2. Gesù è flagellato, Gesù è coronato di spine!
Quando Pilato constatò che il popolo era così ingrato e sanguinario da preferire un ladro e un assassino a Gesù, e da reclamare la morte dell'innocente, vedendo il tumultuare incomposto e sfrenato di quella plebaglia, temette una sedizione, e credette opportuno fingere di contentarlo, condannando Gesù alla flagellazione che soleva precedere la crocifissione. Egli in realtà non aveva intenzione di condannarlo a morte e sperava che dopo quel supplizio, che a posta gli fece subire in pubblico, il popolo avesse desistito dalla sua ferocia, appagato d'avere avuto soddisfazione.
Il supplizio al quale condannò Gesù era atroce: il condannato veniva legato ad una colonna in modo che il corpo fosse ricurvo e la pelle ben tesa affinché i colpi di verga od i flagelli di cuoio, terminanti con ossicini o con palline di piombo, ne avessero fatto scempio. Per Gesù furono scelti i flagelli piombati, come appare chiaro dalle impronte della santa Sindone. Per legge i colpi erano numerati, quarantanove colpi; ma quando si trattava di un colpevole per il quale il popolo reclamava una punizione esemplare i colpi non si numeravano. Pilato, com'è evidente dalla crudele coronazione di spine, lasciò Gesù in balia dei soldati, i quali nella loro rozza mentalità guerriera, credettero vendicare su di un Giudeo tutte le noie e i disprezzi che avevano dal popolo.
Gli orrori del militarismo
Oggi, in piena follia militarista e guerriera, noi stentiamo a farci un concetto di quello ch'è un soldato in pace ed in guerra. Abituati ai soliti luoghi comuni, ed ubriacati dalle spampanate d'un eroismo falsato, non possiamo vedere le cose come sono, e crediamo alte virtù le manifestazioni della brutalità più ripugnante.
Gesù Cristo non senza una divina ragione ha voluto su di sé l'impeto bestiale dei soldati per espiarlo.
E necessario considerare la psicologia militare nei capi e nei gregari, in pace e in guerra, per avere una certa idea di quello che fu l'irruenza militare contro Gesù. Lo facciamo nella maniera più sintetica che ci è possibile, benché
l'argomento richiederebbe una profonda meditazione. L'umanità dovrà un giorno vergognarsi del militarismo, e ricordarsi che l'eroismo vero è una cosa ben diversa dalla irruenza bestiale di chi dimentica di essere uomo e cristiano, e scende al disotto del livello dei bruti.
I militari appaiono come il tipo della disciplina e dell'ordine. Al vederli marciare, infatti, ed al considerarli nell'esecuzione degli ordini che ricevono, si ha questa impressione, che in realtà è falsa.
Riuniti come accozzaglia di gente, diversa per indole, per educazione e per sentimenti, i soldati sono quanto di più indisciplinato possa concepirsi, nell'anima, nei costumi, nell'ossequio alle leggi e nel timore di Dio. Ecco, per esempio, un militare sull'attenti alla presenza di un superiore che lo redarguisce: sta lì piantato come una colonna, e può rispondere semplicemente un signor sì e un signor no; saluta e si ritira, in ordine perfetto, ma quante imprecazioni e quante irruenze sono fiorite in quell'anima! Egli crede, e a volte con fondamento, che il generale sia un asino, il colonnello un uomo brutale, il tenente un tirannello, il caporale un cagliostro, e passa la giornata nelle meditazioni o dell'ira o della vendetta, pronto a sfogare la sua accumulata brutalità, appena ne ha il destro. Il comando naturalmente esige solo una disciplina materiale ed esterna.
I capi, in generale, salvo la bontà individuale dei buoni, sono persone occupate tutte in cose materiali e spesso brutali, poiché, educati alla violenza, non sanno pensare che a raffinarla per la guerra, salvo poi a credere quasi un onore della loro vita l'immoralità59. Si può dire dolorosamente, senza esagerazione, che la bestemmia è la meschina preghiera d'un militare, l'abuso disordinato dei sensi ne è la prevalente occupazione, e l'ozio ne è il coronamento. L'esercito è una grande ipocrisia collettiva, religiosa, morale e patriottica. Non parliamo degli onesti tutelatori dell'ordine, parliamo dell'esercito come lo si concepisce oggi, massa che non ragiona e non ha senso morale, ma che segue per timore l'indirizzo di un qualunque facinoroso che riesce a servirsene per i suoi fini.
Il soldato non fa che maneggiare armi, e poiché il bersaglio di queste è la vita umana, finisce per credere quasi nulla il valore ed il diritto della vita. Per questo in guerra, o nelle azioni che hanno del guerriero, diventa crudele, spietato, feroce, e lo diventa tanto più impunemente e senza rimorso, in quanto la sua ferocia è riguardata come eroismo, ed è premiata con medaglie al valore. In realtà il soldato in guerra non tende che a salvare la propria pelle, e tutte le forme del suo eroismo hanno quasi sempre questa caratteristica ultraegoistica. I casi di vero eroismo sono solo quelli nei quali ci si sacrifica per salvare gli altri. Uccidere non è eroismo, distruggere subdolamente non è grandezza, tendere un tranello non è il gesto di un cuore superiore. Se si enumerassero gli episodi di crudeltà spietata di tanti pretesi eroi, ne verrebbe fuori una storia di orrori da far rabbrividire!
Finché vi saranno generazioni educate alla guerra, non vi sarà mai pace nel mondo
Non parliamo delle prepotenze, delle impurità, dei furti qualificati, delle ingratitudini nere, e di quanto accompagna un'azione di guerra; parliamo solo di quello che si chiama valore. Uno segnato di medaglia, bisogna confessarlo perché l'umanità se ne vergogni, spesso è un assassino più in grande. Quella medaglia stilla sangue ed è un segno di futura vendetta della giustizia di Dio.
Questa è la realtà e, senza vederla in faccia con coraggio, non si avrà mai pace nel mondo, e non si farà mai ricorso alla giustizia ed alla ragione per dirimere le questioni dei regni e delle nazioni. Finché vi saranno generazioni educate alla guerra, ci saranno masse ebbre di avventure di sangue, illuse da un eroismo ch'è barbarie ripugnantissima. Il soldato è un flagello più devastatore di un uragano; dove passa lascia la distruzione e la morte. Ora questo non è eroismo, è devastazione brutale. Un popolo guerriero è sempre un popolo di livello inferiore, come dolorosamente si constata in tutta la storia umana. Anche individualmente parlando, il soldato, lasciato libero di offendere, ferire e massacrare, è più crudele di una belva. Non si difende solo, ma si diverte od impazzisce nella crudeltà, come si divertono ragazzacci brutali a tormentare un gatto, un topo, una lucertola. Sono sadici nel sangue, e trascendono a crudeltà spietatissime, fino ad incrudelire contro i feriti e i morenti, come si vide nella prima guerra mondiale, e come si vede in questa seconda, mille volte più crudele della prima. La crudeltà militare diventa un divertimento sadico e impuro, quando non ha freno alcuno, e si sfoga anche sui condannati, specie su quelli che debbono morire. Bisognerebbe verbalizzare le irruenze spaventose consumate nelle caserme, nelle carceri e nei posti di guardia.
Il vero eroismo
L'eroismo è un'altra cosa: è la bontà che si dona, è carità che soccorre, è generosità che perdona; è vittoria sui sensi propri, è sacrificio di ciò che di brutale affiora nella natura disordinata, è immolazione della propria volontà e della propria stessa ragione per amore di Dio e per amore del prossimo. L'eroismo è virtù, non è irruenza di forza brutale; è bontà, non è ira, è purità, soprattutto è purità, non è abiezione che giunge sino alla profanazione della vita. L'umanità deve rivedere l'albo dei suoi eroi, specie oggi, e spezzare le medaglie che hanno sanzionato l'assassinio. Deve ritornare all'eroismo dei santi, i soli, i veri, i purissimi eroi che ha nella sua storia obbrobriosa.
La gioventù non dev'essere educata al pugnale ed alla bomba a mano, ma alla bontà ed alla carità.
Un governo di amore e di timore di Dio, vale mille volte più che un governo armato fino ai denti, la cui legge di giustizia è la forza. Se non si smobilitano gli animi, e se non si ritorna allo spirito cristiano vero, non ritornerà la pace nel mondo. I Papi, veri padri dei popoli, lo hanno detto chiaro: non si educano i giovani impunemente alla violenza, né si fabbricano invano armi, proiettili e bombe; questo porta alla guerra, e la guerra è distruzione, non è civiltà; è crudeltà, non è virtù; è abbrutimento, non è eroismo. I popoli guerrieri scrivono pagine di obbrobrio mille volte più truci di quelle dei cannibali, sotto una lustra di progresso e di grandezza; disdegnano divorare gli uomini, e li fanno divorare dal ferro e dal fuoco!
Gesù vittima espiatoria del militarismo brutale
Gesù Cristo fu dunque lasciato da Pilato in balia dei soldati romani; educati al militarismo brutale, si sfogarono sull'innocentissimo Agnello e ne fecero scempio crudele nella flagellazione. E quando l'ebbero ridotto tutto una piaga, vollero divertirsi, i crudeli, ed intrecciata una corona di acute e pungentissime spine, gliela posero e gliela calcarono violentemente sul capo, dopo averlo vestito con uno straccio di porpora. Gesù era il loro trastullo; lo ingiuriarono, lo derisero in quella parodia di regalità, e salutandolo re dei Giudei lo percossero con brutalissimi schiaffi. Era una scena orribile, dolorosissima per Gesù, il cui capo sanguinava da ogni parte! Egli taceva e pregava, raccogliendo su di sé tutti i delitti del militarismo brutale, e preparando con la sua incoronazione crudele la pace all'ingratissima umanità.
Quella corona doveva rimanere per sempre il segno regale del Re d'Amore, e doveva riparare le colpe e i delitti delle terrene regalità. Bisogna confessare che sul capo adorabile di Gesù qualunque altra corona disdice; questa sola è la sua corona, perché Egli ha preso per sé tutte le nostre spine, e ci ha dato tutto il suo amore. Il suo aspetto intenerisce, il suo sguardo conquide, la sua corona affascina, e non c'è peccatore che non provi rimorso d'averlo offeso, vedendolo coronato di spine.
Oh, se i re e i capi di stato sapessero ispirarsi a questa divina regalità d'amore, se sapessero dominare solo immolandosi nella carità, come hanno fatto i santi Re, quanto sarebbe meno infelice la terra!
Ecco il vero eroismo: immolarsi, riparare, perdonare, amare; ecco la vera regalità: dominare con la carità e col sacrificio di se stesso! Ecco il vero prestigio regale: la pace, il compatimento, la remissività, la beneficenza, la bontà! O Gesù, coronato di spine, disinganna la povera umanità in tutte le sue pazzie omicide; regna Tu solo sui regni e sui popoli, e donaci la pace sotto lo scettro del tuo amore!
3. Ecce homo! Ecco l'uomo
Pilato lasciò libertà ai soldati di tormentare Gesù, nella stolta speranza di ridurlo in uno stato pietoso, e vincere così l'efferatezza del popolo. Ora, quando se lo fece ricondurre davanti e lo vide ridotto a quel modo, uscì di nuovo sulla loggia del pretorio, e disse al popolo tumultuante: Ecco, io ve lo conduco fuori affinché intendiate che non trovo in Lui colpa alcuna. Avvertì prima il popolo per richiamarne l'attenzione, e per fare poi colpo su di lui presentando Gesù. Difatti alle sue parole si fece gran silenzio, ed egli, per mostrare in un contrasto eloquente quanto fosse ingiusto il popolo a reclamare la morte di quell'innocente, ne proclamò prima l'innocenza, e poi lo mostrò com'era ridotto, per dire: ecco in quale stato l'ho ridotto per compiacervi, pur essendo Egli senza colpa. Ora non posso concedervi di più né voi potete reclamare di più contro un poveretto che non ha più sembianze di uomo. Questi sentimenti Pilato li espresse con una sola parola: Ecco l'uomo, ecce homo.
Egli senza volerlo presentò in Gesù quello che era l'uomo che Gesù veniva a redimere; tutto piaghe di colpe e di pene, coperto di obbrobrio ed incapace di salvarsi da sé. Ecco l'uomo, ecco in quale stato è ridotto per il peccato, ed ecco in quale stato s'è ridotto il suo Redentore per salvarlo! La parola di Pilato rimase come scolpita sull'appassionato Signore, e da allora, nei secoli, il Redentore coronato di spine e di obbrobrio per amore è stato chiamato: Ecce Homo.
Quando i pontefici e le guardie dei pontefici videro Gesù, insensibili allo scempio che se ne era fatto, maggiormente lo disprezzarono, e perché non fosse sfuggito alla morte obbrobriosa alla quale ad ogni costo volevano condannarlo, gridarono: Crocifiggilo, crocifiggilo. Non fù il popolo a gridare per primo, perché al vedere il Signore in molti nacque un sentimento istintivo di compassione, ma furono i sacerdoti, i quali poi istigarono il popolo. Pilato, sommamente disgustato di quello spettacolo di odio e di crudeltà, rispose con ironico disprezzo a quel grido di morte: Prendetelo voi e crocifiggetelo, poiché io non trovo in Lui colpa alcuna. Egli voleva dire: voi reclamate la sua morte contro il mio giudizio? Ebbene crocifiggetelo voi se lo potete; quanto a me non ve ne dò autorizzazione perché lo trovo innocente.
I Giudei, cioè i sacerdoti, videro che avevano perduto il processo penale politico, dal quale attendevano la certa condanna di Gesù, ed abbandonando le accuse che prima avevano formulate, cercarono di cambiare la causa da politica in religiosa ed esclamarono: Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire perché s 'è fatto Figlio di Dio. I Romani, infatti, lasciavano che i popoli vinti continuassero a governarsi con le loro leggi nazionali in ciò che non contrastava col loro potere; ora la Legge (Lv 24,16) condannava a morte i bestemmiatori, e i sacerdoti si appellarono ad essa, accusando Gesù di bestemmia perché s'era dichiarato Figlio di Dio.
I diritti del potere civile, i diritti del potere religioso
Pilato aveva notato in Gesù qualche cosa di straordinario, e ne era rimasto impressionato; il suo aspetto, la sua maestà, il suo atteggiamento e la sua calma e pazienza l'avevano convinto di trovarsi innanzi ad un essere straordinario; gli stessi sogni tormentosi della propria moglie l'avevano confermato in quella sua impressione. Pagano poi com'era, stava nella sua mentalità che gli dèi potevano discendere in terra, avere dei figliuoli, e compiere in terra sotto forme umane cose eccezionali. Ora, quando senti che Gesù s'era dichiarato Figlio di Dio, fu preso da un senso di timore religioso, e maggiormente si impaurì, temendo di condannare una divinità, e di attirarsi addosso qualche brutto flagello; perciò rientrò nel pretorio, e fissando in volto Gesù, gli domandò: Di dove sei Tu?
E voleva dirgli: vieni tu dalla terra, o sei veramente un Essere disceso dal cielo? Gesù non gli rispose perché Pilato non era in grado di capire la verità altissima dell'Incarnazione del Verbo, e tacque. Il preside ne fu contrariato grandemente, in proporzione dell'ansietà che aveva avuta nel fargli quella domanda, e sospettò in quel silenzio una certa confessione di colpabilità. Questo, psicologicamente, gli fece sentire la propria superiorità giuridica e il diritto che aveva di interrogarlo e di sapere la verità; perciò, passando improvvisamente da un senso di timore superstizioso a quello di autorità, disse: Tu non mi parli? Non sai che ho il potere di crocifiggerti e il potere di liberarti? Con questo confessava la propria colpa nel non imporsi al popolo e ai sacerdoti, e liberarlo, giacché confessava di averne il potere. Gesù rispose con calma divina: Non avresti alcun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo colui che mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te. Con questa risposta Gesù indirettamente gli disse ch'Egli era un personaggio straordinario; questo solo poteva fargli capire, e rispose perché Pilato si appellò al principio di autorità. Obbediente sino alla morte, Gesù volle obbedire anche all'autorità civile, che pur veniva da Dio. Egli disse implicitamente: Io non sono un uomo qualunque, come potresti credere né sono sottoposto al tuo potere come un suddito, ma se tu hai ora su di me una potestà, questa ti viene permessa semplicemente dall'alto, e senza questa permissione né tu né i miei nemici potrebbero nulla contro di me.
Dal punto di vista religioso poi, che è in questo momento l'oggetto del tuo interrogatorio, tu non hai alcun potere neppure se mi riguardi come tuo suddito perché questo spetta al potere sacerdotale; perciò il Sommo sacerdote, che credendo di giudicare da sacerdote mi ha dato nelle tue mani ingiustamente, è più colpevole dì te perché abusa di un potere vero, che ha ricevuto da Dio solo per far risplendere la verità. Egli poteva giudicarmi perché doveva assodare di autorità se ero veramente
Colui che era stato promesso; ma per far questo giudizio, avrebbe dovuto considerare gli argomenti di verità e di credibilità che io ho dati; egli invece ha giudicato solo che ero degno di morte, e l'ha fatto per malignità e per calcolo di opportunismo.
Come sacerdote, in un giudizio religioso non avrebbe dovuto consegnarmi all'autorità civile e militare né avrebbe dovuto così riconoscere la sopraffazione di questo potere su quello religioso. La sua colpa poi è maggiore della tua, perché tu mi condanni senza saper nulla di ciò che ho fatto per confermare la mia missione, e di ciò che ha fatto Dio per annunziarla e prepararla nei secoli, mentre il Sommo sacerdote questo lo conosce e lo deve conoscere.
Con la sua risposta breve e sintetica, Gesù volle distinguere bene i diritti del potere civile da quello religioso; volle far capire a Pilato che se non ci fosse stato un disegno permissivo di Dio, egli non avrebbe potuto giudicarlo, poiché la questione del Messia era di competenza dell'autorità religiosa; questa aveva il potere di giudicarne, ma abusandone per rinnegare la verità anziché riconoscerla, si rendeva reo di una colpa immensamente più grande di quella che egli commetteva condannandolo innocentemente per opportunismo politico.
«Se liberi costui, non sei amico di Cesare!», urla il sinedrio
Pilato sentiva nella risposta di Gesù un accento di maestà e di giustizia che lo colpì; capì ch'era un Essere superiore, e che ad ogni costo doveva liberarlo. Egli si sentì tanto più spinto a questo, in quanto che vedeva in quale stato aveva ridotto un innocente. Uscì quindi fuori nuovamente, e dovette senz'altro dire che ne avrebbe ordinato la liberazione come appare dal contesto. Il sommo sacerdote infatti e gli altri che erano con lui, appena s'accorsero che Pilato era deciso a liberarlo, portando di nuovo la questione nel campo politico,
gridarono: Se liberi costui non sei amico di Cesare, poiché chiunque si fa re, va contro Cesare. Era il colpo definitivo.
Pilato conosceva bene il carattere sospettoso dell'imperatore Tiberio che allora regnava. Questi puniva severissimamente i delitti di lesa maestà, e cadere in sua disgrazia era lo stesso che essere condannato a morte. Sapeva inoltre a prova il carattere intrigante delle persone del sinedrio, e ne aveva un argomento troppo chiaro nel processo medesimo di Gesù; non credette perciò di potersi più opporre alla volontà dei nemici del Redentore senza compromettere positivamente se stesso e, fatto venire fuori Gesù sedette solennemente in Tribunale, sedendo in un trono elevato su di un pavimento a mosaico, chiamato perciò Litostrato, e in aramaico Gabbatà, cioè rialto, per pronunziare la sua sentenza. Era il giorno di Parasceve, nota l'evangelista, cioè il giorno della preparazione precedente il sabato pasquale. Alla sera di questo giorno gli Ebrei mangiavano la Pasqua, ed avevano premura di sbrigarsi, benché fosse ancora circa l'ora sesta, cioè il mezzogiorno.
