martedì 11 marzo 2014

12.03.2014 - Commento al vangelo di S. Luca cap. 11 par. 5

5. Il segno che avrebbe dato Gesù della sua missione
Gesù Cristo non diede una risposta immediata a quelli che gli avevano domandato un segno dal cielo, ma aspettò che gli si fosse affollata intorno la turba, giacché era troppo importante dissipare da essa l'illusione di voler vedere spettacoli materialmente impressionanti, quando già viveva in una pienezza di soprannaturale che superava qualunque manifestazione passata. A che cosa, infatti, sarebbe servito un segno dal cielo per quella generazione perversa? Se era giunta fino a chiamare opera di satana la sconfitta di satana, qual peso vi avrebbe dato?
Era assurdo che satana potesse scacciare se stesso, ma non era assurdo che potesse produrre un fenomeno impressionante, e perciò il segno dal cielo sarebbe diventato occasione di nuove maligne insinuazioni. Dio avrebbe dato un segno inequivocabile e definitivo della verità, non dal cielo ma dalle profondità della terra, facendolo risorgere dalla morte, un segno che non sarebbe stato come quello di Elia, manifestazione di giustizia terribile, ma come quello di Giona, per i Niniviti, invito di penitenza e di salvezza. Come Giona rovesciato dal cetaceo sulla spiaggia di Ninive mostrò con questo solo che era messaggero di penitenza e di misericordia così Gesù Cristo, uscito dalle tenebre del sepolcro dopo essere stato ucciso, avrebbe mostrato che Egli era il vincitore della morte e dell'inferno.
Sarebbe stato, perciò, Egli stesso un miracolo, anzi lo era già, poiché tutta la sua vita era un argomento vivo e parlante della sua missione.
Perciò Gesù Cristo soggiunse che la regina del mezzogiorno, cioè di Saba, che venne da lontano per ascoltare la sapienza di Salomone, ed i Niniviti che fecero penitenza alla predicazione di Giona, sarebbero sorti come giudici ed avrebbero condannato l'infedele generazione che aveva presente uno più grande di Salomone, ed ascoltava una predicazione più luminosa di quella di Giona.
Occorre uno sguardo puro e semplice per vedere giusto nelle vie di Dio
Ma perché l'ingrata generazione, testimone del più grande miracolo fatto da Dio in terra, non vi prestava fede? Perché aveva spento in sé la luce di Dio. Non si riceve un dono celeste per lasciarlo isterilire, né Dio lo elargisce per questo; ma, come una lampada s'accende e si mette sul candelabro perché faccia luce a quelli che entrano, così il dono di Dio è la luce che deve orientare a Lui tutta l'anima, purché questa sia semplice e vi guardi con retta intenzione.
Quando l'intenzione interna è pura, l'anima vede luce in ciò che Dio rivela e, quando è doppia e tenebrosa, l'anima vi scorge solo tenebre. Allora anche la luce più splendente e miracolosa diventa inutile e i miracoli più impressionanti non la scuotono. Dio ci ha dato la ragione come lampada della vita interiore, e per farci scorgere la luce che ci viene da Lui; la ragione deve stare sempre in una sfera superiore, come lume posto sul candelabro; se si abbrutisce nell'oscuro nascondiglio delle misere cose umane o si fa opprimere dagli errori, è per l'anima come fonte di tenebre.
L'occhio interiore vede tenebre dov'è luce quando non è puro, e quando è offuscato da pregiudizi e da errori.
Anche nelle cose umane un occhio pessimista ed oscurato dalla malignità vede tutto storto e tutto maligno intorno a sé; quanto più vede tutto storto nelle vie di Dio, che superano immensamente la sua possibilità, quando si mette da un punto di vista falso.
Oggi l'umanità è cieca e manca dei lumi di Dio
La lezione che Gesù Cristo fece agli scribi e farisei è estremamente necessaria alla nostra generazione, abituata ad accecare prima la ragione, a seppellirla sotto i rottami di mille falsità, e poi a pretendere che sia unica luce ed unica guida della vita. Dolorosamente, gli studi, così come sono impostati, sono ammassi di tenebre fitte in ogni campo, e soprattutto in quelli prettamente speculativi. Noi beviamo gli errori pagani dall'infanzia e ci nutriamo tra le tenebre della letteratura antica; quando la ragione dovrebbe svilupparsi e s'accende, le gettiamo addosso tutto il cumulo d'immondizia del pensiero traviato dei filosofastri antichi e moderni, e l'oscuriamo. Quasi, poi, non bastasse, lordiamo con mille impurità l'occhio dello spirito ed orientiamo le stesse attività corporali ad una meta falsa ed illusoria.
Nell'epoca che per feroce ironia si chiamò e si chiama dei lumi, noi in realtà non abbiamo acceso che pochissimi moccoli fumiganti, posti sotto il moggio, cioè al piano della terra. Non fa meraviglia, perciò, se a questa generazione sia ostico il soprannaturale e che si getti a capofitto nel baratro delle più banali e cervellotiche trovate dei più stupidi mestatori.
Viviamo in mezzo alla splendente luce della Chiesa e dei suoi santi, ma vediamo tenebre dovunque, perché l'occhio nostro, interiore ed esteriore, è impuro.
Intellettualmente siamo ciechi e moralmente siamo nelle fitte tenebre dell'impurità.
Il Signore ci faccia la grazia di guardare solo alla Chiesa, lampada che sta sempre in alto e di purificare l'occhio nostro dai fumi delfimpurità. L'unica salvezza nostra sta nella Chiesa Cattolica, Apostolica Romana, e senza di Essa l'umanità non farà che precipitare, precipitare fino al fondo del baratro. E vergognoso che dopo venti secoli di redenzione noi siamo ancora alle prese con gli errori, quando dovremmo essere tutti luce di verità; è spaventoso che, vivendo in mezzo ai miracoli della vita della Chiesa, noi andiamo ancora cercando prodigi impressionanti per credere. Siamo mille volte più rei dell'antico popolo giudaico, e dobbiamo implorare a gran voce la divina misericordia per risorgere.
Sac. Dolindo Ruotolo

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