3. Il tradimento di Giuda
È un mistero d'iniquità che dà le vertigini, il tradimento di Giuda! Come poté un apostolo che aveva ascoltato tanti insegnamenti divini di Gesù, ed aveva assistito a tanti miracoli, giungere fino alla viltà di venderlo? Se si fosse interiormente turbato sulla sua dottrina, e l'avesse creduta un pericoloso inganno, avrebbe dovuto magari denunziarlo, oppure abbandonarlo per ritornare agli scribi e farisei; ma venderlo, e domandare con impudenza e cinismo ai suoi nemici che cosa gli avessero voluto dare come prezzo del tradimento, è tale abiezione, che suppone in Giuda un decadimento spaventoso di spirito, un abbrutimento, un odio che fa fremere.
Il Vangelo ci dice che dopo l'omaggio reso da Maria Maddalena al Redentore, spargendogli sul capo l'unguento prezioso, Giuda andò a proporre ai principi dei sacerdoti il tradimento prezzolato; questo ci può far supporre che abbia voluto così rifarsi del guadagno che avrebbe voluto cavare dall'unguento, secondo lui, sperperato.
Ma già da tempo il suo cuore, preso da satana, si era distaccato da Gesù, e già gli pesava quella vita randagia, che non offriva nessuna speranza alle sue ambizioni.
Egli aveva dovuto a poco a poco abituarsi a criticare quello che diceva ed operava Gesù, ed a vedervi tenebre e contraddizioni; tutto raccolto nel proprio orgoglioso giudizio, aveva dovuto a poco a poco concepire una nascosta avversione
per Gesù, le cui particolari tenerezze per Giovanni avevano dovuto profondamente urtarlo.
Satana gli caricò le tinte delle sue critiche e le ombre delle sue tenebre, ed egli credette oramai di trovarsi di fronte ad un impostore o ad un illuso sognatore di chimere e di frottole. Guardò tutto dal suo corto angolo visivo, non seppe neppure sospettare che in ciò che gli appariva oscuro potesse esservi il piano di un disegno futuro, e cominciò a trarre utile dal denaro che portava per i bisogni di tutti, denaro affidato a lui. Il rubare, il turlupinare, il mentire gli abbassarono talmente il tono del cuore, che divenne avaro, e guardò la borsa che portava come sua proprietà; lo spirito in lui era come morto per il peccato, e l'abbrutimento lo portò all'ultima degradazione. Il suo cuore dovette essere soprattutto oppresso da un senso strano di dispetto, e le parole di amoroso rimprovero, che Gesù non dovette mancare di dirgli, lo chiusero in un'ostilità sprezzante che lo decise al tradimento. Duro di cuore e pertinace di volontà, orgoglioso ed insofferente di rimproveri, riguardò Gesù come se gli fosse stato nemico, e come tale lo barattò per disfarsene; la reazione di sterile compatimento umano che ebbe quando lo seppe condannato a morte, conferma questa sua ostilità irragionevole, giacché è proprio dell'odio senza veri motivi, il passare dall'ostilità alla compassione, quando si vede appagato e non trova più motivo di odiare.
Giuda fu preso da satana, e fu preso perché non corrispose alla grazia, non credette più, divenne un critico stolto della sapienza e delle opere di Gesù, e si chiuse nel suo cupo e desolante mutismo. Avviso alle anime consacrate al Signore le quali possono facilmente essere prese nei lacci del tentatore, quando danno corso alla loro natura, e rifiutano di farsi guidare nelle vie di Dio dall'umile sottomissione a chi rappresenta loro Gesù Cristo!
I principi dei sacerdoti avevano stabilito di non catturare Gesù nelle feste pasquali, ma l'offerta di Giuda li incoraggiò a farlo, e pensando di non poter avere un'occasione più propizia, promisero e dettero al traditore trenta monete di argento, quanto era il prezzo di uno schiavo. Giuda intascò il denaro, e d'allora cercò il momento opportuno per consegnare il maestro nelle mani dei nemici.
4. Intanto Gesù si preparava a dare agli uomini la massima testimonianza del suo amore! La miseria della corrispondenza umana
Mentre l'apostolo infedele preparava l'insidia mortale, il Redentore pensava a dare agli uomini la massima testimonianza del suo amore. Era il primo giorno degli azzimi, cioè il primo giorno della solennità pasquale, alla sera del quale doveva mangiarsi l'agnello, e gli apostoli domandarono a Gesù dove dovessero preparare il banchetto. Gesù li indirizzò ad un amico, dando loro dei segni per rintracciarlo. Doveva essere un suo fedele seguace perché Gesù gli fece dire che il suo tempo era vicino, cioè che si avvicinava l'ora del suo sacrificio supremo, e desiderava da lui quella testimonianza di amore. Fattosi sera, cioè dopo le sei pomeridiane, Gesù sedette a mensa coi suoi discepoli.
L'ordine che si seguiva nella cena pasquale era il seguente: la sera del 14 del mese di Nisan s'immolava l'agnello e lo si arrostiva in modo da non romperne in alcun modo le ossa. Verso la notte i convitati si radunavano intorno alla mensa, ed il capo di famiglia, presa una coppa di vino temperata con l'acqua, benediceva Dio per aver creato il frutto della vite, e poi beveva lui e faceva bere i commensali. Veniva poi portata una bacinella d'acqua per lavarsi le mani, e dopo si apprestavano le vivande, cioè l'agnello, il pane azzimo, cotto in sfoglie sottili, una tazza di aceto o di acqua salata in memoria delle lacrime versate dagli Ebrei nella schiavitù, ed una salsa chiamata charoseth, con erbe amare. La salsa color mattone ricordava i mattoni fabbricati nella schiavitù, e le erbe amare le amarezze sofferte; ognuno ne mangiava, e dopo si intonavano i Salmi 112 e 113, bevendo poi di nuovo il vino e lavandosi le mani. Il capo di famiglia distribuiva a ciascuno il pane e l'agnello, ed una terza coppa di vino detta coppa di benedizione, e quando tutti avevano bevuto, s'intonavano i Salmi da 114all7esi beveva di nuovo.
Gesù Cristo osservò queste cerimonie prima di donare se stesso nell'Eucaristia; e mentre i suoi cari mangiavano, disse loro in tono di profondo dolore che uno di essi lo avrebbe tradito. Egli voleva spingere Giuda al pentimento prima di istituire il sacramento dell'Amore, e voleva che la stessa impressione di pena e di sgomento provata dagli apostoli a quell'annunzio lo avesse scosso. Ma Giuda non solo non si commosse, ma ebbe l'impudenza di domandare se fosse lui quegli di cui parlava. Non credendo più nel Maestro, suppose che qualcuno gli avesse svelato il tradimento, e per assicurarsene e nello stesso tempo dissimulare, glielo domandò. Gesù gli rispose con un cenno o con parole sommesse che era proprio lui, in modo però che gli altri non se ne accorgessero. La sua immensa carità non volle che fosse coperto di obbrobrio innanzi a tutti, e che fosse stato oggetto di violenta reazione. L'amore suo avrebbe voluto evitare che il traditore fosse stato presente al miracolo grandissimo che stava per compiere; ma Giuda rimase, ed uscì solo dopo aver consumato il sacrilegio.
5. Gesù si dona nell'Eucaristia
Preso il pane, il Redentore lo benedisse, lo spezzò, e lo diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Dicendo queste parole transustanziò la sostanza del pane in quella del suo Corpo, dandosi vivo e vero in quel
mirabile cibo. Egli non parlò di simbolo del suo Corpo, ma disse puramente e semplicemente che quel pane era il suo Corpo, aggiungendo, come dice san Luca (22,18) che era proprio il Corpo che si sarebbe offerto alla morte per la salvezza di tutti. Dunque non si poteva equivocare in nessun modo. Dopo il pane distribuì il vino, transustanziandolo nel suo Sangue, nel sangue del nuovo testamento, che doveva essere sparso per la remissione dei peccati di molti, cioè di tutti come dice chiaramente il testo greco.
Gesù soggiunse che non avrebbe più bevuto del frutto della vite, fino al giorno in cui lo avrebbe bevuto nuovo nel regno del Padre suo. Con queste parole volle dire apertamente che la sua vita mortale era al termine, e volle promettere la risurrezione. Egli non lo avrebbe più bevuto così come lo vedevano, ma risorto da morte avrebbe bevuto con loro mentre si inaugurava il regno di Dio sulla terra, come difatti avvenne nei quaranta giorni nei quali dimorò fra gli apostoli dopo la risurrezione.
Cantato l'inno, cioè i Salmi da 114 a 117, Gesù si avviò al monte Oliveto per pregare. Era mesto, e camminando coi suoi cari disse loro che essi in quella notte si sarebbero scandalizzati di lui e sarebbero fuggiti come pecorelle sbandate. Ecco la risposta che avrebbero dato a Lui che con infinito amore si era donato loro nella cena! Pietro protestò che sarebbe stato pronto a morire, protestò anche dopo che Gesù gli predisse che l'avrebbe rinnegato prima del canto del gallo, cioè tre volte prima che si facesse giorno, protestò insieme a tutti gli altri apostoli, ma la protesta non servì a nulla e, posto nell'occasione, spergiurò persino di non conoscere il suo Maestro!
Deve dirsi che l'umanità così ha risposto all'amore di Gesù Sacramentato: rinnegandolo praticamente. Come può dirsi infatti che si conosca Gesù, quando lo si riceve così raramente e così male? Chi sa di avere Gesù Cristo presente realmente nei santi tabernacoli, come può lasciarlo solo ed abbandonato?
Oh, se si gustasse un poco quella vita profonda e silenziosa che si sente dall'Ostia immacolata, se si dicesse una parola filiale e sincera al Redentore, come si avvertirebbe la sua presenza, e come si sentirebbe il bisogno di non abbandonarlo mai più! Non è un negare Gesù innanzi al mondo il trattarlo così male nell'Eucaristia? Non è un dire con Pietro: io non lo conosco? La vita di un fedele, e molto più di un sacerdote, dev'essere una perenne confessione del Mistero di fede come la Chiesa chiama l'Eucaristia.
6. La Santa Messa, la predica più valida del sacerdote!
Il sacerdote dall'altare predica assai più che dal pulpito; gli basta celebrare bene la Santa Messa per manifestare la conoscenza che ha di Gesù Cristo e l'amore che gli porta; gli basta un gesto solo della Liturgia, fatto con vero e profondo spirito di fede, per accendere negli altri un fuoco di amore vivo verso Gesù Cristo. Quando invece d'immedesimarsi del mistero della Passione che si rinnova sull'altare, si sta, come Pietro, distratti intorno al fuoco delle cose umane, e si cerca il proprio tornaconto, si rinnega praticamente il Signore, si allontanano da Lui le anime, e s'incoraggiano i perversi a perseguitarlo. Il mondo scellerato e miscredente non ha bisogno oggi di grandi prediche, ma di grandi esempi di amore a Gesù, non ha bisogno di grandi discussioni apologetiche, ma di grandi manifestazioni di fede e di vita nel Sacramento dell'altare.
Per questo il Signore dà a questa generazione pessima la testimonianza dei martiri gloriosi, che è apologia ammirabile. Ecco per esempio l'interrogatorio fatto ai martiri sacerdoti della Spagna nel 1936 e 37 ed ecco le loro risposte più eloquenti di tutte le parole degli oratori più celebri: «Quali sono le vostre funzioni?», diceva il tiranno al martire. Ed egli:
«Sono sacerdote». «Dichiarate di non esserlo più». Risposta: «Impossibile». «Dichiarate di non volerlo più essere e la vostra vita è salva». «Non posso dirlo, perché sono sacerdote in eterno». Furore dell'interrogante sempre più rabbioso, quanto più la vittima accentuava la sua affermazione del carattere sacerdotale. Condanna a morte. I sacerdoti partivano per il luogo dell'esecuzione pronunziando queste parole: Per la causa del mio Dio e della mia fede. Ed al momento dell'esecuzione l'ultimo grido: Viva Cristo Re! (.Avvenire d'Italia, 27 aprile 1937). Questo breve tratto degli atti dei martiri della Spagna vale più che cento volumi di apologie, come vale più di un poema la parola del seminarista diciottenne di Barbastro, crocifisso in piazza per odio alla fede: Gesù, per tuo amore e per la salvezza della Spagna!
7. L'orazione nell'orto
Finita la cena, Gesù si avviò verso un orto chiamato Getsemani, cioè strettoio di olio, dove soleva raccogliersi per pregare. Doveva essere di proprietà di qualche amico o discepolo, avendovi Egli libertà di entrare. Per non contristare i suoi cari, li lasciò all'entrata dell'orto e prese con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni, raccomandando loro di vegliare con Lui, che aveva l'anima triste sino alla morte. Il testo evangelico è di una semplicità e laconicità impressionante, ma quello che ci dice dell'agonia del Signore lascia nell'animo un profondo senso di compassione, e ci concentra nel mistero della ineffabile angoscia che Egli soffrì. In quel momento si sentì gravato dai peccati passati, presenti e futuri di tutto il mondo, e ne ponderò l'orrore. Tre volte si sentì venire meno, e pregò il Padre che avesse allontanato da lui, se possibile, quel calice amaro; tre volte perché tre volte fu oppresso mortalmente: fu schiacciato sotto il peso dei peccati degli uomini, sotto il peso delle agonie e dei dolori della sua Chiesa, e sotto l'angoscia dei suoi imminenti tormenti. Quello che soprattutto lo fece agonizzare fu l'offesa di Dio, della quale ponderava tutto l'orrore, e l'ingratitudine umana verso tutte le grazie che Egli stava per versare sulla terra. La ripugnanza poi della sua umanità alla morte fu come la sintesi e il concentrato di tutta la ripugnanza umana al dolore ed alla morte, ed Egli sentì tale agonia, che, come dice san Luca (22,44) sudò vivo sangue.
La stessa agonia che soffrì gli fece fare il sacrificio di sé stesso al Padre, in un abbandono pieno alla volontà di Lui, di modo che la sua offerta fu tale sublime immolazione, che la povera mente umana non può comprenderla. Egli fu veramente come stretto nel torchio; si sentì come stirare e spezzare i nervi ed il cuore, si sentì oppresso da tenebre interiori spaventose, accresciute in Lui, come ci dicono i santi mistici, dalle violente incursioni di satana, che tentava distoglierlo col terrore dal suo sacrificio. In quest'agonia Egli si sentì solo, poiché i suoi apostoli, presi dalla tristezza, e forse per l'umidità stessa della notte, si addormentarono. Gesù se ne lamentò specialmente con Pietro, che pur gli aveva fatto tante proteste di amore, ma essi lungi dal vigilare erano sempre più aggravati dal sonno. La terza volta che andò a svegliarli, Gesù disse loro in tono di grande amarezza: Dormite pure e riposatevi, ecco è vicina l'ora [...] alzatevi andiamo: Egli volle dire loro che oramai era inutile ogni ulteriore vigilanza e non c'era più tempo per la preghiera; il pericolo era imminente, il traditore veniva già, non gli rimaneva che andare incontro alla morte.
Gesù Cristo sta nell'Orto della sua Chiesa e, nascosto nel suo Tabernacolo di amore, prega e si offre al Padre. Là Egli continua la sua agonia misticamente, e là vuole i suoi figli, perché veglino e preghino con Lui. Quale dolore per Gesù il vedere che i suoi figli dormono nella notte dei loro peccati, e sognando le chimere del mondo, lo dimenticano. Le grazie particolari che il Redentore dona a quelli che vegliano con Lui intorno ai tabernacoli santi, ed a quelli che gli fanno compagnia nell'agonia del giovedì, mostra quanto Egli abbia cara la nostra veglia amorosa.
Il mondo congiura sempre contro di Lui, l'ingratitudine umana lo tradisce, ed Egli cerca i cuori che possono consolarlo. Oh se vigilassimo con Lui, quante tentazioni vinceremmo, ed a quali altezze di perfezioni saliremmo! Noi crediamo cosa da nulla il poltrire nella nostra accidia spirituale, eppure è proprio essa la causa del nostro decadimento spirituale! Vigiliamo e preghiamo per contrapporci al mondo che vigila per tramare insidie alla Chiesa, e siamo i suoi difensori non con semplici promesse, ma con l'attività di un profondissimo amore e di un ardente apostolato.
8. La cattura di Gesù
Mentre Gesù ancora parlava ai suoi apostoli, Giuda si avanzò, e con lui, ad una certa distanza, una gran turba armata di spade e di bastoni, mandata dal sinedrio. Il traditore si avanzò verso Gesù e secondo il segnale che aveva dato, lo baciò per additarlo con sicurezza agli sgherri. Quel bacio fu per il Redentore un dolore inconcepibile, non solo perché menzogna spaventosamente crudele, ma perché fu come il bacio datogli dal peccato stesso. Non si può misurare che cosa sia stato il contatto della menzogna con l'eterna verità e del peccato con l'infinita santità!
Gesù Cristo non rifiutò il bacio di Giuda, anzi chiamò questi amico, in segno di misericordia, e gli domandò perché fosse venuto, per fargli ponderare il passo che aveva dato. Forse al contatto del volto divino di Gesù ed alle sue parole dolcissime, cominciò in Giuda il sentimento di profondo rimorso, che avrebbe potuto essere pentimento, e per sua colpa divenne disperazione. Egli non resistette all'interrogazione soavissima del Maestro, e poiché gli sgherri si avanzarono per catturare la vittima designata, foggi errando per le valli in preda ad un'agitazione spaventosa.
Nel vedere i manigoldi stringersi minacciosi intorno al Signore, Pietro sfoderò una spada che aveva portato con sé proprio in previsione di un pericolo notturno, ed amputò l'orecchio destro di un servo del principe dei sacerdoti. Non aveva saputo dargli amore vigilando nella preghiera, e pretese dargli aiuto difendendolo. L'impeto che ebbe fu una vera tentazione di satana, il quale, astutissimo com'è, volle metterlo nella condizione di compromettersi con l'autorità e di essere più facilmente spinto a rinnegare il Maestro.