Pilato cede: Gesù è condannato alla morte di croce
Pilato mostrò di assentire alla loro richiesta, ma molto a malincuore, e poiché nel frattempo pareva che l'agitazione della moltitudine si fosse sedata, giacché tutti erano intenti a quello che egli faceva; sperò ancora di riuscire a liberare Gesù, o per lo meno volle manifestare ancora una volta il suo sentimento sulla sua innocenza ed esclamò; Ecco il vostro re. Ma la turba inferocita ed agitata cominciò di nuovo a gridare: Toglilo via, toglilo via, crocifiggilo. E Pilato, quasi volendo eccitare il loro sentimento nazionale, gridò: Crocifiggerò io il vostro re? Ma i pontefici, più maligni di tutti, immediatamente gli stroncarono la parola sulle labbra, dicendo: Noi non abbiamo altro re che Cesare. Con queste ignobili parole essi che avevano detto necessaria la morte di Gesù per salvare l'integrità della nazione, essi che s'erano eretti come difensori del giudaismo, rinnegavano le loro speranze messianiche, la loro storia, la loro dignità, e si davano in pieno dominio dello straniero. Pilato ne fu sconcertato, e poiché non poteva opporsi ad un sentimento così pieno di servitù all'imperatore, si lavò le mani innanzi a tutti, come racconta san Matteo (27,24-25), e volle con questo gesto definitivamente dichiararsi estraneo al delitto che si voleva commettere. Protestò con un gesto, perché il tumulto del popolo soffocava la sua voce, e senz'altro pronunziò la sentenza iniqua, motivandola proprio con quello che ripetutamente aveva affermato essere falso, e concludendola con le rituali parole solite a scriversi in simili condanne: Condemno, ibis ad crucem.
E la tristissima storia si ripete ogni giorno nel mondo
È la tristissima storia che si ripete ogni giorno nel mondo. L'anima, nel tumulto delle sue passioni, innanzi alla coscienza che si leva per reclamare i diritti di Gesù Cristo, e che lo vuol far vivere in lei, gli grida la morte, ed ignobilmente si dichiara schiava del male.
Le nazioni poi, traviate dalle sette e dalle illusioni di satana, per i loro falsi interessi politici non dubitano di perseguitare la Chiesa e di ripudiare il regno di Gesù Cristo.
Se si ascoltasse l'eco dei peccatori ostinati che si infangano nei peccati, si ascolterebbe continuamente contro Gesù il grido infame che echeggiò nel pretorio: Crucifìgatur, e se si potesse sintetizzare in poche parole la triste storia dell'umana apostasia dalla Chiesa e da Gesù Cristo, si ascolterebbe lo stesso grido: Crucifigatur!
Opponiamo a questo grido l'applauso del nostro amore a Gesù, e diciamo di fronte alla tentazione e di fronte al mondo: o Gesù, vivi Tu solo nell'anima nostra, e sii Tu l'unico nostro Re. Non permettere che ci facciamo illudere dalle passioni e ci facciamo deviare dalle illusioni dei falsi profeti e dalle empietà dei mestatori; rendici tuoi servi fedeli sulla terra e tuoi beati comprensori nel cielo.
4. Il doloroso cammino al Calvario, la crocifissione
Dopo che Pilato ebbe sottoscritta l'iniqua sentenza, consegnò Gesù Cristo ad un centurione che doveva presiedere all'esecuzione, e per esso ai soldati ed ai carnefici che dovevano eseguirla. I sacerdoti, gli scribi e i farisei erano trionfanti, e mal dissimulavano la loro feroce gioia sotto un aspetto di severità ipocrita e di giustizia. Avrebbero dovuto almeno vergognarsi che un loro connazionale, discendente di Davide, salisse l'infame supplizio della croce, ignoto agli Ebrei prima della dominazione romana, e segno infamante della loro oppressione; ma ad essi premeva solo dare a Gesù tal genere di morte, che ne avesse per sempre sfatato ogni prestigio in mezzo al popolo.
Svestirono il Redentore della clamide rossa, e gli riposero le sue vesti, lasciandogli la corona di spine sul capo. Poi, siccome i condannati portavano essi stessi a maggiore obbrobrio o tutto lo strumento del loro supplizio, o almeno una parte, gli caricarono sulle stanche e piagate spalle la croce, tra insulti, percosse e derisioni di ogni genere, ed ordinarono il crudelissimo corteo.
Il testo evangelico è di una laconicità impressionante, non si dilunga in nessun particolare; ma quanta tragedia di dolore ed epopea d'amore è raccolta in quelle parole: S'incamminò verso il luogo detto Calvario, ed in ebraico Golgota, dove lo crocifissero e con Lui altri due, uno di qua e l'altro di là e Gesù nel mezzo!
La Chiesa segue in spirito il cammino di Gesù al Calvario nella Via Crucis, e si unisce ogni giorno al suo Sacrificio nella Messa. Un cammino di dolore ed un'offerta di amore. Essa ricorda i dolori sofferti dal Redentore in quel cammino penosissimo, nel quale dovette essere aiutato dal Cireneo per non venire meno nel tragitto. Ricorda le angustie del suo Cuore divino, le sue cadute sotto il peso della croce, i maltrattamenti ricevuti, e la crocifissione; ma nessuna rievocazione e nessun ricordo può darci neppure una pallida idea dei dolori da Lui sofferti per nostro amore. L'efferatezza dei suoi nemici non aveva limiti, e la crocifissione ch'era in sé già un crudelissimo e spaventoso supplizio, come lo chiama Cicerone stesso, per Lui, che aveva una delicatissima costituzione fisica, costituì un supplizio raccapricciante.
Il crocifisso, per la distensione del corpo, l'infiammazione delle piaghe e la congestione del sangue alla testa, al cuore ed ai polmoni, soffriva dolori inenarrabili, e la sua agonia si protraeva a volte per giorni, in mezzo a spasimi atroci e ad una sete ardentissima. Gesù, sensibilissimo ad ogni dolore più di qualunque altro per la perfezione del suo Corpo, spasimò per tre ore sul durissimo legno, insultato, vilipeso, e riguardato come un malfattore più emerito tra due ladri crocifissi con Lui. I suoi discepoli erano fuggiti lontano, ad eccezione di san Giovanni che pur era impotente a dargli qualunque conforto. C'erano ai piedi della croce Maria Santissima e alcune pie donne; ma c'erano per angustiarsi soltanto, ed accrescevano con questo la pena al Cuore di Gesù!
La scritta sulla croce
Il mondo era ignaro di quello che avveniva, e del grande mistero c'era solo una lontana indicazione nella scritta posta sulla croce, che Pilato tracciò di propria mano in latino, greco, ed in ebraico, cioè in aramaico, ch'era allora la lingua del paese. La scritta diceva: Gesù Nazareno re dei Giudei. Pilato avrebbe dovuto indicare il motivo della condanna, ma poiché ripetutamente aveva affermato che non trovava in Gesù causa alcuna di condanna, si contentò di scrivere che Gesù era re dei Giudei, adombrando così senza volerlo, con una tabella giudiziaria, la regalità divina del Redentore. Egli, infatti era Re, non solo dei Giudei, ma di tutto il mondo e di tutti i secoli, ed era Re proprio per la sua immolazione ed il suo sacrificio. Le tre lingue nelle quali era tracciata la scritta indicavano l'universalità di quella regalità. Pilato forse la scrisse per fare un dispetto ai Giudei, e quando i pontefici se ne lamentarono risentiti, come di una cosa falsa, ripudiando ancora una volta Gesù come re, il preside romano disse seccato: Ciò che ho scritto, ho scritto. Egli infatti aveva scritto senza riflettere di essere in quel momento uno strumento della divina provvidenza che per lui proclamava il Crocifisso, Re immortale dei secoli.
Gesù crocifisso: la terra non vide mai un delitto più scellerato consumato dagli uomini e un'opera più grande di amore compiersi da Dio
C'era sul Calvario un contrasto impressionante: il luogo era orrido e tetro, le tenebre lo avvolgevano tutto paurosamente, ma in quelle tenebre e in quel terrore spirava dal Crocifisso una grande luce che colpiva le anime di buona volontà, ed una grande pace che le conservava equilibrate e serene nell'immensa angoscia. I due ladri si contorcevano ed uno di essi inveiva contro lo stesso Redentore, ma su questa medesima sventura aleggiò la divina voce del perdono, e uno dei ladri non solo si convertì, ma si santificò, e si sentì ripetere dal Redentore la consolante promessa: Oggi sarai con me in Paradiso.
Nel terrore di una scena di odio contro l'Innocente divino, e nella tetra caligine della morte che già incombeva sui condannati, spuntava, come subito vedremo, la più tenera e soave maternità, che doveva essere ricca di germogli di vita per tutti
i secoli. Succedeva in grande, anzi in proporzioni che avevano dell'infinito, quello che si vede nei campi, dove dalla desolazione dei concimi spuntano i germi della vita, e dove si formano le ricche fioriture erompenti dai semi immolati e morti nella terra. I peccati, orrida putrefazione di una natura nobilissima, si trovavano tutti sulla Vittima divina, che era come il terreno fecondo che li trasformava in lode di Dio espiandoli, e ridonava alla caduta natura umana la sua fecondità soprannaturale; dalla morte nasceva la vita, dall'umiliazione la gloria, dall'odio dei perversi l'amore del Re divino che tutti li abbracciava, dalla nudità obbrobriosa il paludamento smagliante della grazia, dalle piaghe la salvezza, dalla sofferenza atrocissima la felicità eterna.
La terra non vide mai un delitto più scellerato consumarsi dagli uomini, e un'opera più grande di amore compiersi da Dio.
Se avessero aperto gli occhi dello spirito quelli che sul Calvario credevano di assistere semplicemente ad un'esecuzione capitale, avrebbero visto uno spettacolo grandioso: i cieli eterni aperti alla terra, la potenza divina erompente dalle sue profondità nella più grande diffusione di bontà, lo sguardo del Padre in un ineffabile atteggiamento di amore, la glorificazione eterna del Padre, il Verbo, rifulgente in pieno nell'assunta umanità, l'Amore eterno, unione eterna del Padre e del Figlio, unione dell'uomo col Figlio e col Padre nell'amplesso della grazia. Avrebbero visto il bacio della giustizia e della pace in quelle spine, in quelle piaghe, in quei chiodi, in quella croce, un bacio prolungato d'amore che non aveva riserve nella misericordia perché la Vittima divina non aveva avuto riserva nel riparare e nel donarsi.
Che cosa grande! Quel Crocifisso era come rupe percossa, dalla quale fluiva un torrente dissetante i pellegrini dell'arido deserto terreno; era come un roveto di pene, che ardeva in una fiamma inestinguibile, ed illuminava le tenebre della terra con la luce di Dio; era come colonna di nube e di fuoco che tracciava il cammino ai conquistatori della vera terra promessa, era arca divina del novello tabernacolo dell'alleanza tra Dio e l'uomo, era come candelabro ardente, altare di olocausto, altare di profumi, manna dei viatori, verga di onnipotenza sacerdotale, canto perenne di osannante amore nel silenzio della morte che scendeva come tetra ombra notturna su quella Vita divina! Che cosa immensamente grandiosa!
Mentre la morte e la vita si combattevano in un duello mirabile, i soldati si giocavano ignari la veste di Gesù
Quale combattimento epicamente divino si svolgeva in quella sconfitta apparente, che sembrava completa: Mors et vita duello conflixere mirando. Nessuno lo vedeva, e i soldati, che quasi quasi avrebbero potuto accorgersene se avessero avuto un barlume di luce, ed avrebbero dovuto esaltarsene per la loro medesima condizione, stavano ai piedi della croce giocandosi la veste della Vittima e dividendosene le spoglie.
Quale contrasto! La forza militare oziante in un macabro gioco, e la Vittima vinta e sopraffatta, combattente in un mirabile duello con l'Inferno, col peccato e con la morte!
Noi ci esaltiamo in questo disgraziato anno di guerra per le gesta degli eserciti germanici, che senza dubbio hanno lasciato attonita la povera umanità peccatrice, travolta da quella valanga come fuscello di paglia; noi rimaniamo inebetiti innanzi a quella potenza distruttrice che porta i caratteri tremendi di una giustizia superiore, saettante come fulmine per punire i delitti delle nazioni e non possiamo spiegare questo terribile fenomeno senza pensare al flagellum Dei che ebbe Attila nelle mani, per distruggere gli ostinati avanzi della barbarie romana irrompente contro la Chiesa di Dio. Attila travolse le barriere che impedivano ancora la dilatazione del cristianesimo; la tragedia di oggi travolge un mondo abbarbicato ancora ai relitti dell'apostasia, e prepara senza volerlo la via al regno di Dio.
È uno spettacolo nuovo nel quale la barbarie e la scienza si sono baciate per dare un germoglio di morte, nel quale il progresso laicizzato dall'odio a Dio s'è mutato in martello gigante contro le nazioni apostate.
Che cosa terribile, apocalittica, che la mente stenta a concepire ed a credere! A capo degli eserciti, menti fredde nel calcolo minuto di ogni movimento e ogni avanzata, menti che sembrano avere uno sguardo universale, come se fossero in un osservatorio sidereo !...
La massa degli eserciti avanza come unione di forze cicloniche cui nulla resiste, con un armamento che non conosce ostacoli.
È terribile! Le fortezze corazzate che dovevano essere imprendibili, liquefatte come cera coi lanciafiamme sviluppanti duemila e più gradi di calore alla distanza di 80 metri; le corazze di saldo acciaio perforate come carta dalle pistole chimiche, che le infrangono, penetrando negli organi vitali dei più potenti strumenti di offesa e di difesa bellica!
Dal cielo gli aeroplani saettanti come folgori, seminano lo scompiglio e la morte, e lanciano nei posti più vitali i paracadutisti, come demoni distruttori e come avanguardia di morte. Questi, isolati dall'esercito, non sono sperduti, vi sono collegati con la radio, e con speciali razzi di segnalazione a raggi oscuri, che sono tenebrosi per i nemici, e luminosissimi per i commilitoni, che li scorgono con occhiali speciali. Non ci sono ostacoli per le avanzanti masse del flagellum Dei: per la foresta, i carri armati irrompono e spezzano come fuscelli alberi di un metro e più di diametro; s'arrampicano, saltano i fossi, si precipitano per le ripide discese, senza capovolgersi, si librano quasi sul vuoto; sono anfibi per i corsi di acqua, vi si lanciano, non affondano, passano, irrompono, travolgono, e nessuna forza li può fermare.
Per mare, le navi potenti, precise al bersaglio com'è preciso l'ago che punge una vena; dove non possono avanzare le navi, i canotti di gomma, armati, portati a mano, gonfiati in poco tempo, lanciati nell'inseguimento, senza che alcun proiettile sia capace di perforare quella gomma speciale e sgonfiarla. Sotto il mare, i sottomarini insidiosi, precisi strumenti di morte, e poi le cosiddette vespe dì mare, piccole navi velocissime, siluranti i colossi come una vespa che col pungiglione tronca una vita: che cosa terribile, che complesso formidabile, innanzi al quale gli eserciti più forti hanno dovuto cedere, cadere, sfasciarsi, tra l'assordante fragore delle artiglierie, delle bombe fischianti, delle mitragliatrici, delle mine, e tra gli accecanti fasci di luce dei riflettori!
Eppure questo combattimento è nulla di fronte a quello del Calvario, dove Gesù travolse satana, il peccato e la morte. Nessuna forza regge al paragone con la potenza di un angelo solo, e nessuna devastazione equivale a quella d'un solo peccato. Se alle tremende forze degli eserciti moderni potessero contrapporsi forze paralizzanti l'impeto della loro distruzione, sgominanti le loro insidie, e capaci di ricostruire quello che esse dissolvono; se dal cielo calassero non i paracadutisti della rovina, ma gli angeli della pace, che facessero rifiorire le terre sconvolte e devastate, se tutta la massa nemica irrompente nell'odio fosse mutata in una massa amica avanzante negli osannanti inni della pace, se nello scontro finale l'esercito vittorioso ridonasse la vita ai morti, o ricomponesse ogni ferita riportata, e dei nemici formasse dei fratelli, non sarebbe questa una vittoria più grande, immensamente più grande di una vittoria di distruzione?
Satana e le sue legioni sul Calvario, nel pieno della loro spaventosa potenza
Satana era sul Calvario, e con satana le legioni dei demoni, irrompenti con tutte le loro forze spaventose, di fronte alle quali la potenza bellica moderna è meno di un gioco di fanciulli, anzi è meno di un gioco la stessa potenza delle forze della creazione.
Un astro colossale, saettante nel ciclo con la sua corsa fantastica, a 92 milioni di chilometri al minuto secondo, è quasi fermo di fronte alla velocità di un angelo; lo scoppio di un corpo celeste miliardi di volte più grande della terra, che potrebbe travolgere il firmamento, se la provvidenza divina non l'avesse isolato in uno spazio immenso, è meno dello scoppiettio d'uno zolfanello di fronte all'atto semplice della volontà di un angelo che passa dalla potenza all'azione. Tutte le forze fisiche non reggono al paragone con una sola forza spirituale; ne abbiamo un saggio in questa medesima guerra spaventosa, dove tanti formidabili mezzi di offesa e di distruzione, innanzi ai quali si sfalda come terriccio l'acciaio più temprato, non riescono a travolgere interamente l'umana volontà, benché ancora chiusa nelle trepidanti fibre del fragile corpo.
La montagna cede e si frantuma, e l'uomo, ancorché mutilato e sanguinante, ha sempre un ultimo sforzo da opporre. È una testimonianza della potenza dell'anima.
Ora l'angelo, che è pura forza spirituale, ha una potenza inconcepibile e se è angelo caduto, questa potenza è irruzione spaventosa, che assale l'anima, la vita, il corpo, l'ambiente
della vita, e vi produce affanni, dolori, malattie, agitazioni, disperazioni.
Se Dio non ponesse limiti all'azione dei demoni, e se Gesù non li avesse legati con la sua morte, uno solo di essi potrebbe subissare non solo gli uomini, ma tutte le forze della materia. Ora ecco il duello mirabile che Gesù Crocifisso sostenne con l'Inferno, col peccato e con la morte, mentre i soldati giocavano e i nemici lo insultavano.
La sconfitta di satana
Sospeso a tre chiodi, spasimante d'angoscia inenarrabile, tutto piaghe, con un corpo ridotto all'estrema impotenza, agonizzante, Gesù affrontò le forze infernali, e le vinse con la sua obbedienza, con la sua umiliazione e col suo amore.
L'orgoglio satanico si sentì venir meno, non poté reggere, esso che aveva detto non serviam, innanzi a quella completa obbedienza, che non si compiva tra estasianti gioie di amore, ma nell'estremo abbandono e nell'estrema umiliazione. Quell'atto di obbedienza era divino; satana ne sentì la divina superiorità, fu confuso, sentì in quella luce tutto l'orrore della sua colpa, si vergognò del regno tenebroso del quale si gloriava, cedette, si inabissò coi suoi satelliti, giù giù nell'orrida oscurità del suo spirito tenebroso! Per la prima volta capì che non era luce, che non era dominatore, che non era re, e misurò per la prima volta la strettezza del suo regno di rovine in proporzione del suo spirito teso sempre verso gl'illimitati confini dell'Infinito!
Quale momento! Gesù ansava; aveva l'occhio velato dall'agonia, era coperto dall'odio di tutti i perversi, ma diffondeva amore. Satana, lo spirito dell'odio, ne fu come stritolato. Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno ; satana l'ascoltò, e vide all'istante come un varco aperto alla fiumana dell'odio, del quale aveva inondato la terra. Fu vinto dall'amore misericordioso, e si vide allora stesso sfuggire uno dei ladri condannati, sul quale aveva già posto gli artigli adunchi. Tremò a quella parola di ainore: Ricordati di me, tremò a sentire: Oggi sarai con me in Paradiso. Si apriva dunque il Paradiso ch'egli credeva d'aver chiuso per sempre all'uomo. Vide ai piedi della croce la Madre/divina, e fu il colpo finale della sua sconfitta: era l'Immacolata, non aveva avuto mai dominio su di Lei, non poteva avvicinarsi a Lei perché se ne sentiva dominato. Arse d'ira a sentirla chiamare Madre universale: Maria era la Regina del mondo, s'elevava come astro fulgente, era luce di amore, perché come lucido specchio di giustizia raccoglieva tutti i raggi della misericordia della Vittima divina e Gesù affannava tra le tenebre dell'atmosfera pesante e le tenebre del suo Cuore angosciato... Affannava solo, solo, abbandonato dal Padre, ma nell'abbandono gli dava la massima testimonianza di amore, ardendo di sete, di amore per Lui e per le anime... Satana sostò come inebetito; ancora una volta era vinto, e appena l'anima divina di Gesù in un ultimo grido di amore si separò dal corpo, egli come annientato dalla folgore s'inabissò facendo tremare la terra. L'amore aveva vinto!
