mercoledì 9 aprile 2014

09.04.2014 - Commento a Daniele cap. 3, par. 2-3

2. L’orgoglio di Nabucodonosor nell’erezione della statua d’oro, e l’ammirabile grandezza e libertà di spirito dei tre martiri di Dio.
Nabucodonosor era uomo di orgoglio così smisurato, che Dio per umiliarlo dovette ridurlo allo stato di bestia, come si vedrà nel capitolo seguente. Ora fu proprio per l’orgoglio che lo consumava che egli fece la statua di oro che elevò nel capo di Dura, presso le mura della città.
Daniele gli aveva ricordato e spiegato il sogno che aveva avuto, e gli aveva detto che il capo d’oro della statua da lui vista rappresentava lui stesso e il suo impero. Nabucodonosor, colpito dalla sapienza di Daniele, gli si era prostrato davanti, ed aveva ordinato che gli si offrisse sacrifici ed incenso.
La sorpresa di avere avuto chiara spiegazione del sogno che lo preoccupava, e soprattutto la magnificenza della luce divina che splendeva in Daniele, l’aveva conquiso fino al punto di fargli fare un atto di umiliazione profonda innanzi ad un suo suddito, ed un atto di adorazione al Dio che lo aveva illuminato. Fu dominato per un momento dalla grazia di Dio che aveva tutto compreso Daniele, e quasi non si accorse di quello che faceva; gli si era per un momento smontato l’orgoglio, era ritornato uomo ragionevole, diremmo quasi, giacché dolorosamente l’altezza delle umane dignità imbecillisce quelli che ne sono rivestiti, e li sovraccarica di fatuità e di fanciullagine, rendendoli irriconoscibili.
Le umane grandezze sono in ciò castigo a quelli che vi anelano e se ne rivestono. Incapaci come sono di vedere altro che quello che li innalza, onorati, adulati, o sovraccaricati di menzogne, di apparenze e di onori che sono burle, lusingati da condiscendenze che sono disprezzi nascosti, e da ammirazioni che sono forzate, e spesso sono vere caricature, finiscono per perdere la cognizione di quello che sono, abdicano alla vera libertà dello spirito loro, e rinunziano alla loro stessa umanità, diventando schiavi dell’ambiente, del cerimoniale, delle leggi, dei sudditi che loro stanno d’intorno, e persino dei servi più spregevoli.
Nessuno li richiama alla realtà, nessuno li riprende amorevolmente, nessuno osa contrariarli, e con essi si misurano le parole e gli atti, come si misurano coi pazzi e coi delinquenti autentici. Se i grandi di qualunque categoria riflettessero a questo, andrebbero elemosinando la sincerità, chiamerebbero intorno a sé le anime sante che potessero illuminarli e riprenderli, si sceglierebbero direttori di spirito severissimi e leali, e sentirebbero sete di umiliarsi e d’impiccolirsi.
Passato il momento di sorpresa e di sincerità, Nabucodonosor ritornò nel gorgo vischioso del suo smisurato orgoglio, e fu rammaricato di quello che aveva fatto. Ripensò alla spiegazione di Daniele, e gli sembrò un assurdo che potesse affermarsi la possibilità di altri imperi oltre il suo; ricordò con subcosciente sdegno l’atto di adorazione che aveva fatto e ne fu sgomento, sembrandogli di essersi diminuito, anzi avvilito, e di avere avvilito i suoi dèi, quelli dai quali attendeva ogni vittoria, e dai quali riconosceva quelle già avute. Pensando a questo se ne adirava con se stesso e cercava distrarsene, ma la realtà di ciò che era avvenuto gli ricompariva nello spirito e lo angosciava, facendolo sdegnosamente sospirare contro se stesso.
Si distraeva per un poco, e subito, come incubo, gli ricompariva dinanzi la scena, e si crucciava per la figura che aveva fatta. Era come incurvato sul suo trono, pensoso, accigliato; aveva improvvisi scatti, repressi subito per non svelare il suo segreto, e andava ripensando come potesse controbilanciare l’umiliazione a cui si era sottomesso.
Ricordò il suo sogno e pensò di far riprodurre la statua che aveva vista, tutta di oro, però, perché rappresentasse solo il suo impero, ed eretta come simbolo della sua potenza. Pensò subito che, ordinando a tutti di adorarla, veniva a cancellare nei grandi e nel popolo l’impressione di debolezza che supponeva avessero avuto a suo riguardo, e, comandandone l’adorazione sotto l’atroce pena del fuoco, veniva a far conoscere che egli era sempre quel potente al quale non si poteva negare l’obbedienza.
