mercoledì 5 marzo 2014

05.03.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 6 par. 2-4

2. Chi opera per Dio e chi opera per gli uomini
Gesù Cristo, dopo aver promulgato i precetti che compivano e perfezionavano l'antica Legge, passa a mostrare come si deve operare il bene, mettendo la creatura innanzi al Signore come figlia amorosa che cerca Lui solo sopra tutte le cose. La Legge, infatti, soprattutto per i farisei, era diventata tutta una pratica esteriore, alla quale l'anima era quasi compitamente estranea; la sua sterile osservanza costituiva un mezzo per farsi onorare e per gonfiarsi in una stupida vanità; era necessario perciò che la pratica della Legge diventasse vita dell'anima e relazione di amore col Signore, perché solo così poteva essere fonte di pace e di interiore felicità.
Che cosa si guadagna a fare le cose per gli uomini? Niente altro che un gonfiore fastidiosissimo di vanità, degna ricompensa di una opera vana. L'unzione interiore della grazia di Dio, la sazietà del bene, che appaga l'anima, la tranquilla pace di chi si è elevato in alto, là dove non si avverte più il soffio tempestoso delle passioni, l'amore soavissimo verso Dio che nelle opere buone s'infiamma di più, la libertà dello spirito, la calma e caritatevole relazione verso le creature, l'aspirazione al premio eterno che rende facile l'atto di virtù, tutto svanisce quando si fa il bene per rispetto umano. Chi opera per gli uomini perde ogni semplicità ed ogni libertà, è schiavo dei pregiudizi, è disingannato dagli apprezzamenti disparati che si fanno sulle sue azioni, rimane impigliato in una rete che lo soffoca e dalla quale non sa districarsi, è scontento di sé e rimane sempre scontento degli altri.
Operare per Dio solo, sentirlo Padre, dover rendere conto a Lui solo, rinchiudersi nel suo amore come in una cella di pace, quale felicità! Essere contenti di piacere a Lui solo, e nel medesimo tempo riguardare come nulla quello che si fa per Lui solo, umiliandosi, impiccolirsi fino a farsi quasi come un cristallo, una limpida goccia che riflette la sua luce e ne è tutta inondata, quale nobiltà! Operare per Dio, significa essere piante feconde che danno frutti abbondanti; operare per gli uomini significa essere parassiti dello spirito, erbacce d'apparenza, piante selvatiche che danno un fiore velenoso e muoiono senza frutto. Operare per Dio è la vita, perché allora l'anima è terra fertilissima, irrigata nella pienezza dei raggi solari; operare per gli uomini è la morte, poiché l'anima allora è come la terra umidiccia di sepoltura, che non produce nulla al lume dei moccoli fumiganti, o produce vermi di tabe cadaverica!
Dio solo, Dio solo! Che cosa può darci l'occhio umano? Nulla vede, nulla conosce, nulla apprezza per quello che è; passa magari sulle nostre opere con una sterile compiacenza, ma essa è come goccia di acido sul germoglio vivo; lo penetra per ucciderlo, è assorbito e lascia lo stelo intristito. L'occhio di Dio è sole splendente, è pioggia di grazie, è semente di novelle opere sante, è caldo di amore che fa sbocciare l'anima.
Dio solo, Dio solo! Chi tende alle creature le crede oasi di felicità e monti di gloria, mentre sono abissi tenebrosi, falsi gradini formati di ombre che non ci fanno salire, ma ci danno il sussulto di chi cade, ombre di nubi di tempesta, che passano sulla terra come montagne camminanti e sono oscurità vacue! Dio solo! Egli è l'altezza che ci trae, monte d'infinita gloria, anzi diremmo turbine di amore che ci solleva in alto appena ci abbandoniamo teneramente a Lui.
Dio solo! Diamo uno sguardo alla storia delle glorie umane, a ciò che è la massima espressione di quel che può dare l'uomo a chi opera per l'uomo. Poche pietre e pochi bronzi, segnali più di oblio che di ricordo, ingombri piuttosto che segni di vita, peso maggiore che grava sulle aride ossa, ancora anelanti alla libertà dello spirito ed alla vita! Dio ci pone sul trono, l'uomo ci seppellisce sotto la piramide; Dio ci fa volare, l'uomo ci schiaccia! Quanta sapienza sta dunque in queste parole di Gesù Cristo: Guardatevi dal fare le vostre opere buone innanzi agli uomini per essere veduti da loro, altrimenti non ne avrete la ricompensa dal Padre vostro che sta nei cieli.
