apostoli. Li lavò come a pellegrini sulla terra, e li esortò a lavarsi scambievolmente i piedi, per dire che dovevano amarsi facendosi servi degli altri ed aiutandoli a peregrinare sulla terra. Dette l’esempio Egli, signore e maestro, e si umiliò amorosamente ai piedi degli Apostoli, per dire che la carità non poteva esercitarsi riguardando gli uomini come inferiori o come servi, ma nell’unione della stima, del rispetto e dell’aiuto.
S. Giovanni non lo disse esplicitamente, ma nell’esortare con luminosi argomenti alla carità, perché Dio abiti in noi e noi in Dio, e perché lo Spirito Santo operi in noi, non potette non correre col pensiero a Gesù Cristo, Salvatore del mondo, espressione mirabile della carità di Dio verso gli uomini ed esempio vivo di carità; constatato da lui e dagli Apostoli. Per questo soggiunge, con nesso logico e psicologico a quello che animava il suo cuore nella carità: Noi abbiamo contemplato ed attestiamo che il Padre mandò il Figlio come Salvatore del mondo.
La frase non è staccata dal contesto precedente, come potrebbe apparire, ma ne è come il suggello; Io vi parlo così non di mia iniziativa — voleva dire S. Giovanni — non per esprimere un’opinione o una dottrina, ma per manifestarvi quello che abbiamo contemplato in Gesù Cristo, noi Apostoli; e quello che abbiamo ascoltato da Lui, lo attestiamo come testimoni oculari, poiché Egli fu mandato dal Padre come Salvatore del mondo, e lo salvò per l’infinita carità del Padre che lo mandò; lo salvò con la manifestazione somma della sua carità, immolandosi.
Per intendere questa manifestazione di amore del Padre e del Figlio è necessario riconoscere e credere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio; senza questa fede è impossibile capire l’infinito amore di Dio e possedere la sua grazia; è impossibile corrispondere al suo amore con la carità verso il prossimo.
Fin dal tempo di S. Giovanni serpeggiavano errori contro la divinità di Gesù Cristo e la realtà della sua Incarnazione; l’Apostolo scrisse il suo Vangelo proprio per confermare i fedeli nella verità. Anche nelle sue lettere insiste su questo punto fondamentale della fede, che costituisce il motivo più forte della carità fraterna raccomandata da Gesù Cristo. Perciò, con logica connessione di idee, soggiunge: Chiunque professa che Gesù è il figlio di Dio, Iddio in lui dimora ed egli in Dio. E noi, Apostoli e fedeli, abbiamo accolto con fede l’amore che Iddio ha in noi, avendo mandato a noi il suo Figliuolo. E ripete il suo ritornello mirabile che ferve nel suo cuore: Iddio è amore, e chi dimora nell’amore, in Dio dimora, e Iddio in lui dimora.
La fede vera, profondamente vissuta, ci fa intendere l’amore di Dio per noi, e l’amore di Dio per noi ci spinge alla riconoscenza ed all’amore per Lui, testimoniandolo a Lui per la carità. Così noi siamo certi di possedere la vera comunione con Dio-Amore, con l’Amore sostanziale, lo Spirito Santo, presente nei nostri cuori.
È veramente commovente l’insistenza con la quale S. Giovanni raccomanda la carità e l’amore fraterno. Egli ne aveva il cuore pieno e nello stesso tempo aveva la dolorosa esperienza di tanta mancanza di carità e di tanta disunione tra i fedeli ai quali si rivolgeva. Era stato da Gesù prediletto, e sapeva per dolcissime reminiscenze che cosa significava amare. Avrebbe voluto che i cristiani si fossero amati come Gesù Lo aveva prediletto. In quante maniere Gesù gli aveva dimostrato di prediligerlo, tanto che, ripetutamente, S. Giovanni nel suo Vangelo non sa designarsi che con questo attributo di amore: il discepolo che Gesù prediligeva! Non poteva, dunque, inculcare la carità senza ricordare l’amore di Gesù per lui. Le parole di Gesù: Amatevi come io vi ho amati erano in lui vive e palpitanti, nel ricordo dell’amore particolare che Gesù aveva avuto per lui.
