giovedì 2 aprile 2015

02.04.2015 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 13 par. 2-3

2. San Giovanni non racconta in particolare l'istituzione eucaristica: perché?

Gesù Cristo era oramai vicino all'epilogo della sua vita mortale e il suo Cuore, nell'imminenza del distacco dai suoi cari, si dilatò in un amore senza confini. Il Sacro Testo stesso, nella sua ammirabile e penetrante semplicità, riflette questo amore, ed ha una soave armonia di contrasti sublimi nelle sue stesse parole.

Prima della festa di Pasqua, comincia l'evangelista, cioè la sera del giovedì, quattordici del mese di Nisan, sapendo Gesù ch'era giunta per Lui l'ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Era dunque tutto acceso di amore per i suoi che erano nel mondo, quando Egli stava per passare da questo mondo al Padre, considerava i pericoli che i suoi cari avrebbero incontrati, e li compassionava; era lieto di andare da questo mondo al Padre, compiendo sino alla fine la sua volontà, ed il lasciarli soli sulla terra lo inteneriva e lo angustiava, dilatandogli il Cuore in un amore più grande.


Li aveva sempre amati, ma la visuale stupenda dell'eterno regno che andava a raggiungere e quella penosissima del mondo nel quale li lasciava gli accresceva la tenerezza, perché avrebbe voluto allora stesso trasportarli con sé. Una mamma amorosa non va mai ad una festa senza provar rammarico per i figliolini che lascia in casa, benché sappia che non vi possono andare; ora Gesù lasciava gli apostoli non in casa ma nel mondo, e in un mondo perverso ed ostile; sapeva che il loro pellegrinaggio doveva essere quanto mai penoso, ed espandeva con loro il suo amore per confortarli e fortificarli.

Li amò sino alla fine, cioè sino all'ultima perfezione dell'amore, sino all'esaurimento dell'amore, poiché si donò tutto, e non ebbe più che dare. Egli solo poteva darsi interamente perché onnipotente, e solo in Lui l'amore, attraverso la dedizione del suo Corpo e del suo Sangue, diventava sostanza vivificante dell'amato. L'amore ha delle gradazioni, che vanno dalla prima tenerezza piena di ammirazione e di simpatia, sino alla dedizione di sé nell'immolazione, ed alla dedizione di quanto si ha per arricchire di sé colui che si ama. C'è un principio ed una fine, un primo atto di carità e la piena consumazione della carità, un termine che non può oltrepassarsi, perché oltre quel limite c'è solo l'amore eterno. Questo termine lo raggiunse solo Gesù, poté raggiungerlo solo Lui nell'istituzione dell'Eucaristia e nel sacrificio della croce, e perciò l'evangelista con questa sola parola allude al gran dono che Gesù istituì nell'ultima cena, benché non ne parli di proposito. San Giovanni era accanto a Gesù e aveva posato il capo sul suo Cuore, quando Egli disse le arcane parole: Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue. Più che vedere con gli occhi l'istituzione del grande mistero, egli la visse nel cuore attraverso il Cuore di Gesù. Egli aveva riposato su quel petto divino, ricolmo d'amore, se ne era beato, vi si era immerso; ne aveva capito l'arcano, ne era rimasto tutto vivificato. Per san Giovanni l'atto esterno dell'istituzione eucaristica era nulla di fronte all'infinito amore che lo ispirava; egli percepì più questo amore che l'atto esterno e, non potendolo descrivere, si servì di una sola parola comprensiva di tutto: Li amò sino alla fine.

Egli sapeva che gli altri evangelisti avevano parlato dell'istituzione eucaristica determinatamente, e non credette di doverlo ripetere; forse pensò anche al segreto dell'arcano mistero, la cui disciplina già s'era determinata nella Chiesa, in contatto oramai col mondo pagano; ma la principale ragione del suo silenzio sta forse, come già abbiamo visto, nel modo ineffabile com'egli percepì e visse i momenti dell'istituzione eucaristica cogliendoli dal Cuore stesso di Gesù. Reclinato sul petto divino egli vide l'eccesso ultimo dell'amore che si donava, percepì questo solo: In fìnem dilexit, amore che si dona, che non ha più limiti, che nutre di sé l'amato, che si annichila per amore, che diventa cibo e bevanda, frutto di vita immortale, che dona la vita eterna e porta all'ultimo fine la sua creatura.

