giovedì 29 gennaio 2015

29.01.2015 - Commento al vangelo di S. Marco cap. 4 par. 3

3. La divina Parola avanza nella Chiesa e nel mondo

Gesù Cristo, dopo aver parlato velatamente dell'arma spirituale della conquista del suo Regno spirituale, cioè della divina Parola, ed aver accennato al modo col quale essa avrebbe prodotto il suo frutto nei cuori, si rivolge ai suoi apostoli che dovevano accogliere la sua predicazione e farla conoscere al mondo. Essi erano le lampade del mondo e non potevano rimanere nascosti, ma dovevano splendere sul candelabro per fare luce ai popoli. La lucerna non è nascosta sotto il moggio, cioè non viene coperta dalla misura di capacità di otto litri circa, con la quale si misurava il grano, quasi come cappello per tutelarla dal vento, né viene posta sotto il letto quando deve fare luce a tutta la stanza.
Gli apostoli sono fiaccole che debbono splendere nelle tempeste dei secoli con piena fiducia, senza temere di essere spenti dagli uragani, perché accesi dalla grazia sono lampade non destinate ad illuminare sotto il letto, ossia le poche amicizie familiari sono luci non ristrette nell'intimità delle case, ma destinate ad illuminare la società, ad essere guide della vita pubblica in mezzo alle oscurità di tutte le aberrazioni umane. Gli apostoli hanno un tesoro di verità che non tutti capiscono, che sono nascoste alle anime indegne o superficiali, e sono espresse, come faceva Egli allora, con parabole; ma poi verrà il tempo nel quale essi dovranno spiegare tutto, essere gli interpreti autentici della divina Parola. Essi illuminano gli altri annunziandola, la illuminano commentandola; soltanto a loro è affidato questo ministero di illuminazione spirituale, e non a qualunque anima, e tanto meno in modo cervellotico o arbitrario.
Unendo queste parole di Gesù a quelle che disse proclamando esplicitamente gli apostoli luce del mondo e sale della terra, è chiaro che Egli voleva proclamare la missione della Chiesa di annunziare la divina Parola, ed il suo magistero infallibile nell'interpretarla. Perciò rivolgendosi agli eretici, e soprattutto ai futuri protestanti che avrebbero preteso di annunziare essi la parola e d'interpretarla a modo loro, disse in tono profetico e severo: Chi ha orecchie da intendere intenda cioè: non vi fate illusione che sia come voi pensate, né crediate di potere stravolgere la mia parola.
II magistero della divina Parola
Gesù Cristo anzi fece una restrizione nello stesso campo della Chiesa, riguardo al magistero e all'interpretazione della divina Parola, e disse a modo di proverbio di badare bene a quello che udivano, poiché nella misura con la quale si sarebbero sforzati di apprendere la divina parola, ne sarebbe stata ad essi corrisposta, quasi contraccambio, l'intelligenza, e che ai negligenti sarebbe stata tolta ogni luce. Con questo volle dire che la propagazione ed il commento della divina Parola richiede una grazia speciale che viene data a quelli che cercano di alimentarsene con una particolare diligenza.
Chi misura, cioè apprezza la divina Parola col magistero della Chiesa e non col proprio criterio, riceve da quel magistero una sovrabbondanza di luce, e chi ha la luce di quel magistero riceve anche la luce interiore che illumina particolarmente l'anima; chi invece rifiuta quella luce perde anche quello che ha, rimane cioè senza l'intelligenza comune della Parola di Dio, e perde anche il Testo che la contiene, deformandolo e riducendolo a pura forma umana, come fanno i razionalisti. Quando si misura la Parola di Dio con un criterio umano, si ha una luce umana che non ha nulla di comune con quella che dà la Chiesa; si perde la luce della Chiesa e con essa anche quella interiore e lo stesso Sacro Testo.
È proprio quello che è avvenuto ai protestanti ed agli eretici di tutti i tempi.
Non deve far meraviglia che Gesù abbia parlato per essi in queste oscure e misteriose parole; l'apostasia del mondo, infatti, è causata dallo stravolgimento della Parola di Dio, come la conversione delle anime è frutto della sua retta propagazione ed interpretazione; è logico dunque che il Redentore, parlando della semina della divina Parola, abbia guardato a quelli che avrebbero cercato un giorno di renderla vana e di deformarla col proprio personale criterio.
La fecondazione della Parola di Dio non è frutto di oratoria o di industria umana, ma è frutto della grazia, che opera silenziosamente nei cuori ben disposti.
Il seminatore ha cura di preparare il terreno e di metterlo nelle condizioni di prosperare; dopo che ha gettato la semente dorme la notte, cioè si abbandona a Dio e confida in Lui nelle incertezze della stagione; si leva, poi, il giorno, cioè continua il suo lavoro nella terra per quanto gli sia possibile, e cerca di aumentarne le fecondità. Egli aspetta dalla provvidenza il frutto, e la terra, benedetta da Dio, produce essa stessa l'erba, la spiga e il frutto, aspettando al tempo della messe la falce.
Così avviene nella Chiesa e nelle anime; l'apostolo getta la buona semente nei cuori ben disposti, e confida nel Signore, implorando la sua misericordia e la sua grazia perché la fecondi. La grazia produce a poco a poco il frutto, e rende l'anima matura nelle vie di Dio, preparandola al giudizio finale, che sarà il tempo della messe di tutte le anime.
La parabola del granello di senapa
Chi si alimenta della Parola di Dio non deve preoccuparsi eccessivamente di veder subito il suo frutto nel cuore, perché l'azione della grazia è lenta e gradata. Chi si affanna e pretende di controllare continuamente la semente che è stata posta nel suo cuore, finisce per toglierla dal terreno e impedirne la germinazione. Occorre la pazienza dell'attesa e la fiducia grande nel Signore tanto per l'anima propria quanto per quello che si dona agli altri. Il lavoro spirituale non è mai perduto, e dopo lunga attesa vengono fuori germi insperati di vita, e il campo del Signore prospera e fruttifica.
La Chiesa non si dilata come i grandi imperi, a furia di armi e di spettacolose parate; Essa appare innanzi al mondo come un piccolo granello di senape, che sembra sproporzionato al suo sviluppo ma poi cresce in un grande arbusto, sul quale possono nidificare gli uccelli. Nella Chiesa poi, e nelle anime che ne fanno parte, il principio fondamentale della prosperità non è ciò che appare grande, ma l'umiltà che è piccolezza feconda. Non si raggiunge una mèta elevata ingrandendosi ma impiccolendosi; più l'anima si umilia, più Dio la riempie di forza e di grazia; più s'impiccolisce e più cresce nelle vie della santità. Non si può quindi aspirare nella Chiesa a trionfi mondani o impressionanti, poiché il suo vero trionfo sta nella fecondità spirituale che la rende albero fiorito in mezzo all'universale sterilità. Gesù Cristo, parlando del granello di senape, si rivolse specialmente a quelli che attendevano il regno politico glorioso del Messia, ed a quelli che nei secoli futuri avrebbero sognato trionfi politici del suo regno.
No, la Chiesa non avrà mai questi trionfi, che praticamente diminuirebbero la sua vera vita; Essa è pellegrina, naviga verso gli eterni lidi, è combattente, e imbattuta aspira all'eterna vita e non può trovare sulla terra né la sua dimora, né la perfetta calma, né il riposo.
La tempesta sedata
Questa grande verità, corona di quelle che Gesù Cristo aveva espresse con parabole, fu da Lui manifestata con una scena reale, perché fosse rimasta impressa nell'anima dei suoi apostoli, e della Chiesa. Egli, venuta la sera, volle passare all'altra riva del lago. Si pose a poppa della navicella, s'adagiò su di un guanciale e s'addormentò, mentre gli apostoli remigavano.
Era presente e sembrava assente; lo nascondevano le tenebre, e lo eclissavano il silenzio poiché dormiva.
Improvvisamente si levò una bufera di vento che sospingeva le onde nella barca, fino a riempirla. Sembrava che da un momento all'altro affondasse: non c'era scampo, e Gesù dormiva.
E l'unica volta che il Vangelo ci parla del sonno di Lui, ed era un sonno nella tempesta.
Agli apostoli sembrò una noncuranza da parte sua, e lo svegliarono. Eppure Egli non solo si curava di loro, ma ne provava e fortificava la fede. Si levò allora pieno di maestà, sgridò il vento, impose al mare di tacere e di calmarsi, e subito si fece grande tranquillità, con immenso stupore degli apostoli.
La Chiesa nella tempesta
Era la sintesi del cammino della Chiesa nei secoli: Essa passa da una riva all'altra, dal tempo all'eternità; è in compagnia di Gesù ed è in balìa delle onde delle umane vicende e delle umane tempeste. Gesù Cristo è con Lei, ma sembra che dorma nel silenzio eucaristico, e quasi appare noncurante delle lotte che Essa affronta, proprio quando maggiore è il pericolo.
Egli tace ma è presente; tace perché vuol essere risvegliato dalla fede, e quando le preghiere diventano grido di vera fede, allora solo si leva ed impone la calma alla tempesta.
La domanda che si fecero gli apostoli: Chi è mai costui cui il vento ed il mare obbediscono?, fa vedere chiaro che la loro fede era ancora imperfetta; Gesù permise la tempesta per risuscitarla, come permette nella Chiesa le grandi tempeste per rinnovarci nella fede.
Confidiamo in Gesù nelle oscurità dello spirito, e confidiamo in Lui, ora specialmente che la Chiesa si trova in tempeste terribili, mai viste prima. Nelle nostre tempeste rifugiamoci in Lui, ed in quelle della Chiesa preghiamo perché venga la calma nella fecondità spirituale delle anime, e nella suprema aspirazione all'eterna vita.
Confidiamo, dormiamo anzi noi sul Cuore divino di Gesù, e rifugiamoci ai piedi del suo altare.
Là Egli non si vede, ma si sente, e lo sente la fiducia che lo cerca come unica salvezza. Siamone certi: la tempesta non ci può sommergere se confidiamo in Lui, e perciò dilatiamo il cuore nel suo amore, e viviamo innanzi ai suoi tabernacoli.
Essi sono la fortezza della Chiesa, sono il riposo nella tempesta, sono la potenza che le impone il silenzio e la calma.
O Gesù, vita della tua Chiesa, ascolta la sua voce supplicante; levati sulle tempeste che tentano sommergerla, imponi la calma, riduci al silenzio le infernali potenze; vinci, vinci, e venga il tuo regno in tutta la terra, fatta un solo ovile sotto un solo pastore per la tua Parola di vita!
