domenica 13 aprile 2014

13.04.2014 - Commento a Filippesi cap. 2, par. 2

2. Il senso letterale di questo capitolo.
Chi riceve un dono materiale rimane come disarmato innanzi a quelli che lo fanno, ed anche se avesse ragione di dolersi con loro o di doverli ammonire, non osa farlo, e si profonde in ringraziamenti ed in lodi verso quelli che hanno fatto il dono. Questo avviene molto più quando chi riceve un dono si trova in condizioni penose e in uno stato di depressione e di isolamento. San Paolo era in carcere, era tribolato, si sentiva stretto dalle catene, vincolo doloroso ed oppressivo, per l’iniqua legge che lo aveva recluso. Ma la sua anima non era stretta in vincoli e, grato per gli aiuti ricevuti dai Filippesi, non è legato neppure da quel senso di riconoscente acquiescenza e quasi servitù che prende l’anima del beneficato di fronte al benefattore.
Egli amava soprannaturalmente i Filippesi, e si preoccupava del loro bene spirituale, di fronte al quale i doni materiali ricevuti gli sembravano quasi senza importanza. Aveva sperimentato, tra i fedeli di Roma, invidia e contese che li dividevano, forse ne aveva avuto sentore anche dei fedeli di Filippi da Epafrodito, e di questo solo si preoccupa, perciò esclama: Se voi mi volete dare qualche conforto in Cristo qualche sollievo ispirato dalla carità, se avete con me qualche comunanza nello Spirito Santo, se viscere di compassione per le mie pene, rendete perfetto il mio gaudio con l’avere uno stesso pensare, una stessa carità, una sola anima, con l’avere gli stessi sentimenti.
Forse Epafrodito, nel portare i soccorsi a san Paolo, per accrescere la delicatezza e l’amore che li aveva ispirati, dovette far notare che solo i Filippesi avevano pensato amorosamente a lui, e lo avevano espressamente mandato per confortarlo. Non è solo una supposizione ma è spontaneo, psicologicamente, in chi è messaggero di un conforto a colui che è tribolato, il fare l’elogio di quelli che lo mandano, e dimostrare l’emulazione sorta tra loro per mostrarsi benefici più degli altri per suo amore. San Paolo, la cui vita era Gesù Cristo, il cui operare era per Gesù Cristo, il cui patire era per Lui solo, si preoccupa di qualunque sentimento naturale che avesse potuto ispirare la carità dei Filippesi, e delle emulazioni tra loro che avessero potuto dividerli, infrangendo la carità, proprio nell’atto di compiere un atto di carità, ed esclama: Non fate nulla per spirito di parte, né per vanagloria, ma ciascuno con umiltà stimi gli altri come superiori a sé, avendo ognuno a cuore non il proprio interesse nel gloriarsi di ciò che fa, ma quello degli altri, apprezzando le loro virtù, e credendoli sempre migliori di sé.
San Paolo raccomanda l’umiltà
In questo profondo sentimento di umiltà è il segreto della perfetta carità e della perfezione delle proprie intenzioni nell’operare solo per Dio. Per cui 1’«Imitazione di Cristo» esclama: Fa’ conto di non aver fatto progresso di sorta, se non ti senti inferiore a tutti (L. II°, cap. II°, n. 2). Questi pensieri di umiltà - soggiunge sant’Agostino - che deprimono la superbia ed accrescono la carità, fanno sì che si tollerino i pesi vicendevoli non solo con animo sereno, ma volentieri.
San Paolo, per spingere i fedeli suoi cari all’umiltà nella carità e dimostrare che l’abbassarsi volontariamente è segno di vero amore per gli altri ed è seme di gloria nell’eternità, propone loro l’esempio di Gesù Cristo che, donandosi agli uomini per redimerli, diede loro l’esempio della più profonda umiltà, nel divino atto della sua carità, facendosi uomo. Se l’umiltà sta nel credersi inferiore agli altri e la carità sta nel farsene servi per amore, quale atto di umiltà più grande per Gesù Cristo che, essendo Dio, infinitamente superiore a tutti, si fece uomo non solo, ma si fece servo e schiavo nell’umanità assunta, donandosi interamente a loro non con una semplice offerta di conforto, ma immolando se stesso?