Questa parola: In finem dilexit, dice tutto; è come la specie sacramentale dell'amore che si donò sotto le specie del pane e del vino, è l'espressione sintetica dei confini di questo amore che s'arrestò solo all'ultimo limite della dedizione alla sua creatura, è come il termine dell'eccesso della carità che scese dai cieli, passando da annientamento in annientamento, sino alla fine.

Il Verbo si fece carne, assunse l'umana natura e fu vero uomo nell'unità della divina Persona.

L'uomo si fece pellegrino nascosto, il pellegrino si fece operaio, prima della materia, in Nazaret, e poi delle anime, nell'apostolato.

L'operaio della vigna si offrì come grappolo di vite per essere posto nel torchio della tribolazione, e come granello di frumento nel solco per morire. Il grappolo sanguinante e il frumento diventarono cibo e bevanda, nascondendosi interamente sotto le specie del pane e del vino...

Il Verbo si fece silenzio, arcano silenzio di amore, in finem dilexit; non poteva andare più oltre, poiché nulla vi è di più divinamente eloquente quanto il Verbo eterno, conoscenza e glorificazione del Padre, e nulla di più arcanamente silenzioso quanto il Cibo della vita.

San Giovanni percepì questo mistero profondissimo in un momento di raccoglimento ineffabile, sul Cuore di Gesù. Misurò l'ansare di quei palpiti, si cibò di amore prima di cibarsi di Eucaristia, conservò nel suo cuore il segreto di quei momenti, che nell'anima sua erano scolpiti con una sola idea, con un solo verbo mentale, che suonava questo solo: Eccesso d'amore, in finem dilexit eos. Non seppe dire altro, non poté dire altro. Ai suoi occhi qualunque descrizione del mistero augusto non equivaleva la descrizione dell'amore che l'aveva prodotto; preferì tacerne, perché quell'amore si comprende non descrivendolo ma vivendolo, ed egli da allora n'era rimasto tutto vivificato. Fu l'unico apostolo che si cibò di amore nel cibarsi di Gesù, e per questo fu l'unico evangelista che tacque dell'istituzione eucaristica e parlò dell'amore di Gesù che fece all'umanità il gran dono: in finem dilexit. Al contatto della fiamma divina egli pure diventò fiamma; ora nella fiamma non si discerne più nulla al di fuori del fuoco che tutto consuma, tutto divora e tutto rende incandescente nel suo calore.

Gesù lava i piedi agli apostoli

San Giovanni riesce a descrivere l'amore col quale Gesù preparò la dedizione sua agli apostoli, desideroso di purificarli per poterli vivificare.

Essi erano in grazia di Dio, eccetto Giuda traditore, ma avevano tante imperfezioni nell'anima, e poco prima, come riferisce san Luca (23,24), avevano questionato su chi di loro sarebbe stato il più grande.

Gesù volle purificarli di quest'orgoglio con un profondo atto di umiltà, e volle correggerli di quell'emulazione che era trascesa nell'alterco, con un atto di amorosissima carità.

Lavò loro i piedi, e certo non fece questo solo materialmente, ma nel lavarli comunicò loro una grazia interiore e li purificò. Essi che lo amavano, vedendolo umiliato ai loro piedi come un servo, si umiliarono profondamente, e furono purificati dalla loro miseria.

Fatta dunque la cena o, come indica il testo greco di codici autorevoli, durante la cena, Gesù si raccolse tutto in sé stesso ed apparve come trasfigurato dall'amore e dal dolore. Giuda, infatti istigato da satana, aveva già stabilito di tradirlo, e Gesù, addoloratissimo tentò nella sua misericordia l'ultimo assalto per conquiderlo. Fu questo il primo pensiero che ebbe nel determinarsi a lavare i piedi ai suoi discepoli, e l'evangelista a bella posta lo fa notare.