Satana con quell'atto inconsulto di coraggio e di zelo, lo predispose al peccato che stava per commettere, gli dette coraggio per ferire il servo, e gli tolse il coraggio per confessare il Signore! Certo l'aver ferito il servo del principe dei sacerdoti importava per lui una compromissione penale, ed egli, quando si trovò di fronte alle serve ed ai circostanti che asserivano essere lui uno dei discepoli del Redentore, negò ripetutamente perché temette di essere coinvolto con Gesù Cristo, e di poter pagare la pena della ferita fatta al servo del sacerdote. Gesù Cristo fece capire a Pietro prima, e poi a tutti quelli che lo circondavano, che quello che avveniva era precisamente il compimento delle Scritture. Se Egli avesse voluto impedirlo, lo avrebbe potuto, domandando al Padre, più che dodici uomini, dodici legioni di angeli; ma doveva svolgersi ciò che era stato predetto. Egli lasciava il corso alle libere volontà umane, dominandole non già con la forza ma utilizzando la loro stessa perversità al compimento dei disegni del suo amore. Gesù Cristo non volle dire che ciò che succedeva era fatale, ma che era stato già predetto, e che costituiva perciò una parte del disegno divino che si sviluppava fra le libere volontà degli uomini.
9. La fuga degli apostoli
I discepoli, che frattanto si erano radunati intorno a Gesù, attratti dall'insolito fragore delle armi, visto che Gesù non s'era difeso, né aveva permesso di difenderlo, presi dal panico, lo abbandonarono e fuggirono. Fuggirono tutti, senza eccezione; solo Giovanni poi ritornò sui suoi passi e lo seguì, e Pietro, dopo il primo sgomento, si mise appresso a Lui da lontano, per vedere dove andassero a finire quelle violenze. Lo seguiva da lontano perché il suo cuore e la sua fede erano già lontani dal suo Signore; lo seguì da lontano, proprio come quei cattolici senza vita e senza coraggio, che non sanno rendere testimonianza della loro fede, e vogliono seguire il Re divino senza compromissioni! Tutto l'amore dunque che Pietro aveva detto di avere per Gesù, s'era ridotto a questo! Ma dal seguire il Signore da lontano e rinnegarlo il passo fu breve, e Pietro dopo poco giurò di non averlo mai conosciuto, proprio quando il Maestro divino si appellava alla testimonianza dei suoi discepoli!
10. Il tribunale di Caifa
Tutto il processo, inscenato dai principi dei sacerdoti e dal sinedrio, era semplicemente una formalità; essi infatti non cercavano la verità ma i falsi testimoni, non indagavano sulle supposte responsabilità del Redentore, ma volevano ad ogni costo disfarsene, pur serbando un'apparenza di legalità. È impressionante il pensare che gli stessi falsi testimoni, prezzolati per mentire, non poterono accusarlo verosimilmente, tanta era la sua santità, e poterono solo riportare, falsandole, le parole che aveva dette guardando il tempio. Egli infatti non aveva detto di poter distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni, ma, parlando del suo Corpo, aveva detto
ai suoi nemici: Distruggetelo voi, ed io in tre giorni lo riedificherò.
La falsa testimonianza, benché avesse deformata la verità, non era sufficiente a pronunziare una sentenza di morte, e perciò il Sommo sacerdote con diabolica malizia interrogò solennemente Gesù Cristo sulla sua divinità; lo scongiurò per il Dio vivente a dirlo, perché sapeva che Egli non l'avrebbe negato, e perché sperava che, negandolo per timore, si fosse da sé stesso sfatato. Dio permise tanta malignità, perché volle che solennemente, innanzi al sacerdote, dalla bocca stessa del suo Figlio fosse stata dichiarata la verità.
Vi fu un momento di silenzio nell'assemblea. Caifa fissava Gesù con uno sguardo ipocrita e maligno, contento di averlo messo alle strette.
Gesù s'illuminò di un insolito splendore di maestà, e rispose non solo che Egli era il Figlio di Dio, ma che un giorno sarebbe ritornato sulle nubi del cielo con grande maestà, per giudicare tutti e per giudicare quelli che in quel momento presumevano di giudicarlo. Caifa a quella solenne dichiarazione finse d'addolorarsi, si lacerò le vesti, proclamò che Egli aveva bestemmiato, eccitò l'ira dell'assemblea, lo fece dichiarare reo di morte e lo abbandonò agli obbrobri ed alle percosse della canaglia.
In quell'aula tenebrosa s'iniziò la lotta contro il Redentore, lotta di calunnie e di persecuzioni, che dura tuttora nel suo Corpo mistico, specialmente oggi. Ma tutte le persecuzioni e gli obbrobri non potranno mai distruggere la verità, e quando l'umana nequizia avrà raggiunto il culmine di ogni nefandezza, allora la divina giustizia si manifesterà, il mondo sarà sconvolto dalle ultime tribolazioni, ed il Giudice eterno verrà a giudicarlo. Non ci scandalizziamo del fugace trionfo degli empi, non ci uniamo al loro rauco coro, mormorando della divina provvidenza, non ci uniamo a quelli che rinnegano il Redentore ma confessiamo la nostra fede a fronte alta, e
piangiamo amaramente sui nostri peccati e sui tristissimi momenti che attraversiamo. Preghiamo e vigiliamo con l'azione per tutelare l'onore di Dio, preghiamo e confidiamo sospirando al regno del Re d'Amore, preghiamo ed uniamoci con la vita veramente cristiana alla confessione del Redentore che i martiri fanno ora stesso col loro sangue!
È un mistero d'iniquità che dà le vertigini, il tradimento di Giuda! Come poté un apostolo che aveva ascoltato tanti insegnamenti divini di Gesù, ed aveva assistito a tanti miracoli, giungere fino alla viltà di venderlo? Se si fosse interiormente turbato sulla sua dottrina, e l'avesse creduta un pericoloso inganno, avrebbe dovuto magari denunziarlo, oppure abbandonarlo per ritornare agli scribi e farisei; ma venderlo, e domandare con impudenza e cinismo ai suoi nemici che cosa gli avessero voluto dare come prezzo del tradimento, è tale abiezione, che suppone in Giuda un decadimento spaventoso di spirito, un abbrutimento, un odio che fa fremere.
Il Vangelo ci dice che dopo l'omaggio reso da Maria Maddalena al Redentore, spargendogli sul capo l'unguento prezioso, Giuda andò a proporre ai principi dei sacerdoti il tradimento prezzolato; questo ci può far supporre che abbia voluto così rifarsi del guadagno che avrebbe voluto cavare dall'unguento, secondo lui, sperperato.
Ma già da tempo il suo cuore, preso da satana, si era distaccato da Gesù, e già gli pesava quella vita randagia, che non offriva nessuna speranza alle sue ambizioni.
Egli aveva dovuto a poco a poco abituarsi a criticare quello che diceva ed operava Gesù, ed a vedervi tenebre e contraddizioni; tutto raccolto nel proprio orgoglioso giudizio, aveva dovuto a poco a poco concepire una nascosta avversione
per Gesù, le cui particolari tenerezze per Giovanni avevano dovuto profondamente urtarlo.
Satana gli caricò le tinte delle sue critiche e le ombre delle sue tenebre, ed egli credette oramai di trovarsi di fronte ad un impostore o ad un illuso sognatore di chimere e di frottole. Guardò tutto dal suo corto angolo visivo, non seppe neppure sospettare che in ciò che gli appariva oscuro potesse esservi il piano di un disegno futuro, e cominciò a trarre utile dal denaro che portava per i bisogni di tutti, denaro affidato a lui. Il rubare, il turlupinare, il mentire gli abbassarono talmente il tono del cuore, che divenne avaro, e guardò la borsa che portava come sua proprietà; lo spirito in lui era come morto per il peccato, e l'abbrutimento lo portò all'ultima degradazione. Il suo cuore dovette essere soprattutto oppresso da un senso strano di dispetto, e le parole di amoroso rimprovero, che Gesù non dovette mancare di dirgli, lo chiusero in un'ostilità sprezzante che lo decise al tradimento. Duro di cuore e pertinace di volontà, orgoglioso ed insofferente di rimproveri, riguardò Gesù come se gli fosse stato nemico, e come tale lo barattò per disfarsene; la reazione di sterile compatimento umano che ebbe quando lo seppe condannato a morte, conferma questa sua ostilità irragionevole, giacché è proprio dell'odio senza veri motivi, il passare dall'ostilità alla compassione, quando si vede appagato e non trova più motivo di odiare.
Giuda fu preso da satana, e fu preso perché non corrispose alla grazia, non credette più, divenne un critico stolto della sapienza e delle opere di Gesù, e si chiuse nel suo cupo e desolante mutismo. Avviso alle anime consacrate al Signore le quali possono facilmente essere prese nei lacci del tentatore, quando danno corso alla loro natura, e rifiutano di farsi guidare nelle vie di Dio dall'umile sottomissione a chi rappresenta loro Gesù Cristo!
I principi dei sacerdoti avevano stabilito di non catturare Gesù nelle feste pasquali, ma l'offerta di Giuda li incoraggiò a farlo, e pensando di non poter avere un'occasione più propizia, promisero e dettero al traditore trenta monete di argento, quanto era il prezzo di uno schiavo. Giuda intascò il denaro, e d'allora cercò il momento opportuno per consegnare il maestro nelle mani dei nemici.
4. Intanto Gesù si preparava a dare agli uomini la massima testimonianza del suo amore! La miseria della corrispondenza umana
Mentre l'apostolo infedele preparava l'insidia mortale, il Redentore pensava a dare agli uomini la massima testimonianza del suo amore. Era il primo giorno degli azzimi, cioè il primo giorno della solennità pasquale, alla sera del quale doveva mangiarsi l'agnello, e gli apostoli domandarono a Gesù dove dovessero preparare il banchetto. Gesù li indirizzò ad un amico, dando loro dei segni per rintracciarlo. Doveva essere un suo fedele seguace perché Gesù gli fece dire che il suo tempo era vicino, cioè che si avvicinava l'ora del suo sacrificio supremo, e desiderava da lui quella testimonianza di amore. Fattosi sera, cioè dopo le sei pomeridiane, Gesù sedette a mensa coi suoi discepoli.
L'ordine che si seguiva nella cena pasquale era il seguente: la sera del 14 del mese di Nisan s'immolava l'agnello e lo si arrostiva in modo da non romperne in alcun modo le ossa. Verso la notte i convitati si radunavano intorno alla mensa, ed il capo di famiglia, presa una coppa di vino temperata con l'acqua, benediceva Dio per aver creato il frutto della vite, e poi beveva lui e faceva bere i commensali. Veniva poi portata una bacinella d'acqua per lavarsi le mani, e dopo si apprestavano le vivande, cioè l'agnello, il pane azzimo, cotto in sfoglie sottili, una tazza di aceto o di acqua salata in memoria delle lacrime versate dagli Ebrei nella schiavitù, ed una salsa chiamata charoseth, con erbe amare. La salsa color mattone ricordava i mattoni fabbricati nella schiavitù, e le erbe amare le amarezze sofferte; ognuno ne mangiava, e dopo si intonavano i Salmi 112 e 113, bevendo poi di nuovo il vino e lavandosi le mani. Il capo di famiglia distribuiva a ciascuno il pane e l'agnello, ed una terza coppa di vino detta coppa di benedizione, e quando tutti avevano bevuto, s'intonavano i Salmi da 114all7esi beveva di nuovo.
Gesù Cristo osservò queste cerimonie prima di donare se stesso nell'Eucaristia; e mentre i suoi cari mangiavano, disse loro in tono di profondo dolore che uno di essi lo avrebbe tradito. Egli voleva spingere Giuda al pentimento prima di istituire il sacramento dell'Amore, e voleva che la stessa impressione di pena e di sgomento provata dagli apostoli a quell'annunzio lo avesse scosso. Ma Giuda non solo non si commosse, ma ebbe l'impudenza di domandare se fosse lui quegli di cui parlava. Non credendo più nel Maestro, suppose che qualcuno gli avesse svelato il tradimento, e per assicurarsene e nello stesso tempo dissimulare, glielo domandò. Gesù gli rispose con un cenno o con parole sommesse che era proprio lui, in modo però che gli altri non se ne accorgessero. La sua immensa carità non volle che fosse coperto di obbrobrio innanzi a tutti, e che fosse stato oggetto di violenta reazione. L'amore suo avrebbe voluto evitare che il traditore fosse stato presente al miracolo grandissimo che stava per compiere; ma Giuda rimase, ed uscì solo dopo aver consumato il sacrilegio.
5. Gesù si dona nell'Eucaristia
Preso il pane, il Redentore lo benedisse, lo spezzò, e lo diede ai suoi discepoli dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. Dicendo queste parole transustanziò la sostanza del pane in quella del suo Corpo, dandosi vivo e vero in quel
mirabile cibo. Egli non parlò di simbolo del suo Corpo, ma disse puramente e semplicemente che quel pane era il suo Corpo, aggiungendo, come dice san Luca (22,18) che era proprio il Corpo che si sarebbe offerto alla morte per la salvezza di tutti. Dunque non si poteva equivocare in nessun modo. Dopo il pane distribuì il vino, transustanziandolo nel suo Sangue, nel sangue del nuovo testamento, che doveva essere sparso per la remissione dei peccati di molti, cioè di tutti come dice chiaramente il testo greco.
Gesù soggiunse che non avrebbe più bevuto del frutto della vite, fino al giorno in cui lo avrebbe bevuto nuovo nel regno del Padre suo. Con queste parole volle dire apertamente che la sua vita mortale era al termine, e volle promettere la risurrezione. Egli non lo avrebbe più bevuto così come lo vedevano, ma risorto da morte avrebbe bevuto con loro mentre si inaugurava il regno di Dio sulla terra, come difatti avvenne nei quaranta giorni nei quali dimorò fra gli apostoli dopo la risurrezione.
Cantato l'inno, cioè i Salmi da 114 a 117, Gesù si avviò al monte Oliveto per pregare. Era mesto, e camminando coi suoi cari disse loro che essi in quella notte si sarebbero scandalizzati di lui e sarebbero fuggiti come pecorelle sbandate. Ecco la risposta che avrebbero dato a Lui che con infinito amore si era donato loro nella cena! Pietro protestò che sarebbe stato pronto a morire, protestò anche dopo che Gesù gli predisse che l'avrebbe rinnegato prima del canto del gallo, cioè tre volte prima che si facesse giorno, protestò insieme a tutti gli altri apostoli, ma la protesta non servì a nulla e, posto nell'occasione, spergiurò persino di non conoscere il suo Maestro!
Deve dirsi che l'umanità così ha risposto all'amore di Gesù Sacramentato: rinnegandolo praticamente. Come può dirsi infatti che si conosca Gesù, quando lo si riceve così raramente e così male? Chi sa di avere Gesù Cristo presente realmente nei santi tabernacoli, come può lasciarlo solo ed abbandonato?
Oh, se si gustasse un poco quella vita profonda e silenziosa che si sente dall'Ostia immacolata, se si dicesse una parola filiale e sincera al Redentore, come si avvertirebbe la sua presenza, e come si sentirebbe il bisogno di non abbandonarlo mai più! Non è un negare Gesù innanzi al mondo il trattarlo così male nell'Eucaristia? Non è un dire con Pietro: io non lo conosco? La vita di un fedele, e molto più di un sacerdote, dev'essere una perenne confessione del Mistero di fede come la Chiesa chiama l'Eucaristia.
6. La Santa Messa, la predica più valida del sacerdote!
Il sacerdote dall'altare predica assai più che dal pulpito; gli basta celebrare bene la Santa Messa per manifestare la conoscenza che ha di Gesù Cristo e l'amore che gli porta; gli basta un gesto solo della Liturgia, fatto con vero e profondo spirito di fede, per accendere negli altri un fuoco di amore vivo verso Gesù Cristo. Quando invece d'immedesimarsi del mistero della Passione che si rinnova sull'altare, si sta, come Pietro, distratti intorno al fuoco delle cose umane, e si cerca il proprio tornaconto, si rinnega praticamente il Signore, si allontanano da Lui le anime, e s'incoraggiano i perversi a perseguitarlo. Il mondo scellerato e miscredente non ha bisogno oggi di grandi prediche, ma di grandi esempi di amore a Gesù, non ha bisogno di grandi discussioni apologetiche, ma di grandi manifestazioni di fede e di vita nel Sacramento dell'altare.
Per questo il Signore dà a questa generazione pessima la testimonianza dei martiri gloriosi, che è apologia ammirabile. Ecco per esempio l'interrogatorio fatto ai martiri sacerdoti della Spagna nel 1936 e 37 ed ecco le loro risposte più eloquenti di tutte le parole degli oratori più celebri: «Quali sono le vostre funzioni?», diceva il tiranno al martire. Ed egli:
«Sono sacerdote». «Dichiarate di non esserlo più». Risposta: «Impossibile». «Dichiarate di non volerlo più essere e la vostra vita è salva». «Non posso dirlo, perché sono sacerdote in eterno». Furore dell'interrogante sempre più rabbioso, quanto più la vittima accentuava la sua affermazione del carattere sacerdotale. Condanna a morte. I sacerdoti partivano per il luogo dell'esecuzione pronunziando queste parole: Per la causa del mio Dio e della mia fede. Ed al momento dell'esecuzione l'ultimo grido: Viva Cristo Re! (.Avvenire d'Italia, 27 aprile 1937). Questo breve tratto degli atti dei martiri della Spagna vale più che cento volumi di apologie, come vale più di un poema la parola del seminarista diciottenne di Barbastro, crocifisso in piazza per odio alla fede: Gesù, per tuo amore e per la salvezza della Spagna!
7. L'orazione nell'orto
Finita la cena, Gesù si avviò verso un orto chiamato Getsemani, cioè strettoio di olio, dove soleva raccogliersi per pregare. Doveva essere di proprietà di qualche amico o discepolo, avendovi Egli libertà di entrare. Per non contristare i suoi cari, li lasciò all'entrata dell'orto e prese con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni, raccomandando loro di vegliare con Lui, che aveva l'anima triste sino alla morte. Il testo evangelico è di una semplicità e laconicità impressionante, ma quello che ci dice dell'agonia del Signore lascia nell'animo un profondo senso di compassione, e ci concentra nel mistero della ineffabile angoscia che Egli soffrì. In quel momento si sentì gravato dai peccati passati, presenti e futuri di tutto il mondo, e ne ponderò l'orrore. Tre volte si sentì venire meno, e pregò il Padre che avesse allontanato da lui, se possibile, quel calice amaro; tre volte perché tre volte fu oppresso mortalmente: fu schiacciato sotto il peso dei peccati degli uomini, sotto il peso delle agonie e dei dolori della sua Chiesa, e sotto l'angoscia dei suoi imminenti tormenti. Quello che soprattutto lo fece agonizzare fu l'offesa di Dio, della quale ponderava tutto l'orrore, e l'ingratitudine umana verso tutte le grazie che Egli stava per versare sulla terra. La ripugnanza poi della sua umanità alla morte fu come la sintesi e il concentrato di tutta la ripugnanza umana al dolore ed alla morte, ed Egli sentì tale agonia, che, come dice san Luca (22,44) sudò vivo sangue.