Tutto compreso di questa divina umiltà e carità, san Paolo esclama: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Non pone loro innanzi agli occhi qualche fatto saliente della vita di Gesù, registrato nel Vangelo, ma penetra nel suo Cuore divino, considerandone i sentimenti profondi. Considera Gesù negli splendori dell’eternità come Dio, e stabilisce così il vertice divino per misurare la sua umiltà e l’immensità della sua carità per gli uomini. Egli, infatti, Verbo eterno di Dio, sussisteva nella natura di Dio, ed era Dio come il Padre che dall’eternità lo aveva generato. Il testo latino dice: Cum in forma Dei esset, e quest’espressione deve intendersi bene. Il testo greco usa la parola filosofica che significa l’elemento essenziale ed immutabile di una cosa, cioè la sua natura; il testo latino usa la parola forma Dei, per indicare nello stesso modo la natura di Dio.
Dunque Gesù, sussistendo come vero Dio, seconda Persona della Santissima Trinità, non riguardò come un bene prezioso da custodire gelosamente, quasi gioiello che non può predarsi, le prerogative e gli onori divini, cioè l’essere in uguaglianza con Dio, ma esinanì se stesso. Si spogliò, per così dire, del manto divino di gloria e, pur rimanendo Dio, prese la natura di schiavo, di servo, rendendosi simile agli uomini, riconosciuto come uomo da tutto il suo esterno, perché prese un’anima ed un corpo come l’abbiamo noi, apparendo innanzi a tutti come vero uomo. Si abbassò nella sua umanità, donandosi come vittima di redenzione nella volontà del Padre eterno, fatto così obbediente sino alla morte ed alla morte di croce.
Si abbassò incarnandosi, con un atto divino di umiltà, si abbassò ancora facendosi obbediente non semplicemente nell’atto di umiltà che piega la propria volontà innanzi a quella di un altro, ma offrendosi come vittima alla volontà del Padre nella morte più crudele ed obbrobriosa che potesse immaginarsi, cioè nella morte di croce. Obbedì al Padre celeste, come uomo, liberamente, di sua spontanea volontà e non per necessità. Non subì un castigo ma, divinamente innocente, si donò per riparare la disobbedienza di Adamo con un merito incomparabile, in un’infinita carità. Non poteva Gesù congiungere in una maniera più grande l’umiltà e la carità; non poteva san Paolo proporre ai Filippesi un esempio più divinamente bello per esortarli all’umiltà ed alla carità.
La grandezza dell’umiltà di Gesù Cristo nell’incarnarsi
Questo passo di san Paolo è sublime, e ci fa penetrare tutta la grandezza dell’umiltà di Gesù Cristo nell’incarnarsi: era Dio per natura, nell’infinita gloria della sua divinità, e si esinanì facendosi uomo, ed assumendo la natura umana. Nascose la gloria della sua natura divina: forma Dei, nell’umiltà della natura umana: forma hominis. Discese dal Cielo, e coprì la sua gloria infinita con l’umanità assunta, proprio come un re che si spoglia del suo manto regale, e si veste delle spoglie di schiavo. La parola schiavo non è dura, ma esprime una realtà sublime, poiché assumendo la natura umana, Egli, Dio nella divina natura, eterno, spirito purissimo, eternamente beato, divenne come schiavo del tempo, e nacque nel tempo, generato ab aeterno dal Padre, fu generato nel tempo da Maria Santissima. Era nel seno del Padre nell’infinita libertà divina e, facendosi uomo, fu come schiavo nel seno materno. Spirito purissimo, assunse un corpo nel seno di Maria; divinamente ed eternamente immortale e beato, assunse un corpo mortale, e fu come schiavo delle esigenze dell’umanità; mangiare, bere, dormire, ecc.
È vero, fa concepito nella natura mortale nel seno purissimo di Maria, immacolata e santissima, piena di grazia, e quindi come nube tutta splendente della natura di Dio, perché la grazia rende la creatura partecipe della divina natura. Fu concepito per opera dello Spirito Santo, perché il Figlio eterno di Dio, generato dal Padre nell’infinita ed amorosa conoscenza di sé, non poteva essere generato nel tempo dal concorso di un uomo, per quanto santissimo come san Giuseppe. Non senza ragione la Scrittura chiama conoscenza della donna, il concorso dell’uomo nella generazione umana. Maria Immacolata non poteva generare il Verbo di Dio incarnato, dalla conoscenza di un uomo, ma fu tutta inondata dallo Spirito Santo, Amore eterno di Dio, che la fecondò nell’Umanità che assumeva il Verbo di Dio.