Sull'umiltà che devono avere i capi

Giuda lo avversava perché gli pesava il suo giogo soavissimo, si urtava nel sentirlo chiamare Maestro, si ribellava al solo pensiero d'essergli sottomesso, e Gesù volle mostrarsi Egli sottomesso a lui, umiliandosi persino ai suoi piedi.

L'atto di umiltà che si accinse a fare, era tanto più meraviglioso, in quanto Egli sapeva bene d'essere il Figlio di Dio, e sapeva d'andare incontro alla morte proprio per il tradimento dell'apostolo infedele. San Giovanni fa notare questa circostanza in modo enfatico: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio andava, sì levò da cena. Lezione stupenda di misericordia e di carità a quei superiori che hanno sudditi ingrati e ribelli, ed in nome della propria dignità credono di doverli trattare con inesorabile severità. Gesù Cristo, Figlio di Dio, nelle cui mani era ogni potere, pur sapendo che Giuda non avrebbe corrisposto alla sua bontà, si umiliò fino a lavargli i piedi, e si umiliò dinanzi a tutti i suoi apostoli per migliorarli, e liberarli dalle loro miserie. Chi sta in alto non può sempre fare uso della sua potestà, deve sapere anche umiliarsi, e deve saper curare con la bontà l'ostinazione dei cuori che gli sono affidati.

La forza non corregge mai l'anima, benché possa disciplinare esternamente la vita, l'umiltà invece può correggere l'anima, e in ogni caso ne diminuisce sempre la perversità. Forse quando Giuda vide condannato Gesù e fu preso da un pentimento disperato del male che gli aveva fatto, il ricordo della sua umiliazione nel lavargli i piedi concorse, anzi determinò in lui quel sentimento di compassione e di sgomento, che, certo, fu l'unica nota attenuante del delitto commesso.

Giuda non si pentì soprannaturalmente in modo da meritare il perdono, non confessò Gesù come Figlio di Dio, ma per lo meno lo confessò giusto ed innocente, e questo attenuò l'orrore del suo peccato.

Levatosi da tavola, Gesù depose le sue vesti, cioè il pallio e la sopravveste che potevano essergli d'impaccio, prese un asciugatoio e se ne cinse e, versata l'acqua in una bacinella, cominciò a lavare i piedi dei suoi apostoli, asciugandoli col panno del quale era cinto. Com'è chiaro dal contesto, Egli andò prima da Pietro. L'evangelista, infatti, dopo aver accennato in generale alla lavanda, scende ad un particolare che era interessante, riguardando il capo degli apostoli.

Pietro, nel vedere ai suoi piedi Gesù, scorgendo in quell'atto stesso di umiltà la maestà divina che in Lui rifulgeva e l'amore che lo muoveva, ritirando con un gesto improvviso le estremità, disse con accento di stupore e di amore: Signore, tu lavare a me i piedi? E voleva dire: Tu Maestro mio, tu pieno di maestà abbassarti fino a me, povero pescatore e povero peccatore? Il gesto di Pietro fu reciso ed energico, e Gesù lo controbilanciò con un atto di tenera persuasione dicendogli: Quello che io faccio tu ora non l'intendi, lo intenderai in seguito; e dovette stendere le mani per prendergli i piedi e metterli nella bacinella. Ma Pietro più energicamente li ritrasse, e col suo modo affettuosamente irruente, a troncare la questione disse: Tu non mi laverai i piedi in eterno. Gesù gli aveva detto che in seguito avrebbe capito il significato e il valore di quell'atto, cioè che dopo gliene avrebbe dato la ragione; ma Pietro, come del resto tutti gli apostoli, voleva veder chiaro, ed in quel momento la sua ragione pretendeva imporsi al comando amoroso di Gesù. Gli apostoli, nella loro semplicità volevano ragionare, e Pietro non ammetteva un ragionamento postumo in una degnazione che ripugnava all'amore che portava al Maestro.