Sac. Dolindo Ruotolo

domenica 4 gennaio 2015

04.01.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 1 par. 2-6

2.  In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio
La povera sapienza umana brancola nelle tenebre e, per trovare i segreti dell'armonia e della vita dell'universo, striscia nella polvere e scruta la materia. Se giunge a sollevarsi un poco da terra, si trova nei cieli agghiacciati dei calcoli matematici, o in quelli nebulosi delle proprie idee. Non esce e non può uscire da queste strette: o viene in contatto con la materia, o ne considera l'armonia tra le aride formule e i risucchianti calcoli astratti, o congettura con la sua mente svolacchiando qua e là come farfalla dal volo indeciso e claudicante.
Oggi si è fatta ardita, ed ha creduto sondare ogni abisso; s'è lanciata sopra le nubi, su su fino ed oltre la stratosfera, ed ha trovato un cielo di tenebre; è discesa nel mare ed ha trovato anche là tenebre, s'è lanciata persino nel misterioso mondo degli atomi, e s'è trovata di fronte a formidabili forze che l'hanno atterrita. È sempre schiacciata da milioni e miliardi di atmosfere, per così dire, ogni volta che tenta di navigare nel mondo materiale ed in quello spirituale.
La schiacciano i cieli, la sconcertano le onde furenti e i glauchi abissi, la inebetiscono le formidabili potenze dell'infinitesimale, la confondono i misteri dello spirito, e corre agitata come folle sulla sua brevissima orbita, quasi bolide che precipitando nel vuoto s'infiamma, splende per un istante, e si dilegua senza lasciare traccia di sé, mentre l'universo continua il suo cammino nell'ordine, lodando il Signore.
La povera sapienza umana, quando non ha la sorte di essere associata alla fede, non ha guida alcuna; asserisce e non può sapere se la sua asserzione ha eco nella realtà, grida nella solitudine immensa e non sente eco che le risponda.
Quante voci da lei date, che sembravano formidabili ai contemporanei, sono per i posteri ciance d'infanti che muovono a riso, e quante vanterie della nostra pretesa sapienza faranno ridere i posteri.
Che pena fa questa povera sapienza, senza bussola, senza un astro di riferimento sicuro, senza una voce infallibile che le indichi il cammino, incerta nel suo incedere, falsa nelle sue deduzioni, folle nelle sue induzioni!
Vuole conoscere Dio e ne prescinde, vuole indagare le leggi dello spirito e finge d'ignorarlo, vuole essere positiva e rifugge dal fondamento d'ogni cosa reale che è l'infinita realtà, vuole elevarsi nei cieli ideali, ma se li vuol formare lei, come i bimbi che su di un lembo di tavolo sporco, allineano i loro eserciti di carta, o elevano i loro edifici di cocci, di stracci e di rifiuti.
La sapienza umana senza luce divina, accigliata quando dice panzane, e buffa quando tocca sdegnosa i margini della verità, e ne rifugge; gettata a capofitto nell'abisso quando crede di ascendere, e travolta dai flutti quando è certa di navigare, non sa che per ascendere deve avere le ali, e le ali gliele dona la fede.
Se dal leggio del suo presuntuoso ambone non toglie il suo sillabario, o il calepino delle sette trombe e vi pone aperto il Vangelo, con la sua luce di splendente verità che la guida, l'uomo si atrofizzerà negli occhi e, come talpa, si sprofonderà nella terra formandovi vie di tenebre e tane di umidore! I cieli della sapienza umana sono sempre foschi senza la luce di Dio; anche quando sono una vera altezza, sono cieli carichi di nubi di procella, dai quali scroscia la pioggia impetuosa, che penetra la povera carne e l'assidera. L'acqua che danno non feconda, travolge, e corre impetuosa come torrente predante, che porta sui suoi glauchi flutti i relitti della vita!
A che serve? L'anima non ne ricava nulla, e nell'impetuoso imperversare di quelle acque non beve, e se vi accosta le avide labbra affoga.
A che serve? Se moltiplica le risorse della civiltà, moltiplica quelle della morte, che avanza con la falce spietata e recide milioni di vite, portando superba in trionfo qualche intristito trofeo di vittoria sulla materia, senza accorgersi che dominandola se n'è fatta schiava!
San Giovanni oltrepassa la materia e l'universo e fissa lo sguardo in Dio: In principio era il Verbo...
Com'è solenne in questo tenebrìo di morte la parola della verità che d'un tratto ci trasporta oltre i cieli, nelle profondità di Dio: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Mosè, dando uno sguardo alla creazione, ascese al di sopra della materia, e fissò il suo punto di origine e di partenza: In principio Dio creò il cielo e la terra, ma soggiunse subito: E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano l'abisso (Gen 1,2).
San Giovanni con volo di aquila oltrepassò la materia e l'universo e, fissando lo sguardo in Dio stesso, contemplò l'eterno Verbo per cui tutto fu fatto, e nei cui abissi di semplicissima luce erano i prototipi di quanto fu fatto, esclamando: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Mosè ascoltò la voce onnipotente che si volse al nulla, e creando disse: Fiat.
San Giovanni contemplò il Verbo di Dio, per il quale Dio disse, il Verbo sussistente del Padre, il logos, com'è chiamato nel greco, la ragione e la nozione eterna, il Verbo dell'infinita mente di Dio, l'opera eterna di Lui, come lo chiamano i Padri; l'opera a Lui coeva, con Lui immensa, a Lui adeguata; la virtù eterna di Dio e la forza dell'infinito suo braccio, la forma, il decoro e la bellezza del Padre, che in Lui si conosce, in Lui si apprezza e da Lui è glorificato, l'eterna parola e l'eterno suo discorso, poiché il Padre, intendendo e comprendendo la sua essenza e tutto ciò che in essa è, intendendo e comprendendo nella sua semplicissima essenza la forza spirativa dello Spirito Santo e la forza creativa di tutte le cose possibili, generò questo Verbo eterno, infinito e sussistente, a sé uguale ed adeguato, che è Dio come Lui, ed è Figlio eterno da Lui generato, nozione infinita della sua infinita natura, persona sussistente distinta da Lui, che è presso di Lui e spira con Lui l'eterno Amore.
Mosè, considerando le cose dal loro principio, disse: Dio le creò', san Giovanni, considerando l'eterno Principio, disse: In principio era il Verbo', usò il verbo sostantivo est, erat che è proprio di Dio per la pienezza del suo essere, giacché Egli è Jahvè, qui est, Colui che è.
Il Verbo era nel Principio ed in principio era il Verbo; era in Dio ab æterno, generato ab (sterno, ed al principio di tutte le cose era già, perché sussisteva ab (sterno; è una parola mirabilmente sintetica di quello che Dio stesso disse del suo Verbo nei Libri Sapienziali: Egli non è un semplice attributo di Dio, ma è persona sussistente e trascendente che emana dalla bocca dell'Altissimo prima di ogni creatura e di ogni tempo (Prv 8; 9; Sir 1; 24); è come un vapore della virtù di Dio, un 'emanazione pura della sua gloria, uno splendore della luce eterna, un'immagine sostanziale della bontà di Dio (Sap 7,25-27). Assiste al trono di Dio (Sap 9,4), è artefice di tutte le cose (8,6-8), tutto sa e tutto comprende (9,11). A Lui vengono attribuite le meraviglie operate da Dio nel mondo: Sollevò l'uomo dopo il peccato, salvò i giusti al tempo del diluvio, vegliò sui patriarchi, condusse Israele attraverso il Mar Rosso, ecc.
Egli è il Logos (Sap 16,12; 18,15) il Verbo di Dio che era in principio, era presso Dio, era Dio.
In principio era il Verbo, splendore della gloria del Padre, eterno come Lui, senza prima né dopo. Se il fuoco fosse eterno, infatti, non ne sarebbe eterno lo splendore? E se ci fosse sempre un virgulto su di uno specchio di acqua, esclama sant'Agostino, non ci sarebbe sempre l'immagine nell'acqua? Il Verbo era in principio, perché essendo l'infinita conoscenza del Padre generata da Lui, dimostra e glorifica in sé tutto il generante ab ceterno.
L'eternità non ha né il prima né il dopo, e l'evangelista, per l'infermità della nostra povera mente, ci riporta al principio di tutte le cose, agli ultimi confini del tempo, per farci intuire l'infinito abisso eterno oltre i suoi confini: In principio era il Verbo.
In principio!!!
Era il Verbo, ma dove?
Risponde profondamente l'evangelista: Era presso Dìo, nel seno eterno del Padre, nella sua immensità, ma distinto da Lui, e per questo dice: Era presso Dio.
Era sussistente, infinito, termine della sua conoscenza ed oggetto della sua compiacenza, indiviso dal Padre, sedente con Lui sul trono eterno e spirante con Lui l'eterno Amore. Per noi che risaliamo dal tempo ai confini eterni, è detto che Egli era, in principio, ma Egli è sempre stato col Padre e lo Spirito Santo, sempre sarà, e nella sua semplicissima eternità è, tutto presente, tutto infinitamente in atto. Quale mistero sublime che dà le vertigini!
Per giungere al principio di tutte le cose, debbo percorrere tempi che mi danno l'impressione dell'infinito, la mia povera mente ci si confonde, come si confonde tra le distanze degli astri. Se scavo nella terra a poca profondità, trovo strati geologici che hanno impresso in loro le vestigia del tempo nel quale si formarono, e vi leggo milioni di anni, milioni di secoli.
E stata calcolata scientificamente l'età di circa diecimila anni per un piccolo strato di torba; moltiplicando la cifra per le profondità abissali che la raccolgono, si giunge ad un numero astronomico, quasi incalcolabile. Eppure è appena il quadrante di una delle ultime ore della formazione della terra.
L'immenso orologio segna lontano, lontano, lontano, tutte le ore del giorno; miliardi di secoli, e le ore della notte, quando ancora tutto era caos; miliardi di miliardi di secoli!
Se ascendo dalla terra nella prima stazione del cielo, vi trovo la luna, il nostro satellite, che è morto già ed ancora cammina intomo a noi, quasi specchio che riflette sulle nostre notti la luce indiretta del sole. Quando cominciò il suo etereo viaggio? Io non lo so. Passa da millenni e millenni sulle nostre solitudini, guarda da millenni e millenni le nostre vicende;
come un teschio dalle orbite vuote guarda l'abisso del tempo che fu e del tempo che scorre.