Fu questa la sua vittoria, grandiosa vittoria, poiché il peccato era espiato, la giustizia era soddisfatta, il regno del male era annientato per sempre, e da allora a gradi, di secolo in secolo doveva dissolversi, fino all'ultimo giudizio, nel quale il Crocifisso, glorioso e trionfante, l'avrebbe per sempre relegato nell'Inferno.
5. Gesù affida Giovanni a Maria, e in lui tutti gli uomini
Sul Calvario stavano le pie donne che piangendo avevano seguito Gesù fino al luogo del supplizio. Al principio avevano dovuto starsene in lontananza, come dicono gli altri evangelisti, perché i soldati non avevano permesso loro di avvicinarsi fino alla croce; ma quando il cielo si coprì di tenebre, e lo spavento invase quelli che erano sul Golgota, esse si fecero più ardite e si avvicinarono. I soldati d'altra parte, compiuto il loro ufficio tristissimo, non ci si opposero, perché, passato il primo impeto di curiosità nel popolo che era accorso alla crocifissione come ad uno spettacolo, secondo la frase incisiva di san Luca (23,48), si era stabilita sul monte una certa calma.
San Giovanni elenca le principali donne che stavano presso la croce, e in primo luogo Maria Santissima Madre del Redentore, e sua sorella, cioè una sua parente, Maria, moglie di Cleofa, e Maria Maddalena, la peccatrice che era stata convertita da Gesù. V'erano anche altre pie donne, ma queste tre stavano proprio presso la croce. Rappresentavano tutte le donne: Maria le vergini, Maria di Cleofa le maritate, Maria Maddalena le penitenti. Maria Santissima, Vergine Immacolata, e il polo opposto, Maria Maddalena peccatrice penitente: tra questi due estremi, Maria di Cleofa.
Stavano, immobili e come impietrite dal dolore, con lo sguardo fisso a Gesù per seguirne l'agonia, e col cuore straziato da un'angoscia indicibile.
Maria Santissima era là e pregava per le anime di tutti i secoli, unendosi al sacrificio del suo Figlio. Era corredentrice e compiva questo nobilissimo ufficio implorando pietà per i peccatori. Ora Gesù, vedendo la Madre sua, e vicino a Lei il discepolo prediletto da Lui, disse alla Madre sua: Donna, ecco il tuo figlio. Vide la Madre sua non solo con uno sguardo esterno, ma con uno sguardo interno; la vide Madre sua in quel momento nel quale Egli rappresentava tutta l'umanità peccatrice; la vide come la donna, la novella Eva, la Madre di tutti i viventi, e poiché Egli era Re nell'immolazione, la vide Regina dell'universo. Perciò la chiamò donna e non Madre. Donna equivaleva a signora nobilissima, ed era un termine di riguardo presso gli Ebrei; Gesù però chiamò così la Madre sua per una ragione più grande, e la riguardò Signora e Regina dei redenti, costituendola loro madre. Egli in mezzo ai suoi spasimi amava, amava immensamente gli uomini, e il suo amore volle assegnare loro una Madre divina, perché per Lei avessero trovato più facile accesso ai tesori che Egli elargiva redimendoli. E questo il significato letterale delle solenni parole di Gesù, non esitiamo ad affermarlo; è questo che Egli intese principalmente dire affidando Giovanni a Maria. Pensare che abbia voluto semplicemente dare a Maria un asilo in casa di un discepolo prediletto, o a questi una compagnia ed un aiuto, non risponde al testo ed al contesto evangelico.
Gesù si rivolse prima a Maria, dicendole nell'additargli Giovanni: Ecco il tuo figlio. Se avesse voluto darle un appoggio e u:i sostegno in Giovanni, logicamente si sarebbe prima di tutto rivolto a lui, dicendogli di riguardarla come Madre e provvederla come tale. Maria non ne avrebbe avuto bisogno, perché già aveva una dimora o un luogo ospitale fin da quando Gesti prese congedo da Lei per iniziare il pubblico ministero. Egli assegnò Maria come madre a Giovanni, e soggiunse, rivolto al discepolo: Ecco la Madre tua, lo fece perché egli l'avesse riconosciuta, onorata e amata come tale. Giovanni era giovane, aveva una professione nel mestiere di pescatore che ancora esercitava, aveva una dimora e un fratello, Giacomo; non era un diseredato o un abbandonato che Gesù volle affidare materialmente alla Madre sua. E evidente dunque un fine immensamente più grande in quelle sue parole: Ecco il tuo figlio [...] ecco la madre tua; e forse per questo, oltre che per rivolgersi a Maria con un'espressione di onore, Egli la chiamò donna e non Madre.
Consacrata dalle parole di Gesù, Maria diventa Madre della Chiesa
Quale mistero sublime si nascondeva in quelle parole di Gesù, semplici ed operative come quelle della consacrazione!
Egli sulla croce formò la sua Chiesa, e dal suo Cuore aperto le diede la vita, come dal costato aperto di Adamo fu formata la donna. Maria, che aveva dato a Gesù il Corpo reale, doveva dargli anche il Corpo mistico, ed Egli perciò la costituì Madre di tutti i redenti, Madre del sacerdozio in una maniera particolarissima, e Madre della Chiesa. Giovanni fu certo il primo figlio prediletto di Maria; il primo che la riconobbe come madre e le fu devotissimo, ma non fu il solo figlio diretto, diciamo così, di Maria, né la sua filiazione adottiva fu solo un simbolo di quella degli uomini; egli invece li rappresentò tutti, e la parola di Gesù si riferì alla universale maternità di Maria. E una verità, ripetiamo, che risulta chiara dal testo e dal contesto evangelico, e che ci fa sentire presenti tutti sul Calvario ai piedi della croce ed ai piedi di Mamma Maria.
Il dono che Gesù ci fece della Madre sua, dopo averci dato tutto se stesso, non è stato ancora completamente compreso ed apprezzato dagli uomini. L'influsso malvagio delle sette che, divise dal Corpo mistico di Gesù, sono divise da Maria Santissima, s'è fatto sempre più sentire nei cuori cristiani, soprattutto oggi, e la devozione a Maria spesso languisce. Si cerca di ridurla in proporzioni sempre più esigue, quasi per non urtare gli eretici, e si teme di poter offendere Gesù onorando la sua Santissima Madre, senza pensare che non si può andare a Gesù se non si va a Maria.
Eppure la Chiesa vive sempre al caldo del Cuore materno di Maria, ed i suoi padri e dottori hanno fioriture mirabili di elogi, d'inni e di atti di amore filiale a questa dolcissima Mamma. Il loro parlare, anzi, appare ardito, tanto è vivo e palpitante di fede. Il mondo non ritroverà la pace e non vedrà il pieno trionfo di Gesù senza vedere prima il trionfo e il regno di Maria. Il trionfo di Gesù sarà come un rinnovarsi e un rifiorire dell'opera sua redentrice, e poiché Egli la iniziò proprio per Maria, la rinnoverà per Maria. Certo è un fatto storicamente assodato che i più grandi santi, in ogni tempo della
Chiesa, sono stati sempre i più grandi devoti di Maria; questo è segno certissimo che tale devozione, lungi dal poterci distaccare da Dio o dal Redentore, ci avvicina alle fonti stesse della santità.
Imitiamo san Giovanni che, ricevuta Maria per Madre, accepit eam in sua. Facciamola dimorare nell'anima nostra, dichiariamola Regina delle nostre attività, consacriamole la vita perché Essa la rinnovi e la ridoni al Signore. Facciamo passare tutto per le sue mani, affinché tutto sia consacrato e benedetto da Lei, e noi, sotto il suo manto materno, possiamo presentarci con maggiore fiducia al trono ed al tribunale di Gesù Cristo.
6. Gli ultimi momenti di Gesù. La Morte. Il Cuore aperto
Gesù Cristo agonizzava, ma aveva la pienezza della sua vita divina e la padronanza assoluta di ogni suo atto. Era Dio e, pur morendo in quanto uomo, mostrava nella sua stessa morte la sua divinità. Egli guardava a tutti i secoli, stava al centro della storia umana, considerava le promesse di Dio le figure, le profezie, e misurava tutto lo sviluppo dell'opera sua nei più minuti particolari, sino al termine dei secoli. Valutava tutto con infinita calma, come un artista che dà gli ultimi ritocchi all'opera d'arte che ha prodotta, ed aveva cura che tutto fosse compiuto quello che di Lui era stato predetto, anche a costo di attirare su di sé novelle pene. Era tutto abbandonato alla divina volontà, e considerava le profezie che lo riguardavano non tanto come la previsione di ciò che doveva avvenire, quanto come l'espressione della divina volontà; perciò Egli stesso ne desiderava l'avveramento, e lo determinava accettando le pene che a mano a mano lo torturavano.
Le profezie non erano un programma che doveva realizzarsi, ma l'annunzio anticipato di ciò che sarebbe avvenuto;
ma poiché ciò che sarebbe avvenuto era nel piano delle disposizioni e delle permissioni della divina volontà, Gesù Cristo le guardava in questa luce, e volontariamente accettava gli eventi che si succedevano intorno a Lui, come aveva accettato ogni circostanza della sua immolazione. È in questo altissimo senso che il Sacro Testo dice che Egli, conoscendo che tutto era compiuto, affinché s 'adempisse la Scrittura disse: Ho sete.
Era detto nel Salmo 21,16 che la lingua della vittima si sarebbe attaccata al suo palato per la sete, e nel Salmo 68,26, che nella sua sete l'avrebbero abbeverato di aceto. Egli considerò in queste due profezie la riparazione alla sete che le creature hanno del male quando ardono in loro le passioni; considerò la gloria che veniva a Dio da quella riparazione, ed ardendo di mistica sete di amore per Dio e per le anime, come ardeva di sete fisica terribile per la perdita del sangue e per gli atroci tormenti che subiva, gridò: Ho sete. Manifestò allora quel suo intimo ardore e quel suo tormento, benché lo avesse da molto tempo, per compiere la riparazione accogliendo l'ultimo insulto degli uomini e l'ultima pena al suo corpo stremato.
Il profeta aveva visto in spirito che l'avrebbero abbeverato di aceto, contemplando quello che sarebbe avvenuto, e che avvenne difatti, ma quella pena e quell'insulto non potevano toccare il Redentore senza la sua volontaria accettazione, perché nessuna creatura perversa avrebbe potuto irrompere contro di Lui che era Uomo-Dio; perciò Egli stesso, domandando da bere o, meglio, dicendo semplicemente di aver sete, attirò su di sé quell'ultimo atto di malvagità che già stava nel cuore dei suoi carnefici.
Certo è un mistero, ma se ne può intravedere qualche barlume per intenderlo. I sacerdoti, gli scribi, i farisei, i carnefici, i soldati avevano cercato di rendere a Gesù più aspra e tormentosa la morte; avevano fatto le loro congiure, avevano stabilito come attuarle, e la loro perfida volontà s'era determinata liberamente a maggiore iniquità secondo le circostanze occorse nello sviluppo del loro piano. Tutto questo apparteneva alla loro malizia, ed era stato previsto dai profeti prima che avvenisse.
Dio utilizzò quella malignità per compiere nel suo Figlio Incarnato il piano grandioso dell'espiazione dei peccati e della salvezza degli uomini; questo utilizzare l'umana cattiveria non implicava, com'è evidente, una fatalità nelle azioni dei perversi. Gesù Cristo, accettando volontariamente le pene previste, ed accettandole non come azioni perverse, ma come mezzo di espiazione e di riparazione, permise ai suoi nemici d'irrompere contro di Lui e, quindi, che quella maligna e perfida volontà avesse Lui stesso per oggetto e per termine.
In questo altissimo senso Egli compiva degli atti perché si compisse la Scrittura.
Senza la sua permissione gli atti di empietà contro di Lui sarebbero stati impossibili; i profeti, prevedendo quegli atti, avevano previsto anche implicitamente gli atti di permissione di Gesù che li rendeva possibili contro di Lui; perciò Egli, guardando l'avveramento di ciò che lo riguardava, operava affinché si compisse la Scrittura, dando con questo il suo permesso e il suo consenso.
Gesù abbeverato di fiele
I suoi crocifissori, prevedendo per l'esperienza che già avevano della sete ardente dei condannati, la sete che avrebbe avuto Gesù, avevano avuto cura di portare sul Calvario un vaso di aceto, ossia di posca, acqua ed aceto, bevanda dissetante che davano ai condannati come estremo atto di pietà. Essi però, come risulta dalle stesse profezie, avevano avuto cura per Gesù di mescolarvi del fiele amarissimo. Distratti poi dal gioco delle vesti e dalla noia dell'attesa, e forse sconvolti dalle tenebre del Calvario, non avevano ancora attuato il crudele disegno d'amareggiare Gesù.
Il peccato l'avevano fatto, ed avevano tutta la perfida volontà di consumarlo, ma Gesù non l'aveva ancora loro permesso, poiché nel suo amore scelse l'ultimo momento della sua vita, quando la sete fisica era più ardente, e quando, terminando oramai i suoi spasimi, il suo Cuore cercava un'ultima riparazione da dare agli uomini, e un ultimo conforto da elargire loro nelle pene che avrebbero sofferte. Egli guardò tutte le profezie, vide già in potenza l'avveramento di quell'ultimo tratto che riguardava la sua sete, e gridò: Ho sete, per permetterne il compimento su di Lui. I carnefici infatti, deridendolo corsero al vaso che avevano preparato, vi inzupparono una spugna, ed adattatala ad una cannuccia d'issopo per poter giungere alla bocca di Gesù, gli porsero quella disgustosissima bevanda, affinché Egli l'avesse succhiata dalla spugna. L'issopo è una pianta che in Oriente raggiunge anche l'altezza di un metro, e ce n'è una specie che ha il fusto legnoso. I carnefici si servirono d'un ramo d'issopo perché la croce di Gesù non era molto sollevata da terra; trovarono quella cannuccia e se ne servirono come la più adatta al loro scopo.
Gesù muore in croce, si squarcia il velo del tempio, la terra trema
Sorbita quella disgustosa bevanda, Gesù disse: Tutto è compiuto, e chinato il capo rese lo spirito.
Erano compiute tutte le profezie, era compiuta la sua vita, era compiuta l'opera mirabile che il Padre gli aveva affidata negli anni del suo mortale cammino; doveva solo consumare il suo sacrificio.
E lo fece con piena e libera volontà; perciò chinò prima il capo e poi rese lo spirito.
Quale momento fu quello della morte di Gesù!
Egli raccomandò prima al Padre lo spirito suo, come racconta san Luca (23,46), poi chinò il capo in atto di estrema obbedienza e di accettazione della morte, e quasi per chinarsi
a dare l'ultimo bacio di perdono agli uomini che aveva tanto amati; non ebbe alcuna contrazione di spasimo, dette come un lieve sospiro, alitando così nuovamente sull'uomo lo spiracolo della vita. Spirando s'abbandonò interamente, e in quell'abbandono il Corpo ebbe un movimento, girò un poco su se stesso, e poi rimase immobile.
Il velo del tempio si squarciò da capo a fondo, la terra tremò, le pietre si spezzarono (Mt 27,31), e in quello sconvolgimento di terrore una gran pace spirava d'attorno. Si sentiva già la vita novella che Gesù aveva donata all'uomo con la sua morte. S'era compiuto un periodo della storia umana e delle divine misericordie, e ne cominciava un altro, meraviglioso e ricco di grazie. Il Calvario a mano a mano divenne deserto di tutti i nemici del Redentore, che non osarono riguardare la loro vittima, e discendevano confusi. Molti si percuotevano il petto (Le 23,48), ed il centurione stesso coi soldati di guardia riconobbero ch'Egli era veramente il Figlio di Dio (Mt 27,54).
Quelli che rimasero duri, benché spaventati e sbigottiti, furono i sacerdoti, gli scribi e i farisei. Essi, nella loro ipocrisia, lungi dal preoccuparsi del delitto commesso, si preoccuparono che rimanessero sulle croci i corpi dei condannati, nel grande giorno del sabato, e poiché i due ladri crocifissi con Gesù erano ancora vivi, domandarono a Pilato che fossero finiti col crurifragio, cioè con lo spezzamento violento delle ossa delle gambe, che si faceva con grandi mazze ferrate triangolari. I soldati infatti comandati per questo macabro ufficio andarono sul Calvario, e cominciarono col rompere le gambe ai due ladroni, che ancora si contorcevano nell'agonia. Tra urli di dolore quegli infelici esalarono lo spirito, il buon ladro espiando le sue colpe, il cattivo dolorosamente accrescendole con le ultime bestemmie della disperazione.
Per Gesù non ci fu crurifragio: perché?
I soldati avevano avuto ordine di spezzare le gambe a tutti e tre i crocifissi, e nella loro rozzezza l'avrebbero fatto senz'altro anche a Gesù; ma Dio non lo permise. L'evangelista si riporta alle cerimonie ordinate nel mangiare l'agnello pasquale, e nota che il Signore aveva proibito che se ne spezzassero le ossa (Es 12,46; Nm 9,42). Ora l'agnello era figura di Gesù Cristo, ed il comando di non spezzarne le ossa riguardava principalmente Lui in quest'ultimo atto del suo sacrificio. Quel comando, è evidente dal fatto, passò nei secoli e, diremmo quasi, echeggiò su di ogni famiglia che immolava la Pasqua e su di ogni agnello che, figurando il Redentore, veniva immolato; di figura in figura giunse fin sul Calvario, e si fermò sulla realtà, sul vero Agnello; echeggiò nell'anima dei soldati senza che essi stessi se ne accorgessero, conquise la loro volontà, e li costrinse così a non rompere le gambe a Gesù.
Questo ci dà un'idea della potenza d'un comando e della parola di Dio, e delle conseguenze che può avere in noi. I soldati sentirono inconsciamente che non dovevano rompere le ossa del Redentore; alla loro volontà decisa a farlo, anzi costrettavi, perché ne avevano avuto ordine formale, si oppose la volontà di Dio, l'ordine ch'Egli aveva dato riguardo all'agnello pasquale. I soldati sentirono in loro non l'ordine ma una potenza inibitrice che arrestò la loro violenza e penetrò la loro libera volontà con un ragionamento. Essi videro che Gesù era già morto, e credettero inutile infierire contro il suo cadavere, si arrestarono e compirono, loro malgrado, il comando di Dio che proprio in loro ebbe l'ultima espressione e il pieno compimento. Si direbbe che la Parola divina, pronunziata tanti secoli prima, si diffuse, continuamente in ogni solennità pasquale della storia d'Israele, quasi onda di radio, e terminò nell'anima dei soldati, facendosi loro sentire attraverso il ragionamento che fecero quasi comando radiodiffuso: Os non comminuetìs ex eo (Es 12,46).
La parola di Dio che, rivolta all'umana libertà nel mangiare l'agnello, la limitò e le impedì di romperne le ossa, terminò nella libera volontà dei soldati come luce di ragionamento attraendo la loro attenzione sulla vittima già morta, ed impedì loro di fame scempio. È una cosa importantissima che ci induce a meditare sull'effetto e sul percorso di ogni parola di Dio negli uomini, nelle nazioni, e nelle umane vicende. È una cosa che ci costringe ad adorare tremando ogni parola di Dio, pensando alla sua potenza, e a non osare di trascurarla o di trasgredirla.
