sabato 19 aprile 2014

19.04.2014 - Commento alla lettera ai Romani cap. 6, par. 2-3

2. Il secondo frutto della giustificazione: l’anima è sottratta alla tirannia del peccato. Il Battesimo nel profondo significato del suo rito.
Il primo frutto della giustificazione, esposto da san Paolo nel capitolo precedente, è la pace con Dio e la sicurezza della gloria eterna, per Gesù Cristo Signore nostro, che per la sua misericordia fece sovrabbondare la grazia
dove aveva abbondato il peccato. È logico che per avere pace con Dio e per avere la speranza dell’eterna gloria è necessario non peccare; sarebbe, infatti, un assurdo blasfemo pretendere di peccare molto per far sovrabbondare la misericordia e la grazia, come poi insegnò Lutero e tuttora insegnano alcuni protestanti con la (stupidissima) massima: credi fermamente e pecca fortemente.
San Paolo sfata l’assurda conclusione che già ai suoi tempi facevano i falsi cristiani, e che molti calunniosamente attribuivano a lui stesso. Per sfatarla poi dalle radici, egli dimostra che il frutto della giustificazione dataci da Gesù Cristo è precisamente la nostra sottrazione alla schiavitù del peccato. Il cristiano, innestato a Gesù Cristo per mezzo del Battesimo, è morto alla colpa ed è risorto ad una nuova vita. Egli non è liberato dalla concupiscenza che è conseguenza del peccato originale, ma con la grazia che gli viene dai meriti di Gesù Cristo, riceve la forza per combattere le sue cattive inclinazioni, e deve fare ogni sforzo per liberarsi dalla schiavitù del peccato, unendosi a Gesù Cristo.
Cominciando a sviluppare il suo argomento, san Paolo si domanda con forza: Che cosa diremo noi dunque? Rimarremo nel peccato perché abbondi la grazia? Non sia mai. Noi che siamo già morti al peccato per il Battesimo e per la medesima professione cristiana, come vivremo ancora in esso? Per dimostrare che col Battesimo noi siamo veramente morti al peccato e risorti ad una vita nuova, san Paolo si riporta al significato del Battesimo ed alla sua simbologia nel rito stesso col quale veniva amministrato ai suoi tempi, ossia nella totale immersione del battezzando nell’acqua. L’immersione significava la morte e la sepoltura di Gesù Cristo, e in Lui la morte del cristiano al peccato e la sepoltura dell'uomo vecchio. L’uscita dall’acqua significava la risurrezione di Gesù Cristo e la nascita del cristiano alla nuova vita della grazia. L’immersione poi nell’acqua battesimale non era semplicemente un simbolo, ma univa e unisce il cristiano a Gesù Cristo, lo faceva e lo fa sua proprietà e membro del suo Corpo mistico. Per il Battesimo, il cristiano è intimamente innestato e unito a Gesù morente, e partecipa alla sua morte e alla sua sepoltura facendo Egli morire e seppellire in lui l’uomo vecchio, come partecipa alla sua risurrezione, risorgendo a nuova vita. Come potrebbe il cristiano peccare con la presunzione di glorificare poi la misericordia di Dio nel perdono, se unendosi al Cristo egli muove al peccato e risorge alla grazia? Perciò san Paolo esclama con forza: «O voi forse ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella morte di Lui? Siamo stati sepolti, infatti, con Lui per mezzo del Battesimo nella morte, affinché, come Cristo risuscitò da morte per la gloriosa potenza del Padre, noi camminiamo in una nuova vita».
Due uomini in noi: l’uomo vecchio e l’uomo nuovo
San Paolo distingue in noi due uomini, l’uno vecchio, ossia l’uomo nello stato di peccato e di degradazione, e l’altro nuovo, rinnovato per la grazia a nuova vita.