La stessa agonia che soffrì gli fece fare il sacrificio di sé stesso al Padre, in un abbandono pieno alla volontà di Lui, di modo che la sua offerta fu tale sublime immolazione, che la povera mente umana non può comprenderla. Egli fu veramente come stretto nel torchio; si sentì come stirare e spezzare i nervi ed il cuore, si sentì oppresso da tenebre interiori spaventose, accresciute in Lui, come ci dicono i santi mistici, dalle violente incursioni di satana, che tentava distoglierlo col terrore dal suo sacrificio. In quest'agonia Egli si sentì solo, poiché i suoi apostoli, presi dalla tristezza, e forse per l'umidità stessa della notte, si addormentarono. Gesù se ne lamentò specialmente con Pietro, che pur gli aveva fatto tante proteste di amore, ma essi lungi dal vigilare erano sempre più aggravati dal sonno. La terza volta che andò a svegliarli, Gesù disse loro in tono di grande amarezza: Dormite pure e riposatevi, ecco è vicina l'ora [...] alzatevi andiamo: Egli volle dire loro che oramai era inutile ogni ulteriore vigilanza e non c'era più tempo per la preghiera; il pericolo era imminente, il traditore veniva già, non gli rimaneva che andare incontro alla morte.
Gesù Cristo sta nell'Orto della sua Chiesa e, nascosto nel suo Tabernacolo di amore, prega e si offre al Padre. Là Egli continua la sua agonia misticamente, e là vuole i suoi figli, perché veglino e preghino con Lui. Quale dolore per Gesù il vedere che i suoi figli dormono nella notte dei loro peccati, e sognando le chimere del mondo, lo dimenticano. Le grazie particolari che il Redentore dona a quelli che vegliano con Lui intorno ai tabernacoli santi, ed a quelli che gli fanno compagnia nell'agonia del giovedì, mostra quanto Egli abbia cara la nostra veglia amorosa.
Il mondo congiura sempre contro di Lui, l'ingratitudine umana lo tradisce, ed Egli cerca i cuori che possono consolarlo. Oh se vigilassimo con Lui, quante tentazioni vinceremmo, ed a quali altezze di perfezioni saliremmo! Noi crediamo cosa da nulla il poltrire nella nostra accidia spirituale, eppure è proprio essa la causa del nostro decadimento spirituale! Vigiliamo e preghiamo per contrapporci al mondo che vigila per tramare insidie alla Chiesa, e siamo i suoi difensori non con semplici promesse, ma con l'attività di un profondissimo amore e di un ardente apostolato.
8. La cattura di Gesù
Mentre Gesù ancora parlava ai suoi apostoli, Giuda si avanzò, e con lui, ad una certa distanza, una gran turba armata di spade e di bastoni, mandata dal sinedrio. Il traditore si avanzò verso Gesù e secondo il segnale che aveva dato, lo baciò per additarlo con sicurezza agli sgherri. Quel bacio fu per il Redentore un dolore inconcepibile, non solo perché menzogna spaventosamente crudele, ma perché fu come il bacio datogli dal peccato stesso. Non si può misurare che cosa sia stato il contatto della menzogna con l'eterna verità e del peccato con l'infinita santità!
Gesù Cristo non rifiutò il bacio di Giuda, anzi chiamò questi amico, in segno di misericordia, e gli domandò perché fosse venuto, per fargli ponderare il passo che aveva dato. Forse al contatto del volto divino di Gesù ed alle sue parole dolcissime, cominciò in Giuda il sentimento di profondo rimorso, che avrebbe potuto essere pentimento, e per sua colpa divenne disperazione. Egli non resistette all'interrogazione soavissima del Maestro, e poiché gli sgherri si avanzarono per catturare la vittima designata, foggi errando per le valli in preda ad un'agitazione spaventosa.
Nel vedere i manigoldi stringersi minacciosi intorno al Signore, Pietro sfoderò una spada che aveva portato con sé proprio in previsione di un pericolo notturno, ed amputò l'orecchio destro di un servo del principe dei sacerdoti. Non aveva saputo dargli amore vigilando nella preghiera, e pretese dargli aiuto difendendolo. L'impeto che ebbe fu una vera tentazione di satana, il quale, astutissimo com'è, volle metterlo nella condizione di compromettersi con l'autorità e di essere più facilmente spinto a rinnegare il Maestro.
Satana con quell'atto inconsulto di coraggio e di zelo, lo predispose al peccato che stava per commettere, gli dette coraggio per ferire il servo, e gli tolse il coraggio per confessare il Signore! Certo l'aver ferito il servo del principe dei sacerdoti importava per lui una compromissione penale, ed egli, quando si trovò di fronte alle serve ed ai circostanti che asserivano essere lui uno dei discepoli del Redentore, negò ripetutamente perché temette di essere coinvolto con Gesù Cristo, e di poter pagare la pena della ferita fatta al servo del sacerdote. Gesù Cristo fece capire a Pietro prima, e poi a tutti quelli che lo circondavano, che quello che avveniva era precisamente il compimento delle Scritture. Se Egli avesse voluto impedirlo, lo avrebbe potuto, domandando al Padre, più che dodici uomini, dodici legioni di angeli; ma doveva svolgersi ciò che era stato predetto. Egli lasciava il corso alle libere volontà umane, dominandole non già con la forza ma utilizzando la loro stessa perversità al compimento dei disegni del suo amore. Gesù Cristo non volle dire che ciò che succedeva era fatale, ma che era stato già predetto, e che costituiva perciò una parte del disegno divino che si sviluppava fra le libere volontà degli uomini.
9. La fuga degli apostoli
I discepoli, che frattanto si erano radunati intorno a Gesù, attratti dall'insolito fragore delle armi, visto che Gesù non s'era difeso, né aveva permesso di difenderlo, presi dal panico, lo abbandonarono e fuggirono. Fuggirono tutti, senza eccezione; solo Giovanni poi ritornò sui suoi passi e lo seguì, e Pietro, dopo il primo sgomento, si mise appresso a Lui da lontano, per vedere dove andassero a finire quelle violenze. Lo seguiva da lontano perché il suo cuore e la sua fede erano già lontani dal suo Signore; lo seguì da lontano, proprio come quei cattolici senza vita e senza coraggio, che non sanno rendere testimonianza della loro fede, e vogliono seguire il Re divino senza compromissioni! Tutto l'amore dunque che Pietro aveva detto di avere per Gesù, s'era ridotto a questo! Ma dal seguire il Signore da lontano e rinnegarlo il passo fu breve, e Pietro dopo poco giurò di non averlo mai conosciuto, proprio quando il Maestro divino si appellava alla testimonianza dei suoi discepoli!
10. Il tribunale di Caifa
Tutto il processo, inscenato dai principi dei sacerdoti e dal sinedrio, era semplicemente una formalità; essi infatti non cercavano la verità ma i falsi testimoni, non indagavano sulle supposte responsabilità del Redentore, ma volevano ad ogni costo disfarsene, pur serbando un'apparenza di legalità. È impressionante il pensare che gli stessi falsi testimoni, prezzolati per mentire, non poterono accusarlo verosimilmente, tanta era la sua santità, e poterono solo riportare, falsandole, le parole che aveva dette guardando il tempio. Egli infatti non aveva detto di poter distruggere il tempio e riedificarlo in tre giorni, ma, parlando del suo Corpo, aveva detto
ai suoi nemici: Distruggetelo voi, ed io in tre giorni lo riedificherò.
La falsa testimonianza, benché avesse deformata la verità, non era sufficiente a pronunziare una sentenza di morte, e perciò il Sommo sacerdote con diabolica malizia interrogò solennemente Gesù Cristo sulla sua divinità; lo scongiurò per il Dio vivente a dirlo, perché sapeva che Egli non l'avrebbe negato, e perché sperava che, negandolo per timore, si fosse da sé stesso sfatato. Dio permise tanta malignità, perché volle che solennemente, innanzi al sacerdote, dalla bocca stessa del suo Figlio fosse stata dichiarata la verità.
Vi fu un momento di silenzio nell'assemblea. Caifa fissava Gesù con uno sguardo ipocrita e maligno, contento di averlo messo alle strette.
Gesù s'illuminò di un insolito splendore di maestà, e rispose non solo che Egli era il Figlio di Dio, ma che un giorno sarebbe ritornato sulle nubi del cielo con grande maestà, per giudicare tutti e per giudicare quelli che in quel momento presumevano di giudicarlo. Caifa a quella solenne dichiarazione finse d'addolorarsi, si lacerò le vesti, proclamò che Egli aveva bestemmiato, eccitò l'ira dell'assemblea, lo fece dichiarare reo di morte e lo abbandonò agli obbrobri ed alle percosse della canaglia.
In quell'aula tenebrosa s'iniziò la lotta contro il Redentore, lotta di calunnie e di persecuzioni, che dura tuttora nel suo Corpo mistico, specialmente oggi. Ma tutte le persecuzioni e gli obbrobri non potranno mai distruggere la verità, e quando l'umana nequizia avrà raggiunto il culmine di ogni nefandezza, allora la divina giustizia si manifesterà, il mondo sarà sconvolto dalle ultime tribolazioni, ed il Giudice eterno verrà a giudicarlo. Non ci scandalizziamo del fugace trionfo degli empi, non ci uniamo al loro rauco coro, mormorando della divina provvidenza, non ci uniamo a quelli che rinnegano il Redentore ma confessiamo la nostra fede a fronte alta, e
piangiamo amaramente sui nostri peccati e sui tristissimi momenti che attraversiamo. Preghiamo e vigiliamo con l'azione per tutelare l'onore di Dio, preghiamo e confidiamo sospirando al regno del Re d'Amore, preghiamo ed uniamoci con la vita veramente cristiana alla confessione del Redentore che i martiri fanno ora stesso col loro sangue!
2. Il consiglio del sinedrio e la disperazione di Giuda
Un giudizio ed una condanna fatti di notte erano legalmente nulli, perciò il sinedrio, appena fattosi giorno, si radunò nuovamente per ripetere sommariamente il giudizio, e per stabilire il genere di morte che voleva dare al condannato Gesù. I Romani avevano lasciato ai Giudei una certa indipendenza nei giudizi che riguardavano la loro Legge religiosa, e perciò Caifa maliziosamente aveva scongiurato Gesù in nome di Dio a dire se Egli era il Cristo, il Figlio di Dio, per condannarlo come bestemmiatore, e non uscire dal campo strettamente religioso.
Egli sperava così di avere più facilmente da Pilato la sanzione della sentenza.
Durante il processo, com'era costume, Gesù fu slegato, e quando fu dichiarata la sentenza di morte, fu di nuovo legato e condotto così al governatore romano, senza del quale nessuna sentenza capitale poteva aver corso.
Con quanta ira e con quanto disprezzo quei giudici iniqui trattarono il Redentore!
Lo abbandonarono prima tutta la notte ai maltrattamenti ed agli schemi della plebaglia e dei soldati che lo custodivano, e coperto di sangue, di sputi e di obbrobrio, lo trascinarono per le pubbliche strade al pretorio, volendo così sfatare il prestigio che Egli aveva sul popolo. In pochi giorni si era cambiato l'atteggiamento della moltitudine che prima l'aveva accolto trionfante, ed al grido di benedizione: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore, era subentrato quello di morte: Sia crocifisso.
Eppure quella massa di gente che così gridava era stata per la maggior parte ricolma di benefici spirituali e temporali dal Redentore, e gli era corsa appresso tante volte con un amore che sembrava incrollabile!
E terribile! È per noi disgustante il considerarlo, eppure così sono tante volte gli uomini, così siamo stati noi cento volte col Re divino! In un momento di fervore E abbiamo benedetto, accogliendolo in trionfo, ed in un momento di tenebre, nel contrasto di qualche nostro interesse o di qualche passione malsana, lo abbiamo rigettato, e con la colpa lo abbiamo tante volte crocifisso nel nostro cuore!
Giuda non poté rimanere indifferente alla sorte del suo Maestro, e dovette informarsi dell'esito del processo. Forse si aggirò intorno alla casa del sacerdote, sperando sempre in qualche colpo di scena provocato dal Signore. Aveva perduto la fede in Lui, ma non aveva potuto dimenticare le cose mirabili che aveva visto in tre anni; riguardava Gesù come un profeta fallito, ma inconsciamente credeva ancora che avesse potuto sgominare con un prodigio i suoi avversari. Lo credeva e lo sperava, perché già il rimorso gli saliva nel cuore come una marea soffocante. Egli aveva pattuito coi sacerdoti il tradimento ma era rimasto scontento anche della ricompensa avuta, poiché s'aspettava ed aveva sognato una grande ricchezza per quel colpo di mano. Vedendosi ricompensate solo col prezzo di uno schiavo, s'era adirato contro il sinedrio, ed auspicava che fosse stato confuso da Gesù con un atto di potenza. Forse gli rimaneva ancora un amore naturale verso il Maestro divino, non potendo dimenticare certi ineffabili momenti di vita spirituale passati con Lui; perciò quando lo vide passare tra gli sgherri, coperto di sangue e di sputi, insultato, malmenato, vilipeso, eppure placido e rifulgente di bontà, quando vide che andava verso il pretorio, e che tra poco sarebbe stata ratificata la sentenza di morte, fu preso da grande disperazione.
Non riacquistò la fede in Gesù, non lo credette Figlio di Dio, ma lo compassionò come un buon uomo, innocuo e pacifico, che non meritava quel trattamento; si sentì sconvolto dal rimorso di averlo consegnato in mano a gente così scellerata, pensò di poterlo far liberare ritrattando il suo turpe contratto, e corse dai principi dei sacerdoti, dicendo: Ho peccato, avendo tradito il sangue innocente. Nel tradirlo e venderlo ne aveva detto certamente gran male, perché aveva voluto in qualche modo giustificare il suo vile mercato; al suo animo sconvolto dai pensieri dell'orgoglio e dell'interesse insoddisfatto, Gesù era apparso spregevole; ma il vederlo condannato a morte gli faceva nascere nel cuore il rimorso di averlo accusato e denunziato ingiustamente, e perciò lo proclamò innocente di quello che poteva meritare la morte: Ho peccato, avendo tradito il sangue innocente. Se si fosse interamente ricreduto sul conto del Redentore, sarebbe andato prima di tutto a gettarsi ai suoi piedi; non lo fece perché volle seguitare a non credergli, e pensò solo intervenire per impedire che fosse trascinato a morte.
Nel suo orgoglio aveva voluto persuadersi di aver reso un servigio alla causa d'Israele tradendolo, cioè facendo cessare, secondo lui, un insieme d'ingenuità sognatrice e di inganni; si illudeva d'aver avuto importanza presso i sacerdoti, ed andò da loro per far valere la sua incompleta ritrattazione. Il modo sprezzante col quale fu accolto finì di sconcertarlo e di gettarlo nella disperazione. Essi mostrarono di essersi serviti di lui semplicemente come di un manutengolo, che non importava loro il suo nuovo orientamento verso il Signore, essendo affare che riguardava lui. La sua rettifica del resto era una condanna del loro operato, giacché come giudici avrebbero dovuto constatare l'innocenza del condannato, e questo accrebbe il loro dispetto nel rispondergli.
Giuda si sentì sconvolto da quella risposta sprezzante, andò al santuario e vi gettò per terra le monete ricevute; corse come forsennato per la valle della Geenna; fu assalito certamente da violentissime tentazioni diaboliche e, trovato un albero, vi passò un laccio, forse la sua stessa cintura, e si impiccò. Negli Atti è detto (1,18) che gli si aprì il ventre e si sparsero tutte le sue viscere; questo avvenne certamente perché, spezzatosi il ramo dal quale pendeva, sbatté contro le pietre col ventre già rigonfio per la morte violenta.
Questa fu la fine del traditore, fine disperata che lo condusse all'eterna perdizione!
3. La rovina spirituale non viene in un momento...
Giuda aveva avuto grazie immense stando vicino a Gesù, aveva anche fatto miracoli, quando fu mandato con gli altri apostoli a preparare il campo al Signore, aveva ascoltato la parola di vita, ma non ne aveva fatto profitto, anzi al suo turbato intelletto era apparsa persino un insieme di frottole. S'era fatto dominare dal proprio giudizio, dalla propria volontà, dalla propria brama di vantaggi temporali, non aveva ascoltato i rimproveri e le esortazioni di Gesù, e per maggiormente attanagliarsi ai propri giudizi, s'era chiuso in un mutismo strano, ed era caduto fino al fondo dell'abisso!
La perdizione di un'anima non viene in un momento, ma procede a gradi; satana nell'accalappiarla fa come il serpente che tira a sé l'incauto uccello. L'animaletto si lascia prendere dal bagliore ipnotizzante di quegli occhi, e non sa staccarsene; dimentica di avere le ali, e diventa preda dell'insidioso. Così avviene all'anima incauta: il serpente l'ha nel suo stesso intelletto; comincia a farsi affascinare da false luci, diventa critica ed ipercritica sulle cose divine, dà importanza ai propri pensieri, non vede che in se stessa, non ascolta consigli, anzi reagisce agli stessi consigli dell'obbedienza, si crede vittima d'inganni, vede la sua via come oppressione ed infelicità, la provvidenza del suo dolore e delle sue prove come una fatalità, si lascia trascinare in un'atmosfera naturalistica, nella quale le passioni germinano come in proprio ambiente, si allontana dalla preghiera e dai Sacramenti, concepisce un certo senso di noncuranza e persino di disprezzo per i mezzi di salute, e cade nel fondo della perdizione!
