venerdì 18 aprile 2014

18.04.2014 - Commento al vangelo di S. Giovanni cap. 18, par. 2-6

2. Gesù nell'orto di Getsemani
Dopo la sua grande preghiera Gesù usci dal cenacolo, ed, attraversato il torrente Cedron, che scorre ad Erst di Gerusalemme, in fondo alla valle, si avviò ad un orto del monte Oliveto, dov'era solito recarsi con i suoi discepoli per riposare e per pregare. Evidentemente il padrone dell'orto doveva essere un seguace di Lui, e gli permetteva di entrarvi. Giuda essendo a conoscenza di questo luogo, e dell'abitudine che aveva Gesù di recarvisi, credette, nella sua malignità, che non c'era un luogo migliore per consumare il suo tradimento e consegnare il suo maestro divino nelle mani dei nemici.
San Giovanni, completando il racconto degli altri evangelisti, non parla dell'orazione di Gesù e dell'agonia del suo Cuore divino nell'orto, ma noi dobbiamo ricordare questo grande episodio della sua Passione, per intendere l'amore col quale Egli si offrì al Padre per salvarci. In un orto l'uomo aveva peccato, ed in un orto Gesù volle incominciare la grande riparazione della colpa; in un orto Adamo s'era insuperbito, ed in un orto il Redentore si umiliò alla presenza del Padre; Adamo pretese essere simile a Dio trasgredendone il precetto, e Gesù, offrendosi interamente alla divina volontà, cominciò a ripararne la tracotanza.
Egli, uscendo dal Cenacolo, non si riguardò più del mondo (17,11); era tutto compreso del compimento del disegno della divina volontà, e si offriva al Padre. Aveva una tenerezza infinita per i suoi cari, ma non parlava loro, perché non voleva contristarli. Com'era solenne quel suo incedere fra le tenebre notturne, quel suo silenzio insolito, e quella tristezza che tutto lo comprendeva. Era la Vittima divina che andava a compiere l'offerta della sua volontà, prima di donarsi tutta sull'altare del grande olocausto, era la vittima che andava a raccogliere su di sé in quell'offerta di amore tutti i traviamenti dell'umana volontà peccatrice. Camminava quasi a stento, giacché già l'ambascia invadeva il suo spirito e stringeva il suo Cuore. Lasciò in disparte gli apostoli, e si allontanò anche da quei tre che aveva condotti con sé, come aiuto nella sua agonia interiore, perché non erano capaci ancora d'intendere il mistero di espiazione che s'iniziava. Si prostrò, pregò, vide avanzarsi come torrente furioso l'umana iniquità, se ne sentì coperto, ne fu sommerso, vide ad uno ad uno i patimenti terribili che dovevano espiarla, sentì tutta la ripugnanza della sua umanità a quei patimenti, desiderò persino che fossero stati allontanati da Lui, ma si sottopose interamente al volere del Padre e, risvegliando i suoi discepoli addormentati, andò Egli stesso incontro al traditore ed agli sgherri che venivano per catturarlo.
Giuda consuma il suo tradimento
Giuda si era posto a capo della spedizione organizzata contro il Maestro, e guidò egli stesso la coorte ottenuta dal sinedrio, e le guardie del tempio che ad essa si erano unite. La coorte, formata di 600 uomini, risiedeva nella fortezza Antonia all'angolo Nord-Ovest del tempio, ed aveva il mandato di mantenere l'ordine pubblico durante le grandi solennità. Era una forte guardia in servizio di polizia esterna, mentre per l'interno del tempio erano adibite guardie speciali. E evidente che il sinedrio non ottenne tutta la coorte per catturare Gesù, ma solo il corpo di guardia notturna e, per rafforzarlo contro qualunque sorpresa, vi aggiunse la guardia interna del tempio. Giuda aveva fatto capire che non era facile catturare Gesù, che Egli col suo prestigio poteva anche di notte eccitare un movimento popolare, e dovette descrivere gli apostoli come gente fanatica, che occorreva prima di tutto immobilizzare. Egli si preoccupava di sé, e capiva che, scoperto il suo vile tradimento, correva rischio di essere malmenato.
Giuda si trovava nel momento più brutto del suo animo abbrutito dal peccato; sentiva un'avversione terribile verso Gesù, un desiderio subcosciente di vendetta per la delusione provata nei suoi progetti di grandezza, un senso di adirato disprezzo per le sue parole e le sue promesse che sembravano tutte fallite, una volontà decisa a far terminare, secondo lui, quello sconcio e quell'inganno; per questo non esitò a mettersi a capo della spedizione, ed a prendere tutte le precauzioni per difendersi da un possibile atto di potenza di Gesù, da lui temuto come un sortilegio. Fece portare lanterne per avanzare sicuramente, e fiaccole per evitare di poter rimanere al buio, e volle che la guardia fosse armata, e pronta anche al combattimento se fosse stato necessario.
San Giovanni non parla del bacio di Giuda, perché questa dolorosa circostanza fu notata dagli altri evangelisti, ed accenna al momento nel quale, avanzatosi prima solo Giuda, e fatto riconoscere il Maestro col bacio traditore, il corpo di spedizione avanzò minaccioso verso Gesù per catturarlo insieme ai suoi discepoli.
Il Redentore sapeva tutto per scienza divina, ed andò Egli incontro alla turba, per impedirle di mettere le mani sugli apostoli. Nel suo amore infinito si preoccupò prima di tutto di loro, e mostrò con un atto di onnipotenza che, se avesse voluto, avrebbe potuto immobilizzare i suoi nemici. Domandò perciò con grande maestà:
Chi cercate?
Gli risposero: Gesù il Nazareno.
Sono Io, soggiunse Gesù.
Giuda frattanto, dopo aver baciato il Maestro, ad evitare la reazione dei discepoli si era unito alla turba.