Quando la divina Parola giunge in noi, penetra l'intelletto, illumina la volontà, commuove il cuore; se non è raccolta dalla nostra libertà, non rimane inerte: diventa parola di riprovazione, di condanna e di sventura. Come nella radio l'onda interferita diventa scoppio, sibilo, fragore che disturba, così, ed immensamente di più, la parola di Dio diventa scoppio di castigo, sibilo di rimorso, fragore di agitazione e di sventura quando non è ricevuta da noi ed è, per così dire, interferita dalla nostra perfida volontà. Basterebbe questo solo pensiero per indurci alla fedele valutazione di ogni parola della divina Legge, e di ogni manifestazione della sua volontà.
La lanciata al Cuore di Gesù
Quando i soldati constatarono che Gesù era già morto, non osarono spezzargli le gambe, come s'è detto, ma uno di essi, probabilmente il capo del drappello, per assicurarsi della sua morte, mise in resta la lancia e gli vibrò un violentissimo colpo al Cuore squarciandolo. La lancia consisteva in un'asta robusta di legno, terminante con una punta di ferro a forma ovale, della larghezza di una mano; la ferita quindi fu larga e profonda, tanto larga che, dopo la risurrezione, san Tommaso disse di volervi porre dentro la mano. Le antiche pitture effigiano Gesù trapassato al lato destro, forse per un'illusione di visuale, giacché il destro rispondeva al sinistro del pittore che dipingeva; ma tutto fa credere che Gesù fu trapassato proprio al lato sinistro, dritto al Cuore, poiché è evidente che il soldato volle inferirgli un colpo che avrebbe dovuto finirlo se non fosse già morto. L'acqua poi che ne sgorgò apparteneva al pericardio, cioè alla membrana che avvolge il Cuore e il sangue alle orecchiette.
La Volgata dice che il soldato aprì con un colpo il costato, il testo greco dice invece trafisse, forò, il che indica anche meglio che il colpo fu profondo. Essendo Gesù morto verso le tre pomeridiane, ed essendo andati i soldati per il crurifragio circa un'ora prima che cominciasse il sabato, cioè verso le cinque, Gesù era già spirato da circa due ore; scientificamente il sangue non poteva più essere liquido, e perciò san Giovanni riguarda come un fatto straordinario e miracoloso che fosse sgorgato insieme all'acqua, cioè alla linfa che s'era raccolta nel pericardio.
Il fatto era tanto più straordinario, in quanto Gesù aveva versato torrenti di sangue, a testimonianza del medesimo evangelista, e non poteva averne più nelle vene e nelle arterie. San Giovanni ne fu così impressionato e vi dette tanta importanza, che ripetutamente se ne dichiara testimone oculare; né può dirsi senza temerità che la sua impressione sia dovuta ad una supervalutazione del fenomeno. Anche se volesse ammettersi che esso poteva avvenire senza miracolo, non può ammettersi, proprio per la testimonianza di san Giovanni, che non sia avvenuto senza miracolo, sopratutto senza miracolo di amore.
San Giovanni non fu tanto colpito dal fenomeno, quanto dall'impressione che gli lasciò nell'anima, perché in quel fenomeno c'era un ultimo mistero di amore da parte di Gesù: Egli era il novello Adamo addormentato nella morte, e dal suo costato, dal suo Cuore, si formava la Chiesa, come riconoscono tutti i Padri. Egli dava l'acqua per congregarla e il Sangue per vivificarla, il Battesimo e l'Eucaristia, i Sacramenti della rinascita spirituale e della vita soprannaturale. Quell'acqua e quel Sangue sgorgò su Maria, su san Giovanni e sulla Maddalena, i più prossimi alla croce, cioè sulla Madre della Chiesa, sul Sacerdozio e sull'umanità peccatrice, perché la Chiesa era affidata a Maria, doveva essere vivificata dal Sacerdozio, e doveva raccogliere i peccatori per ridonarli a Dio. Gesù Cristo volle aprire il suo Cuore divino come ultimo attestato di amore all'umanità, ed attraendo l'attenzione sulla piaga del suo costato, volle attoria sul suo Cuore, fonte di misericordie e di novelle benedizioni per gli ultimi tempi della storia del mondo.
L'evangelista fa notare che con quella trafittura al Cuore di Gesù si avverava una parola della Scrittura: Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto. La citazione che non è letterale, ed è tratta dai Settanta, riguarda una profezia di Zaccaria (12,10) nella quale è annunziata la conversione degli Ebrei negli ultimi tempi del mondo. La profezia dice così: Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo Spirito di grazia e di preghiera, e volgeranno lo sguardo a me che hanno trafitto; e lo piangeranno come suol piangersi un unico figlio, e faranno lutto per lui come si fa lutto per la morte di un primogenito. Il profeta annunzia indirettamente la trafittura del costato di Gesù, dicendo che gli Ebrei vedranno colui che hanno trafitto, e l'annunzia profetizzando la loro conversione.
Egli riguarda come unica cosa due eventi separati da lunghissimi secoli, perché li guarda in Dio cui tutto è presente: gli Ebrei contemporanei a Gesù passano sul Calvario e guardano Colui che hanno trafitto, ma non si convertono; alla fine dei tempi si convertiranno e riguarderanno Gesù crocifisso da essi trafitto, piangendo amaramente il loro peccato. Gesù fu trafitto dal soldato, ma quella stessa ferita fu conseguenza del delitto degli Ebrei; e come essi lo crocifissero, benché materialmente l'avessero crocifisso gli sgherri, così essi lo trafissero sia nelle mani e nei piedi, sia nel costato, reclamandone la morte di croce, ed aizzando contro di Lui i carnefici.
Nella liturgia del Sacro Cuore la Chiesa volge lo sguardo a quella lanciata sul Calvario.
La Chiesa ha preparato già agli Ebrei la novella visione che dovrà compungerli e convertirli, aprendo all'umanità le fonti inesauribili del Sacro Cuore di Gesù. È stato Gesù stesso a rivelarle questo segreto di amore e di conversione, ed Essa, dopo averne a lungo ponderato la verità e la grandezza, a misura che più si è avvicinata agli ultimi tempi maggiormente ne ha magnificato lo splendore per indurre al pentimento i suoi figli ingrati. Si può dire che tutta la liturgia del Sacro Cuore costituisce uno sguardo di amoroso pentimento a Colui che è stato trafitto dai nostri peccati: Ecco - esclama la Chiesa nell'inno del Vespro - come l'insolente e orribile schiera delle nostre colpe ha ferito il Cuore innocente di un Dio che non lo meritava. Il colpo della lancia del soldato l' hanno diretto i nostri peccati, e la punta del ferro crudele l'aguzzò la colpa mortale... E turpe ritornare alle colpe che lacerano questo Cuore beato; emuliamo invece nei nostri cuori le fiamme rivelatrici d'amore.
Nel Mattutino il suo invito è un invito a guardare adorando Colui ch'è stato trafitto: Venite, adoriamo il Cuore di Gesù ferito per nostro amore, perché presso di Lui è la sorgente della vita, ed Egli ci disseta al torrente delle sue delizie (Ant. II, del I Nott.) essendo sua delizia beneficarci in tutto il suo Cuore, affinché non ci allontaniamo da Lui (I Respons. I Nott.). Egli si è manifestato per mostrare ai secoli venturi le abbondanti ricchezze della sua grazia (III Respons. I Nott.), s 'è fatto trafiggere per regnare su tutte le genti (I Ant. del II Nott.), per rivelare ai piccoli i grandi tesori del suo amore nascosto ai dotti ed ai sapienti (II Resp. II Nott.), e per attrarre a sé tutti i cuori (I Resp. Ili Nott.). Egli grida, invitando tutte le anime a Lui: Chi ha sete venga a me e beva (II Ant.Lodi), perché ci ha amati con amore eterno, e ci ha tratti al suo Cuore per misericordia (III Ant.). Il suo Cuore è arca che contiene la legge non dell'antica servitù, ma della grazia, del perdono e della misericordia; è santuario purissimo della nuova alleanza, è tempio più santo dell'antico, è velo più salutare dell'altro che fu squarciato nella sua morte. La sua carità volle essere trafitta d'un colpo di lancia visibile, perché noi venerassimo le ferite del suo amore invisibile (Inno Lodi). Volgeremo lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto (Antif. Benedictus), attingeremo con gioia le acque dalle fonti del Salvatore (Vesp. Benedictus).
Non è senza ragione che l'evangelista ricorda la profezia di Zaccaria: Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto; Gesù attende infatti il suo popolo ingrato dal giorno nel quale da esso fu trafitto, e si può dire che da allora sta con le braccia aperte per chiamarlo nella sua grande misericordia. Noi che apparteniamo al suo Cuore amoroso, dobbiamo cooperare con le nostre preghiere e col nostro apostolato alla conversione degli Ebrei, per soddisfare l'ardente amore di Gesù crocifisso, piagato per amore. In questi tempi di rivolgimenti radicali nel mondo preghiamo che venga il regno di Gesù Cristo, e che si compiano i suoi disegni su tutte le anime, affinché tutte rispondano al suo amore e si salvino.
7. La sepoltura di Gesù. Lo splendore della croce e le aberrazioni del mondo moderno
Dopo che furono spezzate le gambe ai ladroni e che fu squarciato il Cuore di Gesù, gli Ebrei furono solleciti a far togliere i corpi dei condannati ed a farli gettare nella fossa comune loro riservata, insieme con gli strumenti del supplizio, che erano riguardati come cosa sommamente ripugnante.
Avrebbero voluto far lo stesso anche a Gesù, ma Giuseppe d'Arimatea li prevenne, e domandò a Pilato il permesso di prendere il Corpo divino e seppellirlo onoratamente. Per legge i condannati non potevano essere sepolti nelle tombe di famiglia, però i Romani lo concedevano ai parenti che ne avessero fatto richiesta; Pilato poi volentieri accordò che Gesù fosse sepolto con onore, per dargli almeno questo attestato di rispetto, sapendolo innocente. Forse il modo reciso e audace, come nota san Marco (15,43) col quale Giuseppe domandò il Sacro Corpo, fece supporre a Pilato che fosse un suo parente.
Ottenuto il permesso prima del crurifragio dei ladroni, Giuseppe si unì a Nicodemo, altro discepolo occulto di Gesù, e comprò cento libbre d'una mistura di mirra e di aloe, per imbalsamare il corpo. Il tempo stringeva, giacché già calava la sera e, non potendosi fare un'imbalsamazione accurata del Corpo, Giuseppe comprò una grande quantità di aromi (cento libbre erano più di 32 chilogrammi); pensava così di riempirne tutte le fasce funebri che dovevano avvolgere le membra del sacro Corpo, e il grande lenzuolo o sindone che doveva avvolgerlo tutto. La miscela di mirra e di aloe era in polvere, e poteva porsi più agevolmente e celermente.
Gesù deposto dalla croce, tra le braccia della Madre Sua e poi nel sepolcro
Aiutato da Nicodemo e forse anche dalle pie donne, Giuseppe staccò il corpo dalla croce, e lo depose nelle braccia di Maria, com'è costante tradizione, e com'è logico, poiché il Figlio divino non poteva darsi che alla Madre; era Essa stessa che lo reclamava. Quale raccapricciante spettacolo apparve all'addolorata Regina! In lontananza quel Corpo divino appariva piagato nell'insieme, per così dire; ma da vicino quelle piaghe apparvero in tutta la loro atrocità! Essa le contemplò ad una ad una, vi impresse sopra i suoi caldi baci e le irrorò delle sue lacrime. Vide in quelle piaghe tutta la nera
ingratitudine degli Ebrei e tutti i peccati degli uomini; vide ancora con amore immensamente compunto e riconoscente che la sua grandezza era dovuta a quelle piaghe ed a quella dolorosissima Passione, giacché Dio l'aveva eletta, santificata e redenta anticipatamente proprio riguardando la Passione e morte del suo Figlio.
Pianse Maria: tutte le profezie che la riguardavano preannunziarono il suo pianto, ed il tenerissimo suo Cuore non poté non sciogliersi in un amarissimo pianto. Fu un pianto certamente composto, calmo, come si addiceva a creatura tanto perfetta, ma fu un pianto caldo e amarissimo, come si addiceva ad una Madre. Non poté a lungo dar corso alla piena del suo amore su quel Corpo divino, perché il tempo stringeva. Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo lavarono ad una ad una le membra piagate, le avvolsero in panni ponendovi gli aromi, e poi avvolsero tutto il Corpo in una sindone monda come solevano fare gli Ebrei.
Giuseppe aveva poco lontano dal luogo della crocifissione un orto di sua proprietà, nel quale aveva fatto scavare nella roccia un sepolcro nuovo per proprio uso; così solevano fare i ricchi nelle loro proprietà. Tutto era stato predisposto dalla provvidenza di Dio servendosi della stessa libertà della sua creatura; il fatto stesso che Giuseppe avesse una proprietà in quel luogo era provvidenziale. Quando egli la comprò e la ereditò dai suoi parenti, non avrebbe mai supposto che la tomba fattavi costruire dovesse servire al suo Signore e Redentore. Era poi tanto vicino al luogo della crocifissione, che tanto questo quanto il sepolcro furono rinchiusi nel recinto della Basilica edificata poi da sant'Elena.
Il sepolcro consisteva in una caverna che veniva chiusa con un grosso macigno; in questa caverna, su una specie di piattaforma che stava al centro, deposero il Corpo divino, poi rotolarono il masso sull'entrata, e se ne ritornarono mesti e silenziosi tra le prime ombre della sera, pregando.
Nella Passione di Gesù il tracciato della nostra vita
Quel sepolcro dava un senso di pace, si direbbe di sollievo, dopo le aspre pene sofferte da Gesù. Oramai i suoi nemici erano lontani, e non potevano più infierire contro di Lui; oramai il dramma sanguinoso s'era chiuso. Quella morte era stata ed è la vita degli uomini, e quel sepolcro dava proprio il senso della vita che vi riposa tranquilla nelle mani di Dio.
Il cammino dolorosissimo del Redentore ci aveva tracciato attraverso i suoi dolori il cammino della pace in terra e della felicità in Cielo, ed Egli ci aveva conquistati redimendoci, ci aveva conquisi amandoci, ci aveva vivificati unendoci a sé. Nell'orto aveva agonizzato sudando sangue per l'agonia interiore, ed aveva consolato tutte le nostre agonie spirituali, accogliendone in Lui come il distillato amarissimo. I nostri peccati l'avevano tormentato fino al sudore di sangue, e il suo amore ci aveva consolati fino a cospargere di balsamo le nostre angustie. Tradito da Giuda, aveva accolto su di sé tutti i nostri tradimenti all'amore di Dio, e tutte le pene che ci vengono dal tradimento delle creature.
Era rimasto solo, in balìa degli sgherri, per sostenere la nostra solitudine e il nostro abbandono nelle pene della vita, quando siamo vittime dell'umana ingiustizia.
Trascinato innanzi a giudici iniqui, aveva tracciato, col sangue dei tormenti subitivi, la via della consolazione e dell'abbandono a Dio in mezzo all'irrompere degli umani giudizi, fallaci, oppressivi ed ingiusti. Dopo la ripetuta attestazione della sua innocenza fatta da Pilato, aveva voluto, Egli innocente, essere condannato, per rendere innocenti noi, condannati all'eterna morte per i nostri peccati.
Nella sua infinita carità offrì il suo Corpo innocentissimo ai flagelli, per raccogliere i flagelli che meritano i nostri peccati.
Offrì il suo capo alle spine per riparare le colpe del nostro orgoglio e le colpe di quelli che stanno a capo.
Apparve in un paludamento di sangue e di obbrobrio, sostenendo uno scettro di canna, Egli che sosteneva l'asse dell'universo, per riparare le tracotanze orgogliose dei dominatori e i traviamenti dei re capi di Stato.
Ricevette la pesante croce sulle spalle dopo l'iniqua sentenza di morte, salì il monte del dolore, si lasciò crocifiggere per liberarci. E spirò per darci la vita.
E noi cosa faremo per Te, Gesù dolcissimo, che cosa ti ricambieremo per tanto amore? Ti daremo fedeltà invece del tradimento, ed amore che si gloria di Te, invece del rispetto umano; romperemo ogni vincolo che ci lega al male, per consolarti nei ceppi dai quali fosti stretto, mortificheremo la nostra carne e il nostro orgoglio, e ci faremo vivificare da Te.
Senza di te, o Crocifisso Gesù, l'umanità sta arretrando verso le caverne della preistoria
Il mondo stolto e scellerato ha preteso creare un nuovo vangelo diametralmente opposto al tuo, ed ha avuto la tracotanza di dichiarare fallite le tue massime, scolpite col Sangue sulla croce, o di reputarle indegne della sua pretesa nobiltà. La tua Passione s'è rinnovata e si rinnova nella Chiesa, la quale geme, è tradita, è trascinata innanzi ai giudici empi, è spogliata dei suoi beni, è flagellata nelle sue membra, è coronata di spine nei suoi capi, è crocifissa nella sua vita, è vilipesa nella sua dottrina, è immobilizzata nelle sue attività ed è considerata alla stregua dei malfattori. Eppure solo in Te e nella tua Chiesa il mondo può trovare la salvezza e, se non ritorna alla tua dottrina ed alla tua croce, non c'è per esso che l'abisso di guerre sconvolgenti e di rivoluzioni, come dolorosamente vediamo.
S'è preteso elevare a simboli di vita e di grandezza dei simboli che non sono quelli della tua croce, e noi abbiamo
visto già i profeti dell'errore proclamare un ordine nuovo di false dottrine e capovolgere i grandi valori dello spirito. Oramai per questi pseudo-cristi e pseudo-profeti è virtù la violenza del più forte, la sopraffazione del prepotente, e l'irruente esigenza dell'orgoglio insaziato.
L'umiltà, la dolcezza, il sacrificio eroico per il raggiungimento degli eterni beni, la carità che si dona per amore di Dio, che perdona, dimentica il male, benefica ed ama non vale più. È sublime innanzi a questo mondo abbrutito solo il gesto di chi irrompe, mitraglia, agguanta, ferisce, uccide e trionfa tra spaventose rovine, calpestando gli altri! Senza la tua croce, o Gesù Crocifisso, l'umanità arretra fino alle caverne preistoriche e s'imbarbarisce. Essa ha spiegato le ali come aquila non per elevarsi ma per piombare più facilmente sulla preda e per dilaniarla coi rostri della raffinata barbarie.
Ha divorato lo spazio con la velocità, non per sentire meno l'angustia della materia, ma per accrescerne la brama.
Ha ingigantito le sue forze meccaniche non per dare la prevalenza allo spirito ma per rendere gigantesca l'oppressione della materia, e per accrescere fino al colossale il corpo di morte che avvinghia l'anima!
E terribile! Dove passa la civiltà senza la croce passa la devastazione, e non lascia che macerie e cumuli di cadaveri.
Signore Gesù, venga il tuo regno, ritorni il fulgore della tua croce, siano spazzati via i nuovi profeti di menzogne, e ritorni nelle anime la tua pace.
Non siamo noi sulla terra, di passaggio, per conoscere, amare, servire Dio e salvarci? E le nazioni non sono congregate per questo nella Chiesa? Come mai è possibile che una nazione tenda tutta alla materia, all'orgoglio, alla violenza, alle brutture dei sensi, e che le anime che la formano possano tendere contemporaneamente allo spirito, all'umiltà, alla mansuetudine, alla purezza ed alla pace? La civiltà dell'imperialismo moderno non è civiltà di barbarie spirituale? A che servono tante pretese grandezze se non servono all'anima o, peggio, se si oppongono all'anima? Chi potrà mai pretendere di cancellare il segno della redenzione dalle anime, e sostituirlo coi segni della vita tutta materiale che le perde? O Gesù, crocifisso per amore delle anime, inalbera di nuovo il tuo trionfante vessillo nelle nazioni, spazza via la falsa civiltà che ci soffoca, umilia i superbi, e dà il trionfo dell'amore tuo alla tua Chiesa santa.