Bisogna vigilare attentamente sui primi movimenti di dissesto dell'anima, ed invece di allontanarsi da Gesù, bisogna ricercarlo con maggiore ardore, attaccandosi a Lui con amore vivo ed immolandosi nel compimento della divina volontà. Quello che ci agita non viene da Dio, ma dal maligno, e l'orgoglio maledetto è il tristissimo frutto che satana fa spuntare nel cuore che vuole affascinare; umiliamoci, preghiamo, lasciamoci guidare dai sacerdoti, confidiamo in Dio, viviamo nel cammino della croce, e guardiamo con sospirato amore alla meta eterna!
4. L'eredità del traditore
I principi dei sacerdoti raccolsero le monete gettate da Giuda, ma non vollero metterle nel tesoro del tempio, essendo prezzo di sangue. Era proibito offrire al Signore denaro di cattivo acquisto, ed essi senza volerlo venivano a confessare la turpitudine del patto stipulato con Giuda. È evidente poi che, non volendolo riporre nel tesoro, essi l'avevano rilevato di là, quasi spesa fatta per liberare la religione dalle insidie di un seduttore. Stabilirono quindi di comprare il campo del vasaio, cioè un piccolo appezzamento di terreno situato a Sud di Gerusalemme, sul versante meridionale della valle di Ben- Hinnon, che era stato sfruttato da un vasaio, ed era posto in vendita; questo campo, acquistato con denaro immondo, fu adibito ad un uso riguardato da essi immondo, cioè alla sepoltura dei forestieri. Esso fu chiamato daH'aramaico: Aceldama, cioè campo del sangue, e rimase come monumento inalienabile del tradimento di Giuda e delle loro perversità. Un campo venduto come sepolcreto infatti non poteva ritornare più al padrone neppure in occasione del Giubileo, e rimaneva sempre adibito a quell'uso, come terreno immondo.
L'evangelista soggiunge che con quella compra si avverò ciò che era stato predetto da Geremia profeta, e cita il testo della profezia. Questo testo non si trova né in Geremia, né in Zaccaria, e perciò doveva far parte di qualche profezia di Geremia non giunta fino a noi, come crede lo stesso san Girolamo, il quale attesta di averlo letto in un libro apocrifo che lo riportava. A noi sembra che questa sia la spiegazione più semplice e più naturale, perché i testi di Geremia e di Zaccaria ai quali si riportano alcuni, non parlano dell'acquisto del campo del vasaio fatto col prezzo dell'apprezzato dai figli d'Israele. In Geremia (32) si parla dell'acquisto di un campo di Anatot, fattogli fare dal Signore per annunziare che ancora si sarebbe venduto e comprato, in Israele, ed in Zaccaria si parla
dei trenta denari dati come mercede del ministero del profeta (11,12-13). Ora è chiaro che questo prezzo non poteva essere annunzio di quello dato a Giuda, giacché il traditore lo ricevette come ricompensa del proprio misfatto, non come apprezzamento del ministero di Gesù Cristo.
I sacerdoti non pensarono ad apprezzare neppure con una moneta spregevole un ministero che essi non solo non riconoscevano, ma che stimavano un'insidia per la religione.
Giuda dunque che aveva sognato grandezze e ricchezze temporali, e che per questi sogni si era reso infedele al suo Maestro e l'aveva tradito, non raccolse dal suo tradimento che la morte disperata, e non lasciò come eredità del suo delitto che un campo di morte!
Questa è l'eredità di chi tradisce il Signore per aspirare alle vane illusioni della vita materiale e peccaminosa: disperazione e morte desolata! Cerchiamo Dio solo, e nelle tribolazioni della vita solleviamo a Lui il nostro cuore sospirando alla Patria eterna! La sete dell'interesse e del denaro può distruggere in noi ogni santa aspirazione, e può abbrutirci fino all'estrema degradazione. Diamoci a Dio con tutta l'anima, e sulla terra teniamo fisso il cuore al Calvario, che è la via maestra che ci conduce all'eterna felicità.
5. Gesù Cristo innanzi a Pilato
I Romani erano soliti amministrare la giustizia per le cause criminali allo spuntare del giorno, ed i principi dei sacerdoti, dopo aver condannato il Redentore, lo condussero a Pilato per la ratifica della sentenza. Accortisi però che il preside romano non era per nulla disposto a sottostare alle loro pressioni, come si rileva dal Vangelo di san Giovanni, presentarono la causa sotto l'aspetto politico ed accusarono il Redentore di sedizione, come colui che s'era dichiarato Re.
Gesù era tutto sfigurato dai maltrattamenti della notte, ma il suo aspetto aveva una singolare maestà che incuteva rispetto; Pilato vedendolo credette di avere davvero davanti a sé il Re spodestato dai Giudei, e glielo domandò. Dal modo come lo aveva interrogato i principi dei sacerdoti capirono che era stato impressionato favorevolmente di Lui, e perciò cominciarono ad accusarlo in tutti i modi per distruggere quella buona impressione. A quelle accuse Gesù non rispose nulla.
Che cosa avrebbe potuto rispondere a calunnie architettate apposta per condannarlo?
Avrebbe dovuto spiegare innumerevoli cose, delle quali nessuno avrebbe potuto intendere il vero significato, avrebbe parlato invano, perché i suoi nemici erano già decisi a sopprimerlo; Egli dunque tacque. Ma nel suo silenzio, quanta dignità, quanta maestà, quanta eloquenza di amore che non sfuggì, inconsciamente, al preside, e suscitò in lui una grande meraviglia.
Egli era abituato ai clamorosi dibattiti dei processi criminali, e specie quando gli si portava a ratificare una sentenza di morte, sapeva per esperienza quanto il condannato gridasse e cercasse difendersi con tutte le sue forze; ora invece si trovava di fronte ad una calma maestosa, serena, amorosa e paziente che gli suscitava stupore grandissimo.
Quel silenzio poi era la più eloquente affermazione d'innocenza, e faceva un contrasto vivo con l'irruente odio dei sacerdoti, i quali nel loro stesso modo di parlare si svelavano, e manifestavano l'invidia che li ossessionava.
Il popolo assisteva con grande curiosità, come suole avvenire in simili circostanze, ma taceva; Pilato credette di capire che non c'era identità di vedute tra la moltitudine e i sacerdoti, e pensò di rendere vana la trama della congiura appellandosi al popolo, e liberando il prigioniero con un atto di clemenza che di per sé avrebbe troncato il processo.
Durante le feste di Pasqua, in memoria della liberazione del popolo dalla schiavitù, si soleva liberare un carcerato, a richiesta di popolo; i Romani avevano mantenuto questa antichissima usanza. Ora si trovava imprigionato un pessimo soggetto, chiamato Barabba, che significa: figlio del padre, e secondo alcuni codici: Gesù Barabba; era un delinquente pericoloso e prepotente, che in una sedizione aveva commesso un omicidio, ed era in attesa della condanna capitale. Pilato pensò che per far liberare Gesù, da lui già conosciuto come benefattore del popolo, e che era tutto mansuetudine e carità, sarebbe bastato proporlo alla moltitudine, per la rituale liberazione, di fronte a Barabba, ladrone, sedizioso e omicida.
6. L'avviso della moglie di Pilato
Pilato fece la proposta al popolo, ed attese che avesse risposto. Mentre, attendeva, la moglie gli mandò a dire che non s'impicciasse di quel giusto, perché essa aveva avuto molti sogni penosi a causa di Lui. Non sappiamo di qual natura siano stati i suoi sogni, né si può dire che siano venuti da Dio. Molti lo suppongono; ma altri credono che siano stati una suggestione di satana, il quale, sospettando in Gesù il Redentore promesso, avrebbe voluto impedirne la morte. Secondo questa opinione, l'arcana pazienza del Signore convinse satana della missione di Lui, e cercò impedirne il compimento; quando vide vano il suo sforzo, allora irruppe in tutta la sua ira per tentare almeno di vendicarsi.
7. Giudice il popolo, Pilato se ne lava le mani
Pilato non diede troppa importanza alle parole della moglie, perché credeva ormai di aver trovato il modo di uscire
d'impaccio; non aveva pensato alla malignità dei sacerdoti, degli scribi e farisei che non aveva confine; questi col denaro comprarono il voto del popolo, e lo indussero non solo a domandare la liberazione di Barabba, ma a pretendere la morte di Gesù.
Finché il popolo avesse chiesto la liberazione del ladro sedizioso e omicida, sarebbe stata un'enormità, ma non un assurdo, dato che il popolo poteva scegliere; ma domandare a gran voce la morte di un innocente, proprio nella solennità della liberazione, a Pilato sembrò tale mostruosità che non seppe trattenersi dal dire con forza: Ma che ha fatto Egli di male? Prima aveva detto: Che cosa dunque farò di Gesù, chiamato il Cristo? Per indurre il popolo a riflettere alla richiesta che faceva, dopo ne proclamò apertamente l'innocenza; e quasi chiamò la moltitudine a giudicare con lui.
Avrebbe dovuto imporre la sua sentenza, anzi avrebbe dovuto punire i falsi testimoni, ma non ne ebbe il coraggio. Il popolo aveva gridato erigendosi a giudice, ed egli, quasi esautorandosi, aveva mostrato di non poter contraddire quel giudizio; ricorse perciò ad un gesto che doveva esprimere il suo disinteressamento, e si lavò pubblicamente le mani dicendo che egli era innocente del sangue di quel giusto. Nel Deuteronomio (21,6) è prescritto ai sacerdoti di lavarsi le mani per attestare di non aver preso parte all'uccisione di un uomo trovato morto; forse Pilato s'ispirò a questa cerimonia alla quale aveva dovuto assistere molte volte, ma non riflettette che con questo si dava in balìa del popolo che da lui solo reclamava la sentenza di morte, e di morte di croce.
Tutta la moltitudine gridò come un sol uomo invocando che il Sangue di Gesù cadesse su di essa e sui suoi figli, e non s'accorse che con questo reclamava da Dio la sentenza di un terribile castigo, poiché al Signore certo non poteva essere nascosta la maligna intenzione che esso aveva nel reclamare la morte dell'Innocente.
8. In Pilato, la «giustizia» degli uomini
Pilato era come la rappresentanza di tutte le ingiustizie che i giudici avrebbero consumate nel corso dei secoli. Di carattere debole, servile ed opportunista, cercò di difendere l'innocenza in modo da non compromettere se stesso; cedette per timore, e credette di aver provveduto sufficientemente alla sua coscienza col lavarsi le mani. Gesù Cristo subiva e riparava, e sottomettendosi Egli all'ingiustizia, consolava in tutti i secoli gli innocenti condannati dalla malignità umana.
Quante volte l'anima nostra ascoltando il grido delle passioni, e cedendo alle loro pretese, condanna Gesù alla morte nel suo cuore! Preferisce a Lui la degradazione, la miseria, l'impurità, la violenza e si priva della sua dolcissima grazia!
Quante volte, nell'umana società, quelli che governano si lasciano trascinare dalle correnti diaboliche delle sette, e manomettono i sacrosanti diritti di Dio e della Chiesa! Non si rifiuta Gesù Cristo senza condannarlo, ed è impossibile rimanere neutrali o indifferenti innanzi a Lui. Chi si lava le mani, disinteressandosi della sua gloria e dei suoi diritti, li rinnega, li manomette e li conculca. È necessario acclamare Re Gesù Cristo, e vivere della sua vita e del suo amore condannando il male e le suggestioni diaboliche che tentano di separarci dal suo amore!
9. Gesù flagellato
Pilato prima di abbandonare Gesù definitivamente al popolo perché fosse crocifisso, lo fece flagellare nella speranza di soddisfare la furia sanguinaria di quelli che ne reclamavano la morte. La flagellazione era un supplizio crudele: si legava il paziente ad una bassa colonna, affinché fosse costretto a star curvo e con la pelle bene distesa, e lo si percuoteva aspramente con le verghe o coi flagelli, che erano funi di cuoio, terminati con pezzi di osso o con palle di piombo. I colpi avrebbero dovuto essere limitati, ma praticamente non era così, specie quando la flagellazione precedeva l'esecuzione di una sentenza capitale.
Per Gesù fu asprissima, perché i sacerdoti avendo capito che il governatore l'avrebbe voluto liberare, dovettero certamente aizzargli contro i soldati e forse li pagarono, perché il supplizio fosse stato mortale.
Come furie i manigoldi si gettarono addosso al mansuetissimo Agnello, ed Egli fu in breve tutto inondato di sangue. La sua pena immensa riparava le impurità della carne, le immodestie e le nudità, ed Egli volle come ammantarsi di un paludamento di obbrobrio e di dolore!
Oh, se si capisse la gravità di certi peccati, ed anche di certe semplici immodestie, non si avrebbe il coraggio di unirsi alla crudele masnada dei flagellatori di Gesù! Tu, o anima cristiana, flagelli il Redentore nel tuo medesimo corpo mostrandoti agli altri per vanità, e così inveisci contro Colui che tanto ti amò! A che serve mostrarti? Che cosa ricavi dallo sguardo impuro che si ferma su di te? E come hai il coraggio di essere pietra di scandalo per tanti, che per te dimenticano gli eterni beni del cielo? Tu illudendoti dici che ciò che è bello deve mostrarsi, e non rifletti che non è bellezza ma orrore il mostrare la materia ornata di gemme, ed il nascondere agli sguardi altrui la bellezza spirituale, anzi il mostrarla agli occhi di Dio, tutta deturpata ed avvilita!
10. La coronazione di spine
La flagellazione di Gesù Cristo ebbe luogo in pubblico, davanti al palazzo del pretorio; i soldati, ascoltando le grida d'insulto che la moltitudine lanciava contro il Redentore, e specialmente, quelle dei sacerdoti che volevano sfatarne ogni prestigio, pensarono diabolicamente di parodiarlo nella regale dignità che tutti gli rimproveravano di essersi attribuita. Lo trascinarono nel pretorio, cioè nell'interno del palazzo del governatore dove erano di guardia, e radunata tutta la coorte, ossia i cinque o seicento uomini della guardia, lo spogliarono della veste che gli avevano rimessa dopo la flagellazione, e gli misero addosso una clamide rossa di soldato come un manto reale; quindi intrecciata con giunchi una corona di lunghe ed acutissime spine, gliela calcarono sul capo in modo da ferirlo orribilmente, e come scettro gli posero nelle mani una canna. Era uno spettacolo terribile, poiché quei barbari si divertivano a schernirlo, a sputargli addosso, e a percuotergli il capo violentemente con la canna, mentre tutta la coorte sghignazzava, mai sazia di tormentarlo gli dava la muta nello schernire il Re divino!
E Gesù taceva, pregava e riparava per i peccati dei capi e dell'orgoglio dei potenti! Subendo quell'obbrobrio spaventoso Egli ridonava all'uomo la corona della sua dignità e nel medesimo tempo si coronava Re d'Amore in tutti i secoli. Se si riflette bene, non c'è altra corona che sia per Lui più regale di quella di spine. La corona di oro e di gemme quasi non gli sta, e quasi lo diminuisce; coronato di spine invece è bellissimo, è attraente, è pieno d'ineffabile dolcezza che commuove anche i cuori più ostinati.
Egli poi ci ha comunicato la bellezza ineffabile del suo dolore, poiché ogni umiliazione sofferta per suo amore, ed ogni obbrobrio raccolto per Lui ci rende coronati di una gloria che nessuna corona regale potrebbe darci.
11. Caricato della croce
Dopo averlo schernito lungamente per circa due ore, in attesa dei preparativi della crocifissione, lo rivestirono di nuovo
della sua veste e lo trascinarono al Calvario. Gli lasciarono la corona di spine, certamente, giacché fu ritrovata sul Calvario da sant'Elena insieme alla croce, e lo caricarono del grave peso della croce, come si era soliti costringervi ogni condannato. Lungo la strada temettero che venisse meno per i gravissimi maltrattamenti subiti, e costrinsero un uomo robusto di Cirene, che passava di là, a prenderla per un tratto di strada sulle sue spalle.
Tutto sembrava un avvenimento di comune condanna, e le sue circostanze sembravano fortuite; eppure Gesù Cristo segnava col suo Sangue preziosissimo la nuova via che l'umanità doveva percorrere: Egli porta la croce redimendoci, e noi dobbiamo portarla appresso a Lui compiendo in noi quello che manca della sua Passione. Se non fosse andato Lui avanti, con quale cuore avremmo noi percorso il nostro duro cammino! E se il Cireneo non lo avesse aiutato, non avremmo imparato a portare la nostra croce giornaliera e quelle più gravi che ci capitano, appresso al nostro dolcissimo Signore.
Chi si illude che la vita sia un cammino di gioie materiali, e si getta negli abissi della colpa, si accorge ben presto di percorrere un Calvario più penoso, e va insieme con Gesù come ci andavano i ladri condannati alla medesima pena infamante.
A volte si cade sotto il peso della croce come cadde Gesù, e si stenta a ripigliare la via senza un aiuto particolare; ricorriamo a Gesù per sollevarci, ed abbiamo la carità di aiutare chi soffre a sopportare con pace maggiore il suo dolore. Una parola di bontà è balsamo nel dolore e lo è soprattutto l'immedesimarci delle pene altrui come se fossero nostre; l'anima non è tanto desiderosa di aiuti materiali, quanto di soccorsi spirituali, e bisogna consolarla prima di tutto con la dolcezza della bontà e della carità.
12. Crocifisso
Gesù Cristo, strapazzato, insultato e vilipeso in tutti i modi, giunse su di una piccola collina a N.O. di Gerusalemme, chiamata Calvario o Golgota, perché aveva la forma di un cranio decalvato; là venivano giustiziati i condannati più pericolosi, affinché la loro morte fosse servita di esempio agli altri. A quelli che dovevano essere crocifissi si dava a bere una miscela di vino e di mirra, per inebriarli a rendere loro meno penoso il supplizio. Il testo latino dice che a Gesù diedero a bere vino mescolato col fiele, ma nel testo greco la parola tradotta in latino per fiele, ha il significato generale di bevanda amara; san Marco dice esplicitamente che gli diedero a bere del vino mirrato (15,23). La bevanda, per quanto amara, non era disgustosa, anzi era bevuta avidamente dai condannati, consci della terribile crudeltà del loro supplizio. Gesù Cristo l'assaggiò soltanto e non volle berla, per conservare in pieno la sua sensibilità e la sua coscienza, e soffrire maggiormente per nostro amore. Oh, com'è grande questo gesto d'amore sconfinato, e quale vergogna deve fare a noi che misuriamo sempre con estrema grettezza quello che diamo al Signore!