Era un atto di affetto, senza dubbio, ma era anche un atto di ostinazione contro un disegno di amore, e perciò Gesù gli disse: Se non ti laverò non avrai parte con me; e voleva dire: se non ti purificherò così, non potrai partecipare al Sacramento che sto per istituire, per il quale occorre una purità piena di coscienza. Pietro però capì che se non gli avesse permesso di lavarlo, non avrebbe avuto parte nel suo regno, e sarebbe stato allontanato da Lui. Lo stesso amore lo fece cadere nell'eccesso opposto, e gridò porgendogli i piedi: Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani ed il capo.

La lavanda dei piedi, come un sacramentale

Nella sua rozzezza non capì che Gesù voleva lavargli i piedi per lavargli l'anima, non capì che quell'atto di umiltà e di amore era un sacramentale di misericordia; credette si trattasse di pulizia del corpo, per stare a tavola con maggior decoro e poiché mangiando l'agnello s'era unte le mani e le labbra, si dichiarò pronto a farsi mondare. Ma Gesù, richiamandolo alle cose dello spirito con un paragone, soggiunse: Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, essendo interamente mondo. E voi siete mondi, ma non tutti. E voleva dire, secondo il testo greco: Come chi ha fatto già un bagno e va a casa ha bisogno di lavarsi solo i piedi impolverati nei sandali per il cammino fatto, così voi, già mondi per la grazia che vi ho dato, avete bisogno d'essere purificati solo nella debolezza del vostro mortale cammino. Specificò così il significato di quel sacramentale; Egli lavava i piedi per purificare le piccole colpe inevitabili nel mortale cammino; porgeva l'acqua santificata dalle sue mani, e le dava efficacia con la sua umiliazione, compungendo il loro cuore.

L'acqua era un segno esterno di purificazione; la sua umiliazione era il merito che dava a quel segno il valore di una purificazione, e la compunzione del cuore degli apostoli era la corrispondenza e il concorso personale alla grazia purificatrice. Gesù nel dire: voi siete mondi, ma non tutti, si accorò immensamente, pensando a Giuda, come nota il Sacro Testo; all'apostolo infedele quella lavanda non valse a purificarlo; avrebbe avuto bisogno di un bagno di grazia, e lo rifiutava perché ostinato nel suo peccato.

3. L'insegnamento della lavanda dei piedi fatta da Gesù
Con infinito amore Gesù compì la lavanda a tutti gli apostoli, senz'altra protesta da parte loro; poi ripigliò le vesti, e sedutosi di nuovo a tavola disse loro: Sapete quello che ho fatto a voi? Voi mi chiamate Signore e Maestro e dite bene perché io lo sono; ora se io, Signore e Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi l'un l'altro. Vi ho dato infatti l'esempio, affinché come ho fatto facciate anche voi.

Il valore della lavanda era una purificazione delle piccole colpe, il significato era una lezione pratica di umiltà e di carità. Gesù Cristo, prossimo a lasciare i suoi cari ed a compiere il suo sacrificio sanguinoso sul Calvario, dava loro la stessa sua potenza ed autorità istituendo l'Eucaristia e il Sacerdozio, ed esigeva da loro una grande umiltà e carità per compiere gli altissimi uffici ai quali li destinava. Fino ad allora essi avevano creduto di poter conquistare posti di onore nel suo regno, anzi avevano altercato fra loro per assicurarsi gli uni sugli altri una preminenza; ora ecco la preminenza cui dovevano aspirare: umiliarsi, compatire ed avere carità gli uni gli altri, imitando il suo esempio.

Egli non comandava che materialmente si fossero lavati i piedi gli uni gli altri, ma che come Egli, Signore e Maestro, si era umiliato ai loro piedi in quell'atto di bontà, così essi avessero avuto cura di umiliarsi nella loro dignità, e di avere carità nell'esercitarla, mondando le anime dalla loro miseria, e compatendole con estrema bontà e carità. Essi non avrebbero potuto presumere d'essere di più di Lui, poiché nessun servo è maggiore del suo padrone, la loro pace e beatitudine futura nel ministero che loro assegnava, dipendeva da questo preciso concetto che dovevano avere della loro dignità e dell'esercizio della loro dignità.