Nel dire Gesù: Sono Io, la turba, come colpita da folgore, indietreggiò e cadde rovescioni per terra. Un lampo della divinità l'aveva atterrata, poiché Gesù nel dire: Sono Io non rispose solo umanamente alla loro domanda, ma si definì per quello che era, Dio eterno che solo è: Sono Io. Gesù, mentre essi si rialzavano in preda ad un grande spavento, domandò di nuovo: Chi cercate? Ed essi nuovamente risposero: Gesù il Nazareno. Gesù replicò con maestà: Vi ho detto che sono io; se dunque cercate me lasciate che questi se ne vadano. L'evangelista nota che si verificava così la parola ch'Egli aveva detto nella preghiera rivolta al Padre (17,12): Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato.
«Sono Io» aveva detto Gesù...
Fa stupore il notare che i nemici di Gesù, pur essendo stati atterrati da una sola sua parola, non si siano ricreduti, ed abbiano anzi insistito nel volerlo catturare, come fa stupore che alla seconda risposta di Gesù non siano nuovamente caduti. Ma non c'è da stupirsene: il Redentore rispose da Dio e da uomo con la stessa espressione; la prima volta disse: Sono Io,
e parlò da Dio, atterrandoli; la seconda volta disse: Vi ho detto che sono io, e parlò da uomo, permettendo loro di catturarlo; l'unità della persona è evidente nelle due risposte: Sono Io; ma Egli volle far rifulgere per un momento la sua divinità nella prima risposta, per convincere i suoi nemici a non insistere nel volere catturare anche gli apostoli, come avevano stabilito. I suoi nemici avrebbero dovuto ricredersi dopo essere stati atterrati; ma essi, sempre liberi di operare come volevano e pieni di malignità com'erano, pur spaventandosi non si mutarono. Passato poi il primo momento di paura, attribuirono la loro caduta a cause occulte o al disorientamento di un momento, e rimasero più che mai ostinati nella loro perfida volontà.
«Sono Io» ripete ai popoli Gesù
E penosissimo, senza dubbio, ma è perfettamente consono all'umana malizia, che si serve della libertà per ostinarsi nel male. Non avviene questo ogni giorno, sotto i nostri occhi? Il peccatore rinnova la Passione di Gesù Cristo, e gli va incontro non per amarlo ma per malmenarlo. Il Signore gli fa sentire ch'è Lui, attraverso i castighi e i miracoli, e il peccatore rimane sempre ostinato. Non è voce del Redentore il terribile flagello che colpisce i popoli? Non dice Egli alle ingrate e scellerate nazioni: Sono /o? Eppure continuano nei loro peccati, e continuano a macchinare oscuri ed infami disegni contro di Lui e della sua Chiesa.
«Sono Io», ripete anche a te...
La malizia umana dolorosamente non ha limiti, e noi possiamo constatarlo nelle nostre medesime ostinazioni nelle colpe e nei vizi. Quante volte sentiamo la voce di Dio nei rimorsi della coscienza e nei castighi, e non ne facciamo conto? Quante volte l'amor suo ci chiama e non lo ascoltiamo? Più che stupirci dell'ostinazione dei nemici di Gesù, dunque, umiliamoci per le nostre ostinazioni nei difetti e nelle colpe.
3.  La cattura di Gesù. San Pietro ferisce Malco
Quando Gesù ripeté ai suoi nemici: Sono io, ed ingiunse loro di lasciare andare i suoi apostoli, essi gli si avventarono contro per catturarlo. Uno dei primi che si slanciò fu il servo del sommo sacerdote, come appare dal contesto; forse ne aveva avuto specifico comando o voleva farsi un merito presso il suo padrone di aver posto egli per primo le mani sul Redentore. Pietro, sentendo Gesù dire ai nemici di lasciare andare liberi i suoi discepoli, si sentì in quel momento, per reazione naturale, più che mai acceso dal desiderio di rimanere, e poiché aveva portato con sé una spada, la sguainò ed irruppe contro il servo che si slanciò contro il Maestro. Nell'impeto non rifletté a quello che faceva, levò la spada, vibrò un colpo e, pur mirando alla testa dell'avversario, non ebbe il cuore e la forza di ucciderlo, e la spada dal capo scivolò sull'orecchio del servo, recidendoglielo. Quel servo, nota l'evangelista, si chiamava Malco.
Con imperturbabile calma Gesù si rivolse a Pietro e gli disse: Rimetti la tua spada nel fodero. Non berrò io il calice che il Padre mi ha dato? Egli non volle condannare la legittima difesa, ch'è lecita anche al cristiano ingiustamente aggredito, ma volle mostrare a Pietro che la Passione che s'iniziava rispondeva ad un preciso disegno di Dio. Il Padre gli dava il calice dei dolori, ed Egli voleva berlo tutto per salvare gli uomini; era Lui stesso che lo accettava, ed ecco si donava in mano ai suoi nemici per compiere la divina volontà. Con un gesto di misericordiosa bontà Egli toccò l'orecchio a Malco e lo risanò, come nota san Luca (22,51); lo risanò anche per non far compromettere Pietro; l'orecchio forse pendeva, legato ancora con un lembo di pelle, e Gesù rimettendolo a posto lo rimarginò.
Gesù interrogato da Anna e Caifa
Poi con un atto interiore di volontà permise ai suoi nemici di avanzarsi su di Lui, ed essi gli si slanciarono contro, lo afferrarono e, come aveva raccomandato Giuda (Me 14,45), per maggiore precauzione lo legarono strettamente e lo condussero prima ad Anna e poi a Caifa, sommi pontefici. Anna aveva tenuto il sommo pontificato dal 7 al 14. Benché deposto poi dal pontificato, aveva continuato ad avere grande influenza sul popolo, e ad essere riguardato come capo del giudaismo. Egli aveva dato la propria figlia in sposa a Caifa, che in quell'anno era Sommo sacerdote ufficiale, e praticamente era sempre lui a dominare il sinedrio anche per questa parentela.