Concepito il suo disegno e il suo piano, lo attuò senz’altro, e, chiamati gli artisti, comandò loro che fabbricassero la statua, dandole sessanta cubiti di altezza e sei di larghezza. In breve tempo la statua fu fatta, fusa tutta in oro. Non può recare meraviglia simile ricchezza, quando si pensa all’immensa quantità di oro raccolta dal Re nei bottini di guerra.
Per farne la dedicazione e poi farla adorare, secondo l’uso pagano, Nabucodonosor radunò in Babilonia i Satrapi, cioè i prefetti delle province dell’impero, i magistrati, cioè i procuratori delle province minori, i giudici, ossia i capi dei tribunali, i duci, cioè i capi militari, i governatori, ossia i capi del pubblico tesoro, i prefetti, ossia i capi della pubblica sicurezza e i consiglieri di stato. Con questi dignitari dell’impero venne una grande moltitudine di altolocati, sempre disposti all’adulazione ed al servaggio, ed un’immensa marea di popolo, che si lascia sempre trascinare dai capi.
Come un tiranno riesce ad imporsi a tutta una nazione
Noi ci stupiamo spesso come possa avvenire che un tiranno riesca ad imporsi a tutta una nazione e la tenga in soggezione, nonostante le angarie e i soprusi ai quali la sottomette; eppure si capisce facilmente quando si riflette all’organismo politico e militare di uno Stato: il capo supremo agisce per i capi delle province, i quali hanno tutto l’interesse di sostenerlo per sostenere se stessi.
Questi dominano per i subalterni, i quali non osano resistere per la stessa ragione. I magistrati, i militari, gli agenti di sicurezza seguono le direttive dei capi per timore e mordono il freno ma non osano spezzarlo, specie quando al timore di danni materiali si unisce il terrore della minaccia mortale; si costituisce, così, una rete di interessi loschi e di spaventose minacce che paralizzano ogni reazione e lasciano il tiranno padrone indisturbato della situazione.
Si sostiene il feticcio per i propri lauti stipendi ed onori, e il feticcio, sostenuto da tanti interessi, diventa terribile a chi non ha da tutelare interessi, ma teme di cadere in mali maggiori. La viltà è il sostegno della prepotenza, e questa è il sostegno della tirannia. Un solo delinquente, perciò, può imporsi ad una massa, turlupinandola in mille modi, e lo può fare quando la massa è avvilita dal peccato, quando non è ossequiente alla Legge di Dio, e quando, sottratta alla luce fulgida di questa legge, non ha più il senso della propria dignità e dei diritti della verità e della giustizia.
Per questo solo la Chiesa è il martello dei tiranni, e solo la Chiesa può sconvolgere i loro piani delittuosi con l’eroismo dei suoi Confessori e dei suoi Martiri.
Noi vediamo in questo capitolo proprio in una grande luce la grandezza della resistenza nobilissima di tre anime sante alla sopraffazione di un tiranno, e consideriamo con esultanza la loro splendida vittoria riportata per la potenza di Dio, senza reagire con le armi ma col sacrificio eroico e con la fede.
È una lezione mirabile di grandiosa dignità che giova tanto ai nostri tempi, carichi di viltà, di prepotenza, e di sopraffazioni di ogni genere.
Radunati i servilissimi suoi collaboratori e il popolo avvilito dalla tirannide, Nabucodonosor fece proclamare da un banditore, a suono di strumenti musicali, l’ordine perentorio di adorare la statua, pena, nel caso d’inadempienza o di rifiuto, l’essere gettati in una grande fornace che aveva fatta accendere in precedenza a poca distanza dalla statua.
Il bando era dato da tre strumenti musicali, per attrarre l’attenzione di tutti, e il segnale dell’adorazione era una specie di orchestra formata da tutti gli strumenti musicali allora in uso, e specialmente dalla tromba, dal flauto o fistola, strumento formato da più canne di varia grandezza, unite insieme e decrescenti, dalla cetra ossia da uno strumento triangolare con corde di nervi, dalla zampogna, strumento formato da un otre, dal salterio, specie di arpa a dieci corde, e dal timpano, strumento formato da due coppe che si percuotevano l’una contro l’altra.
Al suono di questa orchestra, certamente organizzata in modo da formare un’unica melodia, o un susseguirsi di ritmi lenti e solenni, capaci di dare al popolo un senso di mistero, tutti si prostrarono bocconi, i grandi come il popolo, per adorare la statua.
Daniele non era stato chiamato all’inaugurazione della statua, probabilmente, o non vi era andato, sia perché di guardia alla camera del Re, sia perché non aveva il governo di una provincia ma presiedeva ai governatori. I tre suoi compagni, però, come prefetti di Babilonia, dovettero intervenire, ma furono i soli tra tanta moltitudine che non si prostrarono innanzi alla statua.