È un fenomeno psicologico che si realizza anche in noi: È più vivo nel nostro cuore il ricordo di un trapassato che ci ha voluto particolarmente bene, e non possiamo rievocarlo senza dire: Quanto mi voleva bene, quanto mi amava!
Proprio il ricordo dell’amore di Gesù per lui, che gli aveva dato intima dolcezza di pace, gli faceva ponderare con dolore la mancanza di carità e le disunioni che allora vi erano tra i cristiani e che sarebbero state in tutti i tempi della vita della Chiesa. Lo vedeva, perché lo constatava e lo antivedeva certamente col suo spirito profetico. Questo ci fa capire perché l’Apostolo in tanti modi e tante volte ripete la sua esortazione alla carità fraterna.
Non è una ripetizione che potrebbe sembrare superflua, se non stucchevole, a chi la considera superficialmente; era invece riboccante dal suo cuore pieno di amore nei ricordi dolcissimi e pieno di dolore nelle esperienze attuali che aveva della mancanza di carità tra i fedeli ed in quelle che prevedeva nel futuro.
Già prima S. Giovanni aveva detto nei versetti 7 e 8: Chi ama è nato da Dio e conosce Dio, mentre chi non ama il prossimo non conobbe Dio, perché Iddio è amore. Poi ritorna sullo stesso concetto, unendo intimamente i verbi conoscere e credere, per indicare che la cognizione di Dio è insieme atto di fede amorosa, e ripete la sua commossa definizione di Dio, deducendone la conseguenza: Dio è amore e chi dimora nell’amore in Dio dimora, e Iddio in lui dimora. Aveva detto che la carità fraterna era per noi il segno certo di essere in grazia di Dio, e la virtù che rendeva efficace la nostra preghiera (III, 19-22).
«II perfetto amore espelle il timore»
Ora afferma, a conclusione dell’argomento del nostro stesso interesse nella carità fraterna, quando giunge a perfezione, la nostra sicurezza nel giorno del giudizio: Così abbiamo sicura franchezza nel giorno del giudizio, senza timore di condanna, poiché il perfetto amore espelle il timore, ed il timore implica un castigo.
Saremo senza timore nel giudizio, e senza timore di sventure e di castighi in questo mondo, poiché come Quegli, ossia Gesù, è santo e pieno di amore nel cielo presso il Padre, dove sta come nostro avvocato e propiziatore, così noi pure, imitando la sua santità e la sua carità, saremo senza timore in questo mondo.
Tre argomenti, come si vede, forti per spingere l’anima all’esercizio perfetto della carità. La sicurezza della coscienza, quando teme
di non essere in grazia di Dio. La sicurezza nella preghiera, quando l’anima teme o pensa di non essere degna di essere esaudita, e quindi, quando prega trepidando, con poca fede, anche nelle invocazioni che crede ardenti, commoventi... decisive, e non lo sono, quando nel cuore e nella vita manca la carità perfetta verso Dio e verso il prossimo. Infine, la sicurezza nel giudizio finale innanzi a Dio, conclusione ultima della vita peregrinante nel mondo, conclusione che, per la carità, culmina nella conferma dell’eterna gloria in eterno, e sicurezza nel mondo, dove l’anima passa tra mille prove, tra mille responsabilità e tra mille insidie ed influssi cattivi e diabolici, e per la carità ne è liberata.
Dopo esortazioni così belle e così incalzanti, l’Apostolo, pur continuando il magnifico argomento della carità, nel capitolo seguente viene ad una conclusione che sembrerebbe la fine dell’argomento e non lo è ancora, poiché psicologicamente mostra ancora una volta come era pieno della carità di Gesù Cristo il suo cuore, che aveva riposato sul Cuore del Maestro Divino.
Anche noi, infatti, in un discorso o in una discussione, che ci appassiona, psicologicamente sentiamo il bisogno di confermare l’appassionato argomento con una conclusione, con un vibrato dunque, quasi a fissarlo nell’anima.