Gesù fu condotto prima a lui, perché egli avesse potuto strappargli di bocca qualche parola che l'avesse compromesso. Anna era astutissimo, odiava il Redentore e lo aveva in massimo disprezzo, era tutto invasato da satana, e non desiderava che disfarsi di Colui che stimava un mestatore ed un perturbatore, rodendosi d'invidia per le grandi opere ch'Egli faceva. Perciò fu lieto di vederselo finalmente comparire davanti in stato di arresto, solo, lontano dal popolo che avrebbe potuto ancora pigliarne le difese, e nel silenzio della notte. Era questa la losca figura del primo giudice innanzi al quale fu trascinato Gesù.
Caifa non era dissimile da lui, e l'evangelista ricorda a bella posta che aveva egli affermato essere utile che un uomo morisse per il popolo (Gv 11,49), per far notare che, prima di giudicarlo in un modo qualunque, l'aveva già condannato, e aveva deciso che dovesse essere ucciso.
Con sottile malizia, Anna, mentre si stava radunando il sinedrio, interrogò Gesù sui suoi discepoli e sul suo insegnamento; egli voleva che con la sua bocca avesse confessato di avere per discepoli povera gente quasi tutta ignorante, e che esponendo la sua dottrina potesse essere convinto di errore, e perciò essere esposto al pubblico disprezzo dei dottori della Legge. Questi infatti non lo riguardavano solo come un innovatore, ma come un ignorante presuntuoso, che voleva dottoreggiare senz'avere studiato; Anna era certo che, messo alle strette dalla sua sapienza critica ed esegetica, avesse dovuto rimanerne sommamente confuso. Anna però non si accorgeva di essere illegale nelle sue domande, sia perché non aveva autorità giuridica per farle, e sia perché voleva imbastire insidiosamente il processo sulle risposte del supposto reo, travisandole poi a suo modo, senza controllo di testimoni. E per questo che Gesù gli rispose: Io ho parlato al mondo apertamente, ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio dove si radunano tutti i Giudei, e non ho detto nulla in segreto. Perché interroghi me? Domanda a coloro che hanno udito quello che loro ho detto; questi sanno quello che io ho detto.
La risposta di Gesù evidentemente riguarda l'essenza della sua dottrina, non tutto ciò ch'Egli aveva detto; Egli infatti aveva spesso parlato in segreto ai suoi apostoli e, certo, segreto di amore era stato quello che aveva detto poche ore prima nella Cena. Anna col semplicemente interrogarlo sulla sua dottrina, voleva far supporre che fosse un uomo doppio, che insidiava la purezza dell'insegnamento ufficiale, e che era pericoloso per le anime; voleva farlo apparire come un fanatizzatore di popolo, ed alla sua insidiosa domanda non c'era altra risposta che proporre un'inchiesta giuridica, dalla quale sarebbe apparsa la verità.
Benché Gesù avesse risposto pacatamente e con grande rispetto, pure quella risposta sembrò tracotante ad uno dei gendarmi di Anna che forse si era accorto del disorientamento che essa aveva causato nel pontefice; e per farsi un merito e toglierlo d'impiccio, diede un violento schiaffo a Gesù, dicendogli: Così rispondi al pontefice?
Non era mancanza di rispetto dire la verità ed appellarsi alla testimonianza altrui, anzi era un argomento d'innocenza integra che non temeva d'essere confusa. Se Gesù fosse stato veramente un colpevole ed avesse propalato dottrine false, avrebbe cercato egli di prospettarle in modo da non compromettersi, ed avrebbe evitato la testimonianza degli altri. D'altra parte Anna lo interrogava abusivamente, ed era logico che Egli rispondesse rimandandolo alla testimonianza altrui, qualora avesse desiderio di conoscere quello che domandava.
Qual valore giuridico poi poteva avere ai fini del processo la risposta dell'accusato? E evidente che questi non avrebbe potuto accusare se stesso e compromettersi. Lo schiaffo assestato a Gesù era ingiusto da qualunque punto si riguardasse la sua risposta, e perciò il Redentore soggiunse:
Se ho parlato male mostrami il male, ma se ho parlato bene perché mi percuoti?
Egli non volle apparire ribelle ad uno che in un modo qualunque rappresentava il pubblico potere, e che era stato unto dal Signore; non volle che rimanesse nei presenti l'impressione di una mancanza di rispetto all'autorità, e perciò replicò alla guardia che l'aveva colpito con lo schiaffo, per convincerlo d'ingiustizia.
Anna, visto che non aveva potuto porre una base qualunque al processo, per il silenzio di Gesù, lo mandò legato a Caifa, dove frattanto s'era radunato il sinedrio. San Giovanni omette le due sedute del sinedrio tenute nella casa di Caifa e narrate dai Sinottici (Mt 26,57-68; Me 14,55-65; Le 22,66-71). Egli, come più volte s'è detto, completa il racconto degli altri evangelisti, ed in generale omette ciò che hanno detto gli altri. E probabile pure che, non essendo stato testimone oculare di quei due processi non li abbia raccontati, od anche che il suo cuore di prediletto discepolo del Signore abbia avuto ripugnanza ed orrore di ricordare i maltrattamenti avuti dal Maestro divino in quella notte. Certo al fine del suo Vangelo sarebbe stata preziosa la solenne dichiarazione che Gesù fece della sua divinità innanzi al sinedrio; ma, dato che ne avevano parlato gli altri evangelisti, egli passò oltre perché gli ripugnava troppo il pensare all'atteggiamento irruentemente diabolico del sinedrio innanzi ad una dichiarazione così grande. La Passione dolorosissima di Gesù lasciò una piaga profonda nel cuore di san Giovanni perché ne fu testimone, ed egli dovette fare forza al suo cuore per ricordarla.