Spogliato violentemente delle vesti, Gesù venne conficcato alla croce. C'erano tre forme di croce; la decussata, in forma di X, la commissa in forma di T, e V immissa in forma t. Siccome sul capo di Gesù fu appiccata la tabella con la condanna, è evidente che la sua croce era immissa.
Al centro della croce ordinariamente c'era un piolo o cavalletto, per sostenere il corpo del condannato quando veniva crocifisso sulla croce già eretta ed infissa al suolo. Non risulta che la croce di Gesù abbia avuto questo piolo, perché fu crocifisso a terra e poi sollevato in alto. Da studi recentissimi fatti sulla sacra Sindone di Torino, dov'è impresso il Corpo del Redentore s'è potuto rilevare con certezza come Egli fu crocifisso. I chiodi delle mani furono confitti fra la prima e la secondi linea degli ossicini là dove i forti tendini anteriori e posteriori del polso congiungono gli ossicini del corpo, quasi in un'unica massa, e dove ha origine un robustissimo legamento che potrebbe sostenere tutto il peso del corpo. Il chiodo, introdotto sotto il lembo inferiore di questo tendine, attaccava la mano in modo irremovibile, e ne rendeva impossibile lo strappamento sia casuale che volontario.
Come è risultato da un'esperienza fatta su di una mano amputata di fresco, il chiodo, penetrando così, non scalfiva neppure le ossa. I piedi vennero forati nel secondo intervallo alla base delle ossa del metatarso, proprio sotto il malleolo, nel mezzo della convessità del piede. Dalle impressioni della sacra Sindone si rileva scientificamente che i piedi vennero prima forati, e poi sovrapposti e trapassati da unico chiodo. La gamba destra venne fortemente stirata e la sinistra si piegò leggermente al ginocchio, apparendo sulla Sindone più corta di 3 o 4 centimetri della destra. Il chiodo dei piedi, più lungo di quelli delle mani, dentellato nelle coste laterali, si conserva a Napoli nella Chiesa di san Gregorio Armeno.
Spogliato delle vesti per essere crocifisso, apparve in tutta la sua crudeltà lo scempio che s'era fatto del Corpo del Redentore nella flagellazione e nella coronazione di spine.
Nei deprecati tempi del modernismo si tentò di sminuire la grande testimonianza dell'amore di Gesù nella sua Passione, ma le cervellotiche asserzioni vennero smentite dallo studio accurato della sacra Sindone, dopo che fu possibile fotografarla nel 1898, e lo studio scientifico condusse alla più luminosa conferma del racconto evangelico . Stando all'accurato esame che se ne è fatto, il capo di Gesù fu coronato da una calotta di spine, che lo trafissero perforando le vene e le arterie, senza molta lacerazione esterna, ma con molta penetrazione interna. La corona di spine ferì maggiormente il capo nella parte posteriore e propriamente nella zona della nuca, e questo ci fa intendere che Gesù fu crocifisso con la corona di spine, e fu crocifisso a terra; il peso del capo e i colpi del martello che lo fecero rimbalzare sul tronco laterale confissero penosissimamente le spine in tutta la zona posteriore del capo, si riscontrano maggiori grumi di sangue a sinistra della zona della nuca, il che ci può far supporre che Gesù nell'essere crocifisso aveva il capo rivolto al cielo, inclinato indietro sul lato sinistro.
I rigagnoli di sangue, lasciati dalla corona di spine sul capo del Redentore ed impressi nella Sindone, confermano in modo irrefutabile che egli fu crocifisso con quella corona, giacché se gli fosse stata tolta, il sangue si sarebbe fuso in un unico ammasso.
La guancia destra era gonfiata notevolmente per i colpi ricevuti, il volto era sfigurato dalle percosse e dagli sputi, le labbra erano gonfie. La spalla destra in confronto della sinistra era abbassata, come si osserva nella Sindone, con solchi e ferite prodotte da schiacciamento di un corpo pesante, testimonianza della croce da Lui portata su quella spalla, del peso di circa un quintale che aveva dovuto sostenere. Su quella spalla s'era formata una dolorosissima piaga. Solo chi non ha visto la Sindone potrebbe dire che i colpi della flagellazione furono limitati. Il Corpo era tutto striato di colpi crudeli e di piaghe, cominciando dal petto; il ventre, le mani, i fianchi, le gambe, e dietro le spalle la schiena, le reni e i muscoli del bacino, tutto era solcato da innumerevoli ferite, alcune delle quali, specialmente quelle sulle cosce, erano disposte a ventaglio. Queste ferite s'intrecciavano, s'incrociavano, si sovrapponevano, in modo da non lasciare parte sana, e da testimoniare che i colpi erano stati innumerevoli e rinnovati continuamente. Tra le piaghe spiccavano, e spiccano tuttora sulla Sindone, a due a due, ferite di tre centimetri di lunghezza, inferte con straordinaria ferocia; se ne contavano circa 80, e corrispondevano ai quaranta colpi dati col flagrum romanum, che aveva due palle di piombo, riunite da una corta sbarra, dove si attaccava la striscia di cuoio che partiva dall'impugnatura. Il flagello aveva due strisce di cuoio, e non solo strappava la pelle, ma lacerava i muscoli e scopriva le costole e le ossa. Gesù non aveva ricevuto solo i 39 o 40 colpi della legge, ma si erano accaniti contro di Lui i carnefici, fino a formargli veramente una veste di sangue. Così apparve sul Calvario nella sua nudità lacrimevole, e così fu crocifisso!
Quale cuore dato al peccato, e specialmente all'impurità, non si spezza pensando a tanti dolori inauditi? E ehi non s'infiammerà d'amore, pensando all'amore infinito che Gesù Cristo ci ha portato? Come si può ardire di correre appresso alle lusinghe della carne, quando si vede Gesù ridotto in tale stato?
13. Le derisioni dopo la crocifissione
Per legge le vesti del condannato spettavano ai carnefici, i quali se le dividevano; perciò i quattro soldati che avevano crocifisso Gesù presero le sue vestimenta, e gettarono la sorte sulla tunica inconsutile per non romperla.
Poi si misero a fare la guardia militare al condannato e a due ladroni che frattanto erano crocifissi con Lui. Sulla parte sporgente della croce, in alto, fu posta una tavoletta di legno
sulla quale, invece del motivo della condanna, Pilato scrisse in tre lingue, ebraica, greca e latina che quel crocifisso era il Re dei Giudei. Quella scritta contrariò non poco i nemici di Gesù Cristo, i quali videro in essa quasi una sfida alla loro malignità; perciò, non potendo ottenere da Pilato che l'avesse rimossa, cominciarono a schernire il Crocifisso, e tentarono di far passare come una suprema ironia quel titolo.
I soldati o quelli che avevano sentito dire nel processo la calunnia sulla distruzione del tempio, schernirono Gesù su di questo, esortandolo a salvare se stesso dal supplizio che gli era stato inferto. I principi dei sacerdoti, volendo sfatare la soprannaturalità dei miracoli da Lui compiti, affermarono che Egli che aveva salvato gli altri, non poteva ora salvare se stesso. Con raffinata malizia vollero far notare che Dio non lo aiutava in quel supremo momento, nonostante Egli avesse detto di confidare in Lui e di esserne amato; questo, secondo loro, era la dimostrazione che Egli non era Figlio di Dio, e per far risaltare tale conclusione, lo sfidarono a dare la prova della sua divinità scendendo dalla croce. Lo stesso dicevano i ladroni esasperati di non vedere un miracolo di liberazione, nel quale forse avevano sperato di essere beneficati anch'essi. Gesù non discese dalla croce perché c'era salito per salvarci, ed ai ladri rispose con una speciale illuminazione di grazia che fu raccolta solo da uno di essi. Rispose il Padre però alla tracotanza degli schernitori, e fìtte tenebre avvolsero tutta la terra dal mezzodì alle tre, seminando tra essi principalmente il terrore.
14. La morte
Il Cuore di Gesù era stato soprattutto ferito dall'allusione fatta dai sacerdoti all'abbandono nel quale Dio lo aveva lasciato; con un grido Egli volle mostrare che in quell'abbandono si verificavano le prime parole del Salmo 21, e cominciò a recitarlo ad alta voce. Le prime parole Eli, Eli, lamà, sono citate in ebraico dall'evangelista, l'ultima è citata in aramaico; san Marco (15,34) le cita tutte in aramaico: Eloi, Eloi, lamma sabactàni?
Egli volle anche giustificare la mancanza dell'intervento del Padre, nonostante la fiducia che in Lui aveva avuta, dichiarandosi abbandonato da Lui, quasi come peccatore e proclamando il mistero di quell'abbandono, nell'amorosa interrogazione che gli fece.
L'abbandono era testimonianza dell'immolazione della Vittima, l'interrogazione amorosa: perché mi hai abbandonato? Era la testimonianza dell'innocenza della vittima. Certo Gesù era in profondissime tenebre interiori, fra spasimi terribili di cuore e di corpo, ma il suo grido al Padre fu tutto uno slancio di fiducia, di amore e di sottomissione. Al suo grido rispose ancora una volta lo scherno dei circostanti, i quali, parodiando le parole del Salmo, dissero che Gesù forse invocava Elia per essere liberato. Un altro, ascoltando il suo lamento di aver sete, perché l'arsura della febbre e della perdita di sangue lo consumava, andò ad inzuppare una spugna nella posca dei soldati romani, cioè in una miscela di aceto e d'acqua che essi bevevano, e su di una piccola canna l'offrì a Lui. I derisori del suo grido di angoscia però non gli permisero oltre di bere, e staccando la spugna dalle sue labbra dissero all'uomo pietoso, che gliel'aveva porta, che era meglio aspettare che Elia venisse a liberarlo. Gesù aveva preso un poco d'aceto, e in quell'atto s'erano compiti tutti i vaticini; il suo sacrificio era completo, ed Egli, gettato un alto grido per affidare al Padre il suo spirito, chinando il capo spirò!
Nell'atto stesso nel quale il Redentore esalò il suo spirito, il velo che copriva il Santo dei Santi nel tempio si squarciò, per dimostrare che la Legge antica era finita, e s'era aperto il cielo, figurato nel Santo dei Santi. La terra tremò, per mostrare così il suo disgusto per il delitto consumato dai Giudei, e le pietre si spezzarono. Nello sconvolgimento tellurico si aprirono anche molti sepolcri, e san Matteo aggiunge che dopo la risurrezione di Gesù Cristo molti corpi dei santi risorsero. Questi corpi di santi, risorti gloriosi dopo tre giorni che la loro tomba era stata aperta dal terremoto, entrarono in Gerusalemme, apparvero a molti per predicare la divinità di Gesù Cristo, e poi ascesero trionfanti con Lui nel cielo. Forse risorsero i corpi dei patriarchi che più avevano sospirato la redenzione, forse con essi risorse san Giuseppe... Noi non sappiamo nulla in proposito; sappiamo solo che la vittoria di Gesù Cristo sulla morte che lo rese primizia dei risorti, come dice san Paolo (Col 1,18) trasse dalla tomba molti santi defunti, primizia a loro volta della risurrezione futura di tutti gli uomini.
I fenomeni che avvennero nella morte del Redentore non erano tali da potersi scambiare per fatti naturali e casuali; si sentiva nella medesima atmosfera, per così dire, la solennità di quello che era avvenuto. Il centurione e i soldati che erano con lui a fare la guardia se ne impressionarono, e riconobbero nel Crocifisso il Figlio di Dio. Le pie donne erano in lontananza e piangevano amaramente. In poco tempo il Calvario fu solitario, e le prime ombre della sera cominciarono ad avvolgere tutto.
Quale spettacolo grandioso e solenne era il Crocifisso! Sospeso tra la terra e il cielo, col volto maestosamente sereno e rifulgente di amore, con le braccia aperte, col capo chinato verso la terra, Egli era la Vittima d'amore che parlava con la sua stessa morte ed intercedeva per gli uomini.
Se la sola immagine del Crocifisso ci fa tanta impressione, quanto non doveva fame Gesù stesso? Chi può scrutare il
mistero di quella morte che fu vitandi quella sconfitta che fu trionfo, di quel silenzio che fu parola eloquente di amore, ancora viva nei secoli sempre attuale e sempre eterna?
15. Giuseppe d'Arimatea fa seppellire Gesù nella sua tomba nuova
I corpi dei condannati secondo la legge romana venivano lasciati sul patibolo fino a che si fossero putrefatti o fossero stati divorati dalle fiere e dai rapaci. Secondo la legge ebraica venivano tolti e sepolti nella fossa comune, a meno che parenti o amici del condannato non li avessero richiesti al governatore romano. I sacerdoti e gli anziani del popolo avevano premura di togliere dalla croce il Corpo di Gesù e dei due ladri, perché già cominciava la solennità del sabato, e soprattutto avevano premura di seppellire Gesù in modo così obbrobrioso, che non si fosse mai più parlato di Lui. Il fatto che Giuseppe d'Arimatea, membro del sinedrio e discepolo nascosto di Gesù si sia affrettato a domandare a Pilato il Corpo del Maestro, ci fa supporre che qualche cosa di sinistro s'era progettato nel sinedrio.
Giuseppe era uomo ricco e come tale aveva un sepolcro nuovo in una sua proprietà vicino al Calvario, sepolcro che aveva fatto scavare nella pietra.
Per rispetto a Gesù stabilì di adoperare per Lui quella tomba, ed involtone il Corpo in un lungo lenzuolo, ve lo ripose, chiudendone l'entrata con un grande masso. I sacerdoti ed i farisei dovettero essere molto contrariati da questa sepoltura onorata resa a Colui che credevano di aver vinto per sempre, o la premura con la quale ne era stato chiesto a Pilato il Corpo li insospettì e fece loro ricordare la profezia che Egli aveva fatta sulla sua risurrezione. Perciò il sabato andarono dal governatore e gli domandarono che avesse fatto custodire la tomba fino al terzo giorno, per timore che i suoi discepoli ne sottraessero il Corpo divulgando poi la voce della sua risurrezione. Pilato si mostrò annoiato di questa domanda, e poiché essi per la solennità della Pasqua avevano già molti soldati a disposizione rimise loro la cura di custodire il sepolcro. Certamente i sacerdoti ed i membri del sinedrio s'accertarono prima che nella tomba ci fosse il Corpo, giacché senza quest'accertamento sarebbe stata inutile la loro disposizione. Accertata la presenza del Corpo, richiusero la tomba, suggellarono la pietra, e vi posero un drappello di soldati. Non si accorgevano essi di preparare, loro malgrado, l'argomento irrefutabile della risurrezione del Signore innanzi a tutti i secoli, e di essere, senza volerlo, gli umili servi della divina provvidenza.
16. Il mistero della Passione e della Morte del Redentore e la luce che diffonde nella nostra vita
Noi non possiamo troppo dilungarci in riflessioni pie sui vari tratti del Vangelo, perché non basterebbero molti volumi per illustrali meditando; ma dobbiamo trattenerci almeno un poco sul grande mistero della Passione che fu il compimento delle figure e delle profezie dell'Antico Testamento, e che ci tracciò mirabilmente la via che anche noi dobbiamo percorrere per raccogliere i frutti della redenzione e conseguire l'eterna gloria.
Se tutto il Vangelo ci traccia il cammino della vita, il tratto della Passione ci traccia la via regale della salvezza, e ci mostra in una sintesi eloquente ed efficace la perversità e la malizia dei cattivi che tentano ostacolarcelo.
Alla piccolezza umana sembra un mistero sconcertante, e quasi uno scandalo l'estrema umiliazione del Redentore, giacché Egli, come Dio, avrebbe potuto sventare, anzi annientare e vincere le congiure dei suoi nemici. Al mondo superbo sembra quasi una stoltezza la croce, una stoltezza indegna dello spirito orgoglioso di reazione e di assolutismo, che si afferma oggi più che mai. Noi assistiamo all'apostasia nazista in Germania dalla fede proprio in nome di una incompatibilità tra la via della croce e quella dell'orgogliosa tracotanza della razza che si crede superiore alle altre; è necessario dunque sfatare queste aberrazioni, e ritornare sulla regia via della croce, salvezza e gloria vera per l'uomo.
E prima di tutto è necessario riflettere che la via del Calvario costituisce una vittoria degna di Dio, una vittoria sul male, sulla morte e sull'anima che nessun conquistatore può mai vantare. L'orgoglio umano non s'accorge che la via meno adatta a conquistare ed a conquidere è proprio la forza bruta e l'affermazione della superbia; di fronte alla forza l'uomo si chiude tutto nei penetrali della coscienza e della volontà, e di fronte all'orgoglio si gonfia egli stesso di maggiore orgoglio e diventa impenetrabile. Tutti gli imperi del mondo in tutti i secoli sono finiti in rovine proprio per questo, e la storia è una continua reazione alla forza brutale ed all'orgoglio.
Gesù Cristo immolandosi ci ha risanati, ci ha rigenerati, ci ha attratti a sé. Ci ha dato il suo stesso Sangue come vita, ha formato nell'amore i suoi sudditi, li ha stretti nel suo Cuore, li ha tutti avvinti con la sua carità. Egli si paragonò al granello di frumento che cadendo sotterra muore e germina moltiplicandosi, e veramente morendo ci generò e si moltiplicò nel suo Corpo mistico. Innanzi al suo sacrificio le passioni umane cedono le armi, e la creatura gli si dona nella maniera più nobile, in tutta la sua volontà e la sua libertà. Egli non è il conquistatore, è il Padre; non esige, ma dona e, donando, riceve tutto dalla sua creatura; non domina ma ama, ed amando la creatura gli si sottomette interamente, e cerca il caldo del suo Cuore come il bimbo cerca il petto materno. Se nel mondo ci sono ancora dei ribelli al suo dominio, ci sono perché non ne hanno sperimentato la soavità. La croce è una bandiera che non svetta al vento, ma s'eleva nei cuori, e li accende nella gara della conquista dell'amore divino per rispondere con l'amore all'amore. E una meraviglia!