Sono due stati della nostra vita; l’uno, nel quale si è schiavi del peccato, della concupiscenza e dei vizi, per il peccato originale derivato dall’antico Adamo; l’altro, nel quale si obbedisce a Dio e si cammina nella giustizia e nella santità, per Gesù Cristo, novello Adamo, a cui veniamo incorporati per mezzo del Battesimo. Il nostro uomo vecchio, carico del peccato originale e anche dei peccati attuali, delle passioni e dei vizi, è stato crocifisso con Gesù o, come dice il greco, è stato concrocifisso con Lui, unendosi alla sua morte nel Battesimo, e per Lui liberandosi dalla schiavitù del peccato, affinché sia distrutto il corpo del peccato, ossia affinché il corpo, strumento di peccato e focolaio di concupiscenza, diventi strumento di virtù soprannaturali e d’amore divino. È questa la morte beata che nella morte e per la morte di Gesù Cristo ci libera dal peccato.
Ma Gesù Cristo non morì soltanto, una volta per tutte, per il peccato dell’uomo; Egli risuscitò dalla morte per mai più morire, e la morte non ha più dominio sopra di Lui, perché il suo vivere è un vivere a Dio, un vivere glorioso e trionfante per la gloria di Dio. Ora, se noi moriamo e siamo sepolti con Lui nel Battesimo, viviamo anche per Lui ad una vita di gloria per Dio, ad una vita soprannaturale che ci faccia vivere glorificando Dio nelle nostre azioni. Questa vita non si conserva in noi senza la nostra cooperazione e perciò l’Apostolo conclude con mirabile forza:
Non regni, dunque, il peccato sul vostro corpo mortale sì da obbedire alle sue concupiscenze, né prestate le vostre membra al peccato come strumenti d’iniquità, ma offrite voi stessi a Dio come risuscitati da morte, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia, poiché il peccato non deve più tiranneggiare sopra di voi, non essendo voi più sotto la Legge ma sotto la grazia.
L’anima, la quale dopo il Battesimo cade in peccato, e specialmente nel peccato impuro, che è la disgraziata palude nella quale si perde l’innocenza battesimale, fa regnare il peccato sul suo corpo mortale, obbedisce da schiava alle sue concupiscenze, e presta le membra del corpo che informa come strumenti d’iniquità. Il cristiano questo non deve assolutamente farlo, né deve farsi tiranneggiare dal peccato, che lo riduce schiavo della concupiscenza, ricordandosi che egli non è più sotto la Legge ma sotto la grazia. San Paolo considera la Legge così come l’avevano ridotta gli Ebrei, separata dalla fede nel futuro Redentore e dalla grazia che questa fede attraeva da Dio.
Oramai per gli Ebrei i precetti e i riti della Legge erano un formalismo esteriore, anzi per essi un’occasione di maggiore perdizione, perché faceva loro conoscere il bene e proibiva loro il male, senza che essi si curassero di osservarla nella fede e nella speranza del Redentore. Gli antichi giusti, osservando la Legge con questo spirito e questa fede, appartenevano anch’essi al regno della grazia, benché meno perfettamente. Venuto realmente il Redentore e inaugurato il regno della grazia, l’uomo si trovava elevato ad uno stato di perfezione superiore, nel quale non poteva e non doveva assolutamente indulgere al peccato, anzi aveva il preciso dovere di essere santo.
Non si può servire a due padroni
San Paolo, tutto compreso da questo altissimo concetto della Legge e della grazia, previene immediatamente l’obiezione che alla sua calda esortazione alla santità potevano fare quei falsi cristiani, i quali pretendevano di essere stati liberati dalla Legge nei suoi precetti morali, e di potersi dare al libertinaggio, o di quelli che, tristi precursori dei protestanti, credevano che nella Legge della grazia potevano liberamente peccare, e stimavano che, così, glorificavano il regno della grazia. Perciò esclama con impeto di zelo, e per escludere sempre più la calunniosa dottrina che gli attribuivano: E che dunque? Peccheremo noi perché non siamo sotto la Legge ma sotto la grazia? Non sia mai! E lo dimostra con un argomento stringente: Si deve obbedire a quel padrone al cui servizio uno si è posto; ora i cristiani, avendo scosso il giogo del peccato, si sono consacrati interamente al servizio della giustizia. Dunque, essi sono tenuti a tenersi lontani dal peccato ed a servire unicamente alla giustizia. Non si può infatti servire a due padroni (Mt 7,24) e chi si fa schiavo di uno non può servire un altro che gli comanda cose opposte a quelle che gli comanda il primo.