4. Le negazioni di Pietro e le vili negazioni del rispetto umano
Quando Gesù fu catturato nell'orto, gli apostoli se ne fuggirono, e forse primo di tutti fuggì Pietro, per timore di essere arrestato come feritore di Malco. Ma, passato il primo momento di sgomento, egli ritornò sui suoi passi, e in lontananza si mise a seguire il triste corteo, per vedere come andassero a finire le cose. A lui si unì un altro discepolo, ch'è certamente san Giovanni. Quando il corteo giunse al palazzo dove abitavano Anna e Caifa, Giovanni poté entrarvi perché era conosciuto dal sommo sacerdote, cioè dalla sua casa e dai servi, provvedendola, come si suppone, di pesce. Entrò nel cortile e quando la turba si fu un po' dileguata parlò con la portinaia, e fece entrare anche Pietro che attendeva fuori. Dovette trovare un pretesto per farlo entrare in quell'ora, forse presentando Pietro come un suo compagno di lavoro od un suo amico, e domandando che non fosse lasciato sulla strada, solo, in quella notte fredda. C'era un fuoco acceso nel cortile, infatti, e san Giovanni poté domandare per l'amico il favore di farlo riscaldare.
La portinaia non trovò difficoltà, ma, accostatosi Pietro al fuoco, e posto così nella luce, non le sfuggì il suo profondo turbamento e l'impaccio nel quale si trovava; perciò, fissatolo con uno sguardo scrutatore, da autentica portinaia abituata a squadrare da capo a piedi le persone che entravano nel palazzo disse: Sei forse anche tu discepolo di quest'uomo? Pietro, affettando indifferenza, ma in realtà profondamente confuso e turbato, rispose: Non lo sono. Continuò a riscaldarsi, ma la portinaia non lo perdette di vista, e comunicò agli altri il suo sospetto; per questo, quelli che stavano con lui intorno al fuoco gli dissero: Non sei forse anche tu dei suoi discepoli? Pietro negò dicendo con maggiore energia, per troncare ogni ulteriore domanda: Non lo sono. Ma uno dei servi del pontefice, parente di colui al quale Pietro aveva tagliato l'orecchio, fissatolo bene e riconosciutolo, disse: Non ti ho veduto nell'orto con Lui? Pietro, per timore d'essere arrestato allora stesso, negò con maggiore energia e recisione, e subito il gallo cantò.
San Giovanni non insiste troppo nel raccontare le negazioni di Pietro né dice ch'egli giurò di non conoscere Gesù, per delicatezza di carità e di rispetto verso il principe degli apostoli. Ma, anche limitandosi al puro necessario nel ricordarlo, quel doloroso evento non perde nulla della sua gravità.
Pietro che aveva protestato tanto amore al Maestro divino, e che s'era detto pronto a subire per Lui il carcere e la morte, lo rinnega alla domanda di una povera donna e a quella di pochi uomini. L'amor suo non ebbe forza di vincere un vile rispetto umano e, lungi dal gloriarsi di essere discepolo di Gesù, dichiarò di non conoscerlo addirittura. Se, invece di mettersi a scaldarsi al fuoco, se ne fosse stato in disparte pregando, non sarebbe caduto in quel baratro d'infedeltà, che gli strappò poi le più cocenti lacrime di pentimento in tutto il resto della sua vita.
Anche noi rinnegatori di Cristo?
Non ce ne dobbiamo stupire, perché dolorosamente cadiamo anche noi nella medesima colpa, con l'aggravante che ora Gesù è già glorioso, la Chiesa è già costituita come suo regno, ed è più facile gloriarsi di Lui che vergognarsene. Quante volte, cadiamo nel rispetto umano e mentre Gesù è malmenato dai perfidi, noi, lungi dal confessarlo pubblicamente, dissimuliamo la nostra professione cristiana, accomunandoci al mondo!
Poche anime, forse nessuna, possono gloriarsi di non avere avuto mai rispetto umano nella vita, e di non avere almeno qualche volta risposto ai servi del mondo che le interrogavano con la parola e coi gesti: Io non sono di Gesù, io non lo conosco!
È penosissimo! Satana riesce a suggestionarci con un timore senz'alcun fondamento; ci sentiamo avviliti, ci sembra che tutti possano schernirci, e fingiamo di non essere credenti, e di non essere attaccati alla Legge di Dio ed ai comandamenti del Redentore. Anche le anime pie cadono in peccati di rispetto umano, quando dovrebbero essere testimonianza viva del Signore con la loro fede e la pratica della loro fede.
Dobbiamo risvegliarci e rivestirci della fortezza del carattere cristiano, oggi specialmente che la terra è piena d'idoli e di gente che vi si avvilisce davanti per fanatismo o per interesse, oggi che possiamo da un momento all'altro trovarci anche di fronte ad una persecuzione! Come! I fanatici si gloriano di portare i segni dei loro idoli, segni che spesso sono simbolo d'ingiustizie e di rapine, di sopraffazioni esose e di schiavitù, e noi non ci glorieremo di Gesù Cristo, di Maria Santissima, dei santi, del Papa e della Chiesa? Non saremo fieri d'essere cattolici e cattolici praticanti? Ci sono forse altri redentori nel mondo, o qualcuno di questi idoli ha dato la vita per liberarci dal peccato e per darci la felicità? Ci sono forse posizioni più onorevoli di quelle che ci avvicinano a Dio? Invece di vergognarci dei nostri peccati, ci vergogneremo di quello che ci onora?
Alziamo la fronte, professiamo apertamente la nostra fede, rispondiamo alle maligne insinuazioni del mondo gloriandoci di Gesù Cristo e della sua croce, e non macchiamo la nostra vita con dedizioni al male, o con simboli ed emblemi che non sono quelli del Redentore. Nel nostro cuore e sulla nostra fronte ci sia il nome di Gesù e di Maria, poiché questi sono nomi di amore e di salvezza; qualunque altra sigla è la sigla che si affibbiava agli schiavi, ed è un marchio di obbrobriosa dedizione ad un uomo quasi fosse Dio! Nessun uomo della terra può presumere di diventare un idolo, e di tenere così ferma la compagine della nazione; qualunque nome che non sia quello di Gesù, e qualunque segno che non sia quello della croce è seme di discordia ed è simbolo di schiavitù.