Ohi ama Dio non può odiare il fratello
Perciò S. Giovanni soggiunge quasi come tagliente, persuasiva ricapitolazione: Noi (e la Volgata aggiunge dunque) dobbiamo amare Dio, perché Lui per primo amò noi. L’amore di Dio per noi è amore spontaneo di pura benevolenza, perché ci ha creati per amore; e noi dobbiamo amarlo per corrispondere al suo amore, mostrandogli amore con la carità spontanea e sincera verso il prossimo. Sono due amori inseparabili, non può sussistere l’amore a Dio senza l’amore al prossimo, e S. Giovanni lo conferma: Se alcuno dice: Amo Iddio, ed odia
il fratello suo, è mentitore. Odia, nel senso comprensivo di ogni mancanza di carità, come dicemmo. È tanto facile e comune in tanti cristiani ed in tante anime consacrate a Dio lo sfuggire alla legge della carità dicendo: Io non odio quella persona, anzi prego per lei, ma non ci voglio avere rapporti e la sfuggo.
È un’evidente illusione, palliata da quella ipocrita giustificazione: prego per lei. Ipocrita, sì, perché anche nella preghiera, vera o supposta, lungi dall’avere un sentimento di amore, l’anima ha un impeto di avversione e si sfoga con parole e giudizi pungenti, contrari alla persona che si dice di non odiare. Consta dall’esperienza, giacché non è raro che queste ipocrite preghiere si manifestano e sono come la velenosa appendice dei propri sentimenti di avversione.
Quante volte chi scrive ha sentito dire, infatti, da persone senza carità: Io prego per quel miserabile: — Signore, fategli sentire e comprendere la sua malignità... troncate quella lingua malefica... con un castigo positivo e forte mostrate la vostra giustizia... umiliate il suo orgoglio e simili espressioni che rivelano la furente avversione dell’anima e non la pretesa benevolenza di carità *.
Perciò S. Giovanni dice con profonda verità che colui che afferma di amare Iddio ed odia il suo fratello, avversandolo, è un mentitore. E lo conferma con un argomento stringente, che filosoficamente si direbbe ad hominem, argomento dal quale non si può sfuggire: Chi non ama il fratello suo che vede non può amare quel Dio che non vede.
Sembrerebbe quasi un argomento... claudicante, giacché chi odia il suo fratello, potrebbe dire che l’avversa proprio perché lo vede cattivo e perverso. Ma non può vedere in questa fosca luce chi è coperto dalla carità misericordiosa di Gesù Cristo, né può con qualunque scusa sfuggire al comandamento che il Redentore ci ha dato. Perciò l’Apostolo soggiunge prevenendo l’obbiezione che potrebbe farsi: Questo è il comandamento che abbiamo da Lui, da Gesù Cristo: Chi ama Iddio ami anche il fratello suo.
Nei Vangeli non c’è un precetto formulato precisamente in questi termini. Forse S. Giovanni riporta un detto di Gesù, ripetuto dal Maestro Divino, e che egli conservava nel cuore, un detto memorabile, scultoreo, o, come dicevano i greci, un àgrafon od un lòghion, che l’Apostolo volle ricordare ai fedeli ai quali scriveva, per confermare che non si poteva presumere di amare Dio senza amare il prossimo.
S. Clemente Alessandrino cita due volte un àgrafon analogo, attribuito a Gesù: Tu vedi il tuo fratello, tu vedi Dio (Strom 1, 19, 96; II, 15, 70). Il comandamento di Gesù Cristo, ricordato da S. Giovanni, conferma il motivo fondamentale della carità verso il prossimo, che è l’amore di Dio. Si ama il prossimo, perché si vede in esso l’immagine di Dio. Vedendolo in questa luce, non si può riflettere ai difetti che ha o ai torti che ci ha fatto. Si vuol mostrare così che si ama Dio invisibile, amando la sua immagine visibile, in qualunque aspetto si presenti, perché è presentato a noi dal comando divino: Ama il prossimo tuo.