La Chiesa non domina, non irrompe, non opprime...

Gesù Cristo non parlava solo agli apostoli ma a tutta la Chiesa in tutti i secoli, e dava un esempio che doveva rimanere come la caratteristica della potestà spirituale. Essa non domina, non irrompe, non opprime, come dolorosamente fanno tante volte i poteri laici: essa scende fino agli umili con amorosa umiltà, e tende a purificare ed a salvare le anime. Rimarrà sempre nella Chiesa, come vi rimane, grazie a Dio, questa caratteristica sublime del potere: lavare i piedi, cioè scendere fino alle più vili miserie umane, forzare quasi, con l'insistenza dello zelo e la minaccia dell'esclusione dai beni eterni, le anime a farsi purificare, umiliarsi negli atti della carità più paterna e dare l'esempio della virtù, per trarre al bene con la bontà e con gli atti della propria vita.

La Chiesa va alle anime con questo spirito, e dal giorno della lavanda del cenacolo Essa non ha fatto che prostrarsi ai piedi dei peccatori a lavarli, richiamandoli alla via del bene con insistenza di amore ispirata alla misericordia di Gesù Cristo. Un peccatore è tale orrore d'ingratitudine e di degradazione, che meriterebbe solo di essere cacciato come sommamente ripugnante ed ingrato; anziché essere pregato di ritornare al Signore e di frequentare i Sacramenti, meriterebbe d'essere escluso dalla casa di Dio; invece la Chiesa, per il ministero dei suoi sacerdoti, lo chiama, lo prega, gli si prostra quasi ai piedi per purificarlo, e lo fa solo nell'interesse del meschino, per dargli la grazia di Dio e con la grazia la pace.

Essa, così facendo, imita Gesù, ricordandoci che un servo non è maggiore del suo padrone, né un apostolo è maggiore di colui che lo ha mandato.

La Chiesa è misericordiosa, ma non permissiva

Lavare i piedi ai poveri peccatori non significa mostrarsi acquiescenti alle loro pretese, alle loro miserie, ai loro errori, contro la divina Legge. La Chiesa è misericordiosa ma non è servile, compatisce chi si pente ma non lusinga chi si ostina nel male, e tanto meno chi presume con la violenza di scuotere le basi della sua dottrina o della sua morale.

La Chiesa irrompe contro l'errore e non gli dà tregua, eliminandolo dal cuore dei fedeli come si elimina un tumore purulento. Essa non rinnega la propria dignità di Signora e Maestra del mondo, come Gesù non nascose la propria nell'ultima Cena; tratta con amore e con maestà, con carità e con fermezza, mantenendo alto il potere e il prestigio che Gesù le ha dato.

Gesù Cristo dopo aver fatto agli apostoli quella lezione pratica di umiltà, soggiunse che sarebbero stati beati se l'avessero compresa e messa in pratica.E questo, infatti, il segreto della gioia nell'apostolato: umiliarsi con decorosa bontà, servire con amorosa insistenza, conquistare con la grazia di Dio le anime, ed aspirare non già alla misera gloria terrena, ma a quella eterna. La beatitudine dell'apostolato non sta negli alti posti e negli onori che possono dare le sante attività dello zelo, ma sta nel conquistare anime a Gesù Cristo e glorificarlo. Quando si ha di mira questa beatitudine non si ha difficoltà di umiliarsi, e si ha il cuore sempre pronto alla misericordia ed alla bontà. Allora la beatitudine vera è la conquista spirituale più preziosa della conquista di un regno, allora l'anima dell'apostolo si sente materna, e prova le gioie della paternità e della maternità insieme; allora si trasfonde nel cuore una sazietà di gioia che nessuna ricchezza e nessun possesso terreno può dare; si è canali della vita, si dona la vita, e si ha il desiderio di tendere e di allargare le braccia a tutte le anime, il desiderio di una crescente fecondità spirituale che è somma gioia della propria vita.

Sac. Dolindo Ruotolo



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