Basta con gli uomini! Basta! Hanno dato troppo argomento di essere non salvezza ma rovina dei popoli; basta! Noi ci glorieremo solo di Dio e della croce di Nostro Signore Gesù Cristo, nel quale è vita e risurrezione, e per il quale soltanto siamo stati salvati e liberati.
5.  Gesù Cristo davanti a Pilato
Dopo il processo, diciamo così, religioso, fatto a Gesù in casa di Anna e di Caifa, e dopo averlo condannato a morte come bestemmiatore, i Giudei sul fare del mattino lo condussero da Pilato per far ratificare la sentenza. Essi infatti, dopo l'occupazione romana, non potevano eseguire nessuna sentenza capitale senza l'autorizzazione del preside o governatore della nazione. Andarono in massa a bella posta per impressionare Pilato, sicuri che non avrebbe rifiutato la ratifica che domandavano. Siccome per gli Ebrei entrare in una casa pagana era lo stesso che contrarre un'impurità legale, essi, dovendo ancora mangiare la Pasqua, per la quale si richiedeva una grande mondezza, non entrarono nel pretorio per non contaminarsi. Ipocriti e scellerati! Si facevano scrupolo di entrare nel pretorio, e non si facevano
scrupolo di domandare la morte d'un innocente, anzi, la morte del Figlio di Dio!
Pilato era già informato del processo che s'era ordito contro Gesù e sapeva bene che il movente principale era stata l'invidia che avevano contro di Lui i sacerdoti, gli scribi e i farisei. Il tribuno poi che aveva accompagnato coi soldati I messi del Sommo sacerdote per catturare Gesù, aveva certamente riferito a Pilato lo scempio che ne avevano fatto, ed egli non era disposto a ratificare un'ingiustizia così manifesta. Egli inoltre aveva dovuto indispettirsi anche del gesto dei Giudei di non entrare nel pretorio come luogo immondo, e perciò uscì fuori, sulla loggia, pronto a dare una lezione a quella canaglia. Si potrebbe aggiungere a questo che, siccome i Romani amministravano la giustizia a prima mattina, Pilato era seccato anche d'essere disturbato dal sonno a quell'ora. Egli perciò con fare secco domandò quale accusa portassero contro Gesù, iniziando così il processo penale.
I Giudei, indispettiti di quella domanda che frustrava tutto il loro piano, risposero con rabbia, mostrandosi offesi: Se non fosse costui un malfattore, non te lo avremmo condotto. E volevano dire: potresti fidarti di noi e della nostra giustizia, poiché non saremmo capaci di presentarti come reo un innocente. Pilato, sapendo già che lo avevano condannato per loro beghe religiose che per lui non avevano alcun'importanza, colse subito l'occasione per liberarsi da quell'increscioso processo; la moglie, infatti, come narra san Matteo (27,19), gli mandò a dire che non s'impicciasse di quel giusto, perché essa era stata molto turbata in sogno a causa di lui. Quest'ambasciata gli mise nell'animo un timore grande, e perciò rispose ai Giudei: Prendetelo voi stessi e giudicatelo secondo la vostra legge. Egli voleva così mutare il processo penale in processo religioso, per il quale i Giudei avrebbero potuto solo scomunicare Gesù e farlo flagellare. Che, se Pilato avesse loro concesso la facoltà di procedere contro di Lui sino alla pena capitale, essi avrebbero potuto lapidarlo come bestemmiatore secondo la loro legge, ma non crocifiggerlo.
Alcuni suppongono che Pilato abbia detto per ironia: Giudicatelo voi secondo la vostra legge, ma dal contesto non appare; egli aveva veramente l'intenzione di liberarsi da quel processo.
I sacerdoti, gli scribi e i farisei, per il loro odio contro Gesù e per togliergli ogni prestigio sul popolo con una morte infamante, avevano deciso nel loro conciliabolo di farlo crocifiggere, e probabilmente avevano già dato ordine di apprestare lo strumento del supplizio. Ad essi non bastava neppure che Pilato desse loro l'autorizzazione di farlo morire; voleva che l'avesse fatto crocifiggere, e questo poteva farlo solo lui. Essi inoltre, con sottile malizia, non vollero addossarsi innanzi al popolo la responsabilità d'una così atroce condanna, perché sapevano quanto Gesù era amato e stimato per le sue grandi opere e per le sue parole; volevano mostrare al popolo che il potere civile l'aveva trovato tanto degno di condanna, da fargli subire il supplizio della croce, come si faceva coi ladroni e coi più grandi malfattori. Ebbero cura anzi, con la scusa dell'imminente ciclo di feste pasquali, di affrettare l'esecuzione capitale di due ladri condannati già alla croce, per accomunare Gesù ai malfattori più tristi. Perciò, alla proposta di Pilato di giudicarlo essi stessi secondo la Legge, risposero che a loro non era lecito di dar la morte a nessuno. Con questo, nota l'evangelista, si adempivano le parole di Gesù, che aveva predetto più volte che sarebbe stato crocifisso (3,14; 8,32; 12,33; Mt 20,19, ecc.). Reclamavano quindi ad ogni costo il giudizio di Pilato non solo perché Gesù fosse stato ucciso, ma perché fosse stato ucciso con la morte di croce.
Sei tu il re dei Giudei?