I suoi occhi vuoti sono crateri di spenti vulcani, l'ultima fase della vita dell'astro, e quei vulcani suppongono i miliardi di miliardi di secoli che li precedettero, suppongono forse la vita che passò, i cui avanzi sono forse negli immobili magmi e nelle lave sospese nel vuoto; suppone la prima solidificazione dell'astro, e poi la massa incandescente roteante tra rossi bagliori, e poi la nebulosa incandescente, bianchissima, saettante sull'orbita sua e poi ancora - chi sa? - il nucleo dal quale si staccò l'errante cometa, il bolide che percorse miliardi di miliardi di chilometri, di miriametri di anni luce, e sembrò quasi immobile sul quadrante del tempo, tanto esso era immenso!
Che cosa formidabile il poter giungere almeno con la mente ai confini del principio di tutto, e scorgervi quell'era^ eterno, sfolgorante nella luce attuale, che nella sua immensità semplicissima non conosce né il prima né il dopo!
Per giungere a quei confini, dovrei tendere il mio fragile orecchio nello spazio sterminato, per ascoltarvi, portata sulle onde dell'etere, la squilla lontana della prima ora che scoccò con l'immane caos quando il Verbo parlò dalle profondità della potenza di Dio e diffondendo la divina bontà disse: Fiat.
Fiat! Sorse prima la mònade, come fantastica l'uomo miope, che non può scorgere nella profondità degli oscuri misteri?
Fiat! Sorse l'atomo forse, un atomo solo, che pieno di formidabili forze portò nella sua infinitesimale piccolezza il riflesso dell'infinito generante, e cominciò a moltiplicarsi, ad aggregarsi, a fondersi, a sovrapporsi, a splendere, a saettare, a correre gioioso sull'orbita sua, lodando il Signore?
Io non lo so; ma se l'atomo fu la prima creatura della materia che vedo o intuisco, quanti trilioni di trilioni di secoliluce ci vollero per formare un primo piccolo corpo? Io mi stordisco e mi avvilisco, e non riesco a fissare ancora la prima ora del quadrante del tempo!
Ma come si formò per l'eterna Parola di Dio il primo essere materiale, come poté, direi, condensarsi in materia la stilla di vita diffusa dall'infinita bontà? Possibile!
Dall'eterno Principio, che è eterna sapienza ed infinito amore, poté scendere giù una massa informe e vuota, disordinata e infeconda? Possibile!
La prima voce dell'universo fu muta, e la bontà infinita diffondendosi formò abissi di tenebre? Possibile!
La prima ora del tempo, il principio fu segnato da un oscuro quadrante e da un indice buio? Termina il tempo proprio in questi confini, e l'orizzonte suo è fosco come l'abisso di caverne profonde?
Non ti smarrire anima mia, ascolta la voce di Dio nel primo libro della sua Parola: In principio Dio creò il cielo e la terra, e la terra era informe e vuota (Gen 1,2). La terra, la materia, questa era ancora informe e vuota, troppo distante da Dio, quasi che Dio nel crearla la disdegnasse, quasi fosse già il rifiuto di una cosa più bella, il sedimento di una fiumana splendente.
Il tempo non ha qui il suo primo quadrante, l'ha più in alto, più in alto, poiché col mondo sensibile Dio creò quello spirituale, e su di esso segnò la prima ora del mondo.
Fu simultanea la sua creazione, ma il suo dito divino segnò la prima ora del tempo su di un oceano sfavillante di luce sui cori dei suoi angeli, puri spiriti, completi, sue immagini vive, intelletto ed amore, che per raggiungerlo dovevano solo donargli liberamente per sempre l'intelletto e l'amore, affinché Egli li avesse potuti beatificare colmandoli della luce del suo Verbo e della fiamma del suo Amore. Qui si scorge luminosamente il principio del tempo, qui l'occhio, oltre questo principio, contempla il Verbo che già era, era presso Dio, era Dio.
La prima ora della creazione
Fiat, disse Dio per il suo Verbo e per l'eterno suo Amore, giacché la creazione è opera di tutta l'indivisibile Unità e Trinità di Dio; Fiat, soffio potente che spirò la vita senza ancora alitar sulla creta; Fiat, ed all'istante sorsero miliardi di miliardi d'alate creature, intelletti profondi, fiamme fulgenti d'amore, altezze sterminate di gloria, potenze formidabili, dominanti l'universo che già si squadernava, principi delle sfere inferiori, virtù regolatrici del loro sviluppo, messaggeri e custodi, che portavano alle creature le voci della divina volontà, e custodivano il caos perché sotto la voce di Dio fosse diventato concento di armonia e di gloria al suo Nome.
Qui scorgo la prima ora della creazione che scoccò in questo mare di luce, e i suoi rintocchi, per così dire, calarono giù sul primo atomo, o sul loro aggregato o sulla massa informe, che quasi si vergognava di apparire innanzi allo spirito perché era materia, era nuda, era vuota, non era termine diretto di ammirazione o di amore; era ambiente, mezzo, strumento di lode di Dio, attendeva la voce dell'intelligenza che doveva abbracciarla, quasi arpa, e dell'amore che doveva cantare sulle corde della sua armonia con lo spirito, le lodi di Dio.
Qui cessa il tempo
Questo è il principio; ed io mi arresto su queste fiumane di luci che passano fulgenti, e su questi torrenti di materia che si snodano nel percorso dei secoli. In alto la luce dello spirito, in basso l'ammasso della materia... M'arresto e contemplo lontano da me, perché troppo piccolo, ma pur vicino a me, perché mi comprende e mi avvolge, l'eterno Principio, l'eterno Verbo, l'eterno Amore!
Qui cessa il tempo, qui tutto è presente, è in atto, è immobile, eterno, e capisco perché di fronte ai secoli che scorrono in basso, placidi, turbinosi o saettanti, di fronte ad essi posso dire: prima di voi Dio era, era il suo Verbo, era l'infinito suo Amore, era già perché è ab cetemo, in un presente che non ha prima né dopo. E in se stesso, tutto presente, era già al primo scoccare delle ore del tempo.
In questa immensità semplicissima contemplo in modo particolare, perché il Verbo si degnò discendere sino a noi e farsi carne, il Verbo eterno, splendore della gloria del Padre e immagine sostanziale della sua sostanza, il Verbo distinto dal Padre, il Verbo che è presso Dio, il Verbo che è Dio!
Un'elevazione per chi soffre sulla croce grandi dolori
In principio era il Verbo... Sono fuori del tempo, sono nell'eterno oceano, sono in quel cielo inaccessibile in cui può ascendere solo uno spirito puro, per adorare e godere!
Sono un povero nulla, un peccatore, ma ascendo perché sono in croce, sulla croce della contraddizione e del dolore, e il crocifisso ha le braccia aperte e fissate dai chiodi, come ali librate al volo, ha la mente stillante pensieri d'angoscia, che lo fanno come evaporare nei cieli, ha il cuore trafitto, i cui palpiti sono come onde radio che si dilatano oltre i confini della terra.
Ascendo per questo grande privilegio di poter essere in croce col Verbo Incarnato, che dalla croce spiccò il volo nei cieli eterni, e dopo aver glorificato il Padre, l'anima assunta da Lui si trovò fuori del tempo nella fulgida luce del Verbo che l'aveva assunta, ed ascoltò nei cieli le armonie eterne dell'eterna glorificazione di Dio. Sono in croce, ne sia lode al Signore! Per questo Egli ha permesso che il flutto della contraddizione mi soverchiasse; mi ha spinto sull'altissima cresta spumante e minacciosa e, come da una pista di amore, m'ha lanciato nell'immensità dell'eterno splendore! Sia lode a Dio Uno e Trino! Attraversando gli abissi del tempo, l'anima mia sentiva come voce eterea fluente dall'alto: In principio era il Verbo. Qui negli abissi eterni il Verbo è, eternamente è, è presso Dio, persona distinta, è Dio, una sola cosa col Padre e lo Spirito Santo, indivisa Unità, realissima Trinità.
Quando mi prende una gioia immensa, e sono tutto in essa concentrato, il tempo par che non regoli più le mie ore, poiché quel pensiero che mi diletta e mi comprende, e quell'amore soprannaturale che tutto m'infiamma non mi fa misurare il percorso del tempo: è la gioia di una profonda verità, ed è lo slancio d'un amore infiammato che in quel momento mi fa vivere. Io non penso che fui, che sono, che sarò o che passerò, io intendo, io amo in una gioia tutta presente che da tutto mi aliena e mi stacca.
È quasi una stilla di eternità, per così dire, che mi tocca, come rugiada del cielo eterno, e subito svapora, perché la vertigine del tempo mi travolge.
Dio, Dio mio, che eternamente sei, pienezza semplicissima di vita, di conoscenza e di amore, come potresti essere misurato dal tempo? Sei, tutto presente; intendi, tutto in atto; ami, tutto carità. Sei sempre stato, ma il sempre non è per Te né un passato né un presente, né un prima né un dopo; sei, in atto, tutto in atto, freschissima vita che nel suo ineffabile nunc, ora, par che allora scaturisca dalla tua vita, poiché sei da Te, hai in Te la ragione della tua vita, la conoscenza della tua vita, l'amore della tua vita, e per questo il Verbo è presso di Te, il Verbo è Dio!...
Mi guardo intorno... Dove sono? Sono ancora sul percorso del tempo, io povera creatura che ascende solo per pochi gradini nella vita che ho; sono nel tempo io, e per questo, contemplando il Verbo in Dio, lo contemplo oltre il percorso dei
nostri secoli, faville di tempo: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio ed il Verbo, era Dio. Egli era nel principio presso Dio!
Perché, perché l'uomo senza ascendere a Dio, presume d'indagare la verità?
Questa eterna verità mi schiaccia, ed io ritorno nella mia nullità per adorare, per riconoscermi misero verme ed atomo fuggente, e per accendermi tutto di amore per Dio.
Sono povera creatura, nata nel tempo, piccola, contingente, miserabile, e come mai potrei presumere di me?
Se io non fossi, forse si scrollerebbe non dico il mondo, ma un suo solo atomo? Forse devierebbero i fiumi, o si altererebbero le sfere celesti? Perché presumo tanto di me?
Perché presume l'uomo d'indagare la verità, e va errando fra i dedali oscuri del suo povero cervello, senza ascendere a Dio? Perché avendo la fiamma viva della fede, l'uomo la spegne, e preferisce al sole eterno il suo piccolo moccolo fumigante?
