sabato 8 marzo 2014

08.03.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 5 par. 5

5. La vocazione di Levi, la questione del digiuno e la prudente ponderazione nelle vie dello spirito. La santa novità di Dio
Dopo aver guarito il paralitico, Gesù uscì dalla casa e andò verso il lago di Genesaret, e passò vicino ad un banco di gabelliere dove sedeva per le esazioni un pubblicano chiamato Levi ed anche Matteo. Lo guardò e con la grazia gli conquise il cuore, di modo che quegli ad un suo invito subito lasciò tutto e lo seguì.
In quei tempi c'erano una maggiore libertà ed un maggiore rispetto all'individuo, come c'era anche una maggiore coscienza del dovere; quindi non erano necessarie tante pastoie di formalità. Oggi un pubblico ufficiale, anche di alto grado, è ridotto poco meno che un collegiale, con tanto di uniforme, e con mille restrizioni che praticamente non giovano al buon andamento della cosa pubblica; esse, infatti, invece di dare la coscienza larga del dovere e l'iniziativa nell'azione, riducono tutto ad un formalismo pesante e demoralizzante, che salva solo le apparenze.
I nostri famosi superuomini e riformatori si accorgeranno ben presto di aver concepito la vita in una maniera fanciullona, e vedranno come già vedono, fallite le loro iniziative. Hanno voluto imitare la Chiesa nella sua mirabile organizzazione, ma hanno dimenticato che la Chiesa ha il Cristo che la vivifica, ed essi hanno solo la violenza e le parole roboanti, che non penetrano l'anima e suscitano reazioni pericolose. La diversità dell'ambiente della vita ai tempi di Gesù ci fa intendere tante cose che con la mentalità moderna sembrerebbero assurde.
Levi doveva avere qualche subalterno al quale lasciare affidato il suo ufficio, e quegli ne dovette prendere automaticamente la responsabilità; egli non si curò di altro, lasciò tutto e seguì Gesù Cristo.
Era un'anima retta, certamente, perché la grazia cerca un cuore disposto per potervi lavorare; doveva essere annoiato di quell'ufficio esoso, che lo costringeva ad angariare il prossimo, mentre l'indole sua doveva essere inclinata alla generosità, come dimostrò nell'apostolato; forse era non poco seccato di essere considerato come aguzzino e come peccatore, e l'invito di Gesù, quasi semente in terreno preparato, immediatamente attecchì nel suo cuore e lo decise a seguirlo.
Queste non sono supposizioni, ma sono intuizioni psicologiche di grande importanza, giacché Matteo non fu ammaliato dallo sguardo di Gesù, come potrebbe credersi, ma fu conquiso dalla divina grazia che Egli effuse nell'anima sua. La grazia, come sempre avviene, lo colpì nel momento psicologico più favorevole, e utilizzò le naturali disposizioni di lui per conquiderlo più facilmente.
I farisei si scandalizzano
Il banchetto che Levi fece a Gesù, per solennizzare la sua vocazione all'apostolato ed il gran concorso di pubblicani che vi fù, ci fanno intendere anche meglio che egli non fu affascinato ma radicalmente mutato. Andò a Gesù con tutta l'anima, riguardò la chiamata come una grazia singolarissima, e volle partecipare anche ad altri la sua gioia cominciando così un apostolato di convinzione in mezzo ai suoi stessi compagni. Si sentì compreso e penetrato dal Redentore, e nel parlargli da vicino sentì talmente che Egli era la verità, che volle farlo conoscere ai suoi colleghi, ed organizzò il banchetto.
Questa sua intenzione si rileva anche dalla risposta di Gesù ai farisei ed agli scribi: Essi, infatti, furono scandalizzati di quel concorso di pubblicani e di peccatori e, non potendo lamentarsene con Gesù direttamente, perché doveva essere al centro del banchetto, fecero le loro rimostranze coi discepoli che stavano più vicini alla porta, dalla quale essi osservavano. D'altra parte, psicologicamente, essi si trovavano tra gente che avrebbe potuto angariarli nelle pubbliche esazioni; erano tra ufficiali del fisco, sempre temibili e, vedendoli così devoti a Gesù, non osarono dirigersi direttamente a Lui per non urtarli. Gesù però ascoltò le loro lamentele, e pieno di amabilità, con un accento di misericordia che non poteva essere offensivo per i suoi commensali e con un amore grande che conquideva, rispose che non avevano bisogno del medico i sani, ma gl'infermi, e che Egli non era venuto a cercare i giusti ma i peccatori.