17. Dalla croce, Gesù è via, è verità, è vita
Tutti erano inferiori a Gesù Cristo nella sua Passione, proprio quando tutti credettero di sopraffarlo; avevano tutti sulla fronte un marchio d'infamia, ed erano avvolti da un sinistro bagliore che li rivelava per quelli che erano.
Rappresentavano il male e la morte, l'odio, l'invidia, l'orgoglio, la menzogna, e senza volerlo facevano spiccare la luce della santità di Colui che credevano di sopraffare.
Gesù legato era la luce della vera libertà; condotto innanzi al governatore, era il giudice di tutte le umane miserie;
col suo silenzio imponeva silenzio all'empietà che l'accusava.
Nell'essere condannato condannava in se stesso il peccato dandosi come vittima;
nell'essere flagellato purificava l'umana carne; nell'essere coronato di spine la coronava di gloria; nella crocifissione la rigenerava.
Appartenere al suo regno significa appartenere veramente a quello a cui invano aspirano le nazioni, lo diciamo con l'antipatico termine moderno, significa appartenere alla super razza.
Nessun popolo può vantare una nobiltà vera quanto il popolo cristiano, nessun popolo ha le sue radici nei primordi medesimi del genere umano, come il popolo cristiano, nessun popolo ha come lui la civiltà divina della verità, della carità, delle opere dello spirito e delle elevazioni dell'anima che superano tutte le povere pietre morte delle più antiche civiltà.
Gesù Cristo morendo ha dato vita a tutta la storia passata illuminandola, l'ha tutta raccolta in sé trasformandola in vita nuova e, fugando le ombre, ha fatto nascere la vita. È una meraviglia incomprensibile solo ai poveri testardoni nazisti che andavano cercando la vita nella morte, la libertà nella schiavitù, la nobiltà nell'obbrobrio, la potenza nella debolezza, e che sgretolavano la loro patria dopo averla avvilita nelle tenebre • del protestantesimo. Chi vince sempre ha la forza vera, e chi si lascia legare come Sansone per poi rompere le gomene come fuscelli, ha la vera potenza. Chi risucchia nel suo campo tutte le immondizie e le muta in fiori ed in frutti ha la vera fecondità, e chi raccoglie tutte le acque amare mutandole in nettare diffonde la dolcezza. Gesù Cristo vince e trionfa tra gli ostacoli, trasforma l'umana miseria in grandezza di vita soprannaturale, e rende fiorita la valle delle lacrime coi fiori del suo amore; Egli solo è il vittorioso, Egli è la nostra gloria, Egli è la via, la verità e la vita!
Con la sua Passione poi Egli ha come smascherato l'umana perversità, ed ha illuminato il nostro mortale cammino. Solo un Dio poteva raccogliere in pochi tratti la storia della nostra vita e poteva con l'esempio insegnarci a superare le difficoltà.
Siamo in un campo di prova, facciamo il bene e raccogliamo la contraddizione, l'ostilità e persino l'odio. Siamo legati nelle nostre attività dai cattivi, e trattati da malfattori.
Siamo traditi e abbandonati da quelli che ci stanno più vicini, ed abbiamo la sorpresa di vederci di fronte le stesse potestà che ci reggono.
In tutto questo cammino Gesù ci traccia la via: offrirci, soffrire, tacere, perdonare, immolarci.
Ogni appello alla giustizia umana è spesso vano: ecco Pilato imbelle ed opportunista, che sintetizza la politica; ecco il sinedrio maligno e maneggiatore, che compra la condanna; ecco il popolo che si lascia comprare e grida... Sono tutte scene che si ripetono nella nostra vita privata e pubblica, tra le mura domestiche e le mura delle città, tra le umili occupazioni e quelle più appariscenti.
E Gesù ci traccia la via, va Lui avanti con la sua croce, e ce la mette sulle spalle perché la portiamo noi medesimi appresso a Lui. Egli è sopraffatto, è posto nel sepolcro, vi è sigillato, e ci parla delle sopraffazioni che subiamo noi nella vita; ma il suo sepolcro è circonfuso di vita e di gloria, ed Egli ci mostra l'ultima meta della nostra vita: la risurrezione e l'eterna conquista della Patria. Possiamo escogitare quanto vogliamo noi, possiamo studiare tutti i filosofi o i filosofastri dei secoli, possiamo raccogliere tutti gl'insegnamenti che il mondo pretende di darci per vivere, e tutti i suggerimenti dell'orgoglio umano, non troveremo mai la luce, il conforto, la guida, e l'indirizzo che ci vengono dalla Passione di Gesù Cristo.
Ogni dolore fisico, ogni angustia morale, ogni ingiustizia, ogni torto, ogni sopraffazione trova la sua stilla di balsamo nei flagelli, nelle spine, nella croce del Redentore, e questa goccia di balsamo stillando rifulge di una sola luce divina: Sia fatta la volontà di Dio. Con questa gratitudine dobbiamo stringerci ai piedi del Crocifisso, e con quanto amore dobbiamo bagnarlo di lacrime, noi che sentiamo stillare da Lui sul nostro povero cuore, il conforto, la consolazione e la vita! Con quanto amore le nazioni moderne, traviate ed agitate spaventosamente, debbono riportare in trionfo la croce, unica loro salvezza ed unica loro pace! Infrangiamo gli idoli dell'apostasia, facciamo tacere i falsi profeti che ci ingannano, e leviamo in alto la croce gridando con la Chiesa: Ave Crux, spes unica!
Un giudizio ed una condanna fatti di notte erano legalmente nulli, perciò il sinedrio, appena fattosi giorno, si radunò nuovamente per ripetere sommariamente il giudizio, e per stabilire il genere di morte che voleva dare al condannato Gesù. I Romani avevano lasciato ai Giudei una certa indipendenza nei giudizi che riguardavano la loro Legge religiosa, e perciò Caifa maliziosamente aveva scongiurato Gesù in nome di Dio a dire se Egli era il Cristo, il Figlio di Dio, per condannarlo come bestemmiatore, e non uscire dal campo strettamente religioso.
Egli sperava così di avere più facilmente da Pilato la sanzione della sentenza.
Durante il processo, com'era costume, Gesù fu slegato, e quando fu dichiarata la sentenza di morte, fu di nuovo legato e condotto così al governatore romano, senza del quale nessuna sentenza capitale poteva aver corso.
Con quanta ira e con quanto disprezzo quei giudici iniqui trattarono il Redentore!
Lo abbandonarono prima tutta la notte ai maltrattamenti ed agli schemi della plebaglia e dei soldati che lo custodivano, e coperto di sangue, di sputi e di obbrobrio, lo trascinarono per le pubbliche strade al pretorio, volendo così sfatare il prestigio che Egli aveva sul popolo. In pochi giorni si era cambiato l'atteggiamento della moltitudine che prima l'aveva accolto trionfante, ed al grido di benedizione: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore, era subentrato quello di morte: Sia crocifisso.
Eppure quella massa di gente che così gridava era stata per la maggior parte ricolma di benefici spirituali e temporali dal Redentore, e gli era corsa appresso tante volte con un amore che sembrava incrollabile!
E terribile! È per noi disgustante il considerarlo, eppure così sono tante volte gli uomini, così siamo stati noi cento volte col Re divino! In un momento di fervore E abbiamo benedetto, accogliendolo in trionfo, ed in un momento di tenebre, nel contrasto di qualche nostro interesse o di qualche passione malsana, lo abbiamo rigettato, e con la colpa lo abbiamo tante volte crocifisso nel nostro cuore!
Giuda non poté rimanere indifferente alla sorte del suo Maestro, e dovette informarsi dell'esito del processo. Forse si aggirò intorno alla casa del sacerdote, sperando sempre in qualche colpo di scena provocato dal Signore. Aveva perduto la fede in Lui, ma non aveva potuto dimenticare le cose mirabili che aveva visto in tre anni; riguardava Gesù come un profeta fallito, ma inconsciamente credeva ancora che avesse potuto sgominare con un prodigio i suoi avversari. Lo credeva e lo sperava, perché già il rimorso gli saliva nel cuore come una marea soffocante. Egli aveva pattuito coi sacerdoti il tradimento ma era rimasto scontento anche della ricompensa avuta, poiché s'aspettava ed aveva sognato una grande ricchezza per quel colpo di mano. Vedendosi ricompensate solo col prezzo di uno schiavo, s'era adirato contro il sinedrio, ed auspicava che fosse stato confuso da Gesù con un atto di potenza. Forse gli rimaneva ancora un amore naturale verso il Maestro divino, non potendo dimenticare certi ineffabili momenti di vita spirituale passati con Lui; perciò quando lo vide passare tra gli sgherri, coperto di sangue e di sputi, insultato, malmenato, vilipeso, eppure placido e rifulgente di bontà, quando vide che andava verso il pretorio, e che tra poco sarebbe stata ratificata la sentenza di morte, fu preso da grande disperazione.
Non riacquistò la fede in Gesù, non lo credette Figlio di Dio, ma lo compassionò come un buon uomo, innocuo e pacifico, che non meritava quel trattamento; si sentì sconvolto dal rimorso di averlo consegnato in mano a gente così scellerata, pensò di poterlo far liberare ritrattando il suo turpe contratto, e corse dai principi dei sacerdoti, dicendo: Ho peccato, avendo tradito il sangue innocente. Nel tradirlo e venderlo ne aveva detto certamente gran male, perché aveva voluto in qualche modo giustificare il suo vile mercato; al suo animo sconvolto dai pensieri dell'orgoglio e dell'interesse insoddisfatto, Gesù era apparso spregevole; ma il vederlo condannato a morte gli faceva nascere nel cuore il rimorso di averlo accusato e denunziato ingiustamente, e perciò lo proclamò innocente di quello che poteva meritare la morte: Ho peccato, avendo tradito il sangue innocente. Se si fosse interamente ricreduto sul conto del Redentore, sarebbe andato prima di tutto a gettarsi ai suoi piedi; non lo fece perché volle seguitare a non credergli, e pensò solo intervenire per impedire che fosse trascinato a morte.
Nel suo orgoglio aveva voluto persuadersi di aver reso un servigio alla causa d'Israele tradendolo, cioè facendo cessare, secondo lui, un insieme d'ingenuità sognatrice e di inganni; si illudeva d'aver avuto importanza presso i sacerdoti, ed andò da loro per far valere la sua incompleta ritrattazione. Il modo sprezzante col quale fu accolto finì di sconcertarlo e di gettarlo nella disperazione. Essi mostrarono di essersi serviti di lui semplicemente come di un manutengolo, che non importava loro il suo nuovo orientamento verso il Signore, essendo affare che riguardava lui. La sua rettifica del resto era una condanna del loro operato, giacché come giudici avrebbero dovuto constatare l'innocenza del condannato, e questo accrebbe il loro dispetto nel rispondergli.
Giuda si sentì sconvolto da quella risposta sprezzante, andò al santuario e vi gettò per terra le monete ricevute; corse come forsennato per la valle della Geenna; fu assalito certamente da violentissime tentazioni diaboliche e, trovato un albero, vi passò un laccio, forse la sua stessa cintura, e si impiccò. Negli Atti è detto (1,18) che gli si aprì il ventre e si sparsero tutte le sue viscere; questo avvenne certamente perché, spezzatosi il ramo dal quale pendeva, sbatté contro le pietre col ventre già rigonfio per la morte violenta.
Questa fu la fine del traditore, fine disperata che lo condusse all'eterna perdizione!
3. La rovina spirituale non viene in un momento...
Giuda aveva avuto grazie immense stando vicino a Gesù, aveva anche fatto miracoli, quando fu mandato con gli altri apostoli a preparare il campo al Signore, aveva ascoltato la parola di vita, ma non ne aveva fatto profitto, anzi al suo turbato intelletto era apparsa persino un insieme di frottole. S'era fatto dominare dal proprio giudizio, dalla propria volontà, dalla propria brama di vantaggi temporali, non aveva ascoltato i rimproveri e le esortazioni di Gesù, e per maggiormente attanagliarsi ai propri giudizi, s'era chiuso in un mutismo strano, ed era caduto fino al fondo dell'abisso!
La perdizione di un'anima non viene in un momento, ma procede a gradi; satana nell'accalappiarla fa come il serpente che tira a sé l'incauto uccello. L'animaletto si lascia prendere dal bagliore ipnotizzante di quegli occhi, e non sa staccarsene; dimentica di avere le ali, e diventa preda dell'insidioso. Così avviene all'anima incauta: il serpente l'ha nel suo stesso intelletto; comincia a farsi affascinare da false luci, diventa critica ed ipercritica sulle cose divine, dà importanza ai propri pensieri, non vede che in se stessa, non ascolta consigli, anzi reagisce agli stessi consigli dell'obbedienza, si crede vittima d'inganni, vede la sua via come oppressione ed infelicità, la provvidenza del suo dolore e delle sue prove come una fatalità, si lascia trascinare in un'atmosfera naturalistica, nella quale le passioni germinano come in proprio ambiente, si allontana dalla preghiera e dai Sacramenti, concepisce un certo senso di noncuranza e persino di disprezzo per i mezzi di salute, e cade nel fondo della perdizione!
Bisogna vigilare attentamente sui primi movimenti di dissesto dell'anima, ed invece di allontanarsi da Gesù, bisogna ricercarlo con maggiore ardore, attaccandosi a Lui con amore vivo ed immolandosi nel compimento della divina volontà. Quello che ci agita non viene da Dio, ma dal maligno, e l'orgoglio maledetto è il tristissimo frutto che satana fa spuntare nel cuore che vuole affascinare; umiliamoci, preghiamo, lasciamoci guidare dai sacerdoti, confidiamo in Dio, viviamo nel cammino della croce, e guardiamo con sospirato amore alla meta eterna!
4. L'eredità del traditore
I principi dei sacerdoti raccolsero le monete gettate da Giuda, ma non vollero metterle nel tesoro del tempio, essendo prezzo di sangue. Era proibito offrire al Signore denaro di cattivo acquisto, ed essi senza volerlo venivano a confessare la turpitudine del patto stipulato con Giuda. È evidente poi che, non volendolo riporre nel tesoro, essi l'avevano rilevato di là, quasi spesa fatta per liberare la religione dalle insidie di un seduttore. Stabilirono quindi di comprare il campo del vasaio, cioè un piccolo appezzamento di terreno situato a Sud di Gerusalemme, sul versante meridionale della valle di Ben- Hinnon, che era stato sfruttato da un vasaio, ed era posto in vendita; questo campo, acquistato con denaro immondo, fu adibito ad un uso riguardato da essi immondo, cioè alla sepoltura dei forestieri. Esso fu chiamato daH'aramaico: Aceldama, cioè campo del sangue, e rimase come monumento inalienabile del tradimento di Giuda e delle loro perversità. Un campo venduto come sepolcreto infatti non poteva ritornare più al padrone neppure in occasione del Giubileo, e rimaneva sempre adibito a quell'uso, come terreno immondo.
L'evangelista soggiunge che con quella compra si avverò ciò che era stato predetto da Geremia profeta, e cita il testo della profezia. Questo testo non si trova né in Geremia, né in Zaccaria, e perciò doveva far parte di qualche profezia di Geremia non giunta fino a noi, come crede lo stesso san Girolamo, il quale attesta di averlo letto in un libro apocrifo che lo riportava. A noi sembra che questa sia la spiegazione più semplice e più naturale, perché i testi di Geremia e di Zaccaria ai quali si riportano alcuni, non parlano dell'acquisto del campo del vasaio fatto col prezzo dell'apprezzato dai figli d'Israele. In Geremia (32) si parla dell'acquisto di un campo di Anatot, fattogli fare dal Signore per annunziare che ancora si sarebbe venduto e comprato, in Israele, ed in Zaccaria si parla
dei trenta denari dati come mercede del ministero del profeta (11,12-13). Ora è chiaro che questo prezzo non poteva essere annunzio di quello dato a Giuda, giacché il traditore lo ricevette come ricompensa del proprio misfatto, non come apprezzamento del ministero di Gesù Cristo.
I sacerdoti non pensarono ad apprezzare neppure con una moneta spregevole un ministero che essi non solo non riconoscevano, ma che stimavano un'insidia per la religione.
Giuda dunque che aveva sognato grandezze e ricchezze temporali, e che per questi sogni si era reso infedele al suo Maestro e l'aveva tradito, non raccolse dal suo tradimento che la morte disperata, e non lasciò come eredità del suo delitto che un campo di morte!
Questa è l'eredità di chi tradisce il Signore per aspirare alle vane illusioni della vita materiale e peccaminosa: disperazione e morte desolata! Cerchiamo Dio solo, e nelle tribolazioni della vita solleviamo a Lui il nostro cuore sospirando alla Patria eterna! La sete dell'interesse e del denaro può distruggere in noi ogni santa aspirazione, e può abbrutirci fino all'estrema degradazione. Diamoci a Dio con tutta l'anima, e sulla terra teniamo fisso il cuore al Calvario, che è la via maestra che ci conduce all'eterna felicità.
5. Gesù Cristo innanzi a Pilato
I Romani erano soliti amministrare la giustizia per le cause criminali allo spuntare del giorno, ed i principi dei sacerdoti, dopo aver condannato il Redentore, lo condussero a Pilato per la ratifica della sentenza. Accortisi però che il preside romano non era per nulla disposto a sottostare alle loro pressioni, come si rileva dal Vangelo di san Giovanni, presentarono la causa sotto l'aspetto politico ed accusarono il Redentore di sedizione, come colui che s'era dichiarato Re.
Gesù era tutto sfigurato dai maltrattamenti della notte, ma il suo aspetto aveva una singolare maestà che incuteva rispetto; Pilato vedendolo credette di avere davvero davanti a sé il Re spodestato dai Giudei, e glielo domandò. Dal modo come lo aveva interrogato i principi dei sacerdoti capirono che era stato impressionato favorevolmente di Lui, e perciò cominciarono ad accusarlo in tutti i modi per distruggere quella buona impressione. A quelle accuse Gesù non rispose nulla.
Che cosa avrebbe potuto rispondere a calunnie architettate apposta per condannarlo?
Avrebbe dovuto spiegare innumerevoli cose, delle quali nessuno avrebbe potuto intendere il vero significato, avrebbe parlato invano, perché i suoi nemici erano già decisi a sopprimerlo; Egli dunque tacque. Ma nel suo silenzio, quanta dignità, quanta maestà, quanta eloquenza di amore che non sfuggì, inconsciamente, al preside, e suscitò in lui una grande meraviglia.