La degnazione dell’umiliazione del Verbo di Dio non poteva giungere fino ad assumere l’umanità da una carne anche lontanamente macchiata da quella miseria che Egli veniva a redimere e cancellare nella sua infinita carità. Solo l’eterno ed infinito Amore poteva rendere il seno di Maria pieno della gloria dell’infinito seno del Padre con la pienezza della grazia. Questa medesima pienezza rese Maria umilissima; conoscendo se stessa come creatura umana nell’infinita luce di Dio e, conoscendosi, Ella divenne atta a concepire il Verbo che si umiliava spogliandosi della divina gloria, castone mirabile di umiltà per ricevere la gemma eterna del Padre: humilitate concepit. Era come un mirabile circolo d’amore: il Verbo infinito che si umiliava percorreva i cieli eterni e non poteva chiudersi che in una creatura umilissima: alfa et homega, l’Infinito e la creatura, l’infinita umiltà che si congiungeva all’ultimo punto del circolo: l’umiltà di Maria.
Era l’infinita logica della misericordia di Dio: satana precipitò dal Cielo per orgoglio, per una falsa conoscenza di sé, e pretese essere simile a Dio. Questa orgogliosa pretesa lo rese spaventosamente deforme, egli rimase come fulminato dal suo orgoglio, misero atomo di fronte all’Infinito, pretese avervi contatto e si dissociò in faville d’incendio. Tentò il primo uomo, perché lo vide bello nella giustizia originale, più che non lo era lui prima di cadere, e lo indusse a cadere con lo stesso atto di orgoglio: essere simile a Dio. All’orgoglio che aveva sfigurato gli angeli decaduti, ed aveva sfigurato l’uomo privandolo della giustizia originale, non si poteva opporre che un prodigio di divina umiltà: il Verbo incarnato e Maria, Madre di Dio.
Il Cielo, che satana nel suo orgoglio dispettoso credeva di avere spopolato di gloria, trascinando gli angeli ribelli, fu riempito della gloria del Verbo umiliato fino alla morte di croce, e l’umanità del Verbo, elevata al trionfo eterno, riparò la rovina causata dal primo uomo, portando l’umanità nel seno di Dio, alla destra del Padre, per il Verbo fatto uomo. Non ci poteva essere un fulmine più saettante contro satana che l’umiltà, non ci poteva essere un raggio più fulgente di misericordia per l’uomo caduto, che l’umiltà del Verbo di Dio fatto carne in Maria, corolla splendente nel gineceo nascosto dell’umiltà.
Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio
E stupefacente che in tanto splendore meraviglioso di umiltà, l’uomo peccatore persista nell’orgoglio, e i giusti stessi non sappiano apprezzare l’umiltà che nella speranza
dell’eterna gloria. E perciò san Paolo, venendo incontro alla debolezza umana, dopo aver parlato dell’umiltà di Gesù, parla della sua esaltazione nella sua umanità, nel tempo e nell’eternità, esclamando: E perciò Iddio lo ha esaltato, e gli ha dato il nome che è al disopra di ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù, si pieghi ogni ginocchio in cielo e sulla terra e negli inferni, ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre.
Si noti che quando san Paolo nomina Dio, per parlare dell’umiliazione del Verbo, usa in greco la parola Dio, senza articolo, per indicare Dio nella sua infinita natura; qui invece al nome di Dio premette l’articolo, per indicare la Persona del Padre che glorifica il Figlio, seconda Persona generato da Lui ab aeterno, e perciò abbiamo tradotto Iddio.
Dio Padre, dunque, glorificò il Figlio suo incarnato, umiliato fino alla morte di croce, obbediente fino a quel supremo, dolorosissimo sacrificio, dandogli il Nome che è sopra ogni nome, cioè il nome di Dio, Dio-Uomo. Non dice san Paolo: Dandogli un nome, alludendo semplicemente al nome impostogli nella circoncisione: Gesù, ma dice: il Nome, cioè il nome di Dio. Nella carne mortale era chiamato Gesù, cioè Salvatore, perché per quella carne doveva consumare il sacrificio della redenzione del genere umano ma, per l’unione ipostatica con la Persona del Verbo, era chiamato Dio nella sua stessa carne mortale, di modo che tutto era divino in Lui, per quello che la Teologia chiama comunicazione d’idiomi, divina la sua carne, divina la sua anima, divino il suo Sangue, divini i suoi pensieri, divino il suo Cuore, ecc. Gesù era il nome che lo distingueva come uomo, ed era un nome portato anche da altri personaggi biblici, e persino da quel falso profeta che incoraggiò gli Ebrei alla lotta contro i Romani, causando la distruzione di Gerusalemme, ma il nome imposto a Gesù era nome divino, perché Egli era vero Dio, come era vero uomo.