San Paolo elogia i Romani per aver aderito interamente alla dottrina che su questo importante argomento era stata loro trasmessa da san Pietro che li aveva evangelizzati; ma egli conosce la debolezza umana e sa bene che la lussuria è il vizio predominante dei pagani; perciò esclama con riserbo, non volendo offenderli o mostrare di diffidare della loro giustizia: Io parlo in modo umano, per la debolezza della vostra carne; non voglio dubitare di voi, ma parlo come uomo ad uomini; e, come uomo che conosce la debolezza umana nella società pagana, parlo per aiutare l’infermità di quelli che potrebbero credere impossibile il sottrarsi alla schiavitù della carne, e vi dico che per vincerla basta agire all’inverso di quello che avete fatto in passato peccando: Se offriste le vostre membra ad essere schiave dell’immondizia e dell’iniquità per l’iniquità, cioè dell’iniquità, fatta fine a se stessa e stupido ideale della vita, ora offrite le vostre membra a servizio della giustizia per la santificazione.
Questo non è difficile sol che si pensi alla miseria obbrobriosa dei diletti della carne; qual frutto - esclama san Paolo pieno di profonda convinzione - qual frutto aveste allora da quelle cose delle quali adesso avete vergogna? Il loro fine è la morte; la morte temporale, giacché i diletti della carne passano, il corpo si debilita, si sfascia, muore e va a finire nel sepolcro; la morte eterna, giacché il peccato impuro trascina inesorabilmente alla perdizione eterna, essendo diametralmente opposto alla purissima santità di Dio. Questo, del resto, voi potete valutarlo anche meglio, considerando la felicità del vostro stato di liberazione da simili sozzure; ecco, voi liberati dal peccato e diventati servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna.
Il contrasto è evidente tra i frutti del peccato e quelli della giustizia, e dal contrasto non può venire che l’apprezzamento della giustizia e della santità: La paga del peccato è la morte, mentre dono di Dio è la vita eterna in Gesù Cristo nostro Signore. Nel testo greco, per indicare la paga del peccato, san Paolo usa un vocabolo militare, come noi diremmo la cinquina, per indicare ciò che è dovuto al soldato per il suo sostentamento. Egli dunque ritorna al concetto dell’esosa schiavitù del peccato e, come non c’è servo più stretto dalla servitù quanto un soldato - perché sotto il comando dei capi non è più libero di sé, salvo ad avere poi il suo soldo - così un peccatore che dà le sue membra come strumenti del peccato diventa misero servo del vizio, misero soldato dell’esercito del male, il quale poi riceve come sua paga non un vantaggio temporale o eterno, ma la morte temporale ed eterna. Chi invece dona le sue membra come strumenti della gloria di Dio e cammina nella via della santità, non è servo, ma è amico di Dio, e riceve da Lui non come paga ma come grazia sovrabbondante d’amore la vita eterna, in Gesù Cristo nostro Signore.
Dio ci dona per grazia l’aiuto e il premio
San Paolo oppone alla paga che si ha per il peccato non la paga che si ha per seguire la giustizia, ma il dono di Dio o, come suona la parola greca charisma, il dono gratuito di Dio, ossia la grazia. Egli si esprime così per farci intendere che le opere buone dell’uomo, in quanto procedono dal libero arbitrio, non possono di loro propria natura meritarci la vita eterna. Se l’uomo opera il bene, ciò è dovuto alla grazia; la vita eterna, quindi, viene data per i meriti che la grazia produce in noi, e perciò la vita eterna è chiamata grazia o dono gratuito di Dio, in Gesù Cristo che è fonte di ogni grazia perché è nostro Mediatore.
Ma perché Dio vuol darci tutto per grazia e come dono gratuito, e perché la misura di questo dono non è mai il nostro merito?
A primo aspetto, ricevere tutto per dono, grazia e misericordia, potrebbe sembrare quasi qualcosa che diminuisce la nostra dignità o la nostra attività, ed invece è un delicato frutto del divino amore. Dio proporziona la pena alla colpa, e la proporziona anche in misura minore di quello che meriti la colpa, per infinita misericordia; ma se Dio proporzionasse il premio al merito nostro, per quanto volesse essere generoso, non ci darebbe che un frutto sempre limitato e meschino, come limitato e meschino è il nostro merito. Egli, invece, ci dona tutto per grazia e come dono gratuito, per essere immensamente generoso con noi, e per non essere costretto da una misura limitata nel donarci i suoi aiuti e il suo premio.