Ma perché Gesù Cristo parla di ricompensa e non di amore? Non sarebbe più bello operare per amore di Dio, anziché per il premio? La ricompensa del Signore è precisamente l'amore, poiché in questo sta l'eterna felicità. Raggiungerlo, vederlo, apprezzarlo, amarlo! Operando per Lui sulla terra, Egli ci si comunica; si fa sentire come sommo Bene; si fa conoscere, e ci abbraccia con un amplesso di grazie. La ricompensa è Lui stesso, e perciò l'operare per Lui non è per noi un egoismo ma uno slancio di amore, non è un interesse ma una dedizione, e da parte di Dio non è misura del prezzo sulla stadera ma è effusione di carità benefica, è corrente che penetra ogni attività e la illumina, quasi lampada accesa dall'amore! Operare per Dio, dare tutto a Lui, impoverirsi di sé per Lui, è lo stesso che ricevere, arricchirsi, vivere, e perciò l'Amore che risponde al povero nostro amore è chiamato ricompensa, ossia scambio, flusso del calore nel gelo, della vita nella morte, del Tutto nel nulla! Guardatevi, dice Gesù, attendete, cioè ponderate bene quello che fate operando per gli uomini: Non avrete la ricompensa dal Padre vostro che sta nei cieli', chiudete il tesoro eterno per aprire il povero e nudo abisso umano! E una perdita immensa, è un barattare il brillante per la goccia di fango! Dio solo!
3. Quando l'elemosina è ipocrisia e orgoglio
Il nostro Redentore, volendoci persuadere praticamente, con qualche esempio, a cercare Dio solo, parla di quelle opere nelle quali è più facile il raccogliere la simpatia o il rispetto degli altri. E prima di tutto l'elemosina, che i farisei facevano con ostentazione orgogliosa nelle sinagoghe e nelle strade, per essere onorati come uomini benefici. L'orgoglio di questa gente non era solo una colpa innanzi a Dio, ma era anche uno scandalo perché guastava l'anima del popolo, e perciò Gesù lo bolla pubblicamente. Egli vuole tanta delicatezza e tanto riserbo in quest'opera di misericordia, che quasi esige che la mano sinistra non conosca ciò che fa la destra. E mirabilmente psicologico, poiché nel fare l'elemosina si può trovare l'ostacolo ad operare per Dio nella soddisfazione che prova chi la fa. E facilissimo ripensare con compiacimento all'opera buona, consolarsene, gonfiarsene, e tutto questo concentra l'anima in se stessa e la impoverisce. E necessario dare per amore di Dio, e distrarsi quasi dall'opera fatta, per non riflettervi e perderne così il merito.
Quale rimprovero al mondo che nelle sue opere di beneficenza suona letteralmente la tromba, annunziandole clamorosamente per averne lode e gloria! Quale riprovazione a quelle beneficenze fatte ipocritamente promuovendo feste da ballo e simili sconcezze; nelle quali l'ostentazione di se stessi diventa il turpe prezzo della carità che si dona! Quale condanna anche a quelle opere sociali, ispirate dalla politica, le quali mirano solo ad incatenare le reazioni del popolo affamato e si riducono praticamente a favoritismi, fatti molte volte a chi meno ne ha bisogno! Leggete il programma dell'assistenza dello stato e vi sembra di vedervi la risoluzione dell'assillante problema di tante miserie; andate a vedere praticamente chi ne benefica, e constaterete che i veri bisognosi ne sono molte volte esclusi per mancanza di sufficienti raccomandazioni, ossia ogni volta che un motivo tutto umano non induca ad elargire il soccorso .
Il Signore, comandandoci di fare l'elemosina per puro suo amore, ci ha dato modo di donare a Lui qualche cosa del nostro, pur essendo noi estrema miseria ed Egli infinita ricchezza. Tu dai al povero, e in realtà chi ti stende la mano è il Signore; se non dai per puro suo amore, tu elargisci a un bisognoso un soccorso e lo neghi a Dio, che si degna di domandartelo per bocca del povero, promettendoti i doni immensi della sua generosità!