Era dunque un nome di esaltazione sublime, innanzi al quale, come innanzi a Dio, si doveva piegare ogni ginocchio, in Cielo, sulla terra, negli inferni, confessando ed adorando la sua umanità divina, obbediente sino alla morte di croce, nell’estrema umiliazione di se stessa. Di questa adorazione in ginocchio innanzi all’Uomo-Dio aveva già parlato Isaia (45,23), soltanto che san Paolo al nome di Dio, che si trova in Isaia, sostituisce il nome di Gesù, Verbo Incarnato, dimostrando che il nome dato a Gesù, è appunto il nome di Dio.
L’umiliazione del Verbo di Dio fatto carne, era glorificazione di Dio, contro l’orgoglio di satana e degli angeli ribelli che s’inorgoglirono contro Dio. La sua obbedienza sino alla morte di croce era glorificazione di Dio contro la disobbedienza del primo uomo. La morte di croce era glorificazione di Dio, per la vittoria contro il peccato e la morte. Al nome divino di Gesù si piega ogni ginocchio, cioè in adorazione profonda, il Cielo, gli angeli, gli spiriti celesti, i beati tutti, perché è il Verbo di Dio, glorificante il Padre per l’eterna generazione. Si piega ogni ginocchio sulla terra, in adorazione di amorosa riconoscenza, perché è il Redentore, glorificante il Padre nella sua infinita misericordia. Sulla terra lo si adora umiliato sulla croce per la quale l’ha redenta, obbediente, per l’unione della sua u- manità alla volontà del Padre che lo mandò sulla terra per amorosa misericordia, avendo amato gli uomini fino a dare il suo Figlio Unigenito per salvarli. E il Padre glorificò il Figlio suo, obbediente ed umiliato fino alla morte di croce, dimostrando con la risurrezione e l’ascensione al Cielo la sua divinità.
Al nome divino di Gesù piegano ginocchio gli inferni, cioè gli spiriti infernali, i demoni, e Lucifero a capo di essi, perché sentono in quel nome la maestà di Dio, la realtà disastrosa della loro stolta ribellione e della loro tremenda infelicità. Ancora orgogliosi nel volere dominare la terra, ancora omicidi nel voler perdere gli uomini, sentono, disperati, la divina potenza che li ha vinti umiliandosi sino alla morte di croce, sentono la divina misericordia che ha salvato l’umanità, e riconoscono, fremendo, la grandezza infinita del Verbo incarnato, innanzi al quale si sentono deboli, umiliati, vinti, e questo solo può essere il piegarsi del loro ginocchio, cioè del loro spirito superbo.
Se è vera l’opinione di alcuni teologi che Lucifero e gli angeli ribelli, ebbero, come prova della loro fedeltà per guadagnare l’eterna gloria la visione lontana del Verbo incarnato e si rifiutarono di adorarlo, si capisce meglio la loro caduta, e la vittoria di Gesù su di loro, che li costringeva a riconoscerne la divina potenza e grandezza, stando tra le pene scelte e volute da loro; quella grandezza e potenza che non avevano voluto riconoscere nel Cielo, stando ad un solo passo dalla felicità eterna. Una prova la dovevano subire per meritare la gloria eterna che, senza un loro merito, non sarebbe stata piena, giacché il merito dà allo spirito la soddisfazione del premio che si riceve.
Videro la gloria del Verbo incarnato nella luce del disegno divino, videro un uomo fatto Dio per l’unione ipostatica col Verbo, videro nell’uomo una natura inferiore alla loro natura angelica e, inorgogliti della loro bellezza e della loro natura superiore, vollero essi solo essere simili a Dio. Sopra tutti, Lucifero che era di un’incomparabile bellezza, ebbe questa orgogliosa pretesa, e non si umiliò innanzi al disegno del Verbo incarnato né obbedì, adorandolo; si credé soddisfatto della propria grandezza, si isolò in se stesso, trasse con sé la terza parte degli angeli, presumendo di formare il suo regno di gloria, e precipitò come astro che, fuori dell’orbita del sole, si oscura, va in abissi di tenebre, si accende, scoppia e riduce in frantumi la propria grandezza.
Se gli angeli e Lucifero erano spiriti purissimi, perché dovettero subire una prova per possedere in eterno la visione beatifica di Dio, e quindi la eterna felicità? E perché la prova che ebbero fu la visione del Verbo incarnato, nella luce del disegno di Dio? La prova doveva costituire il merito per loro, diremmo quasi il prezzo della felicità che dovevano conquistare. Il prezzo che si paga per conquistare una cosa preziosa ne stabilisce la preziosità. Se un brillante si paga un milione è un brillante di gran pregio; se si paga mille lire, è un pezzo di cristallo.