L'evangelista non poteva cominciare meglio l'annunzio della buona novella della verità che con questa mirabile epigrafe della verità, scritta coi raggi dell'eterna luce: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
Bisogna dunque risalire al Principio eterno per conoscere davvero la verità, bisogna farsi illuminare da quella luce per orientarsi nelle povere tenebre dell'umana ragione, bisogna guardare al Redentore che ci annunzia la verità e ci guida al bene, non come ad un sapiente o ad un uomo di genio, ma come al Verbo Incarnato, che ci rivela i segreti celesti e ci orienta nella vita per elevarci all'eterna vita.
Fuori di questa luce il Vangelo non avrebbe significato, sarebbe una parola qualunque e, per l'orgogliosa mente umana che ignora le profonde bellezze della semplicità ed ama arrovellarsi tra le astruserie delle sue fantastiche elucubrazioni, sarebbe una parola fatta solo per i rozzi o indegna di lei!
San Luca cominciò il suo Vangelo con un prologo umano, per darci la certezza storica di ciò che doveva raccontare, e disse di aver diligentemente investigato tutto dal principio, e di averne scritto con ordine, per far riconoscere la verità delle cose insegnate (1,3-4); san Giovanni comincia il suo Vangelo con una garanzia più grande, che va oltre la povera certezza storica, con la garanzia dell'eterna verità: In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio.
O luce eterna, a Te dunque io vengo, e nelle tue parole vedo le verità che trascendono tutte le altre; le vedo, le accetto, le adoro, le assorbo nella mia vita, ne formo la mia norma, il mio carattere, la ragione e la guida di ogni mia azione, il pascolo della mente, la fiamma del cuore, la beatitudine nell'esilio, la felicità svelata nella Patria eterna.
Il Verbo e il Logos
L'evangelista intende stabilire bene il fondamento della nostra fede in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, affinché non si fosse potuto formare un Cristo arbitrario, né si fosse potuto confondere il Verbo eterno, consustanziale al Padre con la povera ombra intuita da Platone nel tentare, coi lumi della sola ragione, di scrutare le profondità di Dio.
San Giovanni scrisse il suo Vangelo a Efeso, centro di cultura, dove era conosciuto il famoso logos di Platone, prima, lontana intuizione imperfetta del Verbo di Dio, avuta da Platone certamente per un lume di grazia naturale, quasi per preparare le menti alla sublime rivelazione della fede. Platone, considerando Dio come infinitamente intelligente, lo chiamò vouq cioè mente, e la sua intellezione la chiamò logos, cioè idea della mente divina, secondo la quale Egli creò tutte le cose, e ne rifletté in sé l'ardore, perché creò il mondo per amore di sé; onde quel detto famoso del filosofo, che sembra un'ombra lontana della Trinità: Monas genuit monadem, et in se reflexit ardorem.
Il logos di Platone era ben lungi dalla concezione del Verbo di Dio, consustanziale al Padre e persona distinta da Lui, ma san Giovanni designò il Verbo eterno con la stessa parola, sia perché gli eretici avevano dovuto già cominciare ad abusarne, e sia perché non si fosse confuso con l'idea di Platone; per questo, dopo aver detto che il Verbo era eterno, era persona distinta dal Padre, era Dio Egli stesso, soggiunge che Egli era nel principio presso Dio, cioè non era solo un'intellezione transeunte della mente di Dio, come è transeunte un atto della nostra mente, ma era eterna conoscenza del Padre, eternamente presso il Padre, cioè sussistente ed eternamente distinto da Lui. Non era solo un 'idea della mente divina, secondo la quale furono create le cose, ma era onnipotente come il Padre e per Lui furono fatte tutte le cose, e senza di Lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto. Il Verbo era presso Dio, in greco omousion, cioè uguale al Padre; non era dunque il logos di Platone, concepito come prima creatura di Dio, ma era Dio come il Padre, Dio onnipotente e creatore, per cui furono fatte tutte le cose, e senza di Lui nulla fu fatto di ciò che è stato fatto, o secondo il greco, neppure una cosa di ciò che è stato fatto; Egli non era la creatura prima fra le creature, secondo il concetto di Platone, che presiedeva alla creazione delle altre;
era il Verbo eterno per cui tutto fu fatto. Non era ministro della creazione, ma ne era causa col Padre e lo Spirito Santo.
L'evangelista dice che tutto fu fatto per mezzo di Lui, perché nel Verbo eterno sono i prototipi di tutte le cose create.
L'artefice fa tutto per la sua idea, per la sapienza che ha e per il concetto che si forma di ciò che vuol fare, cioè fa tutto per il verbo della sua mente; Dio crea secondo i prototipi dell'infinita sua mente, ed i prototipi sono nel Verbo a Lui consustanziale, conoscenza sua sussistente, Figlio suo generato da Lui ab aeterno. Il Verbo riceve dal Padre con l'essenza divina l'onnipotenza e l'azione, la stessa del Padre, col quale e con lo Spirito Santo crea tutto.
Dall'eternità al tempo
San Giovanni passa perciò dall'eternità al tempo, ed accenna alla creazione di tutto per l'eterna ed increata sapienza. Mosè disse: In principio Dio creò il cielo e la terra, e non poté sondare il grande mistero nella sua fonte, ma udì la parola creatrice di Dio, che popolava il tempo e lo spazio di meraviglie; san Giovanni penetrò più in fondo l'arduo mistero, ed in quella Parola onnipotente, che risuonò prima sul vuoto del nulla e poi sulla informe massa del caos, ravvisò l'infinita potenza creatrice di Dio che per il suo Verbo creava tutte le cose.
Chi può scrutare quell'arcano momento nel quale venne fuori la creazione, e chi può intendere la grandiosa, immensa poesia di quella settimana di giorni, di anni, di secoli, di miliardi di secoli, che vide sorgere ad una ad una tutte le meraviglie dell'universo?
Chi può anche lontanamente intuire che cosa grande fu il passaggio repentino dal non essere all'essere?
Ne abbiamo un'idea nella potenza delle parole della consacrazione eucaristica, poiché il Verbo Incarnato le dice, per il sacerdote, sul pane e sul vino, realizzando con poche parole il più grande miracolo, ma i nostri sensi non ne percepiscono nulla.
La Chiesa, nell'ammirabile suo linguaggio, quasi dimentica della parola dommatica che designa questo arcano prodigio di amore, transustanziazione, lo riguarda, per così dire, come una nuova formazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, e fa dire al sacerdote: Ego volo celebrare Missam, et conficere Corpus et Sanguinem Domini nostri Jesu Christi.
Il sacerdote non produce certo il Corpo e il Sangue di Gesù, ma produce la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù Cristo; le sacre parole perciò hanno una potenza produttiva che dà un'idea della potenza creatrice del Verbo di Dio nell'atto in cui chiamò all'essere ed all'ordine le creature.
In Dio tutto è in atto, poiché Egli è atto purissimo, tutto è presente perché Egli è eterno; la creazione era già tutta nei prototipi della sua mente infinita e, diremmo con frase ardita, Egli nel diffondere la sua bontà anziché accrescerla di una grandiosa manifestazione della sua potenza, della sua sapienza e del suo amore, dovette quasi ridurla amorosamente, per proporzionarla alle creature alle quali voleva dare l'essere. Avrebbe potuto e può creare milioni e miliardi di mondi e di meraviglie, ma limitò la sua creazione secondo i fini di gloria e di amore che nei suoi arcani disegni voleva raggiungere nelle creature.
Il Verbo eterno, glorificazione sua infinita, diffuse la sua bontà per partecipare la vita e la felicità alle creature, per renderle glorificazione del Padre, e per effondere in esse la sua stessa voce di glorificazione; ma nel diffondere l'infinita bontà limitò il numero delle creature. Ad extra produsse un'immensa armonia di glorificazione, ma nella profondità di Dio fu Egli solo voce d'infinita glorificazione, e per questo volle effondere questa voce di gloria in tutte le creature; e riparò la deficienza di quelle senz'anima e le miserie di quelle ragionevoli incarnandosi. Si fece uomo e si donò all'uomo arricchendolo di preziosissimi doni, perché egli avesse potuto lodare Dio degnamente attraverso le stesse opere della creazione. Per questo san Giovanni soggiunge che in Lui eva la vita, e la vita era la luce degli uomini.
Il momento della creazione è un mistero che dà le vertigini; ma l'evangelista ci dà in mano la chiave per vederlo almeno in sintesi, dicendo: Per mezzo di Lui furono fatte tutte le cose.
Elèvati anima mia in alto e contempla.
Ecco Dio, ecco Dio, Uno e Trino, tutto in sé, tutto compiaciuto di sé, in umiltà divina, oserei dire, perché se l'umiltà è verità, nessuna umiltà è più profonda quanto quella della verità eterna che conosce Se stessa infinitamente, generando l'eterno Verbo.
Conoscendosi Dio si ama, infinitamente si ama, e l'amor suo è sussistente, è Persona distinta, è diffusione infinita del Padre al Figlio e del Figlio al Padre, è fiamma di eterno ardore che unendo il Padre al Figlio e il Figlio al Padre, rende Dio tutto fiamma d'amore, lo rende carità: Deus charitas est.
Dio conoscendo se stesso conosce la sua onnipotenza, e conosce i prototipi della sua infinita mente, secondo i quali la sua onnipotenza può diffondersi ad extra, li conosce nel Verbo, che è sussistente conoscenza di sé.
E una conoscenza semplicissima e tutta in atto, ma noi dobbiamo immaginarla come successiva per averne una lontana idea, dobbiamo paragonarla per lontana analogia alla mente di un artista che contempla in sé gli ideali che ha, e che li vede quasi in atto nel suo pensiero.
Qualche lontana analogia...
Ecco un pittore. Ha in sé l'idea di panorami splendidi, di monti altissimi imbiancati di neve, di colli aprichi e verdeggianti, di marine placide, di oceani in tempesta, di giorni splendenti e di temporali scroscianti. Vede tante creature che nessuno ha mai visto: un fiore di gentilezza, roseo e profumato di semplicità e un volto stagliato nel ferro, rude come una parete oscura di basalto; vede un atteggiamento di contemplazione, con gli occhi in alto, e vede solo gli occhi splendenti nella percezione della verità trascendente, incorniciati dal volto come da aureola di pace.
Vede una posa fosca, accigliata, che guarda giù come se l'abisso la segnasse di ombre, e contempla solo le linee rudi di quel pensiero, riflesse nel volto come ombra di una tempesta. Vede tante scene diverse, nelle sintesi che danno al sentimento e persino ai sensi, non come sognano fanciullescamente i futuristi, ma nelle loro idee, nelle loro linee ideali, direi nei prototipi della sua concezione di bellezza o di forza.
