martedì 1 aprile 2014

01.04.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 5, par. 2

2. La piscina probatica e la guarigione del paralitico e un... appuntino sulla vanità e stoltezza di certe indagini inutili
Dalla Galilea Gesù ritornò nuovamente nella Giudea, dovendo recarsi a Gerusalemme per una festa o, secondo altri codici del Sacro Testo, per la festa dei Giudei.
Si discute molto quale fosse questa festa, e si discute inutilmente, a nostro parere. Il Signore nella sua altissima sapienza, dato il fine che ha nelle Scritture di nutrirci l'anima, non ha tenuto conto di certe circostanze storiche che sarebbero state inutili a questo fine.
A volte i poveri critici sciupano ore, giorni e mesi interminabili per ricavare, in modo assai dubbio per di più, una notizia che, tutto sommato, serve solo per appagare una curiosità.
Il sapere se la festa a cui allude l'evangelista sia stata quella della dedicazione del tempio, o quella dei Tabernacoli, della Pasqua o della Pentecoste, è perfettamente accidentale, in questo caso, all'essenza ed allo scopo del racconto. Ma come Dio, e ciò che è ispirato da Lui, ha il carattere della sapiente economia, così il mondo e ciò che è ispirato al mondo ha il carattere della vanità e dello sperpero inutile. Consumare il tempo per determinare una cosa praticamente superflua o inutile significa essere poco saggio, e portare anche, innanzi a Dio, la responsabilità di distrarre le anime in un pensiero di vanità.
Se di ogni parola oziosa si deve rendere conto a Dio, molto più gli si deve rendere conto delle ore passate inutilmente in una ricerca senza scopo.
La festa dei Giudei cui allude il Sacro Testo è probabilmente la Pasqua, e questo spiega forse l'affluenza degli infermi alla piscina delle pecore.
Era questa una grande vasca nella quale si lavavano gli animali destinati al sacrificio nel tempio. Forse quando di Pasqua le vittime erano numerosissime, e quell'acqua era come santificata dal riflesso della vittima divina, di cui quegli animali erano figura, l'angelo di Dio scendeva a smuoverla e la rendeva salutare per guarire un solo infermo, il primo che vi fosse disceso, figura dell'unica salvezza che doveva portare all'umanità peccatrice, unificata nella grazia, la Vittima divina.
Certo si trattava di un miracolo, e la spiegazione naturalistica del fatto, quasi si trattasse di acqua minerale rimessa dal ribollimento, è assolutamente insostenibile, e non risponde al contesto del racconto1.
La piscina, chiamata probatica, dal greco, proprio perché serviva alla lavanda degli animali, era chiamata in ebraico, Betsaida, cioè casa di pesca o, secondo altri codici: Betzaetà, casa nuova o, secondo altri, Betesda, casa di misericordia. Era una piscina, una vasca, quindi non era acqua minerale ed aveva cinque porticati per ricoverarvi gli animali destinati al sacrificio, e poi, in questa circostanza solenne del miracolo, anche gl'infermi: il fatto miracoloso ricordato al versetto 4, che i soliti ineffabili «zuccherini» moderni hanno tentato persino di relegare come un versetto interpolato, dimenticando il canone delle Scritture, costituiva una di quelle figure profetiche che annunziavano il Redentore e la redenzione coi colori vivi della verità storica di un rito, come già s'è accennato, e spiega perché Gesù abbia voluto compiervi un miracolo, annunzio della pienezza dei tempi.
I disegni di Dio sono ammirabili. I portici della piscina raccoglievano gli animali destinati al sacrificio, ammantati di santificazione, perché vittime. Era l'animalità nobilitata nell'immolazione, e più nobilitata in Colui che figurava. Agli animali vittime subentravano gli uomini, ridotti quasi animali per la colpa, vittime di espiazione anch'essi per le infermità corporali, e figura del Redentore caricato dalle umane infermità.