Pilato, visto che essi erano più che mai decisi e che per indurlo ad assentire alla loro richiesta, accusavano Gesù di sedizione contro l'autorità romana dichiarandosi re dei Giudei, rientrò nel pretorio e, chiamato il Redentore, gli domandò: Sei tu il re dei Giudei? La domanda era come la base necessaria dell'inchiesta che voleva fare per assodare la verità o meno dell'accusa fattagli. Se Egli fosse stato realmente re dei Giudei per legittima discendenza, l'accusa aveva un fondamento, e diventava compromettente per Pilato innanzi a Cesare il non prenderne conto, giacché un vero re, per quanto spodestato, poteva realmente essere nel popolo un elemento di rivolte e di rivendicazioni nazionali. Se non fosse stato re per discendenza, ma avesse egli preso quel titolo, allora sarebbe stato meno pericoloso, e sarebbe bastato infliggergli una pena infamante, come la flagellazione, per farlo desistere. Pilato poi non poteva ignorare, benché forse la conoscesse confusamente, l'aspirazione degli Ebrei al Messia e quindi era per lui importantissimo l'assodare se Gesù era il re aspettato, o se si proclamasse tale Egli stesso, per una strana ambizione; perciò gli domandò: Sei tu il re dei Giudei?
La domanda di Pilato in realtà era confusa, e comprendeva tutti insieme i sospetti ch'egli aveva, e Gesù, nella sua altissima sapienza, volle che fosse precisata per rispondergli in modo inequivocabile. Perciò gli disse: Dici questo da te stesso, oppure altri te lo hanno detto di me? Se, infatti, Pilato gli avesse fatto quella domanda per un suo sospetto, la parola re aveva il valore di rivendicatore politico; se egli invece l'avesse fatta perché altri gliene avevano parlato, quella parola poteva avere o il valore di sobillatore o quello di Messia, a seconda che quelli che gliene avevano parlato erano nemici o amici suoi.
Gesù Cristo sapeva bene, per la sua scienza infinita, in qual senso Pilato l'aveva interrogato e, se gli fece quella
domanda chiarificatrice, la fece non per essere illuminato Lui, ma per illuminare Pilato. Scelse quella forma interrogativa e dubitativa per indurre il preside alla riflessione, giacché quegli, per carattere, prendeva le cose superficialmente, e lo aveva interrogato se era re confondendo in uno la sua discendenza regale, l'accusa che gli avevano fatto di proclamarsi re contro Cesare, e l'accusa di proclamarsi il Messia aspettato, Figlio di Dio. Egli non poteva rispondere senza costringere Pilato ad uscire da quella confusione.
Il preside però, da autentico romano, disdegnando di mostrarsi interessato alle vicende d'un popolo soggiogato, e mostrando di interrogarlo unicamente sulla base delle accuse fattegli, soggiunse: Sono io forse Giudeo? Potrei io mai interessarmi se tu sei re o non lo sei? Anche se tu lo fossi non saresti sotto il mio potere, come capo di una nazione vinta? Se interrogo dunque lo faccio non perché tema o m'interessi di un re dei Giudei, ma perché la tua nazione e i pontefici ti hanno deferito a me q ti hanno accusato di sobillazione; ora tu dimmi che hai fatto? Che cosa c'è di vero in quest'accusa? Hai veramente congiurato contro Cesare?
Il mio regno non è di questo mondo
Alla specifica domanda sull'accusa di sobillazione Gesù rispose con una solennità veramente regale, escludendola con un argomento inoppugnabile: Il mio regno non è di questo mondo; se fosse di questo mondo il mio regno, i miei servi certamente avrebbero combattuto perché non cadessi nelle mani dei Giudei; ora poi il mio regno non è di qua. E necessario approfondire queste grandi parole di Gesù per non fraintenderle. Egli non disse: Io non sono Re di questo mondo, ma il mio regno non è di questo mondo, cioè io non sono re come lo sono i re della terra che conquistano il regno con le armi e lo conservano con la forza. Il mio regno non è di qua, non viene cioè dalla terra, non è frutto di un diritto temporale, ma viene dal diritto divino, ed è un regno di umore e di pace, un regno di anime, che non ha nulla di comune con i regni del mondo. Egli sta al di sopra dei regni e dei re terreni, anche loro malgrado, e vi sta visibilmente per il suo vicario, il Papa: Egli domina non per sottoporre i sudditi ad un regime d'oppressione, ma per elevarli nella verità e condurli con Lui nell'eterna gloria. Per questo, a Pilato che nelle sue parole avvertì una regalità veramente grande, e impressionato gli disse: Tu dunque sei re? — rispose — Tu lo dici, io sono Re. Io per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce.
Era un orizzonte troppo magnifico per essere capito da Pilato, che, come governatore, viveva di politica, ossia di doppiezze e di menzogne. Al regno politico Gesù opponeva il regno dell'intelligenza e dei cuori, che è regno di vera libertà, di vera uguaglianza innanzi a Dio, e di vera fraternità soprannaturale. I regni terreni sono fondati sulla forza e sulla violenza, di modo che i sudditi non seguono la verità ma l'imposizione, non sono conquisi dall'amore ma dalla forza; il regno di Gesù Cristo invece è verità splendente che conquide la mente, è luce che guida la volontà al bene ed ai beni eterni, ed è amore che affascina nell'amore.
Libero, Barabba!
