venerdì 18 aprile 2014

18.04.2014 - Commento alla lettera agli Ebrei cap. 4, par. 2-3

2. Il senso letterale di questo capitolo.
Con logica progressione di idee, san Paolo, scrivendo agli Ebrei convertiti al cristianesimo, applica ad essi quanto aveva detto degli Israeliti, per esortarli ad essere fermi nella fede. Si noti che quando l’Apostolo dice che l’unica condizione per entrare nel riposo di Dio è il Credere alla sua Parola, alla sua rivelazione fatta da Gesù Cristo, Figlio di Dio, non intende parlare di una fede sterile, senza le opere, ma di una fede attiva, che si manifesti con le opere, in armonia con la rivelazione fatta da Dio per mezzo del Figlio suo. Sarebbe assurdo, infatti, credere alla Parola di Dio, rivelata per guidarci a salvezza, e non praticarla, uniformando la vita ai suoi precetti.
Anche nelle cose più semplici della vita: credere, per esempio, ai precetti della grammatica, insegnati dal maestro, quasi come... rivelazione del modo di scrivere correttamente, e non seguire praticamente quei precetti è un non senso, un assurdo pratico. Credere alle leggi di un fenomeno fisico o chimico, e non seguirlo per realizzarlo è una contraddizione tra il credere fermamente e l’operare.
Gli Israeliti ebbero la rivelazione, per mezzo di Mosè, di essere liberati dalla schiavitù dell’Egitto ma, ribellandosi a Mosè, e quindi a Dio che parlava loro per Mosè, praticamente non crederono, e perirono tutti nel deserto. Non entrarono così nel riposo di Dio, cioè nella terra promessa.
La liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, per essere introdotti nella terra promessa, era un tipo della liberazione dalla schiavitù del peccato e della redenzione, come lo furono le figure e le profezie dell’Antico Testamento, che annunciarono il Redentore, Gesù Cristo; ora, il non credervi con l’adesione piena alla fede cristiana, per gli Ebrei convertiti era una perdizione, era un essere esclusi dal riposo di Dio, cioè dalla salvezza eterna, della quale la terra promessa era tipo e figura.
Per questo san Paolo, rivolgendosi agli Ebrei convertiti, che potevano vacillare nella fede in Gesù Cristo, esclama: Temiamo, dunque, che qualcuno di noi possa rimanere privo dall’entrare nella salvezza eterna, nel riposo di Dio, poiché ancora sussiste per noi la promessa del Signore, fatta agli Israeliti tipicamente, dovendosi compiere e realizzarsi in noi, poiché anche noi abbiamo ricevuto la buona novella, come la ricevettero gli Israeliti da Mosè.
Ma non giovò loro nulla, non essendosi essi uniti, nel credere, a coloro che l’ascoltarono, e perirono nel deserto. Invece - soggiunge san Paolo - entreremo nel riposo di Dio noi che abbiamo creduto, perché Dio escluse dal suo riposo, cioè dalla salvezza, solo quelli che non crederono alla sua parola, dicendo: Ho giurato nell’ira mia: non entreranno nel mio riposo.
Così risultava, infatti, dal testo del salmo 104 citato già da san Paolo, e del quale fa un commento, giacché il riposo promesso agli Israeliti nella terra promessa era figura della beatitudine dell’eterna gloria di cui gode Dio, e che partecipa a quelli che, ascoltando la sua parola e praticandola, si salvano.
Cosa significa il riposo di Dio
L’Apostolo commenta appunto che cosa significa il riposo di Dio in questo senso altissimo della sua gloria e della sua beatitudine eterna, e dice: Benché tutte le sue o- pere fossero compiute sin dalla fondazione del mondo, ossia nella creazione, Dio disse, come risulta in qualche luogo, cioè nel Genesi 2,2, parlando del settimo giorno: E riposò Dio nel settimo giorno da tutte le sue opere. Ed ancora in quello stesso luogo, cioè non nello stesso testo, ma alludendo al suo riposo, nel salmo MA: Non entreranno nel mio riposo.