Per conquistare Dio come eterna felicità, bisognava dare un prezzo proporzionato in certo modo al valore di ciò che si doveva acquistare; un prezzo infinito in un atto di adorazione e di amore. Non potendo gli angeli adorare e amare Dio col lume della gloria che non avevano ancora, perché subivano la prova per conquistarlo, Dio presentò loro, nella luce del suo disegno, il Verbo incarnato, più proporzionato al loro spirito in quel momento grandiosamente solenne. Era come una visione attenuata dell’infinità di Dio; era come una luce schermata per pupille deboli, incapaci di sostenerla senza accecare. L’umanità del Verbo incarnato era come lo schermo dell’infinità di Dio. La natura umana, inferiore alla natura angelica, dava agli angeli la possibilità di adorare, in un atto di umiltà, il Verbo di Dio unito ipostaticamente alla natura umana; rendeva loro possibile di adorare Dio in un atto di amore, perché dall’umanità assunta, sfavillavano come raggi schermati, le amabili perfezioni di Dio.
Non era, dunque, un cimento a cui Dio sottometteva gli angeli; era un atto d’infinita bontà, per facilitare loro, col merito, l’acquisto dell’eterna felicità. Erano liberi, perché senza la libertà non c’è merito. Dio sapeva che una parte degli angeli, invece di umiliarsi ed amare, avrebbe preferito inorgoglirsi ed odiare, ma Dio non poteva, per essi, privare gli angeli della libertà, togliendo così agli angeli fedeli il merito, e permise che i ribelli seguissero la loro via, liberamente scelta.
La prova, ripetiamo, non era un cimento, non era sproporzionata ad essi, perché Dio, nella sua infinita bontà, esige sempre poco, pochissimo dalla sua creatura; quel poco, pochissimo indispensabile per renderla beata. Se si riflette, esigette dagli angeli un atto di ossequio ad un suo futuro disegno di amore, un inchino, nient’altro; dall’uomo esigette la privazione di un frutto, di un solo frutto, in un orto che ne era ricchissimo, di ogni specie, di ogni sapore. E non esige Dio pochissimo da noi, nell’effondere meravigliose grazie e stupefacenti doni nei Sacramenti? Un po’ d’acqua, una goccia d’olio, un frustolo sottile di pane, una parola amorosa di umiltà che implora perdono, un’imposizione di mani per donare una potestà divina, un volontario consenso di fedeltà per dare all’uomo il dono di una santa fecondità. Esige Dio tanto poco, che all’orgoglio umano la sua esigenza appare quasi puerile, e va cercando nel frutto dell’Eden una spiegazione persino lubrica, e nei Sacramenti solo un simbolo della propria orgogliosa volontà.
L’orgoglio umano si appaga di più nei grovigli di una macchina elettronica, dove si magnifica il suo ingegno; nei complicati voli di una capsula astrale, nei complicati congegni di un Telstar, che obbedisce ad una piccola onda lanciata dalla terra, e trasmette ad essa una piccola onda dieci miliardi di volte ingrandita, come s’ingrandisce la presunzione dell’orgoglio umano in ogni scoperta che fa, emulando la presunzione di satana: Sono simile all’Altissimo. Eppure la vera grandezza umana non è in queste manifestazioni di orgoglio, ma nell’amorosa umiltà che piega il ginocchio innanzi a Dio, al nome che ha dato al suo Figlio incarnato, Gesù, Dio-Uomo. Dio, come un punto matematico, semplicissimo, senza dimensioni, senza passato o futuro, eterno; che diffonde la sua bontà creando, come dal punto matematico si snoda il circolo che si chiude nell’ultimo punto... Dio-Uomo, l’Infinito e l’umiltà: il Verbo umiliato, fatto obbediente, facendosi uomo, il cui nome è glorificato in Cielo, in terra e negli abissi, per la gloria di Dio Padre, di modo che ogni lingua confessi che Cristo Gesù è il Signore, è vero Dio, com’è vero uomo.
Di fronte al mistero dell’infinita misericordia di Gesù Cristo nel farsi Uomo sino alla morte di croce, fatto obbediente nella profonda umiliazione per salvarci, logicamente san Paolo raccomanda ai suoi fedeli dilettissimi ed obbedienti, di condurre a termine la loro salvezza cooperandovi, perché è assurdo presumere di salvarsi senza cooperare alla salvezza. E li esorta ad operare il bene (non solo come facevano quando egli era presente, per il riguardo che avevano a lui, ma molto più ora che è assente) per puro amore di Dio, con timore e tremore di Dio solo, confidando nella sua grazia che opera in loro il volere e l’operare, cioè che muove la volontà al bene e dà la grazia per compierlo, sempre con la nostra corrispondenza e cooperazione.