Dio non ci avrebbe dato questo comando, se la sua osservanza avesse implicato un’ingiustizia: Amare chi non lo merita, amare chi manomette con la vita che mena l’immagine viva di Dio. Gesù Cristo è morto per tutti, dunque, ci ha amati tutti; protestò di essere venuto per i peccatori; dunque, espiò le loro iniquità, anche quelle che noi riguardiamo come fatte a noi; dunque dobbiamo amare i fratelli ingiusti e traviati, per amore di Colui che ha dato ad essi la suprema prova dell’amore, morendo per loro.
Potremo noi giudicare male i nostri fratelli ed essere inesorabili nell’avversione verso di loro, quando Gesù dalla Croce li ha giudicati scusandoli: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno? Anche noi fummo presenti sul Calvario, anche noi crocifiggemmo Gesù; eravamo uniti nell’empietà e non saremo uniti nella carità, in Lui che ci abbracciò tutti nella sua carità?
Perdona loro era il grido di una carità infinita, che richiamava tutti ed ognuno in particolare: Amatevi come io vi ho amati.
Amo il Padre, immolandomi per la sua gloria e per tutti — voleva dire Gesù — Era questo l’àgrafon, il lòghion del Calvario, che non ammette scuse o ripieghi nell’amore; l’esortazione viva di Chi moriva per doppio amore a Dio ed agli uomini: Chi ama Iddio, ami anche il fratello suo.
Cade la pioggia... e con la pioggia è travolto il pulviscolo sollevato dal vento, come soffocante nebbia... Cade la pioggia, ed i fastidiosi insetti fuggono... cade la pioggia e tra le nubi che si scaricano riappare il cielo sereno e i fiori si aprono nei loro colori, prima offuscati dalla polvere... Moriva Gesù, ed una pioggia di amore cadeva dalla Croce innalzata dall’odio; una pioggia sanguigna d’infinita carità!... Chi può non amare dove irrora l’amore, chi può avere polvere soffocante di avversione e di odio?...
O velenosi insetti di parole pungenti, di giudizi perversi, di animosità frizzanti, come punture di spine, ascoltate la parola di amore del coronato di spine per amore, del piagato per amore...
O sereno cielo della carità, splendi per il suo comandamento che abbiamo da Lui. Chi ama Iddio ami anche il fratello suo.
S. Giovanni lo ripete, e i nostri cuori si aprano come fiori del Calvario, profumati di amore, irrorati di amore, nel fulgore di Colui che ha chinato il capo in un bacio di amore, e tiene aperte le mani in un abbraccio di amore, mani inchiodate dall’amore, perché non si chiudono mai fino alla consumazione dei secoli, e, nella stretta dell’amore, gridano alla terra, alla Chiesa, ai Sacerdoti, alle anime consacrate a Dio: Amatevi, come io vi ho amati.
Sac. Dolindo Ruotolo

27.06.2014 - Commento al Deuteronomio cap. 7, par. 2

2. Il significato di questo capitolo. Le lotte gloriose della Chiesa Cattolica.
Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, significava rimanergli fedeli. Era questo io scopo principale per il quale Dio aveva eletto Israele in mezzo a tutta la terra. Egli voleva formarsi un popolo distinto dagli altri, non tanto per razza, quanto per il culto e la religione vera; un popolo che avesse potuto accogliere il Redentore meno indegnamente di qualunque altro. Per ottenere questo era necessario che gli Ebrei non si fossero in nessuna maniera mescolati o alleati ai popoli pagani ed idolatri che andavano a conquistare. Questi popoli scellerati erano giunti al colmo delle loro iniquità e non meritavano altro che la distruzione, perciò Dio dice che saranno sterminati. L’esterminio sarebbe avvenuto gradatamente, a poco a poco, per impedire che in quella terra spopolata di un tratto, si fossero moltiplicate le fiere con danno del popolo ebreo il quale non avrebbe potuto di un tratto popolare tutta quella terra e quindi dissodarla ed impedire il moltiplicarsi delle fiere.
Dio vuole che il suo popolo avanzando distrugga ogni idolatria in quelle terre, abbattendo i templi e gli altari, infrangendo i cippi, cioè le pietre consacrate agl'idoli, troncando pali e gli alberi consacrati a loro, bruciando le loro statue, senza appropriarsi dell'oro e dell’argento di cui erano fatte o rivestite.