Sono parole sublimi, per quanto oscure per la nostra piccola mente, e bisogna approfondirle. Noi non possiamo parlare di Dio che per analogia alle cose sensibili, che sono quelle alle quali la nostra piccola mente può giungere. Nella Scrittura citata da san Paolo è detto che nel settimo giorno Dio si riposò, non nel senso che abbia cessato di
agire, ossia di operare con la sua altissima provvidenza, come disse Gesù Cristo stesso: Il Padre mio opera ed io opero, ma nel senso che con la creazione del mondo aveva compiuto tutto il suo divino disegno di manifestazione di sé ad extra e, pur potendolo, non aveva bisogno di creare nuove cose.
Teologicamente sappiamo che la creazione è diffusione della bontà di Dio ad extra, fuori di sé. Tutto fu creato per il suo Verbo come causa esemplare, e quindi per Maria, termine fisso del suo eterno consiglio, come canta Dante; quindi nella creazione, nel suo sviluppo, nel suo fine c’era e c’è tutto quello che manifesta Dio nella sua onnipotenza, nella sua sapienza e nel suo amore, non solo nelle cose materiali, ma in quelle spirituali, nelle cose visibili ed in quelle invisibili.
La timida esplorazione che fa l’uomo o qualunque altra creatura dell’universo a noi ignota, attraverso la luce della rivelazione o della scienza, ci fa conoscere Dio attraverso quello che ha fatto ed attraverso la sua Parola, rivelante il suo divino disegno; non aggiunge nulla a quello che ha creato o disposto, e quindi è detto che Dio si riposò, nel senso altissimo che rimase nella sua eterna beatitudine e felicità, per raccogliere in quella felicità, nel suo riposo, le creature che potevano godere e fruire di Lui, dopo aver conquistato il possesso di quella felicità attraverso le prove della vita, e per i meriti del Figlio suo, che avrebbe mandato alla sua creatura libera, fatta a sua immagine e somiglianza, restaurata dalla sua infinita misericordia.
Manifestò se stesso ad extra, e si riposò, diremmo quasi, come sole che manifestandosi irradia l’universo e si fa conoscere, e dopo avere diffuso la sua luce rimane nello splendore suo, perché non ha bisogno di svelarsi più. È un paragone poverissimo, ma che può darci una scialbissima idea del riposo e della gloriosa e felicissima pace divina, che di nulla e di nessuno ha bisogno nella sua infinita semplicità, tutto in atto, senza passato né futuro, eppure sostenendo tutto con la sua potenza, ordinando tutto con la sua sapienza, abbracciando tutto col suo infinito Amore.
L’oggi per gli Israeliti, l’oggi per noi cristiani
San Paolo, applica la figura del riposo di Dio, che era per gli Israeliti la terra promessa, ai cristiani ebrei convertiti alla fede, e sul concetto del salmo 114 da lui citato: Oggi se avete udito la sua voce, non indurite i vostri cuori, oppone all'oggi degli Israeliti nel deserto, quando si avviavano alla terra promessa, chiamata per analogia il riposo di Dio, oppone, diciamo, l’oggi dei cristiani che peregrinano verso la vita eterna, il vero riposo di Dio, dopo avere ascoltato la Parola divina annunciata da Gesù Cristo, e dopo avervi obbedito.
E una sottile argomentazione, che per noi può apparire oscura, ma che per gli Ebrei, abituati alla meditazione della Scrittura, era chiara e convincente. I loro dottori, infatti, sapevano interpretare con facilità quei passi della Scrittura che si riferivano al Messia, e non era estranea alla loro mente la nozione dei tipi e delle figure che lo annunciavano.
Quando Erode, infatti, domandò ai dottori della Legge dove doveva nascere il Messia, essi risposero prontamente, per la luce del profeta Michea: a Betlemme di Giuda. Eppure il testo del profeta non parlava, strettamente, della nascita del Messia, ma della gloria che avrebbe avuta Betlemme, nascendo da essa il condottiero che doveva reggere Israele. Ai dottori ebrei non sfoggi il senso recondito della gloria di Betlemme, che, piccolissima tra le città, dava i natali al Messia.
San Paolo, dunque, che per avere a lungo meditato la Scrittura, conosceva le sottili applicazioni dei rabbini, e quindi la possibilità di essere compreso dagli Ebrei convertiti, fa questo argomento, sottile ma efficace, per indurli a star fermi nella fede, e a vivere nella luce della parola del Vangelo loro annunciato: avvicina il tipo alla realtà, Voggi del deserto all’oggi cristiano nel quale essi vivevano.