San Paolo li vuole perfetti, irreprensibili ed integri in mezzo alla generazione perversa e corrotta, nella quale debbono risplendere come luminari del mondo. E stato beneficato dai Filippesi, ma proprio per questo, lungi dall'indulgere ai loro difetti, come può accadere in chi è beneficato, li vuole santi, cooperatori alla loro salvezza con filiale timore e tremore', senza presumere, senza mormorazioni e critiche, irreprensibili; tenendo ferma la Parola di Dio, la parola di vita, affinché nel giorno di Cristo, nel giorno del giudizio, egli abbia di che gloriarsi, presentandogli anime fedeli e sante, ed abbia a constatare così che non corse invano, né invano si affaticò nel suo apostolato.
Lo stato d’animo di un prigioniero
Se parla loro ammonendoli, lo fa per continuare in loro il suo apostolato, perché li vuole santi. E in carcere, è stretto in catene, è anche nel pericolo di essere condannato a morte; dovrebbe temere, dovrebbe tacere, stretto in catene, ma se pur dovesse morire per aver predicato Gesù Cristo, nel sacrificio e nel sacro ministero per la fede predicata loro, egli offrirebbe la sua vita in libagione, per confermare la loro fede, con grande gioia, e li esorta a goderne insieme con lui, vedendo confermata la fede col suo martirio.
Questa bella e forte espressione dell’Apostolo rivela la sua grande anima, ed è un suggello mirabile al suo apostolato tra i Filippesi ed alle esortazioni che fa loro. Un carcerato, infatti, che è prostrato nella sua pena ed è nel pericolo di essere condannato a morte, preferisce piuttosto tacere che parlare, sente in sé un avvilimento che naturalmente lo scoraggia e, se è condannato per un ideale e non per un delitto, sente come oscurarsi il suo ideale, del quale intimamente si rammarica, pur quando, per orgogliosa fierezza, può sembrarvi ancora attaccato. Considera come imprudente la sua propaganda, pensa che avrebbe potuto evitare la compromissione, cerca gli argomenti per ridurne la responsabilità innanzi alla legge che lo condanna, è tutto rinchiuso in se stesso, non può pensare a quelli che lo hanno seguito.
Questo, psicologicamente, avviene nei condannati per un ideale umano o, peggio, per un delitto, salvo forse rare eccezioni di persone o fanatiche o sprezzanti. Ma san Paolo era in catene per la fede, nel sacrificio e nel sacro ministero, cioè per aver celebrato i sacri misteri, e per aver predicato il Vangelo, e la grandezza del suo ministero soprannaturale lo rendeva superiore, immensamente superiore, alla pena nella quale si trovava ed al pericolo di subire la morte. Aveva offerto al vero Dio il Sacrificio eucaristico, ed aveva predicato la verità ai suoi cari fedeli, per la gloria di Dio e per la loro salvezza; egli, quindi, godeva di essere immolato per una causa così bella, ed aveva già detto che per lui la morte era un guadagno, ricongiungendolo a Gesù Cristo nell’eternità. Il suo cuore era sublimemente in alto e riguardava la sua morte come una liberazione.
Con mirabile slancio di amore, egli si riporta ai sacrifici dell’Antica Legge (Nm 15,5; 28,7) nei quali, dopo che il sacerdote aveva immolato la vittima, versava intorno all’altare del sacrificio una libagione di vino. Egli, dunque, dopo aver offerto la Vittima divina sull’altare eucaristico, nel pane e nel vino, era pieno di gioia di offrire il suo Sangue come vino di libagione, e con questa libagione dolorosa, gioiva di confermare il suo ministero, la verità che aveva predicata. Di questa libagione, che gli procurava la morte, gli affezionati Filippesi non dovevano dolersi e piangere, ma goderne con lui, che volentieri s’immolava per Gesù e per confermarli nella fede col suo sangue.
Questa sublime elevazione dell’anima di san Paolo, ci dimostra in quale altezza di spirito egli si trovava, stretto dalle sue catene. E vero, gli imperatori riguardavano la professione cristiana come un delitto contro lo Stato, come un delitto contro gli idoli che adoravano, quasi sostegno dello Stato, ma san Paolo era apostolo di Dio, servo di Gesù Cristo, ministro della verità per le anime, e quindi nella prigione e nel pericolo della morte non era minimamente depresso dall’inesorabilità della legge civile o penale, ma era superiore alla tirannia dell’ingiustizia e della menzogna, sollecito solo della gloria di Dio e della salvezza delle anime, nel regno di Gesù Cristo.