Le vittime lavate nella piscina figuravano la vittima innocente, e quel lavacro ne proiettava quasi l'ombra santificante nelle acque; l'angelo scendeva dal cielo e moveva l'acqua, completando quasi la figura profetica con quest'intervento soprannaturale; la moveva anche per purificarla dalle immondizie depositatevi dagli animali, e per renderla figura dell'acqua monda che doveva risanare l'umanità.
L'infermo allora, figura dell'umanità inferma, vittima di espiazione, prostrata quasi a livello delle bestie per il peccato, scendeva nelle acque e, riacquistando la salute, figurava ed annunziava l'unica salvezza che doveva venire al mondo, l'unico ovile dei salvati nelle acque della grazia, l'unico mezzo di questa salvezza che non ammette alcun duplicato né in altre sette, né, diciamo così, in altre «piscine di misericordia», in altre religioni. Come si vede, la guarigione di un unico infermo, e del primo che fosse disceso nell'acqua, lungi dall'apparire una stranezza, ha un grande e profondo significato.
Il miracolo di Gesù poi, fatto fuori l'ordine del miracolo stesso della piscina e la sua padronanza nel farlo, accostava la figura alla realtà, e faceva coincidere l'ombra con la luce, dissipando l'ombra e manifestando la luce.
L'anima rimane come estatica e confusa innanzi alle meraviglie del pensiero divino, e i poveri intrugli dei critici e dei miscredenti appaiono come sgorbi di fanciullacci, che per disegnare un occhio brillante fanno una macchia d'inchiostro e, per tracciare un braccio teso, tracciano uno stecco sottile con cinque filamenti sgorbiati!
Gli infermi, pur sapendo che uno solo sarebbe stato il miracolato, accorrevano in grande numero ai portici della piscina, perché ognuno sperava d'essere il primo a discendervi.
V'erano ammalati, ciechi, zoppi e paralitici, vera esposizione dell'umana miseria, la cui totalità, meno un solo privilegiato, veniva per ritornarsene delusa o, al più, confortata dalla gioia di avere assistito ad un miracolo.
Gesù guardò il paralitico con infinita tenerezza e gli chiese: «Vuoi tu guarire?»
Gesù entrò nel recinto dei cinque portici della piscina, Salvatore divino in mezzo all'umanità languente. Anche quei cinque portici delineavano l'ombra della salvezza, poiché significavano le cinque piaghe che Egli avrebbe aperto nel suo Corpo, rifugio di salute eterna per l'umana infermità; entrò nei portici per far fluire dal suo cuore, ferito già dall'amore, la misericordia e la pace, e si fermò presso un povero paralitico che da trentotto anni era infermo e, probabilmente, da trentotto anni andava alla piscina nella lontana speranza di guarire. Il poveretto nei lunghi anni dell'attesa aveva dovuto pregare e, non avendo nessuno che l'aiutasse, aveva dovuto rimettersi alla divina bontà.
Può dedursi dal fatto che Gesù non senza una profonda ragione, si fermò proprio vicino al suo lettuccio e, guardatolo con infinita tenerezza, per suscitargli in cuore la fede e la speranza, e fargli rinnovare gli atti di fiducioso abbandono in Dio, gli disse: Vuoi tu essere risanato? L'infermo, confidando nel Signore che gli facesse trovare un pietoso che l'aiutasse, e confidando nella bontà di colui che l'interrogava, la cui carità gli traspariva dal volto, rispose, proprio per domandarne l'aiuto: Io non ho un uomo che mi getti nella piscina quando l'acqua è agitata, perché, mentre io mi ci trascino, un altro scende prima di me.
L'occhio illanguidito del poveretto s'incontrò con quello di Gesù, fulgente di bontà divina; si sentì confortato, confidò in Lui, gli si abbandonò con grande fiducia, sperò che fosse giunto il momento della salvezza, e gli si accese nel cuore, quasi senza che se ne accorgesse, la fede in Dio, mista al pentimento delle proprie colpe, causa della sua infermità.