Egli ci aiuta e ci premia soprannaturalmente con doni che eccedono la nostra potenza e la nostra natura, di modo che noi, nell’operare, superiamo sempre quello che potrebbero dare le nostre forze, e nel raccogliere il premio superiamo quello che potrebbero meritare i nostri meriti. E questa una considerazione che ci rivela la profondità della divina carità, e che ci fa apprezzare di più quel suo tenero amore, per il quale ci porta nelle sue braccia paterne, e ci dona se stesso nell’esuberanza della sua generosità.
Chi può capire l’amore che Dio ci porta? E chi può intenderne il profondo mistero? Che cosa potrebbe avere un piccino per il piccolo compito sgrammaticato che porta a scuola? Che cosa dovrebbe dargli la mamma se volesse con precisa giustizia premiare le sue incerte e vacillanti asticelle? La mamma gli porta la mano mentre egli le traccia, perché possano almeno comparire nell’armonia della scuola, e le premia con l’esuberante ricchezza del suo amore. Così fa Dio con noi, e per la sua grazia ci eleva nella nostra attività e ci premia nei nostri meriti, elevandoci al di sopra delle nostre forze e premiando i suoi stessi doni. E solo così che ci dona un premio di giustizia pur donandocelo per grazia misericordiosa, è per questo che ci rende attivi in Gesù Cristo e premiati in Lui, perché unendoci a Lui come parte del suo Corpo mistico, ci fa operare in modo divino e ci dona la ricchezza di gloria che meritano i suoi dolori e i suoi meriti. Il nostro merito e il nostro premio diventano così una proporzione nella quale l’incognita è proprio la sua infinita misericordia e la sua grazia; la nostra azione buona ha un merito senza dubbio, considerata in se stessa, è un bene degno di corona, ma quando si tratta di attuarlo e di premiarlo, Dio vi concorre efficacemente con la sua grazia, e la sua misericordia, assorbe, per così dire, la nostra attività nella sua, e ci premia in conformità di questa attività soprannaturale. Il premio è dovuto per giustizia, senza dubbio, ma è un esuberante dono di grazia.
Il Signore, del resto, compie l’opera della sua grazia nel Purgatorio, fucina meravigliosa delle opere d’arte del suo amore; in questa fucina libera l’anima fin dalle più piccole scorie che la natura fragile mescolò all’azione della grazia, e rende così perfetta l’armonia delle sue linee, che l’anima può stare, sia pure come atomo fulgente, nell’armonia dell’eterna gloria.
3. Morire al peccato e risorgere ad una nuova vita. Siamo innestati al Cristo, morti con Lui, sepolti con Lui, vivi per Lui.
Questo capitolo della lettera di san Paolo ai Romani ci offre l’agio di raccoglierci nelle più profonde considerazioni, specie in questi tempi di obbrobriosa materialità, nei quali l’uomo si è abbrutito, come si sono abbrutiti i senza Dio comunisti. Se si potessero raccogliere tutte le obbrobriose e scellerate miserie della feroce, mendace e stupida propaganda antireligiosa della Russia e degli altri paesi che si sono uniti al dragone rosso per dir bestemmie contro Dio e i suoi santi, noi rimarremmo atterriti come rimaniamo atterriti dagli effetti di crudeltà e di degradazione che quella propaganda ha prodotti.
È necessario risvegliarci e considerare quello che siamo e dobbiamo essere per il nostro Battesimo e la nostra unione a Gesù Cristo; è necessario risvegliare in noi il senso cristiano, per opporre alla marea travolgente di tanta miseria morale e di tanto fango la nostra fede.