San Paolo manda Timoteo ed Epafrodito
Dopo lo slancio del suo eroismo, infatti, che lo faceva gioire nel pensare al martirio, e che naturalmente l’avrebbe dovuto tenere concentrato in quel pensiero, san Paolo parla normalmente dell’aiuto spirituale che vuol mandare ai Filippesi, Timoteo, come un altro se stesso, e del ritorno di Epafrodito in mezzo a loro con la gioia di chi manda una persona cara, verso la quale sente la gratitudine per ciò che ha fatto per lui, e la pena compassionevole per la malattia mortale che aveva sofferto. Sono due sentimenti che, psicologicamente, escludono dall’anima di san Paolo, nel suo eroismo e nel suo zelo, ogni idea di paranoia o di esaltazione, che può affacciarsi nei moderni critici o miscredenti, tanto facili a deturpare la verità con le loro supposizioni stolte.
Con perfetta calma ed equilibrio di spirito, san Paolo, dopo quello slancio di eroico amore, soggiunge: Spero, intanto, nel Signore Gesù di mandarvi quanto prima Timoteo, affinché anch’io possa stare di buon animo, sentendo le vostre notizie. Poiché non ho alcuno che abbia come lui i miei sentimenti, e che più sinceramente si prenda cura delle cose vostre. Tutti, invero, cercano l’utile proprio, e non quello di Cristo. E voi conoscete a prova la sua virtù; sapete che egli, come un figlio col padre suo, con me si è consacrato al servizio del Vangelo. Spero, dunque, di poterlo inviare a voi non appena avrò visto chiaro nella mia situazione; confido, anzi, nel Signore che presto anch’io verrò da voi. Sperando di mandare loro Timoteo, a conforto ed aiuto, san Paolo fa l’elogio di quel suo discepolo, affinché l’avessero ricevuto con profitto spirituale, e ne fa l’elogio con espressioni tenere che rivelano la stima che aveva di lui e l’amore che gli portava.
C’è una gradazione in questa presentazione e in questo elogio di Timoteo. Lo manda per avere da lui notizie dirette dei Filippesi, e per stare, così, senza preoccupazioni su di loro. Lo manda come un altro se stesso, che ha i suoi medesimi sentimenti e la stessa premura per il bene di quei fedeli, lo stesso zelo e lo stesso disinteresse nel guidarli nella via di Dio. Lo manda perché può fidarsi di lui, mentre tutti cercano il proprio utile e non quello di Cristo. E voleva dire, con una frase generale, che in concreto aveva certamente le sue eccezioni, che quando si manda qualcuno come messaggero per avere notizie o per dare notizie, ognuno cerca il proprio utile, da parte di chi lo manda, e quindi cerca le spese che deve sostenere ed un certo appannaggio, e cerca il proprio utile da parte di quelli che lo ricevono, preoccupandosi di avere il necessario alla vita, ed anche gli onori di una cordiale accoglienza. Senza un ardente zelo, superiore ad ogni interesse e preoccupazione umana, e senza un profondo amore alla causa di Gesù Cristo, era naturale in tutti quelli che hanno una missione, un incarico o un ufficio, domandarsi che cosa c’è di utile o di guadagno materiale e morale. Con questa considerazione generale, san Paolo vuol far rilevare ai Filippesi qual missionario d’eccezione mandava loro, e quindi quale profitto di bene avrebbero dovuto ricavare dalla sua venuta.
Anche noi, quando vogliamo far apprezzare una persona di singolare bontà e virtù, usiamo un’espressione generale che la contrapponga a tutti, come un’eccezione, e diciamo, per esempio, che nessuno può starle e paragone, che tutti non hanno la sua capacità e la sua virtù. Con queste espressioni non vogliamo dire che tutti sono incapaci o egoisti e profittatori, o premurosi solo del proprio utile. E difatti san Paolo soggiunge, proprio in questo senso, parlando di Timoteo: Voi conoscete a prova la sua virtù, e sapete che egli, come un figlio al padre suo, con me si è
consacrato al servizio del Vangelo. Spera, dunque di poterlo inviare loro, non appena avrà visto la piega degli avvenimenti, cioè appena avrebbe visto come si metteva il suo processo, poiché aveva bisogno del conforto e dell’aiuto di Timoteo. Se avesse visto che le sue cose si potevano mettere bene, egli senz’altro avrebbe inviato Timoteo ai Filippesi.