Dio dice che disperderà innanzi agii Ebrei sette nazioni, cioè gli Etei, i Gergesei, gli Amorrei, i Cananei, i Ferezei, gii Evei, e i Gebusei. Nel Genesi invece (cap. XV, 19-21} sono numerate dieci nazioni, cioè oltre queste enumerate, i Cinei, i Cenezei, i Cadmonei ; inoltre in luogo degli Evei sono nominati i Refaiti. Comunemente si crede che questi popoli fossero delle frazioni più piccole unite a quelli già nominati qui. Dei Cinei si sa che discendendo essi da Cin, figlio di Jetro, e cognato di Mosè, non furono interamente sterminati nella desolazione dei Madianiti, ma si unirono agli Ebrei, ed avendo attraversato il Giordano si ritirarono nel deserto dopo la presa di Gerico, col fine di vivervi una vita santa e ritirata. Quando Jabin, re di Canaan, soggiogò gl’Israeliti, lasciò in pace i Cinei, per cagione della loro grande virtù (Giud. I, 16 ; I Parai. XI; I dei Re XV).
La ragione per la quale sono nominate qui solo sette nazioni e non dieci, deve ricercarsi in un significato mistico. In questo modo di elencare le nazioni che gli Ebrei dovevano soggiogare, c'è un senso tipico verbale, poiché il popolo ebreo travolgente i popoli idolatri era figura della Chiesa Cattolica la quale abbatte i sette peccati mortali che sono come le sette nazioni nelle quali satana impera, e travolge le eresie e gli errori di tutti i tempi. Significando questo, Dio non nomina i Cinei, i Cenezei e i Cadmonei, perché nel significato etimologico di questi nomi c’è qualche cosa che si riferisce alla virtù : Cinei significa che piangono ; Cenezei significa gelosi; Cadmonei significa antichità di Dio. La Chiesa non stermina quelli che piangono per dolore delle loro colpe, e quelli che sono gelosi delle tradizioni che si riferiscono al Signore; Essa disperde i peccati, ma ama i penitenti; Essa conserva nella sua vita e nella sua liturgia gli usi più antichi e può dirsi gelosa custode delle antichità di Dio. Essa invece disperde le eresie nelle loro varie forme; l’eresia del falso timore, come quella dei Giansenisti, cioè gli Etei, che significano timorosi; disperde i Gergesei, i disputanti, cioè quelli che cavillano sulle parole divine contorcendone il senso; disperde gli Amorrei, gli alteri cioè quelli che adorano il loro io orgoglioso; disperde i Cananei, i mercanti, che riducono la Fede ad un traffico, e cercano il loro tornaconto e la loro soddisfazione nelle passioni. La Chiesa condanna i Ferezei, i dispersi, cioè quelli che si separano da lei con lo scisma e che sono veramente figliuoli dispersi; stermina gli Evei, i colpevoli che non fanno penitenza e che si ostinano nelle loro iniquità ; ed infine condanna e riprova i Gebusei, i disprezzanti cioè i poveri protestanti, che sono veri Gebusei, perché hanno nel loro carattere il disprezzo per la vera Chiesa: disprezzano il Papa, la tradizione, la Madonna, l’Eucaristia, la Confessione, il Sacerdozio, i dogmi della Chiesa, e tutto quello che non collima con le loro false opinioni.