Nel deserto, la rivelazione di Dio per Mosè; nel cristianesimo, la sublime rivelazione per Gesù Cristo, Figlio di Dio, come aveva già detto nell’introduzione enfatica della lettera. Nell’oggi del deserto gli Israeliti indurirono il loro cuore, e non entrarono nella terra promessa, riposo di Dio, eccetto due soltanto: Caleb e Giosuè. Nell’oggi del Cristo, compimento del tipo del deserto, essi, fatti cristiani, non dovevano indurire il loro cuore, e dovevano credere alla Parola di Gesù Cristo, per entrare nel vero riposo di Dio, nella felicità della salvezza eterna.
Se Giosuè avesse tradotto Israele nella terra promessa, allora quel pellegrinaggio si sarebbe esaurito e compiuto nel possesso della terra promessa. Ma era tipo e figura del pellegrinaggio cristiano verso il cielo, riposo di Dio, dove non tutti giungono, per loro colpa, mancando di fede. Perciò all’oggi del deserto corrisponde e segue l’oggi cristiano, e bisogna essere vigilanti a conservarsi saldi nella fede, per non ridursi come quegli Israeliti del deserto, privi del riposo di Dio.
Perciò san Paolo concludendo il suo sottile argomento, dice: se all’oggi del deserto segue quello cristiano, vuol dire che Dio vuole che alcuni debbono entrare nella via della salvezza, per l’annuncio della Parola di Dio. Quelli ai quali fu da prima annunciata la buona novella non entrarono nel riposo di Dio a causa della loro incredulità.
All’Antico Testamento segue perciò il Nuovo Testamento, e Dio fissa, con questo, di nuovo un giorno determinato, il giorno di oggi nel quale noi viviamo, dicendo a questa generazione nella persona di Davide, tanto tempo dopo, come si è detto sopra agli Israeliti del deserto: Oggi, nell’oggi della redenzione per Gesù Cristo, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori.
Dunque - concluse san Paolo - se all’oggi del deserto deve seguire l’oggi del pellegrinaggio cristiano, del quale era figura, rimane ancora un giorno di riposo riservato al popolo di Dio, poiché chi, seguendo la dottrina di Gesù Cristo, entra in questo riposo divino, salvandosi, si riposerà egli pure dalle sue opere, come Dio si riposò dalle sue. Il cristiano che vive santamente, morendo si riposa dai travagli e dai dolori della vita, come Dio si riposò dalle sue opere, cioè nella felicità eterna.
Gli Ebrei avevano sempre vivo nella mente il ricordo della schiavitù dei loro avi nell’Egitto, e gli strepitosi miracoli da Dio operati per liberarli; tramandavano questo ricordo di generazione in generazione, e se lo sentivano ravvivare nella preghiera pubblica; il parallelo, quindi, fatto da san Paolo, tra gli Israeliti del deserto e gli Ebrei ai quali scriveva, doveva essere per loro di grande efficacia per esortarli a rimanere fermi nella fede cristiana da essi abbracciata. Perciò san Paolo insiste, a conclusione del suo argomento: Sforziamoci dunque di entrare in questo riposo, cioè nel riposo della salvezza eterna, affinché qualcuno non cada, dando lo stesso esempio di incredulità, come lo dettero gli Israeliti nel deserto, non ascoltando la Parola di Dio.
La Parola di Dio è come spada affilata a due tagli
Badate bene - voleva dire l’Apostolo - a non fare come i vostri avi, poiché anche voi avete ricevuto la Parola di Dio, e dovete essere fedeli e praticarla, perché essa è viva ed operosa, dona la vita additandone la via e, dando la grazia per operare, la rende feconda di opere buone. È penetrante come spada affilata a due tagli, è così penetrante, sino a separare l’anima e lo spirito, cioè la vita sensitiva che trae alla terra, e la vita razionale che eleva in alto.
Gli antichi infatti dicevano che noi per l’anima viviamo, e per lo spirito intendiamo ragionevolmente: Anima vivimus, spirita rationaliter intelligimus. San Paolo si uniforma a questo concetto per dire agli Ebrei che dovevano farsi guidare dalla Parola divina nella vita materiale e nella vita spirituale, pensando al conto che dobbiamo dare a Dio, che ci vede e ci giudica nei nostri intimi pensieri, penetrandoci come spada nelle giunture e nel midollo, in ogni nostra attività anche intima, che gli altri non possono conoscere, giacché Egli è capace di discernere i sentimenti e i pensieri del cuore, e non vi è alcuna cosa creata che non sia manifesta innanzi a Lui, ma tutte le cose sono chiare e scoperte agli occhi di Colui, a cui dobbiamo rendere conto.