Era questa la sua speranza umana, perché il riguardo che avevano avuto per lui i carcerieri e una certa libertà di predicare che gli avevano data, gli facevano supporre che avrebbe potuto privarsi dell’aiuto di Timoteo, ed avrebbe potuto mandarlo loro per l’ansia di averne notizie dirette e sicure. Ma oltre alla speranza umana che dipendeva dalla piega che poteva prendere il processo, egli aveva fiducia in Dio di poter essere liberato e venire personalmente da loro. Sperava nella piega degli eventi, e confidava nel Signore; una speranza naturale, una fiducia soprannaturale.
E passa, l’Apostolo, a parlare di Epafrodito che chiama suo fratello dì lavoro e di lotta, mandatogli dai Filippesi per provvedere alle sue necessità, e dice che ha creduto necessario rimandarlo a loro, e ne spiega la ragione. Caduto ammalato fin presso a morire, e saputo che i Filippesi erano venuti a conoscenza della sua malattia, ristabilitosi per particolare misericordia di Dio, desiderava ritornare dai Filippesi per rassicurarli. Quest’ansia di rassicurare i Filippesi della sua salute e la premura di san Paolo di rimandarlo loro per rallegrarli della recuperata salute, e per essere lui stesso meno triste, considerando la loro afflizione, mitigata dalla presenza di colui che era stato per morire, dimostra con quanto amore si amavano quei cristiani, e quanta era la loro carità, gli uni per gli altri.
Per questa carità, san Paolo raccomanda ai fedeli di ricevere Epafrodito con grande allegrezza, e di avere in onore tali persone.
Questa raccomandazione potrebbe sembrare fuori posto per anime che si amavano fortemente in Dio. Ma c’è una spiegazione sottilmente psicologica. L’ansia stessa che le persone care hanno per la malattia della persona amata, soprattutto quando la malattia è stata mortale, è causa di nervosismo e di recriminazioni verso la persona inferma, quasi che essa avesse avuto colpa del suo malanno. Questo avviene soprattutto con quelle persone che non conoscono riserva nel sacrificarsi per gli altri. Finché si sacrificano, si ammira la loro generosità, pur raccomandando prudenza e sobrietà... ma in tono... minore. Sopraggiunto il malanno, durante e dopo, si esorbita facilmente in recriminazioni e rimproveri che amareggiano l’infermo. Epafrodito doveva essere uno che si prestava per gli altri con dedizione completa, e per questo i Filippesi avevano dovuto mandarlo a san Paolo, sicuri che avrebbe affrontato ogni pena ed ogni sacrificio per soccorrerlo. Saputo del suo malanno mortale, avevano dovuto lamentarsi della sua operosità, come esagerata fino ad ammalarsi, e perciò san Paolo, temendo che gli avessero fatto recriminazione nel ritorno, raccomanda loro di riceverlo con allegrezza, cioè con animo lieto, e con grande onore, perché se aveva sofferto lo aveva fatto non per esuberanza di... strafare, ma per Gesù Cristo.
Questa raccomandazione, che san Paolo fa ai Filippesi di ricevere con allegria e con onore Epafrodito, è rafforzata da lui con un motivo soprannaturale, poiché egli si sacrificò fino ad esporsi al pericolo di morire, ed è rafforzata
con un motivo di riconoscenza naturale verso di lui, che si era sacrificato per compiere la missione che essi stessi gli avevano dato, e che per loro era impossibile adempire: Poco si è curato della sua vita, al fine di supplire voi in quegli uffici verso di me, che voi stessi non potevate fare. Dunque, ricevetelo con grande allegrezza, non gli fate la faccia amara, non gli fate rimproveri per la sua generosità nel sacrificarsi, che il pericolo di morte a cui è andato incontro vi fa apparire esagerata e degna di rimprovero, poiché se si è sacrificato per me senza riserve, si è sacrificato anche per voi, supplendovi negli uffici di carità verso di me che non avreste potuto fare. Abbiate, perciò, in onore persone come Epafrodito, che si espongono alla morte per la carità, e che fanno anche fare una bella figura a chi le manda. Non meritano rimproveri ma onori, perché sono eroiche.
E, difatti, non era cosa da nulla fare allora un viaggio fino a Roma, rintracciare in quella città immensa e fragorosa la prigione di san Paolo, ammansire i carcerieri, e indurli a permettergli di soccorrere il prigioniero in catene e, quindi, particolarmente custodito e vigilato dalle autorità pubbliche.
Sac. Dolindo Ruotolo

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