Nel Battesimo noi siamo morti al peccato e non possiamo più vivere in esso. Il cristiano dunque deve escludere dalla sua vita il peccato con quella medesima totalitarietà con la quale è esclusa la vita da un morto. Come in un morto non rimane nulla delle sue attività terrene, così in un battezzato non deve rimanere nulla delle attività del mondo, che sono concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita. Noi, morendo, in realtà non moriamo che nella carne; l’anima non muore e passa in un altro mondo e in una nuova vita. Nella stessa maniera noi, per il Battesimo, moriamo al peccato per vivere alla grazia, usciamo con l’anima dal mondo materiale per elevarci a quello soprannaturale. Non si può perdere di vista questa nuova vita che esclude completamente la vita del mondo e quella dei vizi, e che comporta per necessità una vita santa e totalitariamente santa. Siamo stati battezzati nella morte di Gesù Cristo, siamo stati sepolti con Lui per mezzo del Battesimo nella morte, affinché come Cristo risuscitò da morte per la gloriosa potenza del Padre, noi camminiamo in una nuova vita. Gesù morì proprio per vincere e distruggere il peccato; Egli fu sommerso in un mare di dolori per espiarlo, ed essendosene caricato per nostro amore, lo vinse e lo annientò nel suo corpo e nella sua anima divina.
Un panno sporco è calato nell’acqua, è stropicciato, è contorto, è sbattuto perché sia pulito, dopo aver raccolto le sporcizie altrui. Gesù raccolse le nostre miserie, le raccolse tutte, e poi le dissolse e le annientò nei suoi dolori e nella sua morte. Ogni anima che è lavata nel Battesimo è sommersa nella morte del Redentore, e non può conciliare la lordura del peccato con il candore che le comunica il suo dolcissimo Signore. È un controsenso calare un panno nel bucato e subito dopo sporcarlo. Noi siamo, dolorosamente, cenci sporchi, sporchissimi quando ricadiamo nel peccato, perché ci sottraiamo alla purezza che ci ha portata la morte di Gesù. Per questo il Signore ci ha dato nel sacramento della Penitenza come un secondo Battesimo, e per questo purifica nel suo Sangue la nostra bacata coscienza. Chi può avere il coraggio di peccare, sapendo che fin dalla nascita è stato immerso e sepolto nella morte di Gesù per risorgere con Lui ad una vita nuova?
Una visuale nuova del Calvario
San Paolo ci prospetta una nuova visuale del Calvario, e in esso una nuova visuale della nostra unione con Gesù Cristo. Noi non vediamo nella Passione che una severissima irruenza di giustizia contro Colui che si era caricato dei peccati di tutti; questo è vero, ma è pur vero che quel mare di dolori non fu solo un’espiazione, ma anche una purificazione e un rinnovamento di tutta l’umanità. Fu un lavacro nel quale ogni anima che è battezzata viene immersa, e dal quale viene levata come Gesù fu tolto dalla tomba, rivestita di una nuova vita. Il Crocifisso è come un albero interamente potato che sul tronco desolato porta la piccola fessura nella quale è posto il ramoscello dell’innesto. Per questo Egli, dopo la morte, volle che una lancia gli aprisse il Cuore, e per questo tutti i Padri dicono che da quella ferita venne fuori la Chiesa. Quella ferita rappresentò come l’apertura dell’innesto, e da essa scaturì acqua e sangue, i due Sacramenti nei quali il nostro innesto a Gesù è completo: il Battesimo e l’Eucaristia.
Non è semplicemente un simbolo, che potrebbe apparire a tanti anche stiracchiato; è una realtà sublime che si compie successivamente in tutte le generazioni che si uniscono a Gesù Cristo nel Battesimo, e che vivono di Lui e per Lui nell’Eucaristia. Egli volle morire su di un albero disseccato, diventato suo patibolo di morte, Egli, la Vita, per essere Lui l’albero della vita della nuova generazione che doveva ricevere nel suo Cuore aperto, come un innesto d’amore, ogni creatura, rinnovarla in sé, trasfondersi in essa e farla vivere in Lui di nuova vita.
Anche il ramoscello innestato è tagliato dal suo albero e muore: l’albero potato sotto una tempesta di colpi, muore per risorgere; il ramoscello tagliato e morto è innestato nella violenta apertura dell'innesto per risorgere nell’albero che risorge; l’albero morto ha ancora le radici della vita, e riceve il ramoscello morto per dargli gli umori delle sue radici e la propria vita; due vite che morendo risorgono, Cristo nella vita gloriosa, l’anima nella vita di Lui; crocifissa prima con Lui nella vita terrena, che è per lei e in lei continuazione della Passione di Gesù Cristo, e poi risorta con Lui per la grazia e nella gloria. Per questo san Paolo esclama: Se siamo stati innestati a Lui ricopiando la sua morte, lo saremo anche ricopiando la sua risurrezione, ben sapendo che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con Lui, affinché sia distrutto il corpo del peccato, affinché noi non siamo più schiavi del peccato.
