venerdì 11 aprile 2014

11.04.2014 - Commento a Geremia cap. 20, par. 2

2. Il significato letterale di questo capitolo. L'Amore provando il suo servo, dimostra che Egli parla per mandato superiore, e ne feconda la missione col dolore.
Uno degli ostacoli più gravi all’efficacia della missione di un servo di Dio è quello di passare per uno squilibrato o per uno che ha la mania di parlare e di profetare. Pochi s’accorgono e ponderano quanto costi ad un inviato da Dio la missione che deve compiere, contrariando la propria natura e affrontando ogni sorta di contumelie e di pene. Ora il Signore con le amare prove alle quali permette che siano sottoposti i suoi servi, e con la conseguente angustia ch’essi manifestano, oltre ad arricchirli di meriti, mostra luminosamente a chi ha ancora una certa rettitudine, che la missione ch’essi hanno viene dall’alto. Ognuno infatti agisce per un vantaggio personale e nessuno si esporrebbe ad una persecuzione ed alle sue penose conseguenze, per una fissazione fantastica.
La persecuzione che provoca la lotta, come avviene nei fanatici, e che da parte di questi genera la rivolta, non dimostra la verità di una missione soprannaturale, perché anzi il fanatismo si accende solo nella lotta, ma la persecuzione, che fa la vittima innocente che subisce e sopporta, è quella che dimostra che il perseguitato segue un disegno di Dio. Lutero fu anch’egli perseguitato dall’Autorità Ecclesiastica, come lo fu S. Giuseppe da Copertino, ma Lutero si ribellò e divenne corifeo della rivolta, mostrandosi invasato da satana, mentre S. Giuseppe da Copertino soffrì in pace e tacque, mostrandosi ripieno dello spirito di Dio.
Il fanatismo è sempre impaziente e furibondo, e trova esca nella lotta stessa che riceve e ritorce; la vera missione soprannaturale invece dà sempre frutti di pazienza e di umile sottomissione, anche quando si esplica verso quegli stessi che rappresentano l’autorità.
Il Signore dunque mette a prova il suo servo, e permette che il dolore gli strappi dal cuore espressioni cocenti come quelle del Santo Giobbe, per mostrare al popolo la soprannaturale missione. D’altra parte poi la maggiore fecondità che può ricevere un ministero superiore è quella che viene dal dolore, poiché l’immolazione, subita per obbedienza e per amore, è sempre un sacrificio di carità che salva e converte, attraendo da Dio la misericordia e la grazia.
Geremia tornato da Tofet, dove si era recato a profetare, si era fermato nell’atrio del Tempio, com’è detto nel capitolo precedente, (vert. 14). Ora nel Tempio vi erano i principi addetti alla vigilanza del sacro luogo, ossia vi erano una specie di guardie che dovevano impedire ogni disordine o profanazione.
Fassur, figlio di Emmer, sacerdote, era una di queste guardie, e si trovava di sentinella quando Geremia parlò annunziando la rovina della città. Aizzato certamente dai Sacerdoti, che vedevano di male occhio l’uomo di Dio, e che avevano congiurato contro di lui, gli fu sopra, lo percosse e lo mise nei ceppi, ossia in una specie di morsa di legno, dove si stringevano i piedi dei rei. Non l’acciuffò nell’atrio del Tempio per rispetto al sacro luogo, ma lo raggiunge alla porta di Beniamino, che stava di fronte al Tempio, e ne era riguardata come l’entrata.
Quando sembra terribile e inesplicabile la stessa volontà di Dio...
Tra i mali che possono occorrere ad un uomo e più ad un uomo di Dio, alieno da contatti coi pubblici poteri, uno dei più penosi è quello di capitare nelle mani della forza. È uno sgomento che dà angosce di morte, è un abisso pauroso senza fondo che si apre alla vita, è un dolore immane che sembra senza uscita, perché la forza pubblica ha tutto l’aspetto di una fredda ed irreparabile fatalità, è un sentirsi d’un tratto disceso al fondo della scala sociale, e, di fronte alla inesorabile vessazione, è un vedere vana la propria missione, inutile il proprio ministero, terribile ed inesplicabile la stessa Volontà di Dio.
È una pena che può valutare solo chi l’ha provata, e che sfronda d’un tratto ogni fantasia, e fa desiderare solo la libertà ed il silenzio, quando non si è mossi veramente dal fuoco dello Spirito Santo. Geremia stette tutta la notte nei ceppi, in un’angoscia terribile che può rilevarsi dalle espressioni penosissime a cui si lasciò andare maledicendo alla sua vita. All’albeggiare Fassur lo liberò, sperando che quella lezione gli sarebbe bastata. Ma proprio allora, con l’anima oppressa, il Profeta non potette fare a meno di profetare, investendolo con la divina parola. Non parlò per fierezza di animo, come potrebbe apparire, né per risentimento, ma parlò per ispirazione soprannaturale; riconfermando l’annunzio delle future calamità, l’invasione della nazione e la deportazione da parte del Re di Babilonia, la depredazione di tutte le ricchezze delle città e del tesoro reale.
Fassur significa gioia d'ogni intorno, e Geremia gli disse che Dio lo chiamava Paura d’ogni intorno, perché sarebbe stato circondato da spavento per l’invasione nemica, sarebbe stato deportato in Babilonia egli e tutti gli amici ai quali aveva profetizzato menzogne, smentendo l’annunzio profetico.
Geremia dicendo questo aveva dovuto fare uno sforzo su se stesso, perché mentre il Signore lo spingeva a parlare ed egli obbediva, la natura gli faceva sentire una ripugnanza ed uno sgomento terribile. Perciò appena fu solo alla presenza di Dio esclamò nella semplicità e nel dolore del suo cuore: O Signore, Tu mi hai sedotto ed io sono stato sedotto [da Te]; sei stato più forte di me ed hai prevalso. Gli sembrava di essere stato trasportato dal Signore in un ministero che gli era apparso facile, e che in realtà gli era costato immensi dolori.
Quando il Signore lo aveva eletto gli aveva promesso di liberarlo da ogni male (1, 8), ed ecco che egli era stato in prigione. Era stato liberato all’alba del giorno appresso, è vero, ma gli era costato troppo lo stare in ceppi, e questo gli aveva fatto rivivere come in una sintesi opprimente tutti gli obbrobri e le derisioni dei quali era stato oggetto per aver inveito contro l’iniquità, e per aver profetizzato i futuri flagelli al popolo infedele. L’angustia lo fece addirittura trasmodare, ed egli pensò di non parlare più in nome di Dio, per non incorrere nelle minacce che il popolo gli faceva. Ma un fuoco ardente gli si fece sentire nel cuore, il fuoco dello Spirito Santo che lo investiva e gli dava un novello vigore per compiere la sua missione.
Fu per questo fuoco che il Profeta si sentì di nuovo sostenuto da Dio, lo percepì al suo fianco come un forte guerriero, vide che i nemici che lo minacciavano sarebbero stati finalmente sconfitti, pregò perché Egli avesse giudicato la sua causa, e si sentì per un momento così sollevato, da invitare tutti a cantare inni di ringraziamento al Signore.
Sac. Dolindo Ruotolo

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