Quando Pilato constatò che il popolo era così ingrato e sanguinario da preferire un ladro e un assassino a Gesù, e da reclamare la morte dell'innocente, vedendo il tumultuare incomposto e sfrenato di quella plebaglia, temette una sedizione, e credette opportuno fingere di contentarlo, condannando Gesù alla flagellazione che soleva precedere la crocifissione. Egli in realtà non aveva intenzione di condannarlo a morte e sperava che dopo quel supplizio, che a posta gli fece subire in pubblico, il popolo avesse desistito dalla sua ferocia, appagato d'avere avuto soddisfazione.
Il supplizio al quale condannò Gesù era atroce: il condannato veniva legato ad una colonna in modo che il corpo fosse ricurvo e la pelle ben tesa affinché i colpi di verga od i flagelli di cuoio, terminanti con ossicini o con palline di piombo, ne avessero fatto scempio. Per Gesù furono scelti i flagelli piombati, come appare chiaro dalle impronte della santa Sindone. Per legge i colpi erano numerati, quarantanove colpi; ma quando si trattava di un colpevole per il quale il popolo reclamava una punizione esemplare i colpi non si numeravano. Pilato, com'è evidente dalla crudele coronazione di spine, lasciò Gesù in balia dei soldati, i quali nella loro rozza mentalità guerriera, credettero vendicare su di un Giudeo tutte le noie e i disprezzi che avevano dal popolo.
Gli orrori del militarismo
Oggi, in piena follia militarista e guerriera, noi stentiamo a farci un concetto di quello ch'è un soldato in pace ed in guerra. Abituati ai soliti luoghi comuni, ed ubriacati dalle spampanate d'un eroismo falsato, non possiamo vedere le cose come sono, e crediamo alte virtù le manifestazioni della brutalità più ripugnante.
Gesù Cristo non senza una divina ragione ha voluto su di sé l'impeto bestiale dei soldati per espiarlo.
E necessario considerare la psicologia militare nei capi e nei gregari, in pace e in guerra, per avere una certa idea di quello che fu l'irruenza militare contro Gesù. Lo facciamo nella maniera più sintetica che ci è possibile, benché
l'argomento richiederebbe una profonda meditazione. L'umanità dovrà un giorno vergognarsi del militarismo, e ricordarsi che l'eroismo vero è una cosa ben diversa dalla irruenza bestiale di chi dimentica di essere uomo e cristiano, e scende al disotto del livello dei bruti.
I militari appaiono come il tipo della disciplina e dell'ordine. Al vederli marciare, infatti, ed al considerarli nell'esecuzione degli ordini che ricevono, si ha questa impressione, che in realtà è falsa.
Riuniti come accozzaglia di gente, diversa per indole, per educazione e per sentimenti, i soldati sono quanto di più indisciplinato possa concepirsi, nell'anima, nei costumi, nell'ossequio alle leggi e nel timore di Dio. Ecco, per esempio, un militare sull'attenti alla presenza di un superiore che lo redarguisce: sta lì piantato come una colonna, e può rispondere semplicemente un signor sì e un signor no; saluta e si ritira, in ordine perfetto, ma quante imprecazioni e quante irruenze sono fiorite in quell'anima! Egli crede, e a volte con fondamento, che il generale sia un asino, il colonnello un uomo brutale, il tenente un tirannello, il caporale un cagliostro, e passa la giornata nelle meditazioni o dell'ira o della vendetta, pronto a sfogare la sua accumulata brutalità, appena ne ha il destro. Il comando naturalmente esige solo una disciplina materiale ed esterna.
I capi, in generale, salvo la bontà individuale dei buoni, sono persone occupate tutte in cose materiali e spesso brutali, poiché, educati alla violenza, non sanno pensare che a raffinarla per la guerra, salvo poi a credere quasi un onore della loro vita l'immoralità59. Si può dire dolorosamente, senza esagerazione, che la bestemmia è la meschina preghiera d'un militare, l'abuso disordinato dei sensi ne è la prevalente occupazione, e l'ozio ne è il coronamento. L'esercito è una grande ipocrisia collettiva, religiosa, morale e patriottica. Non parliamo degli onesti tutelatori dell'ordine, parliamo dell'esercito come lo si concepisce oggi, massa che non ragiona e non ha senso morale, ma che segue per timore l'indirizzo di un qualunque facinoroso che riesce a servirsene per i suoi fini.
Il soldato non fa che maneggiare armi, e poiché il bersaglio di queste è la vita umana, finisce per credere quasi nulla il valore ed il diritto della vita. Per questo in guerra, o nelle azioni che hanno del guerriero, diventa crudele, spietato, feroce, e lo diventa tanto più impunemente e senza rimorso, in quanto la sua ferocia è riguardata come eroismo, ed è premiata con medaglie al valore. In realtà il soldato in guerra non tende che a salvare la propria pelle, e tutte le forme del suo eroismo hanno quasi sempre questa caratteristica ultraegoistica. I casi di vero eroismo sono solo quelli nei quali ci si sacrifica per salvare gli altri. Uccidere non è eroismo, distruggere subdolamente non è grandezza, tendere un tranello non è il gesto di un cuore superiore. Se si enumerassero gli episodi di crudeltà spietata di tanti pretesi eroi, ne verrebbe fuori una storia di orrori da far rabbrividire!
Finché vi saranno generazioni educate alla guerra, non vi sarà mai pace nel mondo
Non parliamo delle prepotenze, delle impurità, dei furti qualificati, delle ingratitudini nere, e di quanto accompagna un'azione di guerra; parliamo solo di quello che si chiama valore. Uno segnato di medaglia, bisogna confessarlo perché l'umanità se ne vergogni, spesso è un assassino più in grande. Quella medaglia stilla sangue ed è un segno di futura vendetta della giustizia di Dio.
Questa è la realtà e, senza vederla in faccia con coraggio, non si avrà mai pace nel mondo, e non si farà mai ricorso alla giustizia ed alla ragione per dirimere le questioni dei regni e delle nazioni. Finché vi saranno generazioni educate alla guerra, ci saranno masse ebbre di avventure di sangue, illuse da un eroismo ch'è barbarie ripugnantissima. Il soldato è un flagello più devastatore di un uragano; dove passa lascia la distruzione e la morte. Ora questo non è eroismo, è devastazione brutale. Un popolo guerriero è sempre un popolo di livello inferiore, come dolorosamente si constata in tutta la storia umana. Anche individualmente parlando, il soldato, lasciato libero di offendere, ferire e massacrare, è più crudele di una belva. Non si difende solo, ma si diverte od impazzisce nella crudeltà, come si divertono ragazzacci brutali a tormentare un gatto, un topo, una lucertola. Sono sadici nel sangue, e trascendono a crudeltà spietatissime, fino ad incrudelire contro i feriti e i morenti, come si vide nella prima guerra mondiale, e come si vede in questa seconda, mille volte più crudele della prima. La crudeltà militare diventa un divertimento sadico e impuro, quando non ha freno alcuno, e si sfoga anche sui condannati, specie su quelli che debbono morire. Bisognerebbe verbalizzare le irruenze spaventose consumate nelle caserme, nelle carceri e nei posti di guardia.
Il vero eroismo
L'eroismo è un'altra cosa: è la bontà che si dona, è carità che soccorre, è generosità che perdona; è vittoria sui sensi propri, è sacrificio di ciò che di brutale affiora nella natura disordinata, è immolazione della propria volontà e della propria stessa ragione per amore di Dio e per amore del prossimo. L'eroismo è virtù, non è irruenza di forza brutale; è bontà, non è ira, è purità, soprattutto è purità, non è abiezione che giunge sino alla profanazione della vita. L'umanità deve rivedere l'albo dei suoi eroi, specie oggi, e spezzare le medaglie che hanno sanzionato l'assassinio. Deve ritornare all'eroismo dei santi, i soli, i veri, i purissimi eroi che ha nella sua storia obbrobriosa.
La gioventù non dev'essere educata al pugnale ed alla bomba a mano, ma alla bontà ed alla carità.
Un governo di amore e di timore di Dio, vale mille volte più che un governo armato fino ai denti, la cui legge di giustizia è la forza. Se non si smobilitano gli animi, e se non si ritorna allo spirito cristiano vero, non ritornerà la pace nel mondo. I Papi, veri padri dei popoli, lo hanno detto chiaro: non si educano i giovani impunemente alla violenza, né si fabbricano invano armi, proiettili e bombe; questo porta alla guerra, e la guerra è distruzione, non è civiltà; è crudeltà, non è virtù; è abbrutimento, non è eroismo. I popoli guerrieri scrivono pagine di obbrobrio mille volte più truci di quelle dei cannibali, sotto una lustra di progresso e di grandezza; disdegnano divorare gli uomini, e li fanno divorare dal ferro e dal fuoco!
Gesù vittima espiatoria del militarismo brutale
Gesù Cristo fu dunque lasciato da Pilato in balia dei soldati romani; educati al militarismo brutale, si sfogarono sull'innocentissimo Agnello e ne fecero scempio crudele nella flagellazione. E quando l'ebbero ridotto tutto una piaga, vollero divertirsi, i crudeli, ed intrecciata una corona di acute e pungentissime spine, gliela posero e gliela calcarono violentemente sul capo, dopo averlo vestito con uno straccio di porpora. Gesù era il loro trastullo; lo ingiuriarono, lo derisero in quella parodia di regalità, e salutandolo re dei Giudei lo percossero con brutalissimi schiaffi. Era una scena orribile, dolorosissima per Gesù, il cui capo sanguinava da ogni parte! Egli taceva e pregava, raccogliendo su di sé tutti i delitti del militarismo brutale, e preparando con la sua incoronazione crudele la pace all'ingratissima umanità.
Quella corona doveva rimanere per sempre il segno regale del Re d'Amore, e doveva riparare le colpe e i delitti delle terrene regalità. Bisogna confessare che sul capo adorabile di Gesù qualunque altra corona disdice; questa sola è la sua corona, perché Egli ha preso per sé tutte le nostre spine, e ci ha dato tutto il suo amore. Il suo aspetto intenerisce, il suo sguardo conquide, la sua corona affascina, e non c'è peccatore che non provi rimorso d'averlo offeso, vedendolo coronato di spine.
Oh, se i re e i capi di stato sapessero ispirarsi a questa divina regalità d'amore, se sapessero dominare solo immolandosi nella carità, come hanno fatto i santi Re, quanto sarebbe meno infelice la terra!
Ecco il vero eroismo: immolarsi, riparare, perdonare, amare; ecco la vera regalità: dominare con la carità e col sacrificio di se stesso! Ecco il vero prestigio regale: la pace, il compatimento, la remissività, la beneficenza, la bontà! O Gesù, coronato di spine, disinganna la povera umanità in tutte le sue pazzie omicide; regna Tu solo sui regni e sui popoli, e donaci la pace sotto lo scettro del tuo amore!
3. Ecce homo! Ecco l'uomo
Pilato lasciò libertà ai soldati di tormentare Gesù, nella stolta speranza di ridurlo in uno stato pietoso, e vincere così l'efferatezza del popolo. Ora, quando se lo fece ricondurre davanti e lo vide ridotto a quel modo, uscì di nuovo sulla loggia del pretorio, e disse al popolo tumultuante: Ecco, io ve lo conduco fuori affinché intendiate che non trovo in Lui colpa alcuna. Avvertì prima il popolo per richiamarne l'attenzione, e per fare poi colpo su di lui presentando Gesù. Difatti alle sue parole si fece gran silenzio, ed egli, per mostrare in un contrasto eloquente quanto fosse ingiusto il popolo a reclamare la morte di quell'innocente, ne proclamò prima l'innocenza, e poi lo mostrò com'era ridotto, per dire: ecco in quale stato l'ho ridotto per compiacervi, pur essendo Egli senza colpa. Ora non posso concedervi di più né voi potete reclamare di più contro un poveretto che non ha più sembianze di uomo. Questi sentimenti Pilato li espresse con una sola parola: Ecco l'uomo, ecce homo.
Egli senza volerlo presentò in Gesù quello che era l'uomo che Gesù veniva a redimere; tutto piaghe di colpe e di pene, coperto di obbrobrio ed incapace di salvarsi da sé. Ecco l'uomo, ecco in quale stato è ridotto per il peccato, ed ecco in quale stato s'è ridotto il suo Redentore per salvarlo! La parola di Pilato rimase come scolpita sull'appassionato Signore, e da allora, nei secoli, il Redentore coronato di spine e di obbrobrio per amore è stato chiamato: Ecce Homo.
Quando i pontefici e le guardie dei pontefici videro Gesù, insensibili allo scempio che se ne era fatto, maggiormente lo disprezzarono, e perché non fosse sfuggito alla morte obbrobriosa alla quale ad ogni costo volevano condannarlo, gridarono: Crocifiggilo, crocifiggilo. Non fù il popolo a gridare per primo, perché al vedere il Signore in molti nacque un sentimento istintivo di compassione, ma furono i sacerdoti, i quali poi istigarono il popolo. Pilato, sommamente disgustato di quello spettacolo di odio e di crudeltà, rispose con ironico disprezzo a quel grido di morte: Prendetelo voi e crocifiggetelo, poiché io non trovo in Lui colpa alcuna. Egli voleva dire: voi reclamate la sua morte contro il mio giudizio? Ebbene crocifiggetelo voi se lo potete; quanto a me non ve ne dò autorizzazione perché lo trovo innocente.
I Giudei, cioè i sacerdoti, videro che avevano perduto il processo penale politico, dal quale attendevano la certa condanna di Gesù, ed abbandonando le accuse che prima avevano formulate, cercarono di cambiare la causa da politica in religiosa ed esclamarono: Noi abbiamo una legge e secondo la legge deve morire perché s 'è fatto Figlio di Dio. I Romani, infatti, lasciavano che i popoli vinti continuassero a governarsi con le loro leggi nazionali in ciò che non contrastava col loro potere; ora la Legge (Lv 24,16) condannava a morte i bestemmiatori, e i sacerdoti si appellarono ad essa, accusando Gesù di bestemmia perché s'era dichiarato Figlio di Dio.
I diritti del potere civile, i diritti del potere religioso
Pilato aveva notato in Gesù qualche cosa di straordinario, e ne era rimasto impressionato; il suo aspetto, la sua maestà, il suo atteggiamento e la sua calma e pazienza l'avevano convinto di trovarsi innanzi ad un essere straordinario; gli stessi sogni tormentosi della propria moglie l'avevano confermato in quella sua impressione. Pagano poi com'era, stava nella sua mentalità che gli dèi potevano discendere in terra, avere dei figliuoli, e compiere in terra sotto forme umane cose eccezionali. Ora, quando senti che Gesù s'era dichiarato Figlio di Dio, fu preso da un senso di timore religioso, e maggiormente si impaurì, temendo di condannare una divinità, e di attirarsi addosso qualche brutto flagello; perciò rientrò nel pretorio, e fissando in volto Gesù, gli domandò: Di dove sei Tu?
E voleva dirgli: vieni tu dalla terra, o sei veramente un Essere disceso dal cielo? Gesù non gli rispose perché Pilato non era in grado di capire la verità altissima dell'Incarnazione del Verbo, e tacque. Il preside ne fu contrariato grandemente, in proporzione dell'ansietà che aveva avuta nel fargli quella domanda, e sospettò in quel silenzio una certa confessione di colpabilità. Questo, psicologicamente, gli fece sentire la propria superiorità giuridica e il diritto che aveva di interrogarlo e di sapere la verità; perciò, passando improvvisamente da un senso di timore superstizioso a quello di autorità, disse: Tu non mi parli? Non sai che ho il potere di crocifiggerti e il potere di liberarti? Con questo confessava la propria colpa nel non imporsi al popolo e ai sacerdoti, e liberarlo, giacché confessava di averne il potere. Gesù rispose con calma divina: Non avresti alcun potere su di me se non ti fosse stato dato dall'alto. Per questo colui che mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te. Con questa risposta Gesù indirettamente gli disse ch'Egli era un personaggio straordinario; questo solo poteva fargli capire, e rispose perché Pilato si appellò al principio di autorità. Obbediente sino alla morte, Gesù volle obbedire anche all'autorità civile, che pur veniva da Dio. Egli disse implicitamente: Io non sono un uomo qualunque, come potresti credere né sono sottoposto al tuo potere come un suddito, ma se tu hai ora su di me una potestà, questa ti viene permessa semplicemente dall'alto, e senza questa permissione né tu né i miei nemici potrebbero nulla contro di me.
Dal punto di vista religioso poi, che è in questo momento l'oggetto del tuo interrogatorio, tu non hai alcun potere neppure se mi riguardi come tuo suddito perché questo spetta al potere sacerdotale; perciò il Sommo sacerdote, che credendo di giudicare da sacerdote mi ha dato nelle tue mani ingiustamente, è più colpevole dì te perché abusa di un potere vero, che ha ricevuto da Dio solo per far risplendere la verità. Egli poteva giudicarmi perché doveva assodare di autorità se ero veramente
Colui che era stato promesso; ma per far questo giudizio, avrebbe dovuto considerare gli argomenti di verità e di credibilità che io ho dati; egli invece ha giudicato solo che ero degno di morte, e l'ha fatto per malignità e per calcolo di opportunismo.
Come sacerdote, in un giudizio religioso non avrebbe dovuto consegnarmi all'autorità civile e militare né avrebbe dovuto così riconoscere la sopraffazione di questo potere su quello religioso. La sua colpa poi è maggiore della tua, perché tu mi condanni senza saper nulla di ciò che ho fatto per confermare la mia missione, e di ciò che ha fatto Dio per annunziarla e prepararla nei secoli, mentre il Sommo sacerdote questo lo conosce e lo deve conoscere.
Con la sua risposta breve e sintetica, Gesù volle distinguere bene i diritti del potere civile da quello religioso; volle far capire a Pilato che se non ci fosse stato un disegno permissivo di Dio, egli non avrebbe potuto giudicarlo, poiché la questione del Messia era di competenza dell'autorità religiosa; questa aveva il potere di giudicarne, ma abusandone per rinnegare la verità anziché riconoscerla, si rendeva reo di una colpa immensamente più grande di quella che egli commetteva condannandolo innocentemente per opportunismo politico.
«Se liberi costui, non sei amico di Cesare!», urla il sinedrio
Pilato sentiva nella risposta di Gesù un accento di maestà e di giustizia che lo colpì; capì ch'era un Essere superiore, e che ad ogni costo doveva liberarlo. Egli si sentì tanto più spinto a questo, in quanto che vedeva in quale stato aveva ridotto un innocente. Uscì quindi fuori nuovamente, e dovette senz'altro dire che ne avrebbe ordinato la liberazione come appare dal contesto. Il sommo sacerdote infatti e gli altri che erano con lui, appena s'accorsero che Pilato era deciso a liberarlo, portando di nuovo la questione nel campo politico,
gridarono: Se liberi costui non sei amico di Cesare, poiché chiunque si fa re, va contro Cesare. Era il colpo definitivo.
Pilato conosceva bene il carattere sospettoso dell'imperatore Tiberio che allora regnava. Questi puniva severissimamente i delitti di lesa maestà, e cadere in sua disgrazia era lo stesso che essere condannato a morte. Sapeva inoltre a prova il carattere intrigante delle persone del sinedrio, e ne aveva un argomento troppo chiaro nel processo medesimo di Gesù; non credette perciò di potersi più opporre alla volontà dei nemici del Redentore senza compromettere positivamente se stesso e, fatto venire fuori Gesù sedette solennemente in Tribunale, sedendo in un trono elevato su di un pavimento a mosaico, chiamato perciò Litostrato, e in aramaico Gabbatà, cioè rialto, per pronunziare la sua sentenza. Era il giorno di Parasceve, nota l'evangelista, cioè il giorno della preparazione precedente il sabato pasquale. Alla sera di questo giorno gli Ebrei mangiavano la Pasqua, ed avevano premura di sbrigarsi, benché fosse ancora circa l'ora sesta, cioè il mezzogiorno.