Pilato non poteva capire questa grande visuale di vita nuova, credette di trovarsi innanzi ad un idealista o ad un filosofo, ed esclamò in tono ironico: Che cosa è la verità? Egli stava da mane a sera a contatto di bugie, di doppiezze, sapeva per esperienza di governo quanto fosse difficile il poter sapere una verità, aveva egli stesso coscienza di dire un mondo di bugie tanto nella sua vita privata che pubblica, e le parole di Gesù gli parvero una grande utopia. Che cosa è la verità, egli voleva dire, se tutti la deformano a modo loro? E come mai tu puoi ancora illuderti che ci sia chi segue la verità, se tu stesso
sei trascinato innanzi a me sotto un cumulo di accuse false? Ad ogni modo quella risposta di Gesù, detta con tanta maestà e convinzione, persuase Pilato ch'Egli era un uomo retto, e che non avrebbe mai osato congiurare contro i Romani, dato che ogni congiura è sempre a base d'imbrogli. Capì che un uomo così retto e franco non aveva potuto dire di sé una cosa falsa né aveva potuto contrastare la stessa legge dei Giudei; sentì nelle sue parole l'accento dell'innocente che non si confonde innanzi al giudice, ma ha anche la forza di sostenere le sue opinioni, e perciò, uscendo nuovamente sulla loggia del pretorio, disse al popolo: Io non trovo in Lui nessuna colpa. Disse questo e guardò con occhio scrutatore la massa del popolo che in quel momento, sorpresa da questa testimonianza precisa, taceva. Non aveva detto Gesù sfidando tutti, una volta: Chi di voi mi riprenderà di peccato?
Il popolo rimase come interdetto perché in realtà non poteva rimproverare nulla a Gesù, ed assentiva in cuor suo alle parole del preside. Gli stessi sacerdoti, scribi e farisei rimasero per un momento disorientati, vedendo fallito tutto il loro piano. Pilato interpretò il silenzio del popolo e il disorientamento dei suoi capi come un momento di simpatia o d'indecisione dando peso solo alla propria asserzione, credette di averli inchiodati e confusi; s'aspettava di vederli subito sbandati, senza più insistere sulla loro richiesta, ma da uomo navigato in politica com'era, capì pure che, soprattutto per i capi, sarebbe stato disonorante ritirare l'accusa, e perciò ricorse ad un espediente che poteva liberare lui da quell'impiccio, e poteva accomodare tutto senza l'umiliazione dei capi del popolo: era uso che nella solennità di Pasqua il governatore liberasse un reo dal carcere e dalla pena, a richiesta di popolo, in memoria della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù dell'Egitto; egli, appellandosi a quest'uso, domandò: Volete che vi lasci libero il re dei Giudei? Propose come liberazione d'indulgenza quella che doveva essere liberazione di giustizia; pose a confronto
di Gesù un ladro ed un omicida, perché non ci potesse essere esitazione sulla scelta, e cercò di lusingare anche il sentimento nazionale del popolo, dicendo che voleva liberare il loro re. Egli infatti s'era persuaso che Gesù era il legittimo discendente dei re di Giuda, perché nel giudicarlo, com'è ovvio, aveva prima di tutto stabilito le generalità del supposto reo, ed aveva saputo che era della famiglia di Davide. Egli non avrebbe domandato a Gesù una seconda volta: Tu dunque sei re? senza avere avuto un fondamento nella sua supposizione; sarebbe stato strabiliante per un preside romano fare sul serio questa domanda ad un sobillatore qualunque, accusato di tentata usurpazione della regale potestà. Pilato s'attendeva un esito certo dalla sua proposta, e ritto sul suo podio guardò la massa del popolo ed attese la risposta. S'accorse certamente della manovra bieca dei sacerdoti, degli scribi e dei farisei, che eccitarono il popolo a reclamare Barabba, e con disgustosa sorpresa sentì formidabile il grido di quella canaglia venduta e inviperita: Non già costui ma Barabba. L'evangelista nota con un senso di profonda pena e di profondo disgusto: Barabba poi era un ladrone. Era l'epilogo più ripugnante dell'umana ingratitudine verso Colui che era passato beneficando e sanando tutti!
6.  Il regno di Gesù Cristo e l'atteggiamento dell'umanità dinanzi a Lui
La solenne proclamazione che Gesù fa innanzi a Pilato, cioè innanzi al potere civile e militare, del suo regno di verità e di amore, c'induce a meditare, poiché la nostra aspirazione e quella dei popoli non può essere che il regno di Gesù Cristo. In un momento storico di primissimo ordine, nel quale il regno del mondo si sfascia dalle fondamenta, è di suprema
importanza volgere gli occhi al vero, unico ed eterno Re, nel quale soltanto è riposta la speranza del mondo.
Noi siamo all'aurora, anzi all'alba del regno del Re divino sulla terra, ed abbiamo necessità di liberarci dalle illusioni di altre regalità che, dolorosamente, hanno portato e portano nel mondo la strage, la miseria e la schiavitù.
Possiamo dire, senza timore d'errare, che proprio ora che il regno di satana appare trionfante in quelli che sembrano padroni della terra ed irrompono con irresistibile potenza di stragi, proprio ora il suo regno si sfascia, ed appare sui colli della Chiesa l'iride del regno di Dio. I mestatori che hanno insanguinato ed insanguinano la terra, saranno stupefatti di essere stati solo involontari servi del regno di Dio.
Noi possiamo vedere in tutto questo capitolo come uno schizzo dello sviluppo di questo regno nei secoli, e di fronte ad esso l'atteggiamento dei popoli, la cui nota dominante è sempre l'ingratitudine e la scempiaggine. L'umanità ha dato prova di un'asinità della forza di centomila cavalli in tutto il percorso della sua storia, e s'è fatta sempre turlupinare. È incredibile! Mille volte è stata disillusa, e mille volte, con gli stessi metodi e le stesse violente intemperanze, ha applaudito ai suoi idoli, credendoli salvatori.
La sua stolta preferenza non s'è smentita mai e, come i Giudei, ha gridato sempre l'evviva incosciente ai Barabba, omicidi e ladroni in grande stile.
Il Redentore, e per Esso la Chiesa ed il Papa, sono stati sempre oggetto di ribellione, e per essi s'è gridato sempre: Non questi, ma Barabba, Barabba omicida e ladrone!