Quando Dio strinse il patto con Abramo e gli parlò dei popoli che avrebbero conquistati i suoi discendenti (Gen. XV, 18-21) parlò in senso reale e li numerò tutti. Nel Deuteronomio, figura della nuova legge, paria in senso mistico e profetico, e riguardando nelle conquiste del suo popolo le conquiste della Chiesa in tutte le epoche della sua vita. adatta le parole a quello che voleva dire. In ogni epoca della Chiesa c' è una battaglia caratteristica, ed un male caratteristico che Essa vince e stermina mentre avanza alla conquista del Cielo. La prima sua battaglia è con gli Etei, col timore, poiché iniziò la sua vita col terrore delle persecuzioni; Essa vinse il timore col coraggio dei Martiri, e lo travolse bollando d'infamia ogni apostasia. La seconda battaglia della Chiesa è con i Gergesei,
con i disputanti ; aggredita dalle eresie la cui caratteristica è la vana disputa dell'errore, vince la battaglia col dogma e travolge la disputa oscura con l’anatema, con l’interdetto. La terza battaglia della Chiesa è con gli Amorrei, i forti; allorché i barbari invasero il vecchio impero Romano, e furono alle porte stesse di Roma, vi trovarono la Chiesa come rocca forte che li conquise e li convertì. La quarta battaglia della Chiesa fu con i Cananei, i mercanti, allorquando invasa dalla cupidigia degli uomini che facevano mercato dei suoi spirituali tesori, combattette la simonia e resistette all'interessata e venale invadenza dei principi. La quinta battaglia della Chiesa fu con i Ferezei, i dispersi, allorquando gli scismi la divisero ed attentarono alla sua unità. Essa travolse con l'interdetto i dispersi figliuoli fatti suoi nemici, e si mantenne una. La sesta battaglia della Chiesa fu con gli Evei, i colpevoli, allorquando la corruzione invase i suoi stessi padiglioni, e tentò di macchiarne la santità. Essa pose l'anatema ai corrotti e passò immacolata attraverso le stesse lordure dei depravati suoi figli. La settima battaglia della Chiesa è con i Gebusei, i disprezzanti, cioè gl’indifferenti, i protestanti, i razionalisti, che sono i dispregiatori dei suoi valori, della sua sapienza, della sua vita. Gli uomini ingrati la disprezzano con la generale apostasia, ma essa vince; abbatte i loro altari idolatri, stronca i loro pali, cioè le loro vacue ideologie erette come segnali di progresso, ma che sono in realtà aridi pali dell’umana stoltezza ; fa a pezzi i loro cippi, con l’apologia della verità, brucia i loro idoli col fuoco di un novello amore che in lei divampa.
La Chiesa lotta nei secoli contro questi nemici che sembrano più grandi e più forti di lei, ma li vince per potenza divina, e li pone all’interdetto fulminando contro di loro l'anatema. La Chiesa così avanza gradatamente ; le lotte non sono simultanee ma successive, ed è per essa una speciale misericordia di Dio, poiché a mano a mano si rassoda, sviluppa la sua dottrina, rafforza il suo dominio e la sua compagine , forma il suo necessario patrimonio temporale, raccoglie i figli dispersi con l'apostolato delle missioni, riconcilia con Dio i colpevoli, scuote gl’indifferenti sprezzanti.
Si è notato che nell'elenco dei popoli che Israele doveva travolgere, in luogo dei Refaiti, ci sono gli Evei, ed anche questo ha un significato. I Refaiti erano i giganti, uomini carnali e sensuali; ora i colpevoli, gli Evei, contro i quali combatte la Chiesa, sono
quelli che imitano e sostituiscono i Refaiti con la loro brutale vita di senso.
Dio disse ad Israele che lo aveva prediletto, lo aveva reso vittorioso , non perché fosse stato più grande degli altri popoli, ma perché era stato amato da Lui, e per la promessa ch’Egli aveva fatta ai Patriarchi, lo aveva tratto dalla schiavitù dell'Egitto con mano forte. È una magnifica sintesi del segreto della forza incrollabile della Chiesa Cattolica : Essa fu amata da Gesù Cristo che diede per lei se stesso affine di formarsene una sposa immacolata senza macchie né rughe; Essa ricevette il giuramento della indefettibilità: le porte dell'inferno non prevarranno, ed Essa rappresenta il popolo dei redenti dalla schiavitù del peccato con la trapassata mano e col braccio teso del Redentore sulla Croce. Non è dunque un fatto umano la vittoria della Chiesa, come oggi tanto facilmente si dice, non è un frutto della sua millenaria intransigenza, non è un frutto del numero imponente dei suoi figli, ma è un frutto soprannaturale, dovuto solo all’amore che Dio le porta, alla promessa di Gesù Cristo, alle mirabili ricchezze spirituali e soprannaturali avute con la Redenzione. E Dio che mantiene con Lei il suo patto di amore, che benedice fino alla millesima generazione e contraccambia immediatamente quelli che la combattono e la insidiano, col fallimento e con la rovina. È la storia di tutti i persecutori della Chiesa colpiti prontamente da Dio ; prontamente, cioè appena la loro iniquità è stata tutta consumata. Sono apparsi per un momento trionfanti perché l'atto della loro scellerata violenza non era compito, il Signore ha atteso questo compimento e li ha davvero prontamente colpiti.