Egli era abituato ai clamorosi dibattiti dei processi criminali, e specie quando gli si portava a ratificare una sentenza di morte, sapeva per esperienza quanto il condannato gridasse e cercasse difendersi con tutte le sue forze; ora invece si trovava di fronte ad una calma maestosa, serena, amorosa e paziente che gli suscitava stupore grandissimo.
Quel silenzio poi era la più eloquente affermazione d'innocenza, e faceva un contrasto vivo con l'irruente odio dei sacerdoti, i quali nel loro stesso modo di parlare si svelavano, e manifestavano l'invidia che li ossessionava.
Il popolo assisteva con grande curiosità, come suole avvenire in simili circostanze, ma taceva; Pilato credette di capire che non c'era identità di vedute tra la moltitudine e i sacerdoti, e pensò di rendere vana la trama della congiura appellandosi al popolo, e liberando il prigioniero con un atto di clemenza che di per sé avrebbe troncato il processo.
Durante le feste di Pasqua, in memoria della liberazione del popolo dalla schiavitù, si soleva liberare un carcerato, a richiesta di popolo; i Romani avevano mantenuto questa antichissima usanza. Ora si trovava imprigionato un pessimo soggetto, chiamato Barabba, che significa: figlio del padre, e secondo alcuni codici: Gesù Barabba; era un delinquente pericoloso e prepotente, che in una sedizione aveva commesso un omicidio, ed era in attesa della condanna capitale. Pilato pensò che per far liberare Gesù, da lui già conosciuto come benefattore del popolo, e che era tutto mansuetudine e carità, sarebbe bastato proporlo alla moltitudine, per la rituale liberazione, di fronte a Barabba, ladrone, sedizioso e omicida.
6. L'avviso della moglie di Pilato
Pilato fece la proposta al popolo, ed attese che avesse risposto. Mentre, attendeva, la moglie gli mandò a dire che non s'impicciasse di quel giusto, perché essa aveva avuto molti sogni penosi a causa di Lui. Non sappiamo di qual natura siano stati i suoi sogni, né si può dire che siano venuti da Dio. Molti lo suppongono; ma altri credono che siano stati una suggestione di satana, il quale, sospettando in Gesù il Redentore promesso, avrebbe voluto impedirne la morte. Secondo questa opinione, l'arcana pazienza del Signore convinse satana della missione di Lui, e cercò impedirne il compimento; quando vide vano il suo sforzo, allora irruppe in tutta la sua ira per tentare almeno di vendicarsi.
7. Giudice il popolo, Pilato se ne lava le mani
Pilato non diede troppa importanza alle parole della moglie, perché credeva ormai di aver trovato il modo di uscire
d'impaccio; non aveva pensato alla malignità dei sacerdoti, degli scribi e farisei che non aveva confine; questi col denaro comprarono il voto del popolo, e lo indussero non solo a domandare la liberazione di Barabba, ma a pretendere la morte di Gesù.
Finché il popolo avesse chiesto la liberazione del ladro sedizioso e omicida, sarebbe stata un'enormità, ma non un assurdo, dato che il popolo poteva scegliere; ma domandare a gran voce la morte di un innocente, proprio nella solennità della liberazione, a Pilato sembrò tale mostruosità che non seppe trattenersi dal dire con forza: Ma che ha fatto Egli di male? Prima aveva detto: Che cosa dunque farò di Gesù, chiamato il Cristo? Per indurre il popolo a riflettere alla richiesta che faceva, dopo ne proclamò apertamente l'innocenza; e quasi chiamò la moltitudine a giudicare con lui.
Avrebbe dovuto imporre la sua sentenza, anzi avrebbe dovuto punire i falsi testimoni, ma non ne ebbe il coraggio. Il popolo aveva gridato erigendosi a giudice, ed egli, quasi esautorandosi, aveva mostrato di non poter contraddire quel giudizio; ricorse perciò ad un gesto che doveva esprimere il suo disinteressamento, e si lavò pubblicamente le mani dicendo che egli era innocente del sangue di quel giusto. Nel Deuteronomio (21,6) è prescritto ai sacerdoti di lavarsi le mani per attestare di non aver preso parte all'uccisione di un uomo trovato morto; forse Pilato s'ispirò a questa cerimonia alla quale aveva dovuto assistere molte volte, ma non riflettette che con questo si dava in balìa del popolo che da lui solo reclamava la sentenza di morte, e di morte di croce.
Tutta la moltitudine gridò come un sol uomo invocando che il Sangue di Gesù cadesse su di essa e sui suoi figli, e non s'accorse che con questo reclamava da Dio la sentenza di un terribile castigo, poiché al Signore certo non poteva essere nascosta la maligna intenzione che esso aveva nel reclamare la morte dell'Innocente.
8. In Pilato, la «giustizia» degli uomini
Pilato era come la rappresentanza di tutte le ingiustizie che i giudici avrebbero consumate nel corso dei secoli. Di carattere debole, servile ed opportunista, cercò di difendere l'innocenza in modo da non compromettere se stesso; cedette per timore, e credette di aver provveduto sufficientemente alla sua coscienza col lavarsi le mani. Gesù Cristo subiva e riparava, e sottomettendosi Egli all'ingiustizia, consolava in tutti i secoli gli innocenti condannati dalla malignità umana.
Quante volte l'anima nostra ascoltando il grido delle passioni, e cedendo alle loro pretese, condanna Gesù alla morte nel suo cuore! Preferisce a Lui la degradazione, la miseria, l'impurità, la violenza e si priva della sua dolcissima grazia!
Quante volte, nell'umana società, quelli che governano si lasciano trascinare dalle correnti diaboliche delle sette, e manomettono i sacrosanti diritti di Dio e della Chiesa! Non si rifiuta Gesù Cristo senza condannarlo, ed è impossibile rimanere neutrali o indifferenti innanzi a Lui. Chi si lava le mani, disinteressandosi della sua gloria e dei suoi diritti, li rinnega, li manomette e li conculca. È necessario acclamare Re Gesù Cristo, e vivere della sua vita e del suo amore condannando il male e le suggestioni diaboliche che tentano di separarci dal suo amore!
9. Gesù flagellato
Pilato prima di abbandonare Gesù definitivamente al popolo perché fosse crocifisso, lo fece flagellare nella speranza di soddisfare la furia sanguinaria di quelli che ne reclamavano la morte. La flagellazione era un supplizio crudele: si legava il paziente ad una bassa colonna, affinché fosse costretto a star curvo e con la pelle bene distesa, e lo si percuoteva aspramente con le verghe o coi flagelli, che erano funi di cuoio, terminati con pezzi di osso o con palle di piombo. I colpi avrebbero dovuto essere limitati, ma praticamente non era così, specie quando la flagellazione precedeva l'esecuzione di una sentenza capitale.
Per Gesù fu asprissima, perché i sacerdoti avendo capito che il governatore l'avrebbe voluto liberare, dovettero certamente aizzargli contro i soldati e forse li pagarono, perché il supplizio fosse stato mortale.
Come furie i manigoldi si gettarono addosso al mansuetissimo Agnello, ed Egli fu in breve tutto inondato di sangue. La sua pena immensa riparava le impurità della carne, le immodestie e le nudità, ed Egli volle come ammantarsi di un paludamento di obbrobrio e di dolore!
Oh, se si capisse la gravità di certi peccati, ed anche di certe semplici immodestie, non si avrebbe il coraggio di unirsi alla crudele masnada dei flagellatori di Gesù! Tu, o anima cristiana, flagelli il Redentore nel tuo medesimo corpo mostrandoti agli altri per vanità, e così inveisci contro Colui che tanto ti amò! A che serve mostrarti? Che cosa ricavi dallo sguardo impuro che si ferma su di te? E come hai il coraggio di essere pietra di scandalo per tanti, che per te dimenticano gli eterni beni del cielo? Tu illudendoti dici che ciò che è bello deve mostrarsi, e non rifletti che non è bellezza ma orrore il mostrare la materia ornata di gemme, ed il nascondere agli sguardi altrui la bellezza spirituale, anzi il mostrarla agli occhi di Dio, tutta deturpata ed avvilita!
10. La coronazione di spine
La flagellazione di Gesù Cristo ebbe luogo in pubblico, davanti al palazzo del pretorio; i soldati, ascoltando le grida d'insulto che la moltitudine lanciava contro il Redentore, e specialmente, quelle dei sacerdoti che volevano sfatarne ogni prestigio, pensarono diabolicamente di parodiarlo nella regale dignità che tutti gli rimproveravano di essersi attribuita. Lo trascinarono nel pretorio, cioè nell'interno del palazzo del governatore dove erano di guardia, e radunata tutta la coorte, ossia i cinque o seicento uomini della guardia, lo spogliarono della veste che gli avevano rimessa dopo la flagellazione, e gli misero addosso una clamide rossa di soldato come un manto reale; quindi intrecciata con giunchi una corona di lunghe ed acutissime spine, gliela calcarono sul capo in modo da ferirlo orribilmente, e come scettro gli posero nelle mani una canna. Era uno spettacolo terribile, poiché quei barbari si divertivano a schernirlo, a sputargli addosso, e a percuotergli il capo violentemente con la canna, mentre tutta la coorte sghignazzava, mai sazia di tormentarlo gli dava la muta nello schernire il Re divino!
E Gesù taceva, pregava e riparava per i peccati dei capi e dell'orgoglio dei potenti! Subendo quell'obbrobrio spaventoso Egli ridonava all'uomo la corona della sua dignità e nel medesimo tempo si coronava Re d'Amore in tutti i secoli. Se si riflette bene, non c'è altra corona che sia per Lui più regale di quella di spine. La corona di oro e di gemme quasi non gli sta, e quasi lo diminuisce; coronato di spine invece è bellissimo, è attraente, è pieno d'ineffabile dolcezza che commuove anche i cuori più ostinati.
Egli poi ci ha comunicato la bellezza ineffabile del suo dolore, poiché ogni umiliazione sofferta per suo amore, ed ogni obbrobrio raccolto per Lui ci rende coronati di una gloria che nessuna corona regale potrebbe darci.
11. Caricato della croce
Dopo averlo schernito lungamente per circa due ore, in attesa dei preparativi della crocifissione, lo rivestirono di nuovo
della sua veste e lo trascinarono al Calvario. Gli lasciarono la corona di spine, certamente, giacché fu ritrovata sul Calvario da sant'Elena insieme alla croce, e lo caricarono del grave peso della croce, come si era soliti costringervi ogni condannato. Lungo la strada temettero che venisse meno per i gravissimi maltrattamenti subiti, e costrinsero un uomo robusto di Cirene, che passava di là, a prenderla per un tratto di strada sulle sue spalle.
Tutto sembrava un avvenimento di comune condanna, e le sue circostanze sembravano fortuite; eppure Gesù Cristo segnava col suo Sangue preziosissimo la nuova via che l'umanità doveva percorrere: Egli porta la croce redimendoci, e noi dobbiamo portarla appresso a Lui compiendo in noi quello che manca della sua Passione. Se non fosse andato Lui avanti, con quale cuore avremmo noi percorso il nostro duro cammino! E se il Cireneo non lo avesse aiutato, non avremmo imparato a portare la nostra croce giornaliera e quelle più gravi che ci capitano, appresso al nostro dolcissimo Signore.
Chi si illude che la vita sia un cammino di gioie materiali, e si getta negli abissi della colpa, si accorge ben presto di percorrere un Calvario più penoso, e va insieme con Gesù come ci andavano i ladri condannati alla medesima pena infamante.
A volte si cade sotto il peso della croce come cadde Gesù, e si stenta a ripigliare la via senza un aiuto particolare; ricorriamo a Gesù per sollevarci, ed abbiamo la carità di aiutare chi soffre a sopportare con pace maggiore il suo dolore. Una parola di bontà è balsamo nel dolore e lo è soprattutto l'immedesimarci delle pene altrui come se fossero nostre; l'anima non è tanto desiderosa di aiuti materiali, quanto di soccorsi spirituali, e bisogna consolarla prima di tutto con la dolcezza della bontà e della carità.
12. Crocifisso
Gesù Cristo, strapazzato, insultato e vilipeso in tutti i modi, giunse su di una piccola collina a N.O. di Gerusalemme, chiamata Calvario o Golgota, perché aveva la forma di un cranio decalvato; là venivano giustiziati i condannati più pericolosi, affinché la loro morte fosse servita di esempio agli altri. A quelli che dovevano essere crocifissi si dava a bere una miscela di vino e di mirra, per inebriarli a rendere loro meno penoso il supplizio. Il testo latino dice che a Gesù diedero a bere vino mescolato col fiele, ma nel testo greco la parola tradotta in latino per fiele, ha il significato generale di bevanda amara; san Marco dice esplicitamente che gli diedero a bere del vino mirrato (15,23). La bevanda, per quanto amara, non era disgustosa, anzi era bevuta avidamente dai condannati, consci della terribile crudeltà del loro supplizio. Gesù Cristo l'assaggiò soltanto e non volle berla, per conservare in pieno la sua sensibilità e la sua coscienza, e soffrire maggiormente per nostro amore. Oh, com'è grande questo gesto d'amore sconfinato, e quale vergogna deve fare a noi che misuriamo sempre con estrema grettezza quello che diamo al Signore!
Spogliato violentemente delle vesti, Gesù venne conficcato alla croce. C'erano tre forme di croce; la decussata, in forma di X, la commissa in forma di T, e V immissa in forma t. Siccome sul capo di Gesù fu appiccata la tabella con la condanna, è evidente che la sua croce era immissa.
Al centro della croce ordinariamente c'era un piolo o cavalletto, per sostenere il corpo del condannato quando veniva crocifisso sulla croce già eretta ed infissa al suolo. Non risulta che la croce di Gesù abbia avuto questo piolo, perché fu crocifisso a terra e poi sollevato in alto. Da studi recentissimi fatti sulla sacra Sindone di Torino, dov'è impresso il Corpo del Redentore s'è potuto rilevare con certezza come Egli fu crocifisso. I chiodi delle mani furono confitti fra la prima e la secondi linea degli ossicini là dove i forti tendini anteriori e posteriori del polso congiungono gli ossicini del corpo, quasi in un'unica massa, e dove ha origine un robustissimo legamento che potrebbe sostenere tutto il peso del corpo. Il chiodo, introdotto sotto il lembo inferiore di questo tendine, attaccava la mano in modo irremovibile, e ne rendeva impossibile lo strappamento sia casuale che volontario.
Come è risultato da un'esperienza fatta su di una mano amputata di fresco, il chiodo, penetrando così, non scalfiva neppure le ossa. I piedi vennero forati nel secondo intervallo alla base delle ossa del metatarso, proprio sotto il malleolo, nel mezzo della convessità del piede. Dalle impressioni della sacra Sindone si rileva scientificamente che i piedi vennero prima forati, e poi sovrapposti e trapassati da unico chiodo. La gamba destra venne fortemente stirata e la sinistra si piegò leggermente al ginocchio, apparendo sulla Sindone più corta di 3 o 4 centimetri della destra. Il chiodo dei piedi, più lungo di quelli delle mani, dentellato nelle coste laterali, si conserva a Napoli nella Chiesa di san Gregorio Armeno.
Spogliato delle vesti per essere crocifisso, apparve in tutta la sua crudeltà lo scempio che s'era fatto del Corpo del Redentore nella flagellazione e nella coronazione di spine.
Nei deprecati tempi del modernismo si tentò di sminuire la grande testimonianza dell'amore di Gesù nella sua Passione, ma le cervellotiche asserzioni vennero smentite dallo studio accurato della sacra Sindone, dopo che fu possibile fotografarla nel 1898, e lo studio scientifico condusse alla più luminosa conferma del racconto evangelico . Stando all'accurato esame che se ne è fatto, il capo di Gesù fu coronato da una calotta di spine, che lo trafissero perforando le vene e le arterie, senza molta lacerazione esterna, ma con molta penetrazione interna. La corona di spine ferì maggiormente il capo nella parte posteriore e propriamente nella zona della nuca, e questo ci fa intendere che Gesù fu crocifisso con la corona di spine, e fu crocifisso a terra; il peso del capo e i colpi del martello che lo fecero rimbalzare sul tronco laterale confissero penosissimamente le spine in tutta la zona posteriore del capo, si riscontrano maggiori grumi di sangue a sinistra della zona della nuca, il che ci può far supporre che Gesù nell'essere crocifisso aveva il capo rivolto al cielo, inclinato indietro sul lato sinistro.
I rigagnoli di sangue, lasciati dalla corona di spine sul capo del Redentore ed impressi nella Sindone, confermano in modo irrefutabile che egli fu crocifisso con quella corona, giacché se gli fosse stata tolta, il sangue si sarebbe fuso in un unico ammasso.
La guancia destra era gonfiata notevolmente per i colpi ricevuti, il volto era sfigurato dalle percosse e dagli sputi, le labbra erano gonfie. La spalla destra in confronto della sinistra era abbassata, come si osserva nella Sindone, con solchi e ferite prodotte da schiacciamento di un corpo pesante, testimonianza della croce da Lui portata su quella spalla, del peso di circa un quintale che aveva dovuto sostenere. Su quella spalla s'era formata una dolorosissima piaga. Solo chi non ha visto la Sindone potrebbe dire che i colpi della flagellazione furono limitati. Il Corpo era tutto striato di colpi crudeli e di piaghe, cominciando dal petto; il ventre, le mani, i fianchi, le gambe, e dietro le spalle la schiena, le reni e i muscoli del bacino, tutto era solcato da innumerevoli ferite, alcune delle quali, specialmente quelle sulle cosce, erano disposte a ventaglio. Queste ferite s'intrecciavano, s'incrociavano, si sovrapponevano, in modo da non lasciare parte sana, e da testimoniare che i colpi erano stati innumerevoli e rinnovati continuamente. Tra le piaghe spiccavano, e spiccano tuttora sulla Sindone, a due a due, ferite di tre centimetri di lunghezza, inferte con straordinaria ferocia; se ne contavano circa 80, e corrispondevano ai quaranta colpi dati col flagrum romanum, che aveva due palle di piombo, riunite da una corta sbarra, dove si attaccava la striscia di cuoio che partiva dall'impugnatura. Il flagello aveva due strisce di cuoio, e non solo strappava la pelle, ma lacerava i muscoli e scopriva le costole e le ossa. Gesù non aveva ricevuto solo i 39 o 40 colpi della legge, ma si erano accaniti contro di Lui i carnefici, fino a formargli veramente una veste di sangue. Così apparve sul Calvario nella sua nudità lacrimevole, e così fu crocifisso!