Ecco una scena di guerra; egli vede linee saettanti, vede cicloni di fumo, fiammate di distruzione, slanci galoppanti, volate radenti, striscianti, che quasi gli raggrinzano la pelle, tanto ne percepisce la furia irrompente e tanto prova le vertigini di quell'equilibrio instabile che par si regga sul filo dell'audacia.
Vede un volto contratto in uno spasimo di morte, un braccio teso che impugna la spada, quasi la saettasse da un arco di nervi, vede un corpo piegato che punta il fucile, in una posa che sembra di calma, ed è tutta tesa verso la morte che lancia lontano. Vede un piede saldo che poggia su di un masso, una gamba robusta, un corpo levato come uno scudo d'acciaio, che sfida il pericolo; vede e quasi sente l'irrompere di masse frementi, un urto terribile, un cozzo di armi, vampate di odio nei muscoli tesi, nei volti contorti, la ferita, il collasso, il cadere, la morte... Freme l'artista, e tenta di abbozzare la scena, tenta di effondere sulla carta l'idea che egli ha di una scena di guerra. L'abbozza, ma non la rende, non può renderla; ne diffonde solo qualche linea, ricorre ai modelli, la slava fra i ritocchi; la mano non segue la mente... la guarda, non ne è contento, ne geme!
Ecco una scena di pace domestica: l'artista guarda una scala addossata ad un edificio, povero, formato di lastrico, scalcinato in più parti, con fiocchi di erba campestri tra le fessure e i crepacci. La pace ha per lui il vestito della povertà e della semplicità, del silenzio e della solitudine. S'avanza alla porta, una porta verdastra, già stinta dal tempo. Entra: una stanza pulita, un cassetto, un piccolo quadro, una riserva di biancheria tutta linda. Sente quasi un odore di minestra, si avanza... Il modesto camino con le legna che ardono, il paiolo fuma, spande intorno un vapore di vita, sostenta la vita, invita alla vita.
Ecco la mamma: un serto di gioielli d'amore avvolti in un panno a quadroni, spira bontà, e si volge intorno per diffonderne il profumo. Un sorriso... Come è bello! Si schiude come un fiore, s'imperla tra i denti bianchissimi, s'effonde dal volto come dal sole i raggi di un giorno chiarissimo. Una nidiata di bimbetti... Lavorano, giocano, seduti su piccole panche abbozzate dall'amore materno; assicelle simmetriche che hanno la simmetria della bontà e la saldezza della vita che non si complica in inutili lussi.
Al muro l'orologio segna le ore, cammina; segna il passo ai pellegrini verso l'eternità col suo ritmo, è l'umile messaggero del tempo che passa in alto, fra il saettare degli astri, e gira ogni giorno, gira per arrestarsi su di un'ora, anzi su di un momento che segnerà il trapasso alla pace eterna.
L'artista s'arresta, vuol effondere la sua idea, ne cerca i modelli, non li trova, li raffazzona, e mentre gli altri ammirano l'opera sua, egli solo ne piange scontento...
Dio nell'atto arcano della creazione
Dio solo compie le sue opere secondo i suoi prototipi, le vede e se ne compiace, perché sono buone: Vidit Deus quod esset bonum; ed anche quando esse per la malizia della creatura ragionevole si disordinano, Egli cava dal disordine una novella armonia, e dalle rovine una novella fioritura di bene, figli quindi non fallisce mai nei suoi disegni, pur lasciando alle sue creature la piena libertà; Egli tutto prevede ed ordina le sue opere a quello che vuole.
Eccolo nell'atto arcano della creazione: conosce se stesso, genera il Verbo, spira col Verbo l'amore, ab aeterno, in eterno. È beato di sé tutto in atto, completo, infinito; non ha bisogno di alcuno. Vede, nel Verbo, l'onnipotenza del suo braccio e i prototipi eterni di infinite cose che Egli può. Li ama e, più che un artista, vuol diffondere la sua bontà, vuol diffondere la vita e parteciparla a tante creature possibili, miriadi di miriadi, per amore, per dar loro la felicità dell'essere, il compiacimento dell'intendere, la beatitudine dell'amore.
Per l'infinita sua sapienza sceglie fra tanti esseri possibili e futuribili quelli che vuole; ha una ragione anche in questo, ma non possiamo indagarla. Si compiace del Verbo e si compiace dei prototipi, diremmo dei modelli scelti dal suo amore, li guarda non nell'eternità ma nella partecipazione dell'essere che vuol dare alle creature che per essi vuol creare. Vuole, parla: Fiat!
Scocca la prima favilla del tempo; in un attimo, non sulla tela, non sulla tavolozza, ma sullo scenario dello spazio e del tempo vengono fuori le sue creature, legioni di spiriti eccelsi, e il caos sterminato, la materia che ha in sé i primi germi delle opere che Egli vuol compiere.
Poiché nel Verbo sono i prototipi di ciò che crea, è per il Verbo che scocca la scintilla dell'essere, dell'intelligenza e dell'amore, e comunica l'esistenza alle creature che vengono dalla sua onnipotenza.
Quale momento quello della creazione! Una parola onnipotente, un fiat, una miriade di creature. La parola per essere onnipotente era infinita, ed essendo parola creatrice intendeva ciò che voleva... Era il Verbo di Dio: Tutto per Lui fu fatto.
Come nell'eterna generazione Dio conoscendo se stesso generò il Verbo, così nella creazione Dio, conoscendo la sua potenza e i prototipi di questa potenza nel Verbo, creò l'universo. Parlò ad intra: Io sono Colui che sono, e vide quello che era nel Verbo; parlò ad extra: Fiat, e vide nel Verbo quello che poteva e quello che voleva, e per il Verbo diffuse la sua bontà e comunicò l'essere e la vita alle sue creature. Ad intra una Parola eterna e sussistente, eterna sapienza, ad extra una Parola onnipotente e creatrice: Fiat. Il Verbo che glorifica Dio ab aterno et in ceterno, il Verbo che creando glorifica Dio con l'inno del creato.
Tutto per Lui fu fatto... L'anima cerca di trasportarsi per un momento in alto a contemplare questo immenso mistero. Deve valicare nuovamente i tempi e giungere al principio, deve trovarsi spettatrice di un'immensa raccolta di esseri la cui moltitudine tocca quasi i limiti dell'infinito. Se dovesse percorrere questo cammino non con lo spirito, ma segnando il passo nel tempo e nello spazio, dovrebbe quasi dire eterna ed interminabile la sua via. Eppure non è né eterna né interminabile, e innanzi a Dio è meno di un nostro segmento geometrico.
Se volesse avanzare verso uno degli astri più vicino a noi, verso Sirio, troverebbe un cammino di otto anniluce, pari a circa ottanta trilioni di chilometri, e se volesse avanzare verso una delle galassie recentemente scoperte, troverebbe un cammino di 150 milioni di anniluce! Per superare un solo minuto secondo di questi 150 milioni dovrebbe percorrere 300 mila chilometri; per superare un minuto primo ne dovrebbe percorrere 180 milioni. E per superarne un'ora, un giorno, un anno? La mente si perde nel calcolo!
L'uomo ha formato i suoi grandi telescopi per cercare, almeno con l'occhio, di abbreviare le distanze del cielo; ma se è riuscito ad avvicinare di poco i pianeti o, meglio, scientificamente, ad ingrandirne innanzi al proprio sguardo l'immagine riflessa nel telescopio, non è riuscito e non riuscirà mai ad ingrandire una stella, che innanzi all'obbiettivo è sempre un punto luminoso, inesteso.
Un ingrandimento di diecimila volte, infatti, equivale a ridurre di un decimillesimo della realtà la distanza tra noi e una stella, ora un decimillesimo di una distanza di ottanta trilioni di chilometri, quanta ce n'è tra noi e Sirio, equivale praticamente allo zero, e molto meno se quella distanza è maggiore.
Il pianeta Nettuno, a quattro miliardi e mezzo di chilometri da noi, ed il pianeta Plutone a sei miliardi di chilometri, possono essere ingranditi, benché di poco, pochissimo, relativamente alla loro grandezza, ma una stella, anche la più vicina, non può mai essere ingrandita, neppure col telescopio ultra moderno della California, che ha cinque metri di diametro, e può dare un ingrandimento di oltre quindicimila volte!
La mente si perde in questo mare di grandezza; l'uomo, piccolo atomo, sparisce dinnanzi a questa sterminatezza, eppure Dio gliela mette davanti perché lo scorga attraverso quei mari lontani di luce, lo apprezzi, lo ami, lo serva, lo possegga, lo goda.
Il cielo con tutta la creazione è come il telescopio che ci fa scorgere Dio: non lo ingrandisce, non lo può ingrandire al nostro sguardo, perché Egli è infinito, ma può farci intravedere la sua grandezza, può farci contemplare un raggio della sua potenza, un fulgore della sua sapienza, un caldo riflesso dell'infinita fiamma del suo amore.
Ma che cosa è anche questa contemplazione, per quanto profonda, innanzi alla realtà? Ed anche se ascendo nel cielo sidereo, che cosa è questo di fronte a Te, mio Dio? E se pur la mia mente giunge in alto e, quasi cherubino dalle ali spiegate, si protende verso i confini del cielo, che cosa ha visto della creazione, e che cosa ha potuto intuire di Te, mio Dio? Se aprissi le braccia ad oriente e ad occidente, come le ha aperte e protese l'immagine effigiata dal Michelangelo nella Sistina, e se portassi sulla punta delle mie dita, per così dire, la potenza della mente che vede e dell'amore che plasma, come par che la porti quell'immagine, che cosa avrei visto di Te, mio Dio, e delle opere tue?
Tutto per Lui fu fatto... Mi elevo, mi elevo, lo posso, ho le ali della fede; Dio mi ha dato Egli stesso l'occhio interiore per vedere; non ho bisogno di telescopi, ne ho uno immenso, la fede, il dono mirabile che Dio mi ha fatto, la fede che ha per obbiettivo l'eterno, per oculare la sua sapienza e per fuoco il suo amore!
Eccomi, in un volo di fede contemplante sono vicino a Te, mio Dio! Ti credo, ti apprezzo, ti amo, ti adoro. Che cosa c'è voluto per giungere a Te? Nei velocissimi veicoli pneumatici il vuoto lancia il carrello in un attimo per le chiuse pareti... A me è bastato il vuoto di me, il vuoto della mia conoscenza che è nulla e della mia ragione che è tenebre, per lanciarmi sui raggi della tua luce fino a Te! La fede, la fede, mio Dio; che dono mirabile, che intelletto fulgente posto in luogo del mio, oscurissimo e vuoto, che ragione infallibile posta in luogo della mia, che balbetta e mentisce!