Quel banchetto, dunque, non era un qualunque simposio, ma era una riunione di apostolato; Egli non vi stava per mangiare, ma per curare le anime e salvare quelli che lo circondavano; essi si consideravano sani e giusti e ne erano fuori, ma se avessero pensato alle loro responsabilità, non si sarebbero creduti migliori dei pubblicani e dei peccatori.
Nelle parole di Gesù c'era un invito indiretto anche agli scribi e farisei, infermi e peccatori come gli altri e più degli altri; ma essi non lo capirono, perché erano gonfi di orgoglio. Dovettero temere che i pubblicani si fossero offesi delle loro rimostranze, dovettero capire da qualche sguardo severo che avevano parlato inopportunamente, e cambiarono discorso, mostrando di essersi scandalizzati solo della vita poco penitente dei suoi discepoli. E proprio l'arte dei maligni e degl'ipocriti quella di aggredire pungendo, e poi subito mostrare un'altra intenzione e tergiversare, appena s'accorgono di essere stati poco felici, o di essere stati contùsi in modo umiliante.
La risposta di Gesù ai farisei
Gesù diede loro due risposte, una per giustificare i suoi discepoli, ed una per suggerire una grande regola di equilibrio e di saggezza nel condurre le anime alla perfezione. Per i discepoli era quello un tempo di intima gioia, perché lo avevano ancora con loro, era come una festa di nozze, nella quale non potevano pensare a digiunare; ma, quando Egli sarebbe stato tolto loro violentemente nella Passione, allora sì che avrebbero digiunato. Avrebbero digiunato sia per volontaria penitenza e sia perché stretti dalle persecuzioni e dalle angustie.
Gli scribi ed i farisei si contentavano di una giustizia fatta solo di apparenza, ed appena reclutato un loro discepolo gli imponevano una disciplina severa di pose esterne che non corrispondevano ad una vera virtù interiore. Era un metodo per formare non i giusti ma gl'ipocriti.
Gesù disse loro con una similitudine quanto fosse sbagliato questo metodo: esigere una pratica di virtù senza svecchiare prima la natura dalle sue inclinazioni era come mettere una pezza nuova in un abito vecchio. Dare dei precetti di perfezione senza che l'anima fosse stata disposta ad accettarli era anzi un profanarli, come sarebbe stolto il togliere un pezzo di stoffa da un abito nuovo, rovinandolo, per attaccarlo all'abito vecchio, che più si sdrucirebbe, e la pezza nuova non gli converrebbe. Un'apparenza di virtù in un cuore ancora poco formato è una stonatura, perché è un'ipocrisia; un precetto altissimo insegnato a chi ancora sta ai primi elementi è una profanazione, perché è deformato dalla sua poca comprensione e può fargli più male che bene.
Gesù Cristo insistette su questo importante argomento con un altro paragone, dimostrando quanto fosse imprudente il forzare estremamente la fragilità umana, e quanto fosse difficile farle comprendere le sante novità delle opere di Dio: chi pone il vino nuovo in otri vecchi li rompe e perde il vino, e chi è abituato al vino vecchio lo preferisce al nuovo; bisogna dunque mettere il vino nuovo in otri nuovi, ed aspettare che il vino nuovo diventi in certo modo stagionato per poter essere accettato da quelli che sono abituati al vecchio.
Gesù voleva anche ammonire gli scribi e farisei, attaccati alle loro vecchie tradizioni, ed incapaci di comprendere le nuove misericordie di Dio, e voleva loro dire che dovevano rinnovarsi internamente per rendersi capaci di accoglierle. Se Egli non esigeva un maggiore esercizio di virtù dai suoi discepoli era proprio per non scoraggiarli e renderli più inetti al regno di Dio; sarebbe poi venuta l'ora delle prove e del dolore, e nell'afflizione si sarebbero perfezionati e sarebbero stati atti a digiunare ed a praticare la più alta perfezione.