Quale cuore dato al peccato, e specialmente all'impurità, non si spezza pensando a tanti dolori inauditi? E ehi non s'infiammerà d'amore, pensando all'amore infinito che Gesù Cristo ci ha portato? Come si può ardire di correre appresso alle lusinghe della carne, quando si vede Gesù ridotto in tale stato?
13. Le derisioni dopo la crocifissione
Per legge le vesti del condannato spettavano ai carnefici, i quali se le dividevano; perciò i quattro soldati che avevano crocifisso Gesù presero le sue vestimenta, e gettarono la sorte sulla tunica inconsutile per non romperla.
Poi si misero a fare la guardia militare al condannato e a due ladroni che frattanto erano crocifissi con Lui. Sulla parte sporgente della croce, in alto, fu posta una tavoletta di legno
sulla quale, invece del motivo della condanna, Pilato scrisse in tre lingue, ebraica, greca e latina che quel crocifisso era il Re dei Giudei. Quella scritta contrariò non poco i nemici di Gesù Cristo, i quali videro in essa quasi una sfida alla loro malignità; perciò, non potendo ottenere da Pilato che l'avesse rimossa, cominciarono a schernire il Crocifisso, e tentarono di far passare come una suprema ironia quel titolo.
I soldati o quelli che avevano sentito dire nel processo la calunnia sulla distruzione del tempio, schernirono Gesù su di questo, esortandolo a salvare se stesso dal supplizio che gli era stato inferto. I principi dei sacerdoti, volendo sfatare la soprannaturalità dei miracoli da Lui compiti, affermarono che Egli che aveva salvato gli altri, non poteva ora salvare se stesso. Con raffinata malizia vollero far notare che Dio non lo aiutava in quel supremo momento, nonostante Egli avesse detto di confidare in Lui e di esserne amato; questo, secondo loro, era la dimostrazione che Egli non era Figlio di Dio, e per far risaltare tale conclusione, lo sfidarono a dare la prova della sua divinità scendendo dalla croce. Lo stesso dicevano i ladroni esasperati di non vedere un miracolo di liberazione, nel quale forse avevano sperato di essere beneficati anch'essi. Gesù non discese dalla croce perché c'era salito per salvarci, ed ai ladri rispose con una speciale illuminazione di grazia che fu raccolta solo da uno di essi. Rispose il Padre però alla tracotanza degli schernitori, e fìtte tenebre avvolsero tutta la terra dal mezzodì alle tre, seminando tra essi principalmente il terrore.
14. La morte
Il Cuore di Gesù era stato soprattutto ferito dall'allusione fatta dai sacerdoti all'abbandono nel quale Dio lo aveva lasciato; con un grido Egli volle mostrare che in quell'abbandono si verificavano le prime parole del Salmo 21, e cominciò a recitarlo ad alta voce. Le prime parole Eli, Eli, lamà, sono citate in ebraico dall'evangelista, l'ultima è citata in aramaico; san Marco (15,34) le cita tutte in aramaico: Eloi, Eloi, lamma sabactàni?
Egli volle anche giustificare la mancanza dell'intervento del Padre, nonostante la fiducia che in Lui aveva avuta, dichiarandosi abbandonato da Lui, quasi come peccatore e proclamando il mistero di quell'abbandono, nell'amorosa interrogazione che gli fece.
L'abbandono era testimonianza dell'immolazione della Vittima, l'interrogazione amorosa: perché mi hai abbandonato? Era la testimonianza dell'innocenza della vittima. Certo Gesù era in profondissime tenebre interiori, fra spasimi terribili di cuore e di corpo, ma il suo grido al Padre fu tutto uno slancio di fiducia, di amore e di sottomissione. Al suo grido rispose ancora una volta lo scherno dei circostanti, i quali, parodiando le parole del Salmo, dissero che Gesù forse invocava Elia per essere liberato. Un altro, ascoltando il suo lamento di aver sete, perché l'arsura della febbre e della perdita di sangue lo consumava, andò ad inzuppare una spugna nella posca dei soldati romani, cioè in una miscela di aceto e d'acqua che essi bevevano, e su di una piccola canna l'offrì a Lui. I derisori del suo grido di angoscia però non gli permisero oltre di bere, e staccando la spugna dalle sue labbra dissero all'uomo pietoso, che gliel'aveva porta, che era meglio aspettare che Elia venisse a liberarlo. Gesù aveva preso un poco d'aceto, e in quell'atto s'erano compiti tutti i vaticini; il suo sacrificio era completo, ed Egli, gettato un alto grido per affidare al Padre il suo spirito, chinando il capo spirò!
Nell'atto stesso nel quale il Redentore esalò il suo spirito, il velo che copriva il Santo dei Santi nel tempio si squarciò, per dimostrare che la Legge antica era finita, e s'era aperto il cielo, figurato nel Santo dei Santi. La terra tremò, per mostrare così il suo disgusto per il delitto consumato dai Giudei, e le pietre si spezzarono. Nello sconvolgimento tellurico si aprirono anche molti sepolcri, e san Matteo aggiunge che dopo la risurrezione di Gesù Cristo molti corpi dei santi risorsero. Questi corpi di santi, risorti gloriosi dopo tre giorni che la loro tomba era stata aperta dal terremoto, entrarono in Gerusalemme, apparvero a molti per predicare la divinità di Gesù Cristo, e poi ascesero trionfanti con Lui nel cielo. Forse risorsero i corpi dei patriarchi che più avevano sospirato la redenzione, forse con essi risorse san Giuseppe... Noi non sappiamo nulla in proposito; sappiamo solo che la vittoria di Gesù Cristo sulla morte che lo rese primizia dei risorti, come dice san Paolo (Col 1,18) trasse dalla tomba molti santi defunti, primizia a loro volta della risurrezione futura di tutti gli uomini.
I fenomeni che avvennero nella morte del Redentore non erano tali da potersi scambiare per fatti naturali e casuali; si sentiva nella medesima atmosfera, per così dire, la solennità di quello che era avvenuto. Il centurione e i soldati che erano con lui a fare la guardia se ne impressionarono, e riconobbero nel Crocifisso il Figlio di Dio. Le pie donne erano in lontananza e piangevano amaramente. In poco tempo il Calvario fu solitario, e le prime ombre della sera cominciarono ad avvolgere tutto.
Quale spettacolo grandioso e solenne era il Crocifisso! Sospeso tra la terra e il cielo, col volto maestosamente sereno e rifulgente di amore, con le braccia aperte, col capo chinato verso la terra, Egli era la Vittima d'amore che parlava con la sua stessa morte ed intercedeva per gli uomini.
Se la sola immagine del Crocifisso ci fa tanta impressione, quanto non doveva fame Gesù stesso? Chi può scrutare il
mistero di quella morte che fu vitandi quella sconfitta che fu trionfo, di quel silenzio che fu parola eloquente di amore, ancora viva nei secoli sempre attuale e sempre eterna?
15. Giuseppe d'Arimatea fa seppellire Gesù nella sua tomba nuova
I corpi dei condannati secondo la legge romana venivano lasciati sul patibolo fino a che si fossero putrefatti o fossero stati divorati dalle fiere e dai rapaci. Secondo la legge ebraica venivano tolti e sepolti nella fossa comune, a meno che parenti o amici del condannato non li avessero richiesti al governatore romano. I sacerdoti e gli anziani del popolo avevano premura di togliere dalla croce il Corpo di Gesù e dei due ladri, perché già cominciava la solennità del sabato, e soprattutto avevano premura di seppellire Gesù in modo così obbrobrioso, che non si fosse mai più parlato di Lui. Il fatto che Giuseppe d'Arimatea, membro del sinedrio e discepolo nascosto di Gesù si sia affrettato a domandare a Pilato il Corpo del Maestro, ci fa supporre che qualche cosa di sinistro s'era progettato nel sinedrio.
Giuseppe era uomo ricco e come tale aveva un sepolcro nuovo in una sua proprietà vicino al Calvario, sepolcro che aveva fatto scavare nella pietra.
Per rispetto a Gesù stabilì di adoperare per Lui quella tomba, ed involtone il Corpo in un lungo lenzuolo, ve lo ripose, chiudendone l'entrata con un grande masso. I sacerdoti ed i farisei dovettero essere molto contrariati da questa sepoltura onorata resa a Colui che credevano di aver vinto per sempre, o la premura con la quale ne era stato chiesto a Pilato il Corpo li insospettì e fece loro ricordare la profezia che Egli aveva fatta sulla sua risurrezione. Perciò il sabato andarono dal governatore e gli domandarono che avesse fatto custodire la tomba fino al terzo giorno, per timore che i suoi discepoli ne sottraessero il Corpo divulgando poi la voce della sua risurrezione. Pilato si mostrò annoiato di questa domanda, e poiché essi per la solennità della Pasqua avevano già molti soldati a disposizione rimise loro la cura di custodire il sepolcro. Certamente i sacerdoti ed i membri del sinedrio s'accertarono prima che nella tomba ci fosse il Corpo, giacché senza quest'accertamento sarebbe stata inutile la loro disposizione. Accertata la presenza del Corpo, richiusero la tomba, suggellarono la pietra, e vi posero un drappello di soldati. Non si accorgevano essi di preparare, loro malgrado, l'argomento irrefutabile della risurrezione del Signore innanzi a tutti i secoli, e di essere, senza volerlo, gli umili servi della divina provvidenza.
16. Il mistero della Passione e della Morte del Redentore e la luce che diffonde nella nostra vita
Noi non possiamo troppo dilungarci in riflessioni pie sui vari tratti del Vangelo, perché non basterebbero molti volumi per illustrali meditando; ma dobbiamo trattenerci almeno un poco sul grande mistero della Passione che fu il compimento delle figure e delle profezie dell'Antico Testamento, e che ci tracciò mirabilmente la via che anche noi dobbiamo percorrere per raccogliere i frutti della redenzione e conseguire l'eterna gloria.
Se tutto il Vangelo ci traccia il cammino della vita, il tratto della Passione ci traccia la via regale della salvezza, e ci mostra in una sintesi eloquente ed efficace la perversità e la malizia dei cattivi che tentano ostacolarcelo.
Alla piccolezza umana sembra un mistero sconcertante, e quasi uno scandalo l'estrema umiliazione del Redentore, giacché Egli, come Dio, avrebbe potuto sventare, anzi annientare e vincere le congiure dei suoi nemici. Al mondo superbo sembra quasi una stoltezza la croce, una stoltezza indegna dello spirito orgoglioso di reazione e di assolutismo, che si afferma oggi più che mai. Noi assistiamo all'apostasia nazista in Germania dalla fede proprio in nome di una incompatibilità tra la via della croce e quella dell'orgogliosa tracotanza della razza che si crede superiore alle altre; è necessario dunque sfatare queste aberrazioni, e ritornare sulla regia via della croce, salvezza e gloria vera per l'uomo.
E prima di tutto è necessario riflettere che la via del Calvario costituisce una vittoria degna di Dio, una vittoria sul male, sulla morte e sull'anima che nessun conquistatore può mai vantare. L'orgoglio umano non s'accorge che la via meno adatta a conquistare ed a conquidere è proprio la forza bruta e l'affermazione della superbia; di fronte alla forza l'uomo si chiude tutto nei penetrali della coscienza e della volontà, e di fronte all'orgoglio si gonfia egli stesso di maggiore orgoglio e diventa impenetrabile. Tutti gli imperi del mondo in tutti i secoli sono finiti in rovine proprio per questo, e la storia è una continua reazione alla forza brutale ed all'orgoglio.
Gesù Cristo immolandosi ci ha risanati, ci ha rigenerati, ci ha attratti a sé. Ci ha dato il suo stesso Sangue come vita, ha formato nell'amore i suoi sudditi, li ha stretti nel suo Cuore, li ha tutti avvinti con la sua carità. Egli si paragonò al granello di frumento che cadendo sotterra muore e germina moltiplicandosi, e veramente morendo ci generò e si moltiplicò nel suo Corpo mistico. Innanzi al suo sacrificio le passioni umane cedono le armi, e la creatura gli si dona nella maniera più nobile, in tutta la sua volontà e la sua libertà. Egli non è il conquistatore, è il Padre; non esige, ma dona e, donando, riceve tutto dalla sua creatura; non domina ma ama, ed amando la creatura gli si sottomette interamente, e cerca il caldo del suo Cuore come il bimbo cerca il petto materno. Se nel mondo ci sono ancora dei ribelli al suo dominio, ci sono perché non ne hanno sperimentato la soavità. La croce è una bandiera che non svetta al vento, ma s'eleva nei cuori, e li accende nella gara della conquista dell'amore divino per rispondere con l'amore all'amore. E una meraviglia!
17. Dalla croce, Gesù è via, è verità, è vita
Tutti erano inferiori a Gesù Cristo nella sua Passione, proprio quando tutti credettero di sopraffarlo; avevano tutti sulla fronte un marchio d'infamia, ed erano avvolti da un sinistro bagliore che li rivelava per quelli che erano.
Rappresentavano il male e la morte, l'odio, l'invidia, l'orgoglio, la menzogna, e senza volerlo facevano spiccare la luce della santità di Colui che credevano di sopraffare.
Gesù legato era la luce della vera libertà; condotto innanzi al governatore, era il giudice di tutte le umane miserie;
col suo silenzio imponeva silenzio all'empietà che l'accusava.
Nell'essere condannato condannava in se stesso il peccato dandosi come vittima;
nell'essere flagellato purificava l'umana carne; nell'essere coronato di spine la coronava di gloria; nella crocifissione la rigenerava.
Appartenere al suo regno significa appartenere veramente a quello a cui invano aspirano le nazioni, lo diciamo con l'antipatico termine moderno, significa appartenere alla super razza.
Nessun popolo può vantare una nobiltà vera quanto il popolo cristiano, nessun popolo ha le sue radici nei primordi medesimi del genere umano, come il popolo cristiano, nessun popolo ha come lui la civiltà divina della verità, della carità, delle opere dello spirito e delle elevazioni dell'anima che superano tutte le povere pietre morte delle più antiche civiltà.
Gesù Cristo morendo ha dato vita a tutta la storia passata illuminandola, l'ha tutta raccolta in sé trasformandola in vita nuova e, fugando le ombre, ha fatto nascere la vita. È una meraviglia incomprensibile solo ai poveri testardoni nazisti che andavano cercando la vita nella morte, la libertà nella schiavitù, la nobiltà nell'obbrobrio, la potenza nella debolezza, e che sgretolavano la loro patria dopo averla avvilita nelle tenebre • del protestantesimo. Chi vince sempre ha la forza vera, e chi si lascia legare come Sansone per poi rompere le gomene come fuscelli, ha la vera potenza. Chi risucchia nel suo campo tutte le immondizie e le muta in fiori ed in frutti ha la vera fecondità, e chi raccoglie tutte le acque amare mutandole in nettare diffonde la dolcezza. Gesù Cristo vince e trionfa tra gli ostacoli, trasforma l'umana miseria in grandezza di vita soprannaturale, e rende fiorita la valle delle lacrime coi fiori del suo amore; Egli solo è il vittorioso, Egli è la nostra gloria, Egli è la via, la verità e la vita!
Con la sua Passione poi Egli ha come smascherato l'umana perversità, ed ha illuminato il nostro mortale cammino. Solo un Dio poteva raccogliere in pochi tratti la storia della nostra vita e poteva con l'esempio insegnarci a superare le difficoltà.
Siamo in un campo di prova, facciamo il bene e raccogliamo la contraddizione, l'ostilità e persino l'odio. Siamo legati nelle nostre attività dai cattivi, e trattati da malfattori.
Siamo traditi e abbandonati da quelli che ci stanno più vicini, ed abbiamo la sorpresa di vederci di fronte le stesse potestà che ci reggono.
In tutto questo cammino Gesù ci traccia la via: offrirci, soffrire, tacere, perdonare, immolarci.
Ogni appello alla giustizia umana è spesso vano: ecco Pilato imbelle ed opportunista, che sintetizza la politica; ecco il sinedrio maligno e maneggiatore, che compra la condanna; ecco il popolo che si lascia comprare e grida... Sono tutte scene che si ripetono nella nostra vita privata e pubblica, tra le mura domestiche e le mura delle città, tra le umili occupazioni e quelle più appariscenti.
E Gesù ci traccia la via, va Lui avanti con la sua croce, e ce la mette sulle spalle perché la portiamo noi medesimi appresso a Lui. Egli è sopraffatto, è posto nel sepolcro, vi è sigillato, e ci parla delle sopraffazioni che subiamo noi nella vita; ma il suo sepolcro è circonfuso di vita e di gloria, ed Egli ci mostra l'ultima meta della nostra vita: la risurrezione e l'eterna conquista della Patria. Possiamo escogitare quanto vogliamo noi, possiamo studiare tutti i filosofi o i filosofastri dei secoli, possiamo raccogliere tutti gl'insegnamenti che il mondo pretende di darci per vivere, e tutti i suggerimenti dell'orgoglio umano, non troveremo mai la luce, il conforto, la guida, e l'indirizzo che ci vengono dalla Passione di Gesù Cristo.
Ogni dolore fisico, ogni angustia morale, ogni ingiustizia, ogni torto, ogni sopraffazione trova la sua stilla di balsamo nei flagelli, nelle spine, nella croce del Redentore, e questa goccia di balsamo stillando rifulge di una sola luce divina: Sia fatta la volontà di Dio. Con questa gratitudine dobbiamo stringerci ai piedi del Crocifisso, e con quanto amore dobbiamo bagnarlo di lacrime, noi che sentiamo stillare da Lui sul nostro povero cuore, il conforto, la consolazione e la vita! Con quanto amore le nazioni moderne, traviate ed agitate spaventosamente, debbono riportare in trionfo la croce, unica loro salvezza ed unica loro pace! Infrangiamo gli idoli dell'apostasia, facciamo tacere i falsi profeti che ci ingannano, e leviamo in alto la croce gridando con la Chiesa: Ave Crux, spes unica!
Sac. Dolindo Ruotolo
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