Dal tipo del pellegrinaggio degli Ebrei nel deserto san Paolo passa al tipo del sacerdozio levitico, per introdursi a parlare del Sacerdozio sublime di Gesù Cristo, nuovo argomento per gli Ebrei della superiorità della nuova Legge sull’antica, e quindi della necessità di credervi e rimanere fermi nella fede. Non bisogna dimenticare che, scrivendo agli Ebrei convertiti a Gesù Cristo, san Paolo ragiona con loro toccandoli in quello che era la loro gloria come nazione eletta da Dio, e per la grandezza del sacerdozio levitico.
Rimanevano nell’anima degli Ebrei questi due punti fondamentali della loro vita: nel passato, l’elezione di Dio attraverso i miracoli della liberazione dalla schiavitù penosissima dell’Egitto. Fu per quella liberazione che il popolo cessò di essere un’accolta di schiavi, e marciò tra grandi prodigi come nazione che andava a conquistare la terra donatale da Dio.
Nel presente aveva il tempio, una delle sette meraviglie del mondo, ed il sacerdozio levitico nel fasto dei suoi riti che lo rendeva immensamente superiore ai pagani nella moltitudine obbrobriosa degli idoli che adoravano, e del culto che loro prestavano, degradandosi in riti osceni e brutali.
Come dicemmo, san Paolo scriveva quando il tempio era ancora gloriosamente in piedi, ed il sacerdozio levitico era ancora in piena efficienza. Logicamente, perciò, l’Apostolo sradica dagli Ebrei questi due punti fondamentali, riducendoli, come erano, al tipo che rappresentavano: il pellegrinaggio della Chiesa, vero popolo di Dio nella nuova alleanza, verso la vita eterna, riposo di Dio, e l’ineffabile grandezza del Sacerdozio di Gesù Cristo del quale quello levitico era solo figura.
Noi cristiani possiamo confidare nella misericordia di Dio, perché abbiamo Gesù, Figlio di Dio, Pontefice che penetrò i cieli
Era nel concetto medesimo del sacerdozio quello di avere una missione di mediazione e d’espiazione presso Dio in favore del suo popolose perciò san Paolo, avendo detto che dobbiamo rendere conto a Dio di tutto quello che facciamo, s’introduce a parlare del Sacerdozio di Gesù Cristo, mediatore divino, esortando gli Ebrei a confidare in Lui, dovendo rendere conto a Dio.
L’idea di dover rendere conto della propria infedeltà e dei propri peccati implica, naturalmente, quella del timore, innanzi a Colui che penetra l’anima e lo spirito, le giunture ed il midollo, cioè ogni movimento ed ogni atto della sua creatura, discernendo i sentimenti ed i pensieri del cuore. Questo timore porta naturalmente all’invocazione della misericordia di Dio per mezzo del sacerdozio. Ma noi - soggiunge l’Apostolo - noi cristiani, possiamo veramente confidare nella misericordia di Dio, avendo in Gesù, Figlio di Dio, un pontefice grande che penetrò i cieli, e perciò teniamoci stretti a Lui nella fede.
Il sommo sacerdote ebraico, nel giorno della grande espiazione entrava nel Santo dei Santi, prostrandosi per implorare misericordia. Era una pallida figura di Gesù Cristo che, fattosi Uomo e morto per noi, ascese al Cielo con l’umanità assunta, sommo Sacerdote eterno, che implora misericordia, compatendo le nostre debolezze. Per questo assunse l’umanità, e perciò san Paolo dice: Non abbiamo un sommo sacerdote incapace di compatire le nostre debolezze; perché, per somiglianza con noi, tutte le ha provate, eccetto il peccato. Accostiamoci pertanto con piena fiducia al trono della grazia, al fine di ottenere misericordia, e trovare grazia ed aiuto nel tempo opportuno.