Per chi sta alla guida delle anime...
L'errore degli scribi e farisei è comune anche, dolorosamente, a tanti che hanno cura di formare le anime alla santità, e produce un immenso danno. La ragione principale per la quale nelle anime consacrate a Dio fiorisce poco la santità è proprio la mancanza di un criterio prudente nel formarle. Le prescrizioni, le regole, gli usi di comunità sono vere pezze nuove cucite su di un abito vecchio, e gli alti insegnamenti dell'amore mistico sono vino nuovo e fermentante, posto in otri vecchi, che si rompono e non resistono alla pressione di un amore vivo ed irrompente.
È necessario studiare le anime, riformarne a poco a poco i pensieri, gli apprezzamenti ed i gusti, guidarle passo passo nelle vie di Dio, e fare in modo che tutto ciò che è disciplina esterna venga dall'interno, e non sia solo una posa farisaica. È indispensabile educare il cuore, illuminare la mente, e guidare la ragione, affinché tutta l'anima, rinnovata dalla grazia, si elevi a Dio e sia capace di quelle grandi espansioni d'amore che la portano alla cima della perfezione.
Al principio della vita spirituale occorre grande compatimento e grande carità per le umane debolezze, e bisogna combattere le miserie del carattere più con la preghiera e con la carità che con l'irruenza e la severità. La durezza può disciplinare le anime come militi inquadrati nel campo, ma non le può condurre nelle vie della santità; può intimorirle ma non vivificarle, e può ridurle come boccioli che tra le tempeste non si aprono e rimangono perennemente boccioli senza frutto.
Nelle vie del Signore, le sante novità
Il metodo, troppo sistematico e stereotipato, nelle vie della santità può essere dannoso, com'è dannoso il coltivare le piante con un manuale di agraria, senza tenere conto delle particolari condizioni nelle quali si trova il piccolo virgulto. Stabilire come infallibile criterio che tutto debba essere vecchio e che non bisogna scostarsi dagli usi accidentali di un ambiente, è errato, perché la Chiesa ogni anno prega nel Martedì Santo che i suoi fedeli siano capaci delle sante novità del Signore, e realmente nelle vie di Dio ci sono tante novelle fioriture di grazia che sarebbe stolto troncare.
C'è il vino vecchio ed anche il nuovo, ci sono i fondamenti e le radici che non si cambiano, e ci sono le rifiniture degli edifici ed i nuovi virgulti che possono avere una linea od un germogliare novello. Per questo le anime si formano sempre in una maniera sicura quando sono indirizzate nelle magistrali vie della Chiesa, della sua dottrina e della sua liturgia; le anime possono crescere in grande santità quando sono abituate prima di tutto alla vita interiore, a quando sono disciplinate più dall'amore che dalle leggi esterne dell'ordine.
A volte certi caratteri difficili, che fanno diffidare della loro santificazione, possono essere riformati a poco a poco, tenendo conto delle loro debolezze; a volte certe miserie sono riflessi di malanni fisici, che debbono essere curati con carità; a volte l'età muta radicalmente certe false concezioni della vita, e l'attendere un poco, con pazienza e con carità, può mutare un tipo insopportabile in un santo.
Gesù Cristo certo non volle insegnarci ad indulgere alle miserie, ma ad eliminarle a poco a poco; non volle giustificare l'intemperanza, ma volle insegnarci a compatire le debolezze dell'infanzia spirituale; non volle condannare ciò che di buono sta nelle vecchie abitudini, ma volle dirci che la grazia, per operare liberamente, ha bisogno di un cuore scevro da pregiudizi. Vengono nella sua Chiesa momenti di grazie eccezionali, vengono doni di novelle manifestazioni di amore, e non bisogna rifiutare questo vino nuovo per voler bere ad ogni costo il vecchio; l'anima deve accogliere tutto quello che è amore vero, sotto la guida e l'illuminazione della Chiesa, e deve sospirare a crescere sempre più nelle vie di Dio.
Sac. Dolindo Ruotolo

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