O abisso, rispondi, cosa sei tu?
Eccomi, ti sono vicino, mio Dio, nell'atto in cui Tu crei... Che buio intorno guardando fuori di Te, che vuoto, che abisso! Mi spavento, m'agghiaccio...
Guardo giù; vorrei individuare che cosa è quell'abisso, vorrei sondarlo. Grido, come gridavo fanciullo nel buio della canna d'un pozzo, per sentir l'eco della mia voce nell'umido speco: che cosa sei, o abisso? Rispondi! Tace.
Tra le fittissime tenebre e il gelo assoluto mi par di vedere due braccia che si levano in alto... È l'abisso che tende le mani all'eterno, ma non ha mani, non ha voce, non ha vita; è il nulla, l'opposto di Dio, che solo è colui che è\ Ma perché levi le mani, o abisso, perché? Rispondi. Tace!
Hai sentito forse l'Eterno che avanza verso di te? E spirato tra le tue tenebre uno spiro di onnipotenza? Rispondi! Tace.
Tendo lo sguardo: il vuoto.
Abbraccio le sue dimensioni: il vuoto.
Cerco di misurarne la capacità: il vuoto!
Rispondimi, abisso, dove sono le tue fondamenta? Tace!
Rimandami almeno la mia voce come eco, rimandala cupa come è cupa la tua tetraggine, affinché io senta dove giungano i confini delle tue tenebre. Tace! Mi gelo!
Mi pare che spiri un vento di bora tra queste tenebre, la bora del nulla, il freddo assoluto!
M'abbacino, mi par che ne sorgano nembi di fumo fittissimo, il buio assoluto!
Non sento, mi par che m'assordi il profondo silenzio di questo spaventevole vuoto!
Non vivo, mi par che una mano mi prenda, m'opprima, mi soffochi il nulla!
Da ogni parte? Da ogni parte.
In alto, in basso, a destra, a sinistra, il vuoto cavernoso del nulla!
Volgo di nuovo lo sguardo a Te, mio Dio!
Volgo di nuovo lo sguardo a Te, mio Dio. Che gioia! La vita! Che luce! L'eterna tua sapienza! Che fiamma! L'eterno tuo amore! Quale pienezza sterminata, tutta in un attimo, tutta presente, senza ombre! È abisso d'infinità, abisso di potenza, abisso di sapienza, abisso di Amore; ma non è abisso profondo, è inesteso, è semplicissimo, è; brilla ed arde solo in sé, tutto con sé, tutto in sé... O Santissima Trinità, o Santissima Trinità!
Ti vedo, o mio Dio, che sguardo d'amore sei tu, che profondità di pensiero in quello sguardo di amore, che fulgore di potenza! Ti vedo nella tua eternità; che fioritura di freschissima vita, che profumo d'amore, o eterno fiore, che semplicissima armonia!
«O Luce eterna che sola in Te sidi,
sola t'intendi e da Te intelletta
e intendente Te, ami ed arridi!».
Ti guardo: che gioia! Tu sei! Ti contemplo: che pace! Tu intendi! Mi beo di Te: che ardore! Tu ami!
Ti vedo; Tu pensi? Che cosa è quel tuo volto profondo, tutto un sorriso d'amore? Quale profondità Tu scruti, mio Dio, se nulla v'è fuori di Te? Che vedi?
Egli contempla in sé, tutta in atto, la sua onnipotenza, la contempla nel suo Verbo eterno, e tra le infinite armonie che vede in un semplicissimo atto, volge il suo amore ad un gruppo di esse, quasi come se prendesse da una massa di fili d'oro, i fili d'un ricamo bellissimo.
E potente, intende, vuole, ama, è tutto carità; quella ricchezza diffusa fuori di sé non si diminuisce, non lo diminuisce, non lo muta, ma diffusa fuori di sé è vita di innumerevoli esseri che lo conosceranno, l'ameranno e saranno felici in Lui e per Lui.
Egli vuole, e la sua volontà è amore, vuole perché intende infinitamente; e nel suo Verbo sono i prototipi delle creature alle quali vuol dare l'essere; erompe, per così dire, per il suo Verbo, parla nella sua onnipotenza, vuole nel suo Amore: Fiat!
È un attimo. Il nulla si colma, s'illumina, sorride. Scocca la prima scintilla del tempo, comincia una grandiosa sinfonia di lodi; due mondi s'avanzano, un mondo di spiriti eccelsi e fulgenti, e un mondo di materia, ancora oscura e confusa, il caos, che attende la voce eterna che l'ordini e che è come la materia prima, data allo spirito perché ne tragga concenti di gloria al Signore.
M'arresto un istante su questo immane abisso, che vortica e fugge come dardo al suo segno sull'orbita immensa.
Lo spazio in cui fugge è teso come i fili di sostegno d'un ricamo grandioso, perché innanzi a Dio quel bolide immane è meno di una spola che passa e ripassa da un polo all'altro per formarvi, al comando dell'eterno suo Verbo, intrecci di nuovi ricami.
Gli spiriti angelici in alto ammirano estatici il grandioso lavoro dell'eterna Parola, del Verbo infinito, il quale ordina quell'immane ammasso di materia e di forze a quel piccolo punto roteante, dove un giorno discenderà Lui stesso, per prendere il filo spezzato del grande ricamo, e continuare più bello nei secoli l'inno di lode all'Eterno nelle sue creature.
Si delinea già nell'oscurità profonda del caos la prima profetica immagine del Verbo Incarnato, e quelle tenebre, quella solitudine, quel silenzio si riempiono di voci di vita, che rispondono pronte all'eterna Parola, ed annunziano già quello che il Verbo Incarnato compirà per la gloria del Padre.
Tuona la voce di Dio: sia fatta la luce, e in un attimo splende quel caos di fulgori smaglianti, quasi gigante ridesto dal sonno; splende vorticando quasi in danza di gioia, si divide in tanti corpi fulgenti, quasi allargasse le fila, marciando per un cammino di gloria; splende e proietta lontano le ombre dei corpi opachi che domandano luce, e si forma così il giorno e la notte. Egli il Verbo è la luce che illumina ogni creatura, Egli la luce che illuminerà ogni uomo che viene nel mondo, Egli il vincitore delle tenebre del peccato e della morte, e l'immagine sua risplende già su quegli abissi splendenti.
Gli angeli estatici ammirarono l'opera del Verbo di Dio, e cantarono lodi di amore; videro lontano, su quei mari di splendore, quello che Egli sarebbe stato incarnandosi, videro nella luce profetica la sua umana natura, fulgente della natura divina nell'unità della stessa Persona del Verbo per cui tutto in quel momento era fatto, e si sentirono invitati ad adorare.
Forse nel momento stesso della creazione della luce si accese la lotta tremenda negli spiriti eccelsi ; forse non senza ragione san Giovanni insiste nel dire che il Verbo era la luce vera, luce che splende nelle tenebre, ed è incompresa dalle tenebre. Certo Lucifero inalberò il vessillo vergognoso della rivolta di fronte ad una luce, che, nel suo immenso orgoglio disdegnò.
L'anima mia ascolta ancora l'eco dell'immane contesa, ripercossa su quei mari splendenti; il mondo porta con sé il triste ricordo della caduta degli angeli ribelli, poiché n'è infestato com'è infestato di microbi un corpo piagato.
Sia fatta la luce, e la luce figuri la Luce vera che illuminerà ogni creatura: la luce del Verbo Incarnato...
Il più bello degli angeli, Lucifero, ascoltò questa voce, e si credette diminuito, perché si credeva egli la luce; non si accorse che proprio la luce del Verbo di Dio lo illuminava; non lodò, non amò, non adorò, e gridando non con la bocca ma con l'impeto della tremenda volontà deviata, si staccò dal Signore, dalla fontana di luce e di vita, e precipitò con quanti lo seguirono nella stolta contesa! Che orrore!
Il Verbo era la Luce vera, era il giorno di grazia e di amore, era la vita; egli, satana, fu la notte, fu tenebre fitte, fu morte; s'avvampò in una fiamma inestinguibile, precipitò dall'alto nelle sfere più basse, spirito immondo e stoltissimo, avvinto alla materia come a suo dominio, mentre è sua tremenda catena, isolato nei torbidi piani della sua stoltezza, nemico di Dio, egli un verme senz'ali!
E il Verbo di Dio continuò l'opera sua, e nell'opera sua rifletté ancora l'immagine scialba del futuro. Ecco la distesa del firmamento ecco le acque, fecondità della terra, ecco le piante, gli alberi, i frutti, il sole, la luna, le stelle, librate nell'ampia distesa, che segnano i tempi, ecco i rettili, i pesci, gli animali terrestri, ecco l'uomo, fatto ad immagine di Dio.
L'anima si raccoglie in preghiera
L'anima mia si raccoglie e t'adora, o Verbo di Dio, poiché tutte queste meraviglie cantano le tue lodi, e per Te glorificano il Padre. Tu sei il cielo ideale dell'anima, Tu la fonte perenne d'acqua viva che la disseta, Tu il fiore spuntato dalla verga della radice di lesse. Tu il sole che illumina la vita nostra, e la luce che ne rischiara le tenebre, Tu l'Agnello immolato per la salute di tutti, Tu l'Adamo novello, che formi la generazione dei giusti, riformi l'uomo come lo vuole Dio, e lo conduci all'eterna beatitudine.
Tu sei il mio Redentore, e come potrei rendere vana in me l'opera tua?
Come potrei profanare con una vita immonda ed insulsa il creato nel quale dimoro, e la terra che è la via del mio pellegrinaggio per giungere a Te?
Come potrei contaminare col peccato le bellezze create da Te, e disturbare l'ordine che l'infinita tua sapienza ha posto in tutte le cose?
Come potrei avere col mondo quei contatti assideranti, che agghiacciano il cuore lontano da Te, e gettano l'anima nelle tenebre? Non mi hai fatto Tu cooperatore della gloria divina in questo mondo? Come potrei diventare cooperatore di satana, ed avvincermi alla materia per spasimare nelle fiamme urenti delle più basse passioni? In Te è la vita, e la vita che mi doni è la luce del mio esilio; questa luce splenda nelle mie tenebre ed io l'accolga e ne sia tutto vivificato, per risplendere in Te, vita mia, come lode di Dio.