Dio dice al suo popolo che in premio della fedeltà ai suoi comandamenti, manterrà il suo patto con lui ed il suo amore: lo benedirà e lo moltiplicherà e lo renderà ricco di frumento, di vino e di olio, lo renderà fecondo e renderà fecondo il suo bestiame, stornerà da lui ogni malattia, opererà miracoli per liberarlo dai nemici suoi, sarà con lui, e da Dio grande e terribile, getterà lo scompiglio fra i suoi nemici, ne farà sparire il nome dalla terra, cioè la potenza, e farà rovinare, i loro idoli. Sono questi in fondo i contrassegni veri della fedeltà del suo popolo, e quindi della fedeltà della Chiesa Cattolica alla sua missione.
È una menzogna che la Chiesa abbia deviato dal quarto secolo in poi, come affermano i protestanti. Se avesse deviato non avrebbe avuto le benedizioni promesse da Dio alla fedeltà del popolo suo. È un fatto invece che il Signore ha mantenuto con lei il suo giuramento, non prevalebunt, perché Essa è più viva che mai nonostante le lotte avute. È un fatto che Dio l'ha benedetta e che si è moltiplicata, rimanendo nella sua unità; è questa la vera moltiplicazione della Chiesa viva. La moltiplicazione protestante, divisa in mille sette, scompaginata in mille tendenze, è la moltiplicazione di un corpo putrefatto che accresce la sua verminazione. I protestanti computano i loro adepti a milioni, dimenticando solo allora che sono divisi in tante sette, e ritrovando l’unità effimera solo nelle cifre. Ma non basta numerare i virgulti divelti e sparpagliati per il campo, per dimostrarne la fecondità; è necessario poter numerare i virgulti vivi e fruttificanti sulla stessa pianta, da una stessa radice. Questo può farlo solo la Chiesa Cattolica.
È un fatto che la Chiesa è ricca del vero frumento e del vero vino Eucaristico, ed è ricca di olio di grazie soprannaturali, rifulgenti nei suoi Santi. È un fatto che essa è feconda di figliuoli che crescono ogni giorno, e che è feconda nel suo gregge il quale dà frutti di virtù e di bene. È un fatto che Dio ha stornato da lei ogni malanno di errore conservando intatta la sua fede apostolica; è la storia che lo dimostra. La Chiesa ha reagito ad ogn’infezione, come un organismo vivo e sano reagisce alle infezioni dei malanni. E un fatto storico che Dio ha operato miracoli di Provvidenza per renderla vittoriosa dei suoi nemici anche nei tempi più critici, e che ha mostrato di dimorare con lei da Dio grande e terribile. È un fatto che i nomi dei suoi nemici sono spariti dalla terra e che la loro potenza si è infranta. Chi ricorda più Ario, Pelagio, Manete e tanti altri ? Dov’è la potenza dei persecutori passati e recenti ? Dio li ha dispersi ! La Chiesa Cattolica dunque non ha deviato, è fedele alla sua missione, è integra nella sua compagine. Che se in certi momenti angosciosi della sua vita, per le colpe di alcuni Pastori o dei popoli, si è visto strappare qualche virgulto , la sua radice viva e vigorosa ha messo subito fuori dei verdeggianti polloni in altre parti del mondo. Dio puniva allora un Pastore infedele, ma non rigettava la Chiesa, puniva i ministri traviati ed i popoli ribelli, ma non le sottraeva la benedizione, e le ridonava subito novelli esemplari Pastori, novelli popoli, novelle generazioni di gloriosissimi Santi. La Chiesa Cattolica è dunque la vera Chiesa indefettibile , e tale rimane e rimarrà fino alla consumazione dei secoli.
Sac. Dolindo Ruotolo