Pensiamo bene: Siamo morti in Gesù Cristo al peccato, siamo innestati a Lui, siamo risorti in Lui a nuova vita, è morto in noi l’uomo vecchio, è stato distrutto in noi il corpo del peccato, siamo stati affrancati dalla schiavitù della colpa, viviamo a Dio in Gesù Cristo; non possiamo dunque far regnare il peccato nel nostro corpo mortale, non possiamo obbedire alle sue concupiscenze, non possiamo prestare le nostre membra al peccato come strumenti d’iniquità, ma dobbiamo offrire noi stessi a Dio come risorti da morte, e le nostre membra come strumenti di giustizia; il peccato non deve più tiranneggiare in noi, essendo noi figli della grazia.
Un’obbrobriosa vecchiaia...
Se consideriamo noi stessi e il mondo che ci circonda, soprattutto oggi, in questi tempi di spaventosa corruzione, quale obbrobrioso spettacolo vediamo! Noi camminiamo tra i morti alla grazia, ci aggiriamo tra alberi devastati e inselvatichiti, che danno frutti amarissimi di vizi; siamo circondati non da uomini nuovi, ma da un’obbrobriosa vecchiaia, poiché dolorosamente è rinato in pieno il vecchio uomo neirumanità, l’uomo pagano, l’uomo del peccato, peggiorato a tal punto che, in confronto, il paganesimo è accolta di onesti.
La vita del mondo è diventata una continua offerta delle membra umane al peccato come strumenti d’iniquità; se ne fa l’esposizione nelle vie, se ne fa il baratto nelle sale degli spettacoli, se ne fa la profanazione nelle turpi alcove del piacere! Lo abbiamo fatto noi stessi, noi stessi, e i nostri ricordi passati sono un penoso ammasso d’iniquità! Chi può negarlo? E chi non deve coprirsi il volto per la vergogna? E necessario morire di nuovo in Gesù Cristo con la penitenza, per offrire a Dio le nostre membra come strumenti di giustizia; solo così possiamo di nuovo far morire in noi l’uomo vecchio e risorgere a nuova vita.
Come sottrarsi alla tirannia del peccato
Morire a se stessi negando ai sensi ogni soddisfazione illecita o superflua, offrirsi a Dio nell’amore, risorgere ad una vita santa, ecco il mezzo per sottrarsi alla tirannia del peccato e alle sue concupiscenze. Più si concede a questo corpo e più esso pretende; non si può scendere a patti con la carne, né venire ad un compromesso, perché è tiranna e non serba mai fede ai patti. Bisogna offrirsi a Dio nell’amore, donare a Lui le nostre membra per la sua gloria, mutare in atti di dedizione e d’amore a Lui le prepotenti pretese dei sensi, morendo a noi stessi nella rinuncia e risorgendo nell’amore. È un mezzo infallibile per essere puri: morire e risorgere, morire nella penitenza totale, risorgere nell’amore totale. Quando l’anima nega al suo corpo ogni soddisfazione, costringendolo solo a quello che serve alla gloria di Dio, quando non gli concede neppure il superfluo gusto di un chicco d’uva, per esempio, o di un confetto che non serve a riprendere le forze per darle a Dio in un’offerta d’amore per la sua gloria, l’anima è allenata al combattimento, e la grazia la compenetra tutta per questa penitenza capillare, diciamo così, come un liquido o una linfa che per la capillarità dei vasi si espande in tutta la pianta.
Se la carne tenta una ribellione in grande stile o se il mondo le si presenta con le sue seduzioni, essa sa volgersi a Dio offrendo le proprie membra per la giustizia in un atto d’amore, ed allora tutti i loro movimenti disordinati diventano atti di amorosa rinuncia, e il corpo, invece di dissonare nel diletto vizioso, canta a Dio nell’umiltà, nell’amore e nella dedizione di se stesso. Qui sta il grande segreto di quella purezza che gli uomini credono così difficile da proclamarla impossibile alla fragilità umana: dominarsi, morire, donarsi, amare.