4.  In Lui era la vita
Dopo aver detto che per il Verbo furono fatte tutte le cose, l'evangelista soggiunge che in Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. In Lui è infatti la vita formale, come dicono i teologi, poiché la sua stessa sostanza è vita.
Egli, Verbo di Dio, è vita sussistente, e la sua stessa essenza è vivere e vita. Vive la vita divina, perfettissima, immensa, eterna, beatissima, che è origine e fonte di ogni vita angelica, umana, animale e vegetale. In Lui è la vita ideale, ossia esemplare, perché in Lui, come nell'idea, vivono le sempiterne ragioni delle cose, essendo Egli l'idea di tutte le creature.
L'opera di un artista fuori di lui è materiale, dentro di lui è come vivente in lui, nella sua idea; l'opera che compie non è che manifestazione e diffusione della sua idea. Il Verbo eterno è vita, e in Lui sono vita le sue idee e i prototipi delle cose create, benché ad extra, create che siano, possano essere anche inanimate, com'è inanimata la statua di un artista, prodotta da una sua idea viva.
Nel Verbo è la vita causale naturale, perché Egli è causa di tutto e crea tutti i viventi, comunicando loro la vita, vita vegetativa alle piante, animale alle bestie, razionale agli uomini e spirituale agli angeli. Egli poi dà a tutto il vigore, la durata e la conservazione.
Nel Verbo è la vita soprannaturale della grazia e della gloria, ed Egli per darla agli uomini caduti s'è incarnato; per questo l'evangelista soggiunge che la vita era la luce degli uomini, vita increata, come dicono i teologi, per la grazia, per la quale l'uomo giusto serve Dio per la fede, la speranza e la carità, e vive soprannaturalmente credendo in Lui, sperando, ed amandolo sopra tutte le cose, e vita consumata per la gloria, nella quale fruisce di Dio e si delizia in eterna beatitudine.
Per questo il salmista, volgendo a Dio lo sguardo esclamava: Apud te est fons vitce, et in lumine tuo videbimus lumen (Salmo 35,10). Presso di Te è il Verbo eterno, fonte di vita, e nel lume dello Spirito Santo vedremo il lume della tua gloria, l'Unigenito tuo, tua gloria essenziale, nella cui luce anche noi ti conosceremo e ci beeremo in eterno. Tu ti conosci per il tuo Verbo, noi ti conosciamo per il tuo Verbo Incarnato!
La vita, che ci dà il Verbo illuminandoci soprannaturalmente per la fede e per la grazia, è la luce degli uomini, la luce che li illumina in questo mondo, com'è detto al versetto 9. Non c'è altra vera luce per noi, e tutte le povere luci della nostra sapienza, anche quando sono vere, sono appena lucignoli fumiganti e faville disperse in una profonda oscurità. Solo la luce di Gesù Cristo splende nelle tenebre e può diradarle, poiché Egli è il sole dell'anima; qualunque altra luce, per quanto intensa, può illuminare la materia, ma lascia sempre oscuro il cielo e l'orizzonte della vita, come lo lasciano oscuro nella notte anche i fari più potenti accesi sulla terra.
E stupefacente e penosissimo il pensare come l'uomo non accolga la luce che ci viene dal Verbo Incarnato, e perciò l'evangelista soggiunge: La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno accolta. L'ingratitudine umana lo colpisce subito; gli uomini, pur essendo tenebre, non ricevettero la luce e la rinnegarono; preferirono rimanere immersi nelle loro iniquità, che sono tenebre e producono tenebre, e tuttora rimangono ottenebrati, pur avendo la luce della fede già comunicata all'uomo e rifulgente nella Chiesa.
È terribilmente penoso il vedere l'uomo andare esplorando con un lucignolo fumigante le altezze della verità, pur potendo accendere la lampada splendente della fede, e camminare fra precipizi con un legno roso dai tarli credendo di portare in mano una fiaccola! Se ci sollevassimo un poco su tutte le cose umane, che cosa apparirebbe dall'alto, non diciamo la falsa scienza, ma anche quella vera, ristretta alla materia? Forse dall'alto si vede la lucciola nel suo incerto volo fra le piante?
Se ponderassimo tutte le sciocchezze che si dicono, col volto accigliatamente ridicolo, dai pretesi sapienti del mondo, correremmo solleciti e lieti verso i monti della fede, illuminati dalla fulgente luce del Verbo di Dio, incarnato per il nostro amore! Fino a quando saremo così stolti da scambiare la lucciola per il sole? E perché, leggendo e studiando tante stoltezze, non apriamo la mente e il cuore a Dio, leggendo e meditando la sua parola? Dove siete voi, fannulloni dello spirito, lettori di fandonie, sterratori di letamai, minatori di caverne asfissianti; dove siete, appassionati di romanzi, di frottole e di stoltezze, che girate volentieri nelle fogne puteolenti e rifiutate d'ascendere in alto, nella luce di Dio?
Come renderete conto all'eterna Giustizia delle ore passate su libri futili, o peggio perversi, insudiciando di untume le anime, e rendendole poi schifiltose od annoiate della parola dell'eterna verità?
O luce del Verbo Incarnato, illumina nuovamente la terra, e come mandasti san Giovanni Battista a prepararti la via, fa riascoltare sulla terra dalla cattedra di Pietro la voce che rende testimonianza alla verità, perché tutti credano, e finisca per sempre l'ingratitudine umana che non comprende la luce ed erra martoriandosi, fra le tenebre!
5. San Giovanni con lo sguardo di aquila precorre i tempi, dà un colpo mortale ai nazionalismi e al razzismo
San Giovanni rimane sommamente accorato di fronte all'ingratitudine umana verso il dono immenso della luce di Dio, e cerca di farla approfondire perché cessi. Dopo avere annunziato che le tenebre non accolsero la luce, soggiunge che questo fu per loro colpa, giacché Dio annunziò la luce anche prima che spuntasse, mandando un uomo straordinario chiamato san Giovanni il Battista, perché le avesse reso testimonianza, e con la sua predicazione avesse indotto gli uomini a credere. Quest'uomo fu prodigioso per la sua vita, e rifulse nello splendore della sua austerità, ma non era lui la luce; ne era solo un testimone.
L'evangelista, essendo stato discepolo del Battista, ed avendolo forse in un primo momento, prima di conoscere Gesù, scambiato per il Messia promesso, volle stabilire bene chi egli fosse stato. Il versetto 8 perciò: Egli non era la luce, ma era per rendere testimonianza alla luce è come una parentesi che interrompe il suo discorso, ed è diretta a quelli che per devozione al Battista rifiutavano di riconoscere il Redentore. Nel versetto 9 ripiglia il suo discorso riguardo alla luce venuta dall'alto nel mondo, e dice che essa era la luce vera che illumina ogni uomo che nasce e vive in questa terra. Era già nel mondo prima d'incarnarsi, poiché il Verbo, come vero Dio, era presente dovunque col Padre e lo Spirito Santo, e per Lui il mondo fu fatto; era già luce degli uomini per la rivelazione primitiva che Dio fece della vera fede, diffondendo i raggi dell'eterna sua sapienza, ma il mondo non lo conobbe, non volle conoscerlo e si diede all'idolatria.
La rivelazione allora fu fatta al popolo ebreo, eletto da Dio come sua eredità e sua proprietà, ma la maggior parte di questo popolo, che apparteneva così da vicino al Signore, non accolse la luce. Solo pochi la ricevettero, ed a questi Dio concesse il grande vantaggio di diventare suoi figli di adozione, facendoli rinascere per la grazia. Credettero nel suo Nome, e furono nobilitati non per il sangue, quali figli della razza ebraica, né per la volontà della carne o dell'uomo, come discendenti dei primi patriarchi, ma per la grazia di Dio che li fece rinascere.
La rivelazione della luce di Dio, ossia della sua eterna sapienza infine si compì nella pienezza dei tempi, ed il Verbo si fece carne, prese un'anima ed un corpo come l'abbiamo noi, terminandoli con la sua Persona divina; abitò fra noi, dice l'evangelista con l'esultanza d'esserne testimone oculare, abitò veramente, fu quindi vero uomo, ma fu anche vero Dio, poiché noi abbiamo veduto la sua gloria, nelle sue opere e nello splendore della trasfigurazione, gloria veramente dell'Unigenito del Padre o, secondo il testo greco, gloria tal quale la gloria del Figlio di Dio, pieno di grazia e di verità, Redentore del mondo per la grazia, luce di tutti per la verità, ricco di doni celesti e splendente nel ricondurre l'uomo nelle vie della vera sapienza.
La luce vera venne in mezzo al popolo ebreo, ma non si donò solo a lui; illuminò tutto il mondo per formare degli uomini una sola famiglia. Sono figli di Dio, infatti, non quelli che hanno un privilegio di razza, ma quelli che ricevono la verità e la mettono in pratica vivendo da veri cristiani.
È questa la nuova base dell'umana fratellanza, e san Giovanni con sguardo di aquila precorre i tempi e dà un colpo mortale alle stupide ideologie di sangue, di razza e di nazionalismi esagerati che dividono il mondo ai nostri giorni. Siamo tutti figli di Dio che ci ha creati e dobbiamo esserlo tutti per la redenzione che ci ha rigenerati; non siamo divisi dalle stupide ideologie del sangue, della carne e della volontà dell'uomo, ma siamo unificati dal Sangue preziosissimo di Gesù Cristo.
Un solo popolo ha costituito veramente una razza privilegiata ed un sangue conservato accuratamente di discendenza in discendenza, per la divina promessa fatta ai suoi patriarchi, che doveva compiersi e si compì in Gesù Cristo. Ma appena questo popolo diede il fiore promesso, le sue barriere furono abbattute, ed il suo sangue è ritornato, per così dire, nella corrente comune a tutti gli uomini.
Non è grande chi eredita il sangue ebreo, romano o tedesco, inglese o francese, ma chi, servendosi del potere che Dio gli ha dato, con la grazia e i Sacramenti, di diventare suo figlio, accetta il dono del Signore e si trasforma in novella creatura.
I fatti hanno dimostrato e dimostrano che l'idolatria del proprio sangue ha formato per venti secoli degli Ebrei i nemici insidiatori dei cristiani e delle altre stirpi umane, e forma di quelli che li imitano, i nemici degli Ebrei e degli altri popoli. Riguardare un nero, un pellirossa o un mongolo come razza inferiore è una ripugnante ingiustizia, perché la nobiltà o superiorità di una stirpe sta tutta e solo nell'essere di Dio e nel servirlo fedelmente nella Chiesa. Invece, quindi, di dividere i popoli in razze, bisogna unificarli nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana, che sola possiede il tesoro dell'unità di tutti: il sangue e la vita di Gesù Cristo.