Pieni di pietà e di santità com’erano, dovettero fremere innanzi a quello spettacolo di abiezione, ed in piedi, forse rivolti verso Gerusalemme, come può rilevarsi dal contesto, accorati di trovarsi tra tanta gente idolatra, adorarono Dio. Il loro cuore, infatti, doveva essere ricolmo di sentimenti di adorazione, poiché, esposti essi poco dopo alla terribile prova del fuoco, esplose in un cantico che ne rispecchiava le interne disposizioni.
Nabucodonosor, nel suo smisurato orgoglio, era lieto e trionfante di vedere come il popolo obbedisse ai suoi ordini, e si sentì in quel momento più che mai ebbro di vanità e di dominio. Assiso sul trono, non si era accorto che i tre Ebrei rimanevano ritti, in un atteggiamento di placida dignità. Ma alcuni di quelli, che vedevano di malocchio la potestà alla quale erano stati eletti, pensarono con soddisfazione che era quello il momento di liberarsene, e andarono ad accusarli al Re.
L’accusa fu fatta con tutta la maligna scaltrezza propria di perversi, i quali temevano di urtarsi con la benevolenza che il monarca aveva verso quei tre. Egli li aveva ricevuti nel suo palazzo ancora fanciulli, e, benché allora fossero adulti, continuava a chiamarli fanciulli ed a riguardarli come suoi prediletti, come gli erano cari, però, gli animali cresciuti nella reggia, giacché aveva un cuore troppo duro e spietato per nutrirvi un sentimento nobile di tenerezza.
Bisognava dunque toccarlo sul vivo, e gli accusatori lo fecero, ricordandogli minutamente il decreto che aveva fatto, ed al quale tanto teneva, soggiungendo che quei Giudei stabiliti da lui per gli affari della provincia di Babilonia, quelli cioè che come capi del centro dovevano più di tutti indurre il popolo al pieno ossequio ai decreti reali, avevano disprezzato il suo ordine, e non avevano adorato né i suoi dei né la statua d’oro da lui fatta.
Nabucodonosor, proprio perché in quel momento era tutto compreso della propria grandezza, fu ripieno di furore e d’ira a quell’annunzio, ed ordinò che immediatamente gli venissero condotti davanti i tre Ebrei. Spirava ira ed era deciso di farli subito gettare nella fornace che ardeva; ma, nel vederseli davanti in grande calma e dignità, si sentì un poco ammansire, volle interrogarli mostrando di non aver creduto interamente all’accusa, e conoscendo già la loro pietà e la loro fedeltà a Dio, volle prevenire una conferma o una confessione della verità dell’accusa, offrendo loro immediatamente una via di scampo; egli rinnovò per essi il suo decreto, e fece loro riflettere per intimorirli che era vano violarlo perché il loro stesso Dio non era capace di strapparli dalle sue mani. Se essi avessero negato di aver violato il suo ordine, li avrebbe messi alla prova esigendo di nuovo l’adorazione della statua; se avessero rifiutato di obbedirgli, li preveniva sull’inesorabilità fatale del castigo che li attendeva e sulla inutilità della loro speranza in Dio.
Con incomparabile dignità e con assoluta decisione che non ammetteva repliche, i tre Ebrei, tocchi soprattutto dall’ultima espressione del Re che era ingiuriosa per Dio, risposero: Non abbiamo bisogno su di questo di darti risposta, poiché ecco che il nostro Dio che adoriamo può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e strapparci, o Re, dalle tue mani.
Non potevano attaccare questione sulla falsità degl’idoli e sulla verità di Dio, perché il Re non li avrebbe capiti, né volevano che una polemica dottrinale fosse stata scambiata per un diversivo o un sotterfugio atto a farli sfuggire alla sentenza di morte; si contentarono solo di affermare che Dio, se l’avesse voluto, avrebbe potuto liberarli, ma soggiunsero subito che, se non avesse creduto di farlo, per suoi altissimi fini, essi avrebbero dato volentieri la vita per Lui, e non avrebbero perciò giammai adorato né gli dèi babilonesi, né la statua di oro.
La loro risposta era nobilissima e piena di amore a Dio; per la prima volta quel tiranno si trovò dinanzi ad uomini ai quali la fede dava un forte e composto senso d’incomparabile dignità; tutte le sue armi vittoriose di cento battaglie si spuntavano di fronte alla forza dello spirito, e perciò acceso di furore guardò con ira quei tre eroi autentici, e, non sapendo come sfogarsi, ordinò che la fornace venisse attizzata sette volte di più, e comandò agli uomini più forti del suo esercito che, legati i piedi ai tre Ebrei, li gettassero subito nella fornace.
Nell’impotenza della sua ira di fronte allo spirito che trionfava, il Re credeva, con l’impellenza pressante del suo comando e con la violenza della fiamma, di salvare il prestigio della sua potenza, ma veniva deriso dalla onnipotenza di Dio.