Questi sentimenti sorgevano in lui quasi spontanei al riflesso della presenza di Gesù, come un fiore avvizzito che si ripiglia al fresco di una fontana ed al caldo vivificante dei raggi del sole; l'anima sua si dilatava, sentiva una sicurezza gioconda di avere la grazia, sentiva un amore vivo per l'amabile personaggio che lo interrogava. Tutto questo lo preparò alla grazia, e lo dispose a fare con cieco abbandono quello ch'Egli gli avrebbe comandato.
Gesù gli disse in tono di soave ma imperioso comando: Alzati, prendi il tuo lettuccio e cammina. In quel medesimo istante quell'uomo si sentì risanato, rinvigorito, fortificato, e senza esitare si alzò, ravvoltolò il suo giaciglio, consistente in un materasso o in una combinazione di coperte distese, se lo caricò sulle spalle, e si avviò per andarsene.
Il paralitico è guarito ma a Gesù neppure un grazie...
È stupefacente che quest'uomo, risanato per un miracolo così grande, non abbia avuto il pensiero di ringraziare Colui che l'aveva guarito. È vero che Gesù s'era subito allontanato, com'è detto al versetto 13, ed egli non lo conosceva; ma nel vedersi risanato non pensò neppure a rintracciarlo, né dette segni esterni di gioia. Questo ci rivela il suo carattere apatico, forse determinato dalla stessa paralisi di 38 anni, e ci fa intendere che forse, sentendosi risanato all'istante, non si alzò subito, ma volle prima persuadersi d'essere veramente capace di alzarsi. Può rilevarsi anche dalla circostanza che quel miracolo non produsse nessun movimento né nel popolo né negli altri infermi, passando quasi inosservato.
Gesù si allontanò per non suscitare scalpore tra la moltitudine, e poté farlo agevolmente, perché il paralitico, forse l'ultimo arrivato, non avendo nessuno di famiglia che avesse potuto portarlo in tempo alla piscina, dovette essere adagiato quasi alla periferia dei portici. Un unico infermo risanato nell'acqua simboleggiava, come s'è detto, l'umanità inferma che il Signore voleva risanare dalle ombre della morte, e Gesù volle risanare un unico infermo paralitico, per abbracciare tutto l'uomo paralizzato dalla colpa. Egli dunque si allontanò non per mancanza di misericordia verso gli altri infermi, ma perché era venuto a compiere quella figura profetica della salvezza, e non poteva compierla che in un unico infermo.
Gesù accusato di aver violato il sabato
Quando Gesù operò questo miracolo era giorno di sabato; perciò i Giudei, cioè i membri del sinedrio, vedendo quell'uomo che contro il precetto della Legge (Es 23,12; 31,14; Ger 17,21), portava un peso in giorno di sabato, lo redarguirono dicendogli: E sabato; non ti è lecito portare il tuo lettuccio. Ma egli rispose che Colui che l'aveva guarito glielo aveva detto. Se l'aveva guarito operando un miracolo così grande evidentemente aveva anche il potere di dispensarlo da quella Legge. Gli domandarono chi fosse colui che gli aveva ingiunto di prendere il letto, sospettando che fosse Gesù; malignamente non gli chiesero chi l'avesse guarito ma chi gli avesse fatto portare il letto, perché volevano dare importanza non al miracolo, ma alla supposta violazione della Legge.
Per il loro spirito gretto e cavilloso quel grande miracolo rappresentava ben poco di fronte ad una violazione legale.
Essi, poi, pur sospettando che Gesù avesse operato il miracolo, avrebbero voluto saperlo dall'infermo guarito, non per avere un testimone del prodigio, ma un testimone dell'accusa che intendevano fare al Redentore. Quell'uomo però se la cavò facilmente, dicendo che non sapeva chi fosse, e non aveva avuto l'agio di accertarsene.