Gesù Cristo, dopo avere istituito l'Eucaristia, l'ammirabile Sacramento della sua regalità d'amore, passò coi suoi discepoli al di là del torrente Cedron, ed andò nell'orto degli ulivi. Cedron significa torbido, oscuro, ed indica tanto bene il primo cammino del regno di Gesù Cristo nel mondo, sviluppatosi nelle torbide lotte dei primi secoli e nell'oscurità delle
catacombe. Fu questo il vero Cedron per la Chiesa, travolta come da un torbido ed oscuro torrente nelle persecuzioni, e raccolta col Redentore nell'orto della preghiera.
Giuda sapeva il luogo dove Gesù s'era raccolto; Giuda che s'interpreta lodato, pur essendo ignominia vivente. Egli andò nell'orto con la coorte, le guardie, i capi dei sacerdoti e dei farisei, e vi andò con lanterne, fiaccole ed armi, per tradire e catturare Gesù. Il mondo lodato sempre per le sue gesta ignominiose, combatte il regno del Redentore con la coorte, cioè con la violenza delle sue leggi, e con le guardie, cioè coi suoi sbirri, ministri di soprusi e di sopraffazioni. Si serve dei sacerdoti infedeli, e dei farisei, cioè dei traviati e degli ipocriti e falsi cristiani, per la sua lotta, ed avanza con lanterne, fiaccole ed armi, cioè con le pretese luci della scienza e della civiltà, che non tendono a far luce nella notte, ma solo a facilitare l'irrompere contro Gesù e la sua Chiesa con la violenza delle persecuzioni.
Il mondo però non vince, è sempre prostrato a terra dalla parola di Gesù, il quale è sempre Lui e non muta: Sono Io!
Ma quando Dio lo permette, il mondo par che si rialzi dalle sue sconfitte, e per poco ha la prevalenza. In questi momenti friggono perfino i più fedeli, e Gesù sembra lasciato solo, in balìa degli empi. La reazione dei buoni è fiacca come quella di Pietro, che ferì Malco e poi se ne fuggi; è inetta per il rispetto umano ed il timore, che fa rinnegare il Re divino innanzi alle minacce ed allo scherno del mondo.
È questo il tempo nel quale la miscredenza fa i processi al Redentore per negarne la divinità, e nel quale tanti fedeli si accomunano agli empi per timore umano.
Non c'è persecuzione del potere civile che non sia preparata da un dissolvimento della pietà e santità sacerdotale
Il primo processo contro il Re divino, bisogna confessarlo, è fatto dai suoi ministri infedeli e cattivi, perché non c'è persecuzione del potere civile che non sia preparata da un dissolvimento della pietà e della santità sacerdotale. Se i sacerdoti fossero tutti santi, chi oserebbe combattere la Chiesa? Il potere civile, quand'è apostata e miscredente, riguarda Gesù come un essere pericoloso, e riguarda la Chiesa alla stessa stregua. S'accorge certamente di errare, perché è assurdo scambiare per delinquenti i fautori dell'ordine e della pace, ma, come Pilato, sobillato dai perfidi e dalle sette, finisce sempre per condannare Gesù e la sua Chiesa, o per tenerli in ceppi e vigilarli come se fossero un pericolo nazionale. È questa la tristissima storia del mondo che si ripete sempre con gli stessi caratteri.
Come Pilato, il potere civile a volte riconosce in Gesù e nella Chiesa una certa regalità, cerca di venire ad un accordo, ad un compromesso ad un modus vìvendi, ma poiché lo fa nel proprio tornaconto e non per la giustizia e per la verità, finisce sempre per dare la prevalenza al male, e per rendersi ingiusto.
L'esperienza dimostra quanto siano fragili ed elastici concordati e patti che il potere civile fa con la Chiesa, pronto sempre a violare la parola data, ed a sopraffarla fino alla croce, fino a segnarne con le inique leggi e con la pretesa d'imporre errori ed immoralità, la sentenza di morte.
per questo è odiata da loro. Nelle ingiustizie che commettono, si trovano sempre davanti la parola della infallibile verità che li confonde e, quando credono di averla sopraffatta, spariscono come paglia innanzi al vento, travolti dalla potenza di Dio.
Ed il popolo che cosa fa nelle vicende dei regni e degli stati? Si lascia costantemente turlupinare, grida evviva ai ladri ed agli assassini, ed irrompe contro Gesù Cristo, lasciandosi trascinare dai mestatori. E una storia dolorosa che viviamo continuamente, ma che dolorosamente non insegna nulla alle masse, traviate dalla parola ingannatrice e dal denaro dei suoi traditori. Irrompendo contro Gesù, il popolo peggiora sempre la propria situazione, e cade di miseria in miseria.
Quando entrò Garibaldi a Napoli, il popolo cantava: Ognuno di noi avrà un pollo a mensa ed un marengo d'oro in tasca... viva Garibaldi! Ed ebbe la miseria e la fame.
E storia che ormai può cominciarsi a dire un po' liberamente. E noto quello che è avvenuto in altri paesi, dove gl'idoli del tempo promisero al popolo nientemeno che il paradiso in terra, se avesse rinnegato Dio. E il popolo dette il suo grido blasfemo, gridò evviva ai Barabba, ladri ed assassini, ed ebbe l'Inferno spietato della miseria con la tirannia più esosa. Nessun regime può avere la garanzia della verità e della giustizia, se non è sottomesso ed ossequente alla Chiesa; nessun uomo politico è veramente tale se non capisce che al di sopra dei regni della terra c'è il regno di Dio. Desideriamo una sola cosa: la gloria ed il trionfo della Chiesa, e ripariamo per conto nostro tutte le ingiurie ch'Essa riceve dai cosiddetti grandi del mondo.
La Chiesa non può tradire perché è il regno della verità; anche quando qualche suo capo lasciasse a desiderare, non potrebbe mai giungere agli eccessi dei tiranni, perché la verità finirebbe per avere sempre il sopravvento, e con la verità la giustizia e la carità.
Sac. Dolindo Ruotolo

Nessun commento:

Posta un commento