Pilato cede: Gesù è condannato alla morte di croce
Pilato mostrò di assentire alla loro richiesta, ma molto a malincuore, e poiché nel frattempo pareva che l'agitazione della moltitudine si fosse sedata, giacché tutti erano intenti a quello che egli faceva; sperò ancora di riuscire a liberare Gesù, o per lo meno volle manifestare ancora una volta il suo sentimento sulla sua innocenza ed esclamò; Ecco il vostro re. Ma la turba inferocita ed agitata cominciò di nuovo a gridare: Toglilo via, toglilo via, crocifiggilo. E Pilato, quasi volendo eccitare il loro sentimento nazionale, gridò: Crocifiggerò io il vostro re? Ma i pontefici, più maligni di tutti, immediatamente gli stroncarono la parola sulle labbra, dicendo: Noi non abbiamo altro re che Cesare. Con queste ignobili parole essi che avevano detto necessaria la morte di Gesù per salvare l'integrità della nazione, essi che s'erano eretti come difensori del giudaismo, rinnegavano le loro speranze messianiche, la loro storia, la loro dignità, e si davano in pieno dominio dello straniero. Pilato ne fu sconcertato, e poiché non poteva opporsi ad un sentimento così pieno di servitù all'imperatore, si lavò le mani innanzi a tutti, come racconta san Matteo (27,24-25), e volle con questo gesto definitivamente dichiararsi estraneo al delitto che si voleva commettere. Protestò con un gesto, perché il tumulto del popolo soffocava la sua voce, e senz'altro pronunziò la sentenza iniqua, motivandola proprio con quello che ripetutamente aveva affermato essere falso, e concludendola con le rituali parole solite a scriversi in simili condanne: Condemno, ibis ad crucem.
E la tristissima storia si ripete ogni giorno nel mondo
È la tristissima storia che si ripete ogni giorno nel mondo. L'anima, nel tumulto delle sue passioni, innanzi alla coscienza che si leva per reclamare i diritti di Gesù Cristo, e che lo vuol far vivere in lei, gli grida la morte, ed ignobilmente si dichiara schiava del male.
Le nazioni poi, traviate dalle sette e dalle illusioni di satana, per i loro falsi interessi politici non dubitano di perseguitare la Chiesa e di ripudiare il regno di Gesù Cristo.
Se si ascoltasse l'eco dei peccatori ostinati che si infangano nei peccati, si ascolterebbe continuamente contro Gesù il grido infame che echeggiò nel pretorio: Crucifìgatur, e se si potesse sintetizzare in poche parole la triste storia dell'umana apostasia dalla Chiesa e da Gesù Cristo, si ascolterebbe lo stesso grido: Crucifigatur!
Opponiamo a questo grido l'applauso del nostro amore a Gesù, e diciamo di fronte alla tentazione e di fronte al mondo: o Gesù, vivi Tu solo nell'anima nostra, e sii Tu l'unico nostro Re. Non permettere che ci facciamo illudere dalle passioni e ci facciamo deviare dalle illusioni dei falsi profeti e dalle empietà dei mestatori; rendici tuoi servi fedeli sulla terra e tuoi beati comprensori nel cielo.
4. Il doloroso cammino al Calvario, la crocifissione
Dopo che Pilato ebbe sottoscritta l'iniqua sentenza, consegnò Gesù Cristo ad un centurione che doveva presiedere all'esecuzione, e per esso ai soldati ed ai carnefici che dovevano eseguirla. I sacerdoti, gli scribi e i farisei erano trionfanti, e mal dissimulavano la loro feroce gioia sotto un aspetto di severità ipocrita e di giustizia. Avrebbero dovuto almeno vergognarsi che un loro connazionale, discendente di Davide, salisse l'infame supplizio della croce, ignoto agli Ebrei prima della dominazione romana, e segno infamante della loro oppressione; ma ad essi premeva solo dare a Gesù tal genere di morte, che ne avesse per sempre sfatato ogni prestigio in mezzo al popolo.
Svestirono il Redentore della clamide rossa, e gli riposero le sue vesti, lasciandogli la corona di spine sul capo. Poi, siccome i condannati portavano essi stessi a maggiore obbrobrio o tutto lo strumento del loro supplizio, o almeno una parte, gli caricarono sulle stanche e piagate spalle la croce, tra insulti, percosse e derisioni di ogni genere, ed ordinarono il crudelissimo corteo.
Il testo evangelico è di una laconicità impressionante, non si dilunga in nessun particolare; ma quanta tragedia di dolore ed epopea d'amore è raccolta in quelle parole: S'incamminò verso il luogo detto Calvario, ed in ebraico Golgota, dove lo crocifissero e con Lui altri due, uno di qua e l'altro di là e Gesù nel mezzo!
La Chiesa segue in spirito il cammino di Gesù al Calvario nella Via Crucis, e si unisce ogni giorno al suo Sacrificio nella Messa. Un cammino di dolore ed un'offerta di amore. Essa ricorda i dolori sofferti dal Redentore in quel cammino penosissimo, nel quale dovette essere aiutato dal Cireneo per non venire meno nel tragitto. Ricorda le angustie del suo Cuore divino, le sue cadute sotto il peso della croce, i maltrattamenti ricevuti, e la crocifissione; ma nessuna rievocazione e nessun ricordo può darci neppure una pallida idea dei dolori da Lui sofferti per nostro amore. L'efferatezza dei suoi nemici non aveva limiti, e la crocifissione ch'era in sé già un crudelissimo e spaventoso supplizio, come lo chiama Cicerone stesso, per Lui, che aveva una delicatissima costituzione fisica, costituì un supplizio raccapricciante.
Il crocifisso, per la distensione del corpo, l'infiammazione delle piaghe e la congestione del sangue alla testa, al cuore ed ai polmoni, soffriva dolori inenarrabili, e la sua agonia si protraeva a volte per giorni, in mezzo a spasimi atroci e ad una sete ardentissima. Gesù, sensibilissimo ad ogni dolore più di qualunque altro per la perfezione del suo Corpo, spasimò per tre ore sul durissimo legno, insultato, vilipeso, e riguardato come un malfattore più emerito tra due ladri crocifissi con Lui. I suoi discepoli erano fuggiti lontano, ad eccezione di san Giovanni che pur era impotente a dargli qualunque conforto. C'erano ai piedi della croce Maria Santissima e alcune pie donne; ma c'erano per angustiarsi soltanto, ed accrescevano con questo la pena al Cuore di Gesù!
La scritta sulla croce
Il mondo era ignaro di quello che avveniva, e del grande mistero c'era solo una lontana indicazione nella scritta posta sulla croce, che Pilato tracciò di propria mano in latino, greco, ed in ebraico, cioè in aramaico, ch'era allora la lingua del paese. La scritta diceva: Gesù Nazareno re dei Giudei. Pilato avrebbe dovuto indicare il motivo della condanna, ma poiché ripetutamente aveva affermato che non trovava in Gesù causa alcuna di condanna, si contentò di scrivere che Gesù era re dei Giudei, adombrando così senza volerlo, con una tabella giudiziaria, la regalità divina del Redentore. Egli, infatti era Re, non solo dei Giudei, ma di tutto il mondo e di tutti i secoli, ed era Re proprio per la sua immolazione ed il suo sacrificio. Le tre lingue nelle quali era tracciata la scritta indicavano l'universalità di quella regalità. Pilato forse la scrisse per fare un dispetto ai Giudei, e quando i pontefici se ne lamentarono risentiti, come di una cosa falsa, ripudiando ancora una volta Gesù come re, il preside romano disse seccato: Ciò che ho scritto, ho scritto. Egli infatti aveva scritto senza riflettere di essere in quel momento uno strumento della divina provvidenza che per lui proclamava il Crocifisso, Re immortale dei secoli.
Gesù crocifisso: la terra non vide mai un delitto più scellerato consumato dagli uomini e un'opera più grande di amore compiersi da Dio
C'era sul Calvario un contrasto impressionante: il luogo era orrido e tetro, le tenebre lo avvolgevano tutto paurosamente, ma in quelle tenebre e in quel terrore spirava dal Crocifisso una grande luce che colpiva le anime di buona volontà, ed una grande pace che le conservava equilibrate e serene nell'immensa angoscia. I due ladri si contorcevano ed uno di essi inveiva contro lo stesso Redentore, ma su questa medesima sventura aleggiò la divina voce del perdono, e uno dei ladri non solo si convertì, ma si santificò, e si sentì ripetere dal Redentore la consolante promessa: Oggi sarai con me in Paradiso.
Nel terrore di una scena di odio contro l'Innocente divino, e nella tetra caligine della morte che già incombeva sui condannati, spuntava, come subito vedremo, la più tenera e soave maternità, che doveva essere ricca di germogli di vita per tutti
i secoli. Succedeva in grande, anzi in proporzioni che avevano dell'infinito, quello che si vede nei campi, dove dalla desolazione dei concimi spuntano i germi della vita, e dove si formano le ricche fioriture erompenti dai semi immolati e morti nella terra. I peccati, orrida putrefazione di una natura nobilissima, si trovavano tutti sulla Vittima divina, che era come il terreno fecondo che li trasformava in lode di Dio espiandoli, e ridonava alla caduta natura umana la sua fecondità soprannaturale; dalla morte nasceva la vita, dall'umiliazione la gloria, dall'odio dei perversi l'amore del Re divino che tutti li abbracciava, dalla nudità obbrobriosa il paludamento smagliante della grazia, dalle piaghe la salvezza, dalla sofferenza atrocissima la felicità eterna.
La terra non vide mai un delitto più scellerato consumarsi dagli uomini, e un'opera più grande di amore compiersi da Dio.
Se avessero aperto gli occhi dello spirito quelli che sul Calvario credevano di assistere semplicemente ad un'esecuzione capitale, avrebbero visto uno spettacolo grandioso: i cieli eterni aperti alla terra, la potenza divina erompente dalle sue profondità nella più grande diffusione di bontà, lo sguardo del Padre in un ineffabile atteggiamento di amore, la glorificazione eterna del Padre, il Verbo, rifulgente in pieno nell'assunta umanità, l'Amore eterno, unione eterna del Padre e del Figlio, unione dell'uomo col Figlio e col Padre nell'amplesso della grazia. Avrebbero visto il bacio della giustizia e della pace in quelle spine, in quelle piaghe, in quei chiodi, in quella croce, un bacio prolungato d'amore che non aveva riserve nella misericordia perché la Vittima divina non aveva avuto riserva nel riparare e nel donarsi.
Che cosa grande! Quel Crocifisso era come rupe percossa, dalla quale fluiva un torrente dissetante i pellegrini dell'arido deserto terreno; era come un roveto di pene, che ardeva in una fiamma inestinguibile, ed illuminava le tenebre della terra con la luce di Dio; era come colonna di nube e di fuoco che tracciava il cammino ai conquistatori della vera terra promessa, era arca divina del novello tabernacolo dell'alleanza tra Dio e l'uomo, era come candelabro ardente, altare di olocausto, altare di profumi, manna dei viatori, verga di onnipotenza sacerdotale, canto perenne di osannante amore nel silenzio della morte che scendeva come tetra ombra notturna su quella Vita divina! Che cosa immensamente grandiosa!
Mentre la morte e la vita si combattevano in un duello mirabile, i soldati si giocavano ignari la veste di Gesù
Quale combattimento epicamente divino si svolgeva in quella sconfitta apparente, che sembrava completa: Mors et vita duello conflixere mirando. Nessuno lo vedeva, e i soldati, che quasi quasi avrebbero potuto accorgersene se avessero avuto un barlume di luce, ed avrebbero dovuto esaltarsene per la loro medesima condizione, stavano ai piedi della croce giocandosi la veste della Vittima e dividendosene le spoglie.
Quale contrasto! La forza militare oziante in un macabro gioco, e la Vittima vinta e sopraffatta, combattente in un mirabile duello con l'Inferno, col peccato e con la morte!
Noi ci esaltiamo in questo disgraziato anno di guerra per le gesta degli eserciti germanici, che senza dubbio hanno lasciato attonita la povera umanità peccatrice, travolta da quella valanga come fuscello di paglia; noi rimaniamo inebetiti innanzi a quella potenza distruttrice che porta i caratteri tremendi di una giustizia superiore, saettante come fulmine per punire i delitti delle nazioni e non possiamo spiegare questo terribile fenomeno senza pensare al flagellum Dei che ebbe Attila nelle mani, per distruggere gli ostinati avanzi della barbarie romana irrompente contro la Chiesa di Dio. Attila travolse le barriere che impedivano ancora la dilatazione del cristianesimo; la tragedia di oggi travolge un mondo abbarbicato ancora ai relitti dell'apostasia, e prepara senza volerlo la via al regno di Dio.
È uno spettacolo nuovo nel quale la barbarie e la scienza si sono baciate per dare un germoglio di morte, nel quale il progresso laicizzato dall'odio a Dio s'è mutato in martello gigante contro le nazioni apostate.
Che cosa terribile, apocalittica, che la mente stenta a concepire ed a credere! A capo degli eserciti, menti fredde nel calcolo minuto di ogni movimento e ogni avanzata, menti che sembrano avere uno sguardo universale, come se fossero in un osservatorio sidereo !...
La massa degli eserciti avanza come unione di forze cicloniche cui nulla resiste, con un armamento che non conosce ostacoli.
È terribile! Le fortezze corazzate che dovevano essere imprendibili, liquefatte come cera coi lanciafiamme sviluppanti duemila e più gradi di calore alla distanza di 80 metri; le corazze di saldo acciaio perforate come carta dalle pistole chimiche, che le infrangono, penetrando negli organi vitali dei più potenti strumenti di offesa e di difesa bellica!
Dal cielo gli aeroplani saettanti come folgori, seminano lo scompiglio e la morte, e lanciano nei posti più vitali i paracadutisti, come demoni distruttori e come avanguardia di morte. Questi, isolati dall'esercito, non sono sperduti, vi sono collegati con la radio, e con speciali razzi di segnalazione a raggi oscuri, che sono tenebrosi per i nemici, e luminosissimi per i commilitoni, che li scorgono con occhiali speciali. Non ci sono ostacoli per le avanzanti masse del flagellum Dei: per la foresta, i carri armati irrompono e spezzano come fuscelli alberi di un metro e più di diametro; s'arrampicano, saltano i fossi, si precipitano per le ripide discese, senza capovolgersi, si librano quasi sul vuoto; sono anfibi per i corsi di acqua, vi si lanciano, non affondano, passano, irrompono, travolgono, e nessuna forza li può fermare.
Per mare, le navi potenti, precise al bersaglio com'è preciso l'ago che punge una vena; dove non possono avanzare le navi, i canotti di gomma, armati, portati a mano, gonfiati in poco tempo, lanciati nell'inseguimento, senza che alcun proiettile sia capace di perforare quella gomma speciale e sgonfiarla. Sotto il mare, i sottomarini insidiosi, precisi strumenti di morte, e poi le cosiddette vespe dì mare, piccole navi velocissime, siluranti i colossi come una vespa che col pungiglione tronca una vita: che cosa terribile, che complesso formidabile, innanzi al quale gli eserciti più forti hanno dovuto cedere, cadere, sfasciarsi, tra l'assordante fragore delle artiglierie, delle bombe fischianti, delle mitragliatrici, delle mine, e tra gli accecanti fasci di luce dei riflettori!
Eppure questo combattimento è nulla di fronte a quello del Calvario, dove Gesù travolse satana, il peccato e la morte. Nessuna forza regge al paragone con la potenza di un angelo solo, e nessuna devastazione equivale a quella d'un solo peccato. Se alle tremende forze degli eserciti moderni potessero contrapporsi forze paralizzanti l'impeto della loro distruzione, sgominanti le loro insidie, e capaci di ricostruire quello che esse dissolvono; se dal cielo calassero non i paracadutisti della rovina, ma gli angeli della pace, che facessero rifiorire le terre sconvolte e devastate, se tutta la massa nemica irrompente nell'odio fosse mutata in una massa amica avanzante negli osannanti inni della pace, se nello scontro finale l'esercito vittorioso ridonasse la vita ai morti, o ricomponesse ogni ferita riportata, e dei nemici formasse dei fratelli, non sarebbe questa una vittoria più grande, immensamente più grande di una vittoria di distruzione?
Satana e le sue legioni sul Calvario, nel pieno della loro spaventosa potenza
Satana era sul Calvario, e con satana le legioni dei demoni, irrompenti con tutte le loro forze spaventose, di fronte alle quali la potenza bellica moderna è meno di un gioco di fanciulli, anzi è meno di un gioco la stessa potenza delle forze della creazione.
Un astro colossale, saettante nel ciclo con la sua corsa fantastica, a 92 milioni di chilometri al minuto secondo, è quasi fermo di fronte alla velocità di un angelo; lo scoppio di un corpo celeste miliardi di volte più grande della terra, che potrebbe travolgere il firmamento, se la provvidenza divina non l'avesse isolato in uno spazio immenso, è meno dello scoppiettio d'uno zolfanello di fronte all'atto semplice della volontà di un angelo che passa dalla potenza all'azione. Tutte le forze fisiche non reggono al paragone con una sola forza spirituale; ne abbiamo un saggio in questa medesima guerra spaventosa, dove tanti formidabili mezzi di offesa e di distruzione, innanzi ai quali si sfalda come terriccio l'acciaio più temprato, non riescono a travolgere interamente l'umana volontà, benché ancora chiusa nelle trepidanti fibre del fragile corpo.
La montagna cede e si frantuma, e l'uomo, ancorché mutilato e sanguinante, ha sempre un ultimo sforzo da opporre. È una testimonianza della potenza dell'anima.
Ora l'angelo, che è pura forza spirituale, ha una potenza inconcepibile e se è angelo caduto, questa potenza è irruzione spaventosa, che assale l'anima, la vita, il corpo, l'ambiente
della vita, e vi produce affanni, dolori, malattie, agitazioni, disperazioni.
Se Dio non ponesse limiti all'azione dei demoni, e se Gesù non li avesse legati con la sua morte, uno solo di essi potrebbe subissare non solo gli uomini, ma tutte le forze della materia. Ora ecco il duello mirabile che Gesù Crocifisso sostenne con l'Inferno, col peccato e con la morte, mentre i soldati giocavano e i nemici lo insultavano.
La sconfitta di satana
Sospeso a tre chiodi, spasimante d'angoscia inenarrabile, tutto piaghe, con un corpo ridotto all'estrema impotenza, agonizzante, Gesù affrontò le forze infernali, e le vinse con la sua obbedienza, con la sua umiliazione e col suo amore.
L'orgoglio satanico si sentì venir meno, non poté reggere, esso che aveva detto non serviam, innanzi a quella completa obbedienza, che non si compiva tra estasianti gioie di amore, ma nell'estremo abbandono e nell'estrema umiliazione. Quell'atto di obbedienza era divino; satana ne sentì la divina superiorità, fu confuso, sentì in quella luce tutto l'orrore della sua colpa, si vergognò del regno tenebroso del quale si gloriava, cedette, si inabissò coi suoi satelliti, giù giù nell'orrida oscurità del suo spirito tenebroso! Per la prima volta capì che non era luce, che non era dominatore, che non era re, e misurò per la prima volta la strettezza del suo regno di rovine in proporzione del suo spirito teso sempre verso gl'illimitati confini dell'Infinito!
Quale momento! Gesù ansava; aveva l'occhio velato dall'agonia, era coperto dall'odio di tutti i perversi, ma diffondeva amore. Satana, lo spirito dell'odio, ne fu come stritolato. Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno ; satana l'ascoltò, e vide all'istante come un varco aperto alla fiumana dell'odio, del quale aveva inondato la terra. Fu vinto dall'amore misericordioso, e si vide allora stesso sfuggire uno dei ladri condannati, sul quale aveva già posto gli artigli adunchi. Tremò a quella parola di ainore: Ricordati di me, tremò a sentire: Oggi sarai con me in Paradiso. Si apriva dunque il Paradiso ch'egli credeva d'aver chiuso per sempre all'uomo. Vide ai piedi della croce la Madre/divina, e fu il colpo finale della sua sconfitta: era l'Immacolata, non aveva avuto mai dominio su di Lei, non poteva avvicinarsi a Lei perché se ne sentiva dominato. Arse d'ira a sentirla chiamare Madre universale: Maria era la Regina del mondo, s'elevava come astro fulgente, era luce di amore, perché come lucido specchio di giustizia raccoglieva tutti i raggi della misericordia della Vittima divina e Gesù affannava tra le tenebre dell'atmosfera pesante e le tenebre del suo Cuore angosciato... Affannava solo, solo, abbandonato dal Padre, ma nell'abbandono gli dava la massima testimonianza di amore, ardendo di sete, di amore per Lui e per le anime... Satana sostò come inebetito; ancora una volta era vinto, e appena l'anima divina di Gesù in un ultimo grido di amore si separò dal corpo, egli come annientato dalla folgore s'inabissò facendo tremare la terra. L'amore aveva vinto!