La carne, però, potrebbe in certi momenti di disorientamento farci sentire ancora la sua tirannia e vincerci, e san Paolo, che parlava a pagani convertiti, sapeva bene questo pericolo; perciò egli li esorta ad una considerazione pratica e logica, che non ammetteva repliche: Qual frutto aveste allora, quando eravate nel peccato, da quelle cose
delle quali adesso avete vergogna? Il loro fine è la morte. L’esperienza del passato c’induca a considerare quali frutti produce il peccato, e l’esperienza dei momenti di grazia quali frutti produce la giustizia. Da questo confronto, l’anima non può che uscirne vittoriosa. Che cosa produce un peccato, e soprattutto il peccato impuro che è quello che più ci tiranneggia? San Paolo riportandosi al peccato originale lo esprime con una sola frase mirabilmente sintetica: la morte; il loro fine è la morte.
Un peccato sconvolge, agita, inaridisce, dissecca l’anima, la lascia inappagata, infelice, oppressa; causa malanni al corpo, attira flagelli nella vita, e se non è cancellato ed espiato, conduce alla morte eterna. Chi può essere tanto stolto da peccare per raccogliere questi tristissimi frutti? E nella penosa condizione dell’umanità, sottoposta alla morte per il peccato originale, non vediamo noi anche fuori di ogni nostra esperienza personale quello che produce il peccato? Paga del peccato è la morte, lo abbiamo scritto nelle nostre membra, lo sperimentiamo nella nostra vita, lo vediamo nei nostri cimiteri.
Chi potrebbe scambiare un ciclone per una soave aura mattutina? Gli alberi abbattuti o spogliati, il terreno sconvolto e allagato, le case scoperchiate o crollate, il silenzio ferale che succede ad una devastazione, ce lo dicono eloquentemente.
In un cimitero, uno sguardo alla morte
Un cimitero ci dà l’idea della devastazione, della morte, paga del peccato: ci si entra con timore, cessano anche sulle nostre labbra le parole inutili, si contempla e si tace. Per quanto sia alberato e infiorato, per quanto possa avere
monumenti e splendore, tutto questo non dirada le tenebre della morte. Non si guardano gli alberi ma le tombe, non si vede la bellezza di un monumento ma la ripugnante bruttura dei resti umani. Si cammina, e le lapidi sono come stalattiti di lacrime; ognuna di quelle iscrizioni le porta come pietrificate, e noi non possiamo sottrarci alla loro tristezza.
Dov’è il fascino dei sensi?
Dov’è l’attrattiva della bellezza?
Dov’è la prepotente suggestione dell’orgoglio?
La tutto è meschino, tutto è devastato, tutto è povero anche tra gli stipiti di marmo. Questi stipiti appartengono ai vivi non ai morti. Nessuno di quegli scheletri se li contende, nessuno distende la scarna mano per riconnetterli. Cadono, si spezzano, e mostrano mutilate le parole roboanti delle lapidi che non dicono più nulla; sono come sordi rumori della carcassa d’uno strumento, le cui corde sono spezzate!... Un triste aleggiare di farfalle, i cui bruchi divorano ancora le essiccate membra; escono da quei cenci e da quella putredine che avvolgono le ossa superstiti; ma non hanno poesia... errano qua e là in cerca di qualche più flaccido cencio per prolificare ed accrescere l’esercito dei divoratori silenziosi dell’estrema miseria dei morti. Sono farfalle che nessuno rincorre, non riposano sui fiori ma, ritornano per le sconnesse lapidi a cercare le tenebre!... Risuonano in quel silenzio agghiacciante le parole ispirate dell’Apostolo: Stipendia peccati mors, paga del peccato è la morte. Destruatur corpus peccati, si distrugga il corpo del peccato!
Chi potrà più far regnare il peccato nel suo corpo mortale? Chi oserà prestare più le sue membra come strumenti d’iniquità? Chi non raccoglierà per la grazia e per la giustizia la promessa della gloriosa risurrezione? Le parole dell’Apostolo ci danno un disgusto del peccato, un desiderio della vita, e noi non osiamo più tendere alle vanità della terra i nostri sguardi. Conserviamo questo frutto nell’anima, risorgiamo con Gesù ad una vita santa, per risorgere con Lui alla vita immortale.
Sac. Dolindo Ruotolo

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