6. Et Verbum caro factum est: il Verbo si fece carne...
E una espressione che ci fa cadere in ginocchio ci fa raccogliere il capo fra le mani e ci fa tacere pregando. È un colpo di folgore per l'inferno, che nella umana carne aveva posto il suo dominio, e che tuttora la infetta come un bruco avvelenato per mezzo dell'impurità. E una melodia che fa rimanere estatici ed adoranti gli angeli, espressione della più grande opera di Dio. E per essi il compimento della loro gloria, che cominciò proprio con un'adorazione al Verbo che doveva incarnarsi.
La Chiesa non sa pronunziare queste santissime Parole senza chinare il capo o genuflettere; esse sono piene di maestà divina, sono la sintesi della storia dei secoli che rifluì tutta verso il Redentore, e che da Lui prese le mosse per un nuovo cammino.
A queste Parole divine fa eco la Chiesa, esultando come essa sola sa fare, e noi non possiamo trattenerci dal raccogliere almeno qualcuno dei suoi canti plaudenti al Verbo fatto carne: «Lieto esulti il coro fedele, il Re dei Re venne fuori dalla Vergine intatta, o miracolo! L'Angelo del consiglio è nato da una Vergine pura, un sole da una stella. Un sole che non tramonta mai, una stella sempre fulgente. Come la stella dà il raggio, così la Vergine dà alla luce il Figlio; né la stella è alterata dal raggio, né la Madre dal Figlio. L'alto cedro del Libano s'è reso piccolo come l'issopo nella nostra valle; il Verbo, Figlio dell'Altissimo, s'è degnato di prendere un corpo umano ed incarnarsi (Laetabundus: pieno di gioia).
Rallegrati, o Vergine Madre, del tuo parto gioioso; rallegrati, perché il tuo casto e fecondo seno ha portato un Figlio divino. Scorre il latte dal puro tuo petto, o Maria, con liliale candore, e Tu ne sostenti le tenere membra del Figlio, o Vergine pura. L'Unigenito Figlio del Padre, per cui tutto fu fatto, viene in terra come uomo, sottomesso ad una Madre poverella.
Nei Cieli sostenta gli angeli con la sua felicità, ed in terra Egli soffre la fame e la sete, Infante poverello.
In alto regge tutto, e in terra è retto dalla Madre, in alto comanda e in terra obbedisce alla sua serva.
In alto è assiso sulle sublimi altezze del suo trono, e in terra avvolto da fasce, vagisce nel presepe.
Ricordati, o uomo, e considera quanto sono grandi le opere della divina clemenza.
Non disperare del perdono anche se hai molto peccato, innanzi allo spettacolo di tanta meravigliosa carità.
Cerca in Maria rifugio, cerca il perdono, poiché Essa tiene in grembo la fonte della misericordia; salutala spesso con fiduciosa speranza, dicendo a Lei in ginocchio: Salve, o piena di grazia!
Quante volte, o Maria, calmavi il pianto del tuo divin Figliolo col tuo petto! Plàcalo ancora con le tue preghiere, oggi che Egli è irato per le nostre colpe.
Guarda, o Gesù, quelli che son caduti nel peccato, e per le preghiere della Madre tua rendili puri, rendili degni dell'eterna Patria. Amen».
Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis. Abitò prima nel seno immacolato di Maria, e poi in una piccola grotta, fredda e disadorna, per puro amore. Si umiliò ma non perdette la sua gloria, e per questo san Giovanni esclama: Abbiamo visto la sua gloria, gloria veramente dell'Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità.
E la Chiesa fa eco alle parole dell'evangelista nella sua liturgia, riguardando nel piccolo Infante il Re pacifico magnificato al di sopra dei re della terra (I Vespri Nat.). Lo acclama e lo invoca Figlio di Dio, luce e splendore del Padre, Creatore di tutte le cose (Inno del Vespro). Lo contempla nel mistero dell'eterna generazione come sposo che esce dalla camera nuziale, sulle cui labbra è diffusa la grazia (Ant. I Nott.). Lo riconosce fonte di misericordia e di pace, luce di verità e splendore di giustizia (Ant. II Nott.). Lo ammira nella sua bellezza divina, e nello splendore della sua grazia (Vers. II Nott.).
È conquisa dalla sua potenza regale, contro la quale invano fremono le genti e macchinano i popoli infedeli (Salmo Intr. I Messa Nat.). Lo vede trionfante alla destra del Padre, nella letizia dei cieli e nell'esultanza della terra (Grad. e Offert.). Egli è luce che brilla su tutto l 'universo; è l Ammirabile, è Dio, è il Principe della pace, è il Padre del secolo futuro, il cui regno inaugurato nello splendore del suo amore non avrà mai fine (Intr. II Messa).
Egli nascendo inaugura il suo regno, rivestito di splendore divino nella sua povertà, e di arcana fortezza nella sua medesima piccolezza, Egli è il benedetto che viene nel Nome del Signore, è il Signore Dio apparso fra noi (Salmo Intr. e Grad.), è il Re santo e Salvatore del mondo, nel quale esulta la Chiesa ed esulta la terra (Comm.).
Et Verbum caro factum est. E nato bambino, è nato piccolo piccolo, ma ha sugli omeri suoi il principato del mondo, ed è l'Angelo del gran consiglio, l'inviato dal Padre, l'eterno cantico di gloria a Lui, che risuona sulla terra esaltandone le meraviglie (Intr. IlI Messa). Il Verbo s'è fatto carne, il Signore ha manifestato il Salvatore promesso, ha rivelato la sua giustizia innanzi alle nazioni, ha fatto discendere una gran luce sulla terra (Grad.), e l'ha diffusa fino agli ultimi confini del mondo (Comm.).
Et Verbum caro factum est. La Chiesa esulta, e canta gioiosa su note dolcissime: Il Bambino è nato a Betlemme, alleluia! Perciò gode tutta Gerusalemme, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo il Cristo eh 'è nato, con un cantico nuovo.
Assunse la carne il Figlio di Dio, alleluia! Il Figlio di Dio Padre altissimo, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo il Cristo eh 'è nato, con un cantico nuovo.
Al messaggio di Gabriele, alleluia! La Vergine concepì il Figlio, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo con un cantico nuovo il Cristo ch'è nato.
Qui giace nel presepe, alleluia! Colui che regna in eterno, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo con un cantico nuovo il Cristo eh 'è nato.
E l'angelo ai pastori, alleluia! Rivela che è nato il Signore, alleluia, alleluia, il Cristo eh 'è nato.
Vengono i re da Saba, alleluia! Offrono l'oro, l'incenso e la mirra, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo con un cantico nuovo il Cristo eh 'è nato.
In questo gaudio natalizio, alleluia! Benediciamo il Signore, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo con un cantico nuovo il Cristo eh 'è nato.
Sia lodata la Santa Trinità, alleluia! Benediciamo Dìo, alleluia, alleluia! Nel giubilo del cuore adoriamo con un cantico nuovo il Cristo eh 'è nato (Puer natus in Bethleem).
Il Verbo s 'è fatto carne per amore, e la Chiesa canta piena di gratitudine profonda con soavissimi accenti: O beata infanzia per la quale è riparata la vita del genere umano! O amabilissimi e deliziosi vagiti, per i quali abbiamo evitato il pianto eterno! O pannicelli felici, per i quali furono mondate le colpe dei peccatori! O splendida mangiatoia, nella quale non solo sta il fieno degli animali, ma il cibo degli angeli! Alleluia! (O beata infantia!). Accorrete, o fedeli, lieti e trionfanti, venite, venite in Betlem, vedete il nato Re degli angeli, venite adoriamo, venite adoriamo, venite adoriamo il Signore!
Ecco, lasciato il gregge, gli umili pastori chiamati alla culla s 'appressano. Andiamo anche noi con fretta, con passo gioioso alla culla; venite adoriamo, venite adoriamo, venite adoriamo il Signore!
Noi vedremo l'eterno splendore del Padre velato dalla carne, vedremo il Dio Infante ravvolto nei panni. Venite adoriamo, venite adoriamo, venite adoriamo il Signore!
Riscaldiamo con strette d'amore Colui che per noi s 'è fatto povero, e riposa sul fieno. Chi non amerà Colui che così ci ha amati? Venite adoriamo, venite adoriamo; venite adoriamo il Signore! (Adeste fideles).
Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis! Risponde alle voci della Chiesa la voce del mondo, e nel tempo natalizio ascendono al cielo i canti più belli, modulati su versi dolcissimi e su note soavi, espressi nell'arte muta dei presepi splendidi, ripetuti sull'umile cornamusa che dolcifica il cuore, e dalle labbra chiassose dei piccoli. Chi può misurare il valore di queste parole: Il Verbo s 'è fatto carne ed abitò fra noi?
Un Dio, un Dio reso come uno di noi, disceso su questa povera terra, accomunato alle nostre pene, immolato per nostro amore! Un Dio fatto carne, fatto vittima, fatto cibo d'amore! Io non so come rispondere a tanto amore, e ripeto con la Chiesa questa bellissima invocazione, risposta all'amore che si dona:
O Padre, o Figlio, o Spirito Santo, o Santissima Trinità! O Gesù, o Maria, o san Giuseppe, o trinità terrena! O angeli, o santi, o sante del Paradiso, o trinità celeste! Impetratemi queste grazie che imploro per il prezioso Sangue di Gesù: che io compia sempre la volontà di Dio, e rimanga sempre in unione con Lui. Che io ami sempre Dio solo e compia tutto per Dio. Che io cerchi solo la gloria di Dio, e tenda alla santità per Dio solo. O Padre, o Figlio, o Spirito Santo, o Santissima Trinità!
Per questo il Verbo s'è fatto carne ed ha abitato tra noi, ed io debbo rispondere al suo amore facendomi spirito nella santità, ed abitando nei cieli. Egli s'è fatto carne e noi abbiamo veduto la sua gloria, gloria veramente dell'Unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità; dobbiamo perciò vivere della sua vita, vivere per la gloria di Dio, vivere in grazia sua e vivere nella luce della sua verità, fedeli alla Chiesa nostra Madre. S'è fatto carne per salvarci, e non possiamo noi abbrutirci nella carne per perderci, riducendoci come bruti. Questa carne, nobilitata da Lui, deve angelicarsi, deve essere come arpa d'amore che accompagna i cantici mesti dell'esilio, e come cetra gioiosa che si unisce ai canti eterni della gloria.
Don Dolindo Ruotolo