Fu questa la sua vittoria, grandiosa vittoria, poiché il peccato era espiato, la giustizia era soddisfatta, il regno del male era annientato per sempre, e da allora a gradi, di secolo in secolo doveva dissolversi, fino all'ultimo giudizio, nel quale il Crocifisso, glorioso e trionfante, l'avrebbe per sempre relegato nell'Inferno.
5. Gesù affida Giovanni a Maria, e in lui tutti gli uomini
Sul Calvario stavano le pie donne che piangendo avevano seguito Gesù fino al luogo del supplizio. Al principio avevano dovuto starsene in lontananza, come dicono gli altri evangelisti, perché i soldati non avevano permesso loro di avvicinarsi fino alla croce; ma quando il cielo si coprì di tenebre, e lo spavento invase quelli che erano sul Golgota, esse si fecero più ardite e si avvicinarono. I soldati d'altra parte, compiuto il loro ufficio tristissimo, non ci si opposero, perché, passato il primo impeto di curiosità nel popolo che era accorso alla crocifissione come ad uno spettacolo, secondo la frase incisiva di san Luca (23,48), si era stabilita sul monte una certa calma.
San Giovanni elenca le principali donne che stavano presso la croce, e in primo luogo Maria Santissima Madre del Redentore, e sua sorella, cioè una sua parente, Maria, moglie di Cleofa, e Maria Maddalena, la peccatrice che era stata convertita da Gesù. V'erano anche altre pie donne, ma queste tre stavano proprio presso la croce. Rappresentavano tutte le donne: Maria le vergini, Maria di Cleofa le maritate, Maria Maddalena le penitenti. Maria Santissima, Vergine Immacolata, e il polo opposto, Maria Maddalena peccatrice penitente: tra questi due estremi, Maria di Cleofa.
Stavano, immobili e come impietrite dal dolore, con lo sguardo fisso a Gesù per seguirne l'agonia, e col cuore straziato da un'angoscia indicibile.
Maria Santissima era là e pregava per le anime di tutti i secoli, unendosi al sacrificio del suo Figlio. Era corredentrice e compiva questo nobilissimo ufficio implorando pietà per i peccatori. Ora Gesù, vedendo la Madre sua, e vicino a Lei il discepolo prediletto da Lui, disse alla Madre sua: Donna, ecco il tuo figlio. Vide la Madre sua non solo con uno sguardo esterno, ma con uno sguardo interno; la vide Madre sua in quel momento nel quale Egli rappresentava tutta l'umanità peccatrice; la vide come la donna, la novella Eva, la Madre di tutti i viventi, e poiché Egli era Re nell'immolazione, la vide Regina dell'universo. Perciò la chiamò donna e non Madre. Donna equivaleva a signora nobilissima, ed era un termine di riguardo presso gli Ebrei; Gesù però chiamò così la Madre sua per una ragione più grande, e la riguardò Signora e Regina dei redenti, costituendola loro madre. Egli in mezzo ai suoi spasimi amava, amava immensamente gli uomini, e il suo amore volle assegnare loro una Madre divina, perché per Lei avessero trovato più facile accesso ai tesori che Egli elargiva redimendoli. E questo il significato letterale delle solenni parole di Gesù, non esitiamo ad affermarlo; è questo che Egli intese principalmente dire affidando Giovanni a Maria. Pensare che abbia voluto semplicemente dare a Maria un asilo in casa di un discepolo prediletto, o a questi una compagnia ed un aiuto, non risponde al testo ed al contesto evangelico.
Gesù si rivolse prima a Maria, dicendole nell'additargli Giovanni: Ecco il tuo figlio. Se avesse voluto darle un appoggio e u:i sostegno in Giovanni, logicamente si sarebbe prima di tutto rivolto a lui, dicendogli di riguardarla come Madre e provvederla come tale. Maria non ne avrebbe avuto bisogno, perché già aveva una dimora o un luogo ospitale fin da quando Gesti prese congedo da Lei per iniziare il pubblico ministero. Egli assegnò Maria come madre a Giovanni, e soggiunse, rivolto al discepolo: Ecco la Madre tua, lo fece perché egli l'avesse riconosciuta, onorata e amata come tale. Giovanni era giovane, aveva una professione nel mestiere di pescatore che ancora esercitava, aveva una dimora e un fratello, Giacomo; non era un diseredato o un abbandonato che Gesù volle affidare materialmente alla Madre sua. E evidente dunque un fine immensamente più grande in quelle sue parole: Ecco il tuo figlio [...] ecco la madre tua; e forse per questo, oltre che per rivolgersi a Maria con un'espressione di onore, Egli la chiamò donna e non Madre.
Consacrata dalle parole di Gesù, Maria diventa Madre della Chiesa
Quale mistero sublime si nascondeva in quelle parole di Gesù, semplici ed operative come quelle della consacrazione!
Egli sulla croce formò la sua Chiesa, e dal suo Cuore aperto le diede la vita, come dal costato aperto di Adamo fu formata la donna. Maria, che aveva dato a Gesù il Corpo reale, doveva dargli anche il Corpo mistico, ed Egli perciò la costituì Madre di tutti i redenti, Madre del sacerdozio in una maniera particolarissima, e Madre della Chiesa. Giovanni fu certo il primo figlio prediletto di Maria; il primo che la riconobbe come madre e le fu devotissimo, ma non fu il solo figlio diretto, diciamo così, di Maria, né la sua filiazione adottiva fu solo un simbolo di quella degli uomini; egli invece li rappresentò tutti, e la parola di Gesù si riferì alla universale maternità di Maria. E una verità, ripetiamo, che risulta chiara dal testo e dal contesto evangelico, e che ci fa sentire presenti tutti sul Calvario ai piedi della croce ed ai piedi di Mamma Maria.
Il dono che Gesù ci fece della Madre sua, dopo averci dato tutto se stesso, non è stato ancora completamente compreso ed apprezzato dagli uomini. L'influsso malvagio delle sette che, divise dal Corpo mistico di Gesù, sono divise da Maria Santissima, s'è fatto sempre più sentire nei cuori cristiani, soprattutto oggi, e la devozione a Maria spesso languisce. Si cerca di ridurla in proporzioni sempre più esigue, quasi per non urtare gli eretici, e si teme di poter offendere Gesù onorando la sua Santissima Madre, senza pensare che non si può andare a Gesù se non si va a Maria.
Eppure la Chiesa vive sempre al caldo del Cuore materno di Maria, ed i suoi padri e dottori hanno fioriture mirabili di elogi, d'inni e di atti di amore filiale a questa dolcissima Mamma. Il loro parlare, anzi, appare ardito, tanto è vivo e palpitante di fede. Il mondo non ritroverà la pace e non vedrà il pieno trionfo di Gesù senza vedere prima il trionfo e il regno di Maria. Il trionfo di Gesù sarà come un rinnovarsi e un rifiorire dell'opera sua redentrice, e poiché Egli la iniziò proprio per Maria, la rinnoverà per Maria. Certo è un fatto storicamente assodato che i più grandi santi, in ogni tempo della
Chiesa, sono stati sempre i più grandi devoti di Maria; questo è segno certissimo che tale devozione, lungi dal poterci distaccare da Dio o dal Redentore, ci avvicina alle fonti stesse della santità.
Imitiamo san Giovanni che, ricevuta Maria per Madre, accepit eam in sua. Facciamola dimorare nell'anima nostra, dichiariamola Regina delle nostre attività, consacriamole la vita perché Essa la rinnovi e la ridoni al Signore. Facciamo passare tutto per le sue mani, affinché tutto sia consacrato e benedetto da Lei, e noi, sotto il suo manto materno, possiamo presentarci con maggiore fiducia al trono ed al tribunale di Gesù Cristo.
6. Gli ultimi momenti di Gesù. La Morte. Il Cuore aperto
Gesù Cristo agonizzava, ma aveva la pienezza della sua vita divina e la padronanza assoluta di ogni suo atto. Era Dio e, pur morendo in quanto uomo, mostrava nella sua stessa morte la sua divinità. Egli guardava a tutti i secoli, stava al centro della storia umana, considerava le promesse di Dio le figure, le profezie, e misurava tutto lo sviluppo dell'opera sua nei più minuti particolari, sino al termine dei secoli. Valutava tutto con infinita calma, come un artista che dà gli ultimi ritocchi all'opera d'arte che ha prodotta, ed aveva cura che tutto fosse compiuto quello che di Lui era stato predetto, anche a costo di attirare su di sé novelle pene. Era tutto abbandonato alla divina volontà, e considerava le profezie che lo riguardavano non tanto come la previsione di ciò che doveva avvenire, quanto come l'espressione della divina volontà; perciò Egli stesso ne desiderava l'avveramento, e lo determinava accettando le pene che a mano a mano lo torturavano.
Le profezie non erano un programma che doveva realizzarsi, ma l'annunzio anticipato di ciò che sarebbe avvenuto;
ma poiché ciò che sarebbe avvenuto era nel piano delle disposizioni e delle permissioni della divina volontà, Gesù Cristo le guardava in questa luce, e volontariamente accettava gli eventi che si succedevano intorno a Lui, come aveva accettato ogni circostanza della sua immolazione. È in questo altissimo senso che il Sacro Testo dice che Egli, conoscendo che tutto era compiuto, affinché s 'adempisse la Scrittura disse: Ho sete.
Era detto nel Salmo 21,16 che la lingua della vittima si sarebbe attaccata al suo palato per la sete, e nel Salmo 68,26, che nella sua sete l'avrebbero abbeverato di aceto. Egli considerò in queste due profezie la riparazione alla sete che le creature hanno del male quando ardono in loro le passioni; considerò la gloria che veniva a Dio da quella riparazione, ed ardendo di mistica sete di amore per Dio e per le anime, come ardeva di sete fisica terribile per la perdita del sangue e per gli atroci tormenti che subiva, gridò: Ho sete. Manifestò allora quel suo intimo ardore e quel suo tormento, benché lo avesse da molto tempo, per compiere la riparazione accogliendo l'ultimo insulto degli uomini e l'ultima pena al suo corpo stremato.
Il profeta aveva visto in spirito che l'avrebbero abbeverato di aceto, contemplando quello che sarebbe avvenuto, e che avvenne difatti, ma quella pena e quell'insulto non potevano toccare il Redentore senza la sua volontaria accettazione, perché nessuna creatura perversa avrebbe potuto irrompere contro di Lui che era Uomo-Dio; perciò Egli stesso, domandando da bere o, meglio, dicendo semplicemente di aver sete, attirò su di sé quell'ultimo atto di malvagità che già stava nel cuore dei suoi carnefici.
Certo è un mistero, ma se ne può intravedere qualche barlume per intenderlo. I sacerdoti, gli scribi, i farisei, i carnefici, i soldati avevano cercato di rendere a Gesù più aspra e tormentosa la morte; avevano fatto le loro congiure, avevano stabilito come attuarle, e la loro perfida volontà s'era determinata liberamente a maggiore iniquità secondo le circostanze occorse nello sviluppo del loro piano. Tutto questo apparteneva alla loro malizia, ed era stato previsto dai profeti prima che avvenisse.
Dio utilizzò quella malignità per compiere nel suo Figlio Incarnato il piano grandioso dell'espiazione dei peccati e della salvezza degli uomini; questo utilizzare l'umana cattiveria non implicava, com'è evidente, una fatalità nelle azioni dei perversi. Gesù Cristo, accettando volontariamente le pene previste, ed accettandole non come azioni perverse, ma come mezzo di espiazione e di riparazione, permise ai suoi nemici d'irrompere contro di Lui e, quindi, che quella maligna e perfida volontà avesse Lui stesso per oggetto e per termine.
In questo altissimo senso Egli compiva degli atti perché si compisse la Scrittura.
Senza la sua permissione gli atti di empietà contro di Lui sarebbero stati impossibili; i profeti, prevedendo quegli atti, avevano previsto anche implicitamente gli atti di permissione di Gesù che li rendeva possibili contro di Lui; perciò Egli, guardando l'avveramento di ciò che lo riguardava, operava affinché si compisse la Scrittura, dando con questo il suo permesso e il suo consenso.
Gesù abbeverato di fiele
I suoi crocifissori, prevedendo per l'esperienza che già avevano della sete ardente dei condannati, la sete che avrebbe avuto Gesù, avevano avuto cura di portare sul Calvario un vaso di aceto, ossia di posca, acqua ed aceto, bevanda dissetante che davano ai condannati come estremo atto di pietà. Essi però, come risulta dalle stesse profezie, avevano avuto cura per Gesù di mescolarvi del fiele amarissimo. Distratti poi dal gioco delle vesti e dalla noia dell'attesa, e forse sconvolti dalle tenebre del Calvario, non avevano ancora attuato il crudele disegno d'amareggiare Gesù.
Il peccato l'avevano fatto, ed avevano tutta la perfida volontà di consumarlo, ma Gesù non l'aveva ancora loro permesso, poiché nel suo amore scelse l'ultimo momento della sua vita, quando la sete fisica era più ardente, e quando, terminando oramai i suoi spasimi, il suo Cuore cercava un'ultima riparazione da dare agli uomini, e un ultimo conforto da elargire loro nelle pene che avrebbero sofferte. Egli guardò tutte le profezie, vide già in potenza l'avveramento di quell'ultimo tratto che riguardava la sua sete, e gridò: Ho sete, per permetterne il compimento su di Lui. I carnefici infatti, deridendolo corsero al vaso che avevano preparato, vi inzupparono una spugna, ed adattatala ad una cannuccia d'issopo per poter giungere alla bocca di Gesù, gli porsero quella disgustosissima bevanda, affinché Egli l'avesse succhiata dalla spugna. L'issopo è una pianta che in Oriente raggiunge anche l'altezza di un metro, e ce n'è una specie che ha il fusto legnoso. I carnefici si servirono d'un ramo d'issopo perché la croce di Gesù non era molto sollevata da terra; trovarono quella cannuccia e se ne servirono come la più adatta al loro scopo.
Gesù muore in croce, si squarcia il velo del tempio, la terra trema
Sorbita quella disgustosa bevanda, Gesù disse: Tutto è compiuto, e chinato il capo rese lo spirito.
Erano compiute tutte le profezie, era compiuta la sua vita, era compiuta l'opera mirabile che il Padre gli aveva affidata negli anni del suo mortale cammino; doveva solo consumare il suo sacrificio.
E lo fece con piena e libera volontà; perciò chinò prima il capo e poi rese lo spirito.
Quale momento fu quello della morte di Gesù!
Egli raccomandò prima al Padre lo spirito suo, come racconta san Luca (23,46), poi chinò il capo in atto di estrema obbedienza e di accettazione della morte, e quasi per chinarsi
a dare l'ultimo bacio di perdono agli uomini che aveva tanto amati; non ebbe alcuna contrazione di spasimo, dette come un lieve sospiro, alitando così nuovamente sull'uomo lo spiracolo della vita. Spirando s'abbandonò interamente, e in quell'abbandono il Corpo ebbe un movimento, girò un poco su se stesso, e poi rimase immobile.
Il velo del tempio si squarciò da capo a fondo, la terra tremò, le pietre si spezzarono (Mt 27,31), e in quello sconvolgimento di terrore una gran pace spirava d'attorno. Si sentiva già la vita novella che Gesù aveva donata all'uomo con la sua morte. S'era compiuto un periodo della storia umana e delle divine misericordie, e ne cominciava un altro, meraviglioso e ricco di grazie. Il Calvario a mano a mano divenne deserto di tutti i nemici del Redentore, che non osarono riguardare la loro vittima, e discendevano confusi. Molti si percuotevano il petto (Le 23,48), ed il centurione stesso coi soldati di guardia riconobbero ch'Egli era veramente il Figlio di Dio (Mt 27,54).
Quelli che rimasero duri, benché spaventati e sbigottiti, furono i sacerdoti, gli scribi e i farisei. Essi, nella loro ipocrisia, lungi dal preoccuparsi del delitto commesso, si preoccuparono che rimanessero sulle croci i corpi dei condannati, nel grande giorno del sabato, e poiché i due ladri crocifissi con Gesù erano ancora vivi, domandarono a Pilato che fossero finiti col crurifragio, cioè con lo spezzamento violento delle ossa delle gambe, che si faceva con grandi mazze ferrate triangolari. I soldati infatti comandati per questo macabro ufficio andarono sul Calvario, e cominciarono col rompere le gambe ai due ladroni, che ancora si contorcevano nell'agonia. Tra urli di dolore quegli infelici esalarono lo spirito, il buon ladro espiando le sue colpe, il cattivo dolorosamente accrescendole con le ultime bestemmie della disperazione.
Per Gesù non ci fu crurifragio: perché?
I soldati avevano avuto ordine di spezzare le gambe a tutti e tre i crocifissi, e nella loro rozzezza l'avrebbero fatto senz'altro anche a Gesù; ma Dio non lo permise. L'evangelista si riporta alle cerimonie ordinate nel mangiare l'agnello pasquale, e nota che il Signore aveva proibito che se ne spezzassero le ossa (Es 12,46; Nm 9,42). Ora l'agnello era figura di Gesù Cristo, ed il comando di non spezzarne le ossa riguardava principalmente Lui in quest'ultimo atto del suo sacrificio. Quel comando, è evidente dal fatto, passò nei secoli e, diremmo quasi, echeggiò su di ogni famiglia che immolava la Pasqua e su di ogni agnello che, figurando il Redentore, veniva immolato; di figura in figura giunse fin sul Calvario, e si fermò sulla realtà, sul vero Agnello; echeggiò nell'anima dei soldati senza che essi stessi se ne accorgessero, conquise la loro volontà, e li costrinse così a non rompere le gambe a Gesù.
Questo ci dà un'idea della potenza d'un comando e della parola di Dio, e delle conseguenze che può avere in noi. I soldati sentirono inconsciamente che non dovevano rompere le ossa del Redentore; alla loro volontà decisa a farlo, anzi costrettavi, perché ne avevano avuto ordine formale, si oppose la volontà di Dio, l'ordine ch'Egli aveva dato riguardo all'agnello pasquale. I soldati sentirono in loro non l'ordine ma una potenza inibitrice che arrestò la loro violenza e penetrò la loro libera volontà con un ragionamento. Essi videro che Gesù era già morto, e credettero inutile infierire contro il suo cadavere, si arrestarono e compirono, loro malgrado, il comando di Dio che proprio in loro ebbe l'ultima espressione e il pieno compimento. Si direbbe che la Parola divina, pronunziata tanti secoli prima, si diffuse, continuamente in ogni solennità pasquale della storia d'Israele, quasi onda di radio, e terminò nell'anima dei soldati, facendosi loro sentire attraverso il ragionamento che fecero quasi comando radiodiffuso: Os non comminuetìs ex eo (Es 12,46).
La parola di Dio che, rivolta all'umana libertà nel mangiare l'agnello, la limitò e le impedì di romperne le ossa, terminò nella libera volontà dei soldati come luce di ragionamento attraendo la loro attenzione sulla vittima già morta, ed impedì loro di fame scempio. È una cosa importantissima che ci induce a meditare sull'effetto e sul percorso di ogni parola di Dio negli uomini, nelle nazioni, e nelle umane vicende. È una cosa che ci costringe ad adorare tremando ogni parola di Dio, pensando alla sua potenza, e a non osare di trascurarla o di trasgredirla.