La domanda ostile degli scribi e farisei richiamò la coscienza di quell'uomo sul miracolo che aveva avuto. Prima, non vi aveva neppure riflettuto, e gli era sembrato quasi un fatto normale. Perciò, risvegliato nella coscienza del beneficio avuto, sentì il bisogno di andare al tempio per ringraziarvi il Signore, e fu là che s'incontrò nuovamente con Gesù, il quale gli disse: Eccoti guarito; non peccare più, perché non ti avvenga qualcosa di peggio. Il peccato gli aveva procurato il malanno, e la ricaduta gli avrebbe procurato un malanno più grave e, quello che era peggiore di qualunque infermità, l'eterna perdizione.
Il misericordioso Signore l'aveva guarito nel corpo e volle guarirlo anche nell'anima; andò di proposito nel tempio sapendo che ve lo avrebbe incontrato, e per una seconda volta gli domandò il concorso della sua volontà per guarire. Sotto i portici della piscina gli aveva detto: Vuoi tu essere risanato? ed aveva richiesto un atto della sua volontà per suscitargli nel cuore la fede; nel tempio gli richiese un atto di volontà ferma di non più peccare per risanarlo spiritualmente, e gli prospettò la possibilità di un peggiore castigo per indurvelo efficacemente.
Ma anche per noi, paralitici nell'anima, c'è una piscina probatica!
Anche noi siamo, dolorosamente, paralitici nell'anima, e soggetti a mille miserie ed infermità nel corpo. Abbiamo anche noi però la nostra piscina probatica, la casa della misericordia, il tribunale della penitenza dove possiamo essere risanati, e i santuari della misericordia, dove pregando possiamo trovare grazia. Non bastano tuttavia le misericordie divine per risanarci, né bastano i meriti di Gesù Cristo che ce le hanno meritate; occorre il concorso della nostra volontà, occorre il sacerdote che come angelo di Dio scuota la nostra insensibilità ed il nostro cuore, reso dal peccato come acqua stagnante, ed occorre Gesù che ci risani, facendoci sollevare il fardello delle nostre colpe con la penitenza e l'espiazione.
Se non c'è il concorso della nostra volontà, l'aiuto del sacerdote, e la nostra penitenza personale, invano si rimane nei portici, per così dire, della misericordia di Dio, come presumono fare i protestanti. Essi rimangono miseramente adagiati nei loro peccati, e languiscono nella loro paralisi interiore.
Per ottenere le grazie relative alla nostra vita corporale, abbiamo tanti santuari, nei quali il Signore, per l'intercessione di Maria Santissima e dei santi, elargisce le sue misericordie. Il santuario di Lourdes, per esempio, può considerarsi davvero come una piscina probatica, poiché anche là ci sono le acque della salute, che smosse, per così dire, dalla fede viva, diventano medicina per il corpo e risurrezione anche per l'anima.
Santuario di misericordia può essere anche un'immagine sacra custodita nella nostra casa e, molto più, i luoghi destinati alla preghiera dalla Chiesa; non viviamo come se fossimo abbandonati su questa terra, e come se mancassimo di aiuti; abbiamo fede, e troveremo sempre pronta la bontà di Dio in ogni evenienza dolorosa della vita ed in ogni miseria spirituale che ci affligge.
Abbiamo l'anima dilatata in Dio, e confidiamo nel suo aiuto, perché Egli non ci lascerà mai delusi, tanto per le necessità dell'anima, quanto per quelle del corpo. Il peccato è la causa di tutte le nostre sventure ed è l'ostacolo più terribile a tutte le misericordie di Dio; ci rimanga dunque scolpita nell'anima la parola di Gesù: Non peccare più perché non ti avvenga qualche cosa di peggio. La nostra situazione nel mondo subisce un tracollo ad ogni peccato che abbiamo la sventura di commettere, un tracollo spirituale ed un tracollo temporale. Viviamo in grazia di Dio, sempre e, quando abbiamo la sorte di riconquistare la vita dell'anima, non ce la facciamo sfuggire, e non siamo così stolti da barattarla per misere e vili soddisfazioni, che, dopo un attimo d'illusione, ci gettano nella più grande infelicità.
Sac. Dolindo Ruotolo

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