Per gli Ebrei il sommo sacerdote era tutto, anche quando vollero un re. Nazione unica e singolare, retta direttamente da Dio fin dal principio della sua storia e della sua costituzione, non poteva non riguardare come sua guida il sommo sacerdote, che rappresentava la divina autorità, ed al quale si collegavano la sua fede e la sua speranza. Quel sacerdozio era figura di Gesù Cristo e, per convincerli a seguirlo, era necessario avvicinare la loro anima dalla figura alla realtà, dal sacerdozio ebraico a quello infinitamente superiore di Gesù Cristo.
San Paolo s’introduce in questo argomento importantissimo nella fine di questo capitolo, e lo svolge nel capitolo seguente. Come si vede, il ragionamento dell’Apostolo, per noi difficile a capirsi, era mirabilmente logico e suadente per gli Ebrei ai quali scriveva.
3. Per la nostra vita spirituale.
L’esempio degli Ebrei nel deserto è un avvertimento per noi cristiani
Dio ci vuole salvi, tutti salvi, e per questo il Figlio suo si è incarnato, dandoci il messaggio divino della salvezza nel Vangelo, ed immolandosi per noi. La promessa da Lui fatta al suo popolo nel messaggio dell’Antico Testamento, d’introdurlo nella terra promessa, che chiama suo riposo, essendo figura del messaggio fatto nel Nuovo Testamento, sussiste per noi nella sua realtà, immensamente superiore,
perché non è promessa del possesso di una terra ubertosa, ma del possesso della vita eterna, vero riposo di Dio.
Il primo messaggio fatto agli Ebrei peregrinanti nel deserto, non giovò loro a nulla, perché furono ribelli ed infedeli, e non entrarono nella terra promessa, ma eccetto due soltanto, Giosuè e Caleb, perirono tutti nel deserto. Dio promette ma non realizza la sua promessa senza la nostra libera cooperazione. Dunque noi che abbiamo ricevuto la buona novella, il Vangelo, dobbiamo corrispondere alla promessa di Dio e cooperarvi, temendo che qualcuno di noi possa rimanere privo del suo compimento.
L’esempio degli Ebrei nel deserto è per noi cristiani un ammonimento che deve farci temere, poiché, non corrispondendo alla grazia di Dio e non vivendo santamente, pur essendo cristiani, possiamo sentire nel termine della nostra vita la terribile parola divina: Non entreranno nel mio riposo, sono disgustato della loro vita, degli anni percorsi sulla terra, senza fede e senza la pratica della fede con una vita santa.
La nostra vita mortale è il nostro oggi, del quale dobbiamo profittare. Se, travolti dalle passioni e dai peccati, induriamo i nostri cuori all’invito divino, non possiamo salvarci, e sarà terribile per noi sentire la suprema sentenza del Giudizio di Dio: Non entreranno nel riposo di Dio, nell’eterna felicità.
Sforziamoci dunque di entrare in questo riposo, credendo veramente, e con la pratica di tutte le virtù che comporta la vita cristiana. La Parola di Dio rivelataci nel Vangelo sia per noi come spada a due tagli, che ci separi dallo spirito del mondo, orientando in Dio lo spirito nostro; sia spada che giunga fino alle giunture ed al midollo della nostra vita, cioè fino alle nostre più piccole azioni ed aspirazioni, mettendoci alla presenza di Dio che ci vede e ci giudica, ed a cui nulla è nascosto. Non possiamo lasciarci guidare dai nostri pensieri che sono incerti, e molte volte stolti e vani: dobbiamo stare nella luce della Parola di Dio, e nel salutare timore del suo giudizio. Le nostre illusioni non ci possono giustificare, perché sono ombre dei nostri stravolgimenti interiori; le nostre opinioni non valgono innanzi a Dio che è verità, perché sono confusione di apprezzamenti, fatti nella foschia annebbiante delle passioni. Le nostre giustificazioni non hanno valore al cospetto di Dio, perché sono fondate sul nostro orgoglio.
Nelle nostre miserie invece di smarrirci in noi, dobbiamo tenerci stretti a Gesù, dobbiamo farci guidare da Lui, Sacerdote eterno, che ci parla e ci guida per i suoi sacerdoti. In loro è la luce di Gesù Cristo, per loro si ripete a noi il suo messaggio d’amore, per loro il nostro oggi può diventare preparazione feconda per il riposo di Dio, per la conquista dell’eterna gloria.
Sac. Dolindo Ruotolo

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