Quando la divina Parola giunge in noi, penetra l'intelletto, illumina la volontà, commuove il cuore; se non è raccolta dalla nostra libertà, non rimane inerte: diventa parola di riprovazione, di condanna e di sventura. Come nella radio l'onda interferita diventa scoppio, sibilo, fragore che disturba, così, ed immensamente di più, la parola di Dio diventa scoppio di castigo, sibilo di rimorso, fragore di agitazione e di sventura quando non è ricevuta da noi ed è, per così dire, interferita dalla nostra perfida volontà. Basterebbe questo solo pensiero per indurci alla fedele valutazione di ogni parola della divina Legge, e di ogni manifestazione della sua volontà.
La lanciata al Cuore di Gesù
Quando i soldati constatarono che Gesù era già morto, non osarono spezzargli le gambe, come s'è detto, ma uno di essi, probabilmente il capo del drappello, per assicurarsi della sua morte, mise in resta la lancia e gli vibrò un violentissimo colpo al Cuore squarciandolo. La lancia consisteva in un'asta robusta di legno, terminante con una punta di ferro a forma ovale, della larghezza di una mano; la ferita quindi fu larga e profonda, tanto larga che, dopo la risurrezione, san Tommaso disse di volervi porre dentro la mano. Le antiche pitture effigiano Gesù trapassato al lato destro, forse per un'illusione di visuale, giacché il destro rispondeva al sinistro del pittore che dipingeva; ma tutto fa credere che Gesù fu trapassato proprio al lato sinistro, dritto al Cuore, poiché è evidente che il soldato volle inferirgli un colpo che avrebbe dovuto finirlo se non fosse già morto. L'acqua poi che ne sgorgò apparteneva al pericardio, cioè alla membrana che avvolge il Cuore e il sangue alle orecchiette.
La Volgata dice che il soldato aprì con un colpo il costato, il testo greco dice invece trafisse, forò, il che indica anche meglio che il colpo fu profondo. Essendo Gesù morto verso le tre pomeridiane, ed essendo andati i soldati per il crurifragio circa un'ora prima che cominciasse il sabato, cioè verso le cinque, Gesù era già spirato da circa due ore; scientificamente il sangue non poteva più essere liquido, e perciò san Giovanni riguarda come un fatto straordinario e miracoloso che fosse sgorgato insieme all'acqua, cioè alla linfa che s'era raccolta nel pericardio.
Il fatto era tanto più straordinario, in quanto Gesù aveva versato torrenti di sangue, a testimonianza del medesimo evangelista, e non poteva averne più nelle vene e nelle arterie. San Giovanni ne fu così impressionato e vi dette tanta importanza, che ripetutamente se ne dichiara testimone oculare; né può dirsi senza temerità che la sua impressione sia dovuta ad una supervalutazione del fenomeno. Anche se volesse ammettersi che esso poteva avvenire senza miracolo, non può ammettersi, proprio per la testimonianza di san Giovanni, che non sia avvenuto senza miracolo, sopratutto senza miracolo di amore.
San Giovanni non fu tanto colpito dal fenomeno, quanto dall'impressione che gli lasciò nell'anima, perché in quel fenomeno c'era un ultimo mistero di amore da parte di Gesù: Egli era il novello Adamo addormentato nella morte, e dal suo costato, dal suo Cuore, si formava la Chiesa, come riconoscono tutti i Padri. Egli dava l'acqua per congregarla e il Sangue per vivificarla, il Battesimo e l'Eucaristia, i Sacramenti della rinascita spirituale e della vita soprannaturale. Quell'acqua e quel Sangue sgorgò su Maria, su san Giovanni e sulla Maddalena, i più prossimi alla croce, cioè sulla Madre della Chiesa, sul Sacerdozio e sull'umanità peccatrice, perché la Chiesa era affidata a Maria, doveva essere vivificata dal Sacerdozio, e doveva raccogliere i peccatori per ridonarli a Dio. Gesù Cristo volle aprire il suo Cuore divino come ultimo attestato di amore all'umanità, ed attraendo l'attenzione sulla piaga del suo costato, volle attoria sul suo Cuore, fonte di misericordie e di novelle benedizioni per gli ultimi tempi della storia del mondo.
L'evangelista fa notare che con quella trafittura al Cuore di Gesù si avverava una parola della Scrittura: Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto. La citazione che non è letterale, ed è tratta dai Settanta, riguarda una profezia di Zaccaria (12,10) nella quale è annunziata la conversione degli Ebrei negli ultimi tempi del mondo. La profezia dice così: Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo Spirito di grazia e di preghiera, e volgeranno lo sguardo a me che hanno trafitto; e lo piangeranno come suol piangersi un unico figlio, e faranno lutto per lui come si fa lutto per la morte di un primogenito. Il profeta annunzia indirettamente la trafittura del costato di Gesù, dicendo che gli Ebrei vedranno colui che hanno trafitto, e l'annunzia profetizzando la loro conversione.
Egli riguarda come unica cosa due eventi separati da lunghissimi secoli, perché li guarda in Dio cui tutto è presente: gli Ebrei contemporanei a Gesù passano sul Calvario e guardano Colui che hanno trafitto, ma non si convertono; alla fine dei tempi si convertiranno e riguarderanno Gesù crocifisso da essi trafitto, piangendo amaramente il loro peccato. Gesù fu trafitto dal soldato, ma quella stessa ferita fu conseguenza del delitto degli Ebrei; e come essi lo crocifissero, benché materialmente l'avessero crocifisso gli sgherri, così essi lo trafissero sia nelle mani e nei piedi, sia nel costato, reclamandone la morte di croce, ed aizzando contro di Lui i carnefici.
Nella liturgia del Sacro Cuore la Chiesa volge lo sguardo a quella lanciata sul Calvario.
La Chiesa ha preparato già agli Ebrei la novella visione che dovrà compungerli e convertirli, aprendo all'umanità le fonti inesauribili del Sacro Cuore di Gesù. È stato Gesù stesso a rivelarle questo segreto di amore e di conversione, ed Essa, dopo averne a lungo ponderato la verità e la grandezza, a misura che più si è avvicinata agli ultimi tempi maggiormente ne ha magnificato lo splendore per indurre al pentimento i suoi figli ingrati. Si può dire che tutta la liturgia del Sacro Cuore costituisce uno sguardo di amoroso pentimento a Colui che è stato trafitto dai nostri peccati: Ecco - esclama la Chiesa nell'inno del Vespro - come l'insolente e orribile schiera delle nostre colpe ha ferito il Cuore innocente di un Dio che non lo meritava. Il colpo della lancia del soldato l' hanno diretto i nostri peccati, e la punta del ferro crudele l'aguzzò la colpa mortale... E turpe ritornare alle colpe che lacerano questo Cuore beato; emuliamo invece nei nostri cuori le fiamme rivelatrici d'amore.
Nel Mattutino il suo invito è un invito a guardare adorando Colui ch'è stato trafitto: Venite, adoriamo il Cuore di Gesù ferito per nostro amore, perché presso di Lui è la sorgente della vita, ed Egli ci disseta al torrente delle sue delizie (Ant. II, del I Nott.) essendo sua delizia beneficarci in tutto il suo Cuore, affinché non ci allontaniamo da Lui (I Respons. I Nott.). Egli si è manifestato per mostrare ai secoli venturi le abbondanti ricchezze della sua grazia (III Respons. I Nott.), s 'è fatto trafiggere per regnare su tutte le genti (I Ant. del II Nott.), per rivelare ai piccoli i grandi tesori del suo amore nascosto ai dotti ed ai sapienti (II Resp. II Nott.), e per attrarre a sé tutti i cuori (I Resp. Ili Nott.). Egli grida, invitando tutte le anime a Lui: Chi ha sete venga a me e beva (II Ant.Lodi), perché ci ha amati con amore eterno, e ci ha tratti al suo Cuore per misericordia (III Ant.). Il suo Cuore è arca che contiene la legge non dell'antica servitù, ma della grazia, del perdono e della misericordia; è santuario purissimo della nuova alleanza, è tempio più santo dell'antico, è velo più salutare dell'altro che fu squarciato nella sua morte. La sua carità volle essere trafitta d'un colpo di lancia visibile, perché noi venerassimo le ferite del suo amore invisibile (Inno Lodi). Volgeremo lo sguardo a Colui che abbiamo trafitto (Antif. Benedictus), attingeremo con gioia le acque dalle fonti del Salvatore (Vesp. Benedictus).
Non è senza ragione che l'evangelista ricorda la profezia di Zaccaria: Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto; Gesù attende infatti il suo popolo ingrato dal giorno nel quale da esso fu trafitto, e si può dire che da allora sta con le braccia aperte per chiamarlo nella sua grande misericordia. Noi che apparteniamo al suo Cuore amoroso, dobbiamo cooperare con le nostre preghiere e col nostro apostolato alla conversione degli Ebrei, per soddisfare l'ardente amore di Gesù crocifisso, piagato per amore. In questi tempi di rivolgimenti radicali nel mondo preghiamo che venga il regno di Gesù Cristo, e che si compiano i suoi disegni su tutte le anime, affinché tutte rispondano al suo amore e si salvino.
7. La sepoltura di Gesù. Lo splendore della croce e le aberrazioni del mondo moderno
Dopo che furono spezzate le gambe ai ladroni e che fu squarciato il Cuore di Gesù, gli Ebrei furono solleciti a far togliere i corpi dei condannati ed a farli gettare nella fossa comune loro riservata, insieme con gli strumenti del supplizio, che erano riguardati come cosa sommamente ripugnante.
Avrebbero voluto far lo stesso anche a Gesù, ma Giuseppe d'Arimatea li prevenne, e domandò a Pilato il permesso di prendere il Corpo divino e seppellirlo onoratamente. Per legge i condannati non potevano essere sepolti nelle tombe di famiglia, però i Romani lo concedevano ai parenti che ne avessero fatto richiesta; Pilato poi volentieri accordò che Gesù fosse sepolto con onore, per dargli almeno questo attestato di rispetto, sapendolo innocente. Forse il modo reciso e audace, come nota san Marco (15,43) col quale Giuseppe domandò il Sacro Corpo, fece supporre a Pilato che fosse un suo parente.
Ottenuto il permesso prima del crurifragio dei ladroni, Giuseppe si unì a Nicodemo, altro discepolo occulto di Gesù, e comprò cento libbre d'una mistura di mirra e di aloe, per imbalsamare il corpo. Il tempo stringeva, giacché già calava la sera e, non potendosi fare un'imbalsamazione accurata del Corpo, Giuseppe comprò una grande quantità di aromi (cento libbre erano più di 32 chilogrammi); pensava così di riempirne tutte le fasce funebri che dovevano avvolgere le membra del sacro Corpo, e il grande lenzuolo o sindone che doveva avvolgerlo tutto. La miscela di mirra e di aloe era in polvere, e poteva porsi più agevolmente e celermente.
Gesù deposto dalla croce, tra le braccia della Madre Sua e poi nel sepolcro
Aiutato da Nicodemo e forse anche dalle pie donne, Giuseppe staccò il corpo dalla croce, e lo depose nelle braccia di Maria, com'è costante tradizione, e com'è logico, poiché il Figlio divino non poteva darsi che alla Madre; era Essa stessa che lo reclamava. Quale raccapricciante spettacolo apparve all'addolorata Regina! In lontananza quel Corpo divino appariva piagato nell'insieme, per così dire; ma da vicino quelle piaghe apparvero in tutta la loro atrocità! Essa le contemplò ad una ad una, vi impresse sopra i suoi caldi baci e le irrorò delle sue lacrime. Vide in quelle piaghe tutta la nera
ingratitudine degli Ebrei e tutti i peccati degli uomini; vide ancora con amore immensamente compunto e riconoscente che la sua grandezza era dovuta a quelle piaghe ed a quella dolorosissima Passione, giacché Dio l'aveva eletta, santificata e redenta anticipatamente proprio riguardando la Passione e morte del suo Figlio.
Pianse Maria: tutte le profezie che la riguardavano preannunziarono il suo pianto, ed il tenerissimo suo Cuore non poté non sciogliersi in un amarissimo pianto. Fu un pianto certamente composto, calmo, come si addiceva a creatura tanto perfetta, ma fu un pianto caldo e amarissimo, come si addiceva ad una Madre. Non poté a lungo dar corso alla piena del suo amore su quel Corpo divino, perché il tempo stringeva. Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo lavarono ad una ad una le membra piagate, le avvolsero in panni ponendovi gli aromi, e poi avvolsero tutto il Corpo in una sindone monda come solevano fare gli Ebrei.
Giuseppe aveva poco lontano dal luogo della crocifissione un orto di sua proprietà, nel quale aveva fatto scavare nella roccia un sepolcro nuovo per proprio uso; così solevano fare i ricchi nelle loro proprietà. Tutto era stato predisposto dalla provvidenza di Dio servendosi della stessa libertà della sua creatura; il fatto stesso che Giuseppe avesse una proprietà in quel luogo era provvidenziale. Quando egli la comprò e la ereditò dai suoi parenti, non avrebbe mai supposto che la tomba fattavi costruire dovesse servire al suo Signore e Redentore. Era poi tanto vicino al luogo della crocifissione, che tanto questo quanto il sepolcro furono rinchiusi nel recinto della Basilica edificata poi da sant'Elena.
Il sepolcro consisteva in una caverna che veniva chiusa con un grosso macigno; in questa caverna, su una specie di piattaforma che stava al centro, deposero il Corpo divino, poi rotolarono il masso sull'entrata, e se ne ritornarono mesti e silenziosi tra le prime ombre della sera, pregando.
Nella Passione di Gesù il tracciato della nostra vita
Quel sepolcro dava un senso di pace, si direbbe di sollievo, dopo le aspre pene sofferte da Gesù. Oramai i suoi nemici erano lontani, e non potevano più infierire contro di Lui; oramai il dramma sanguinoso s'era chiuso. Quella morte era stata ed è la vita degli uomini, e quel sepolcro dava proprio il senso della vita che vi riposa tranquilla nelle mani di Dio.
Il cammino dolorosissimo del Redentore ci aveva tracciato attraverso i suoi dolori il cammino della pace in terra e della felicità in Cielo, ed Egli ci aveva conquistati redimendoci, ci aveva conquisi amandoci, ci aveva vivificati unendoci a sé. Nell'orto aveva agonizzato sudando sangue per l'agonia interiore, ed aveva consolato tutte le nostre agonie spirituali, accogliendone in Lui come il distillato amarissimo. I nostri peccati l'avevano tormentato fino al sudore di sangue, e il suo amore ci aveva consolati fino a cospargere di balsamo le nostre angustie. Tradito da Giuda, aveva accolto su di sé tutti i nostri tradimenti all'amore di Dio, e tutte le pene che ci vengono dal tradimento delle creature.
Era rimasto solo, in balìa degli sgherri, per sostenere la nostra solitudine e il nostro abbandono nelle pene della vita, quando siamo vittime dell'umana ingiustizia.
Trascinato innanzi a giudici iniqui, aveva tracciato, col sangue dei tormenti subitivi, la via della consolazione e dell'abbandono a Dio in mezzo all'irrompere degli umani giudizi, fallaci, oppressivi ed ingiusti. Dopo la ripetuta attestazione della sua innocenza fatta da Pilato, aveva voluto, Egli innocente, essere condannato, per rendere innocenti noi, condannati all'eterna morte per i nostri peccati.
Nella sua infinita carità offrì il suo Corpo innocentissimo ai flagelli, per raccogliere i flagelli che meritano i nostri peccati.
Offrì il suo capo alle spine per riparare le colpe del nostro orgoglio e le colpe di quelli che stanno a capo.
Apparve in un paludamento di sangue e di obbrobrio, sostenendo uno scettro di canna, Egli che sosteneva l'asse dell'universo, per riparare le tracotanze orgogliose dei dominatori e i traviamenti dei re capi di Stato.
Ricevette la pesante croce sulle spalle dopo l'iniqua sentenza di morte, salì il monte del dolore, si lasciò crocifiggere per liberarci. E spirò per darci la vita.
E noi cosa faremo per Te, Gesù dolcissimo, che cosa ti ricambieremo per tanto amore? Ti daremo fedeltà invece del tradimento, ed amore che si gloria di Te, invece del rispetto umano; romperemo ogni vincolo che ci lega al male, per consolarti nei ceppi dai quali fosti stretto, mortificheremo la nostra carne e il nostro orgoglio, e ci faremo vivificare da Te.
Senza di te, o Crocifisso Gesù, l'umanità sta arretrando verso le caverne della preistoria
Il mondo stolto e scellerato ha preteso creare un nuovo vangelo diametralmente opposto al tuo, ed ha avuto la tracotanza di dichiarare fallite le tue massime, scolpite col Sangue sulla croce, o di reputarle indegne della sua pretesa nobiltà. La tua Passione s'è rinnovata e si rinnova nella Chiesa, la quale geme, è tradita, è trascinata innanzi ai giudici empi, è spogliata dei suoi beni, è flagellata nelle sue membra, è coronata di spine nei suoi capi, è crocifissa nella sua vita, è vilipesa nella sua dottrina, è immobilizzata nelle sue attività ed è considerata alla stregua dei malfattori. Eppure solo in Te e nella tua Chiesa il mondo può trovare la salvezza e, se non ritorna alla tua dottrina ed alla tua croce, non c'è per esso che l'abisso di guerre sconvolgenti e di rivoluzioni, come dolorosamente vediamo.
S'è preteso elevare a simboli di vita e di grandezza dei simboli che non sono quelli della tua croce, e noi abbiamo
visto già i profeti dell'errore proclamare un ordine nuovo di false dottrine e capovolgere i grandi valori dello spirito. Oramai per questi pseudo-cristi e pseudo-profeti è virtù la violenza del più forte, la sopraffazione del prepotente, e l'irruente esigenza dell'orgoglio insaziato.
L'umiltà, la dolcezza, il sacrificio eroico per il raggiungimento degli eterni beni, la carità che si dona per amore di Dio, che perdona, dimentica il male, benefica ed ama non vale più. È sublime innanzi a questo mondo abbrutito solo il gesto di chi irrompe, mitraglia, agguanta, ferisce, uccide e trionfa tra spaventose rovine, calpestando gli altri! Senza la tua croce, o Gesù Crocifisso, l'umanità arretra fino alle caverne preistoriche e s'imbarbarisce. Essa ha spiegato le ali come aquila non per elevarsi ma per piombare più facilmente sulla preda e per dilaniarla coi rostri della raffinata barbarie.
Ha divorato lo spazio con la velocità, non per sentire meno l'angustia della materia, ma per accrescerne la brama.
Ha ingigantito le sue forze meccaniche non per dare la prevalenza allo spirito ma per rendere gigantesca l'oppressione della materia, e per accrescere fino al colossale il corpo di morte che avvinghia l'anima!
E terribile! Dove passa la civiltà senza la croce passa la devastazione, e non lascia che macerie e cumuli di cadaveri.
Signore Gesù, venga il tuo regno, ritorni il fulgore della tua croce, siano spazzati via i nuovi profeti di menzogne, e ritorni nelle anime la tua pace.
Non siamo noi sulla terra, di passaggio, per conoscere, amare, servire Dio e salvarci? E le nazioni non sono congregate per questo nella Chiesa? Come mai è possibile che una nazione tenda tutta alla materia, all'orgoglio, alla violenza, alle brutture dei sensi, e che le anime che la formano possano tendere contemporaneamente allo spirito, all'umiltà, alla mansuetudine, alla purezza ed alla pace? La civiltà dell'imperialismo moderno non è civiltà di barbarie spirituale? A che servono tante pretese grandezze se non servono all'anima o, peggio, se si oppongono all'anima? Chi potrà mai pretendere di cancellare il segno della redenzione dalle anime, e sostituirlo coi segni della vita tutta materiale che le perde? O Gesù, crocifisso per amore delle anime, inalbera di nuovo il tuo trionfante vessillo nelle nazioni, spazza via la falsa civiltà che ci soffoca, umilia i superbi, e dà il trionfo dell'amore tuo alla tua Chiesa santa.
Sac. Dolindo Ruotolo
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