4. La preghiera
I farisei avevano determinato ore di orazione e, dovunque si trovavano, si volgevano verso il tempio di Gerusalemme e pregavano. Essi cercavano però nelle ore di orazione di trovarsi nelle sinagoghe, nelle piazze o nei crocicchi delle vie, in cui maggiore era il concorso, per farsi riguardare come uomini di orazione, e raccogliere povere lodi umane. La loro preghiera in tal modo non era un'elevazione dell'anima in Dio, ma una coreografia di vanità, alla quale non poteva essere ricompensa che la vanità di un applauso o di una considerazione umana.
Gesù vuole che l'anima si raccolga innanzi a Dio solo e preghi nell'intimo raccoglimento che le faccia quasi sparire dagli occhi quelli che la circondano, come uno che si chiude in una stanza. Egli parlava contro l'ostentazione dei farisei, e perciò disse di entrare nella stanza e chiuderne la porta, cioè di cercare il nascondimento e non le piazze. Con questo non volle proibire la pubblica preghiera, che è un dovere sociale ed individuale, ma volle dire che l'anima, anche pregando in pubblico, fosse così lontana dallo sguardo umano, da sentirsi come rinchiusa in una stanza e pregare nel nascondimento interiore. Si prega in pubblico non per farsi vedere, ma per onorare Dio pubblicamente; allora tutto il popolo forma come un'anima sola, raccolta nella Chiesa o anche in pubblico, come in una stanza chiusa, dove Dio solo è presente ed ascolta i sospiri del cuore.
Gesù volle liberarci anche dalla preoccupazione dello sguardo altrui, che spesso c'impedisce di pregare in pubblico; chi prega deve riguardarsi come solo, raccolto in Dio, quasi fosse chiuso in una stanza; deve avere quindi la stessa libertà che avrebbe se fosse solo. Il mondo non fa il male in pubblico quasi fosse solo nel suo ambiente? E perché esso deve avere la libertà di fare il male, e noi non possiamo avere quella di fare il bene e di onorare Dio? Incediamo, dunque, anche nelle solenni processioni, con piena libertà di preghiera, riguardandoci quasi soli sotto lo sguardo di Dio, osannando a Lui per testimoniare la nostra fede, e per glorificare la sua grandezza. Non dobbiamo preoccuparci che gli altri ci vedano, e dobbiamo cercare il raccolto nascondimento interiore nella piena libertà dello spirito; non dobbiamo preoccuparci per rispetto umano che gli altri non ci vedano, quasi temendo che ci riguardino come bigotti, ma dobbiamo avere il cuore come lampada ardente che, consumandosi per Dio, lo glorifichi anche nel mondo che è tempio della sua gloria.
È facile nella preghiera ripetere le stesse cose macchinalmente e non preoccuparsi di elevare la mente a Dio; quelle invocazioni non sono allora che parole vuote. I pagani poi, pregando i loro idoli, gridavano e moltiplicavano le loro invocazioni, credendo così di essere ascoltati. Gesù Cristo vieta le molte parole nella preghiera, non però i ripetuti slanci del cuore che accompagnano le parole; non vuole parole vuote ma preghiere, e quindi non proibisce le ripetute invocazioni, ma, secondo la parola greca del testo, il balbettare, il biascicare macchinalmente le invocazioni; in questo caso è evidente che la preghiera si riduce a molte parole senza che da esse sbocci un solo affetto dell'anima.
Egli poi parla di quelle preghiere che si fanno per ottenere un beneficio temporale, come è chiaro dal contesto, e vuole ammonirci a pregare in modo da abbandonarci con fiducia alla divina bontà, con quelle poche e sincere espressioni dell'anima che sono lo slancio filiale di chi confida nella provvidenza e nella bontà del Signore, Dio sa quello che ci occorre prima che glielo domandiamo, ossia pensa a noi con amore paterno, ed ha cura di provvederci; basta quindi affidarsi a Lui pregando, senza necessità di dovergli esporre minutamente quello che ci occorre. Egli vuole che domandiamo prima il regno di Dio, come si vedrà appresso, e quindi, pur concedendo che si possa pregare per le cose temporali, vuole che lo si faccia con poche parole di fiducia.
Sac. Dolindo Ruotolo

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