I suoi soldati, data l’urgenza del comando del Re, non spogliarono dei loro abiti i condannati, e non pensarono a liberarsi essi stessi degl’indumenti di gala che potevano essere preda del fuoco; perciò, nel lanciarli nelle crepitanti fiamme, per la vampata improvvisa prodotta dal tonfo dei tre corpi, furono investiti dal fuoco e perirono miseramente, mentre i tre condannati, ai quali il fuoco sciolse solo i lacci coi quali erano legati, alzatisi cominciarono a camminare tra le fiamme lodando e benedicendo il Signore.
3. Uno spettacolo grandioso e l’inno di umiltà e di amore a Dio giusto e onnipotente.
II momento era solennissimo. Nessuna emozione di spettacoli naturali o di battaglie travolgenti può darci l’idea di quel momento. Il popolo in silenzio, atterrito; il Re rosso d’ira e fremente, proteso in avanti per satollarsi di vendetta; la fiamma che si levava in alto crepitante, per quarantanove cubiti, cioè per circa 25 metri, ed attizzata da bitume, pece e sarmenti, diffondeva intorno un acre fumo che soffocava; i ministri del tiranno, col torso nudo, e con lunghe pale, erano intenti solo ad accrescere il fuoco, accecati quasi dal fumo e congestionati dal riverbero del fuoco; nelle fiamme i tre eroi, placidi, tranquilli, immuni, con lo sguardo al cielo, resi più belli dalle fortissime tinte che le fiamme davano ai loro lineamenti, aureolati di fuoco, sorgenti dalle volute ardenti quasi come tre astri fulgidi nell’acceso orizzonte mattutino, con le mani levate, intorno alle quali le fiamme quasi giocavano e sembravano pioggia di rose!
Nel cadere nelle fiamme essi avevano il cuore pieno di tristezza, perché la loro condanna a morte crudele era l’indice dello stato nel quale era ridotta la loro nazione. Caddero nelle fiamme sicuri di morire, e quindi col parossismo angoscioso di chi vede da vicino la morte, e col dolore profondo di chi sapeva che quella morte veniva per i peccati della nazione.
Essi fino ad allora, favoriti dal Re, onorati, posti a capo della provincia, avevano visto con uno sguardo di rassegnata benevolenza il luogo stesso della loro schiavitù, che non sembrava loro intollerabile; ma in quel momento, quasi cadesse dai loro occhi una benda, stretti dalla loro angustia mortale, videro tutto l’orrore dello stato del popolo, ridotto alla mercè d’un tiranno così truce, e sospinto ad un’idolatria tanto abbietta; il tiranno, verso il quale avevano sentito qualche benevolenza, apparve loro per quello che era, il più ingiusto dei Re e il peggiore che fosse sopra la terra; quale terribile traguardo era il fuoco per essi, e come vedevano attraverso le fiamme crepitanti l’abiezione di Babilonia!
L’anima era come incalzata dal fuoco, si purificava, si liberava, e si levava più alto della fiamma, verso Dio, quasi folgorante saetta che solcava quell’atmosfera bituminosa e soffocante. Quale momento, quale grandezza, quale umiltà, quale adorazione profonda, quale amore per Dio!
Essi erano come fiamme di altra natura, erano tre fiamme potenti dello spirito che superavano le barriere della materia e si lanciavano in alto, e, come fiamme di amoroso olocausto, ebbero tre momenti di amore che solo la parola di Dio poteva tracciarci con colori così ardenti: un’umiliazione profonda nell’attesa della morte, un’umiliazione amorosissima, perché si riguardarono vittime e si offrirono in olocausto. Uno slancio di lode a Dio onnipotente, nel vedere l’Angelo mandato da Lui per liberarli, e nel constatare che le fiamme non li toccavano. Un grido di riconoscenza che dilatò l’anima loro per tutte le sfere della creazione, invitando tutte le creature a lodare il Signore.
Furono tre momenti psicologici che dettero origine a tre inni, mirabilmente armonici nella loro unità e nella loro varietà, che in questa unità ed armonia ci fanno capire che scaturirono veramente da tre anime provate dal fuoco, e portano in loro l’argomento palpitante della verità storica.
Nel cadere nel fuoco, i tre eroi avevano l’anima umiliata, come s’è detto, e riconoscevano nella loro pena il giusto castigo che il loro popolo aveva avuto da Dio; perciò non osarono parlare tutti e tre, soffocati com’erano dall’angustia, e solo uno di essi, facendosi forza, per sostenere gli altri, esclamò in nome di tutti: Benedetto sei tu, o Signore, Dio dei nostri padri e lodato e glorioso è il tuo nome nei secoli, poiché giusto sei tu in tutto quello che hai fatto a noi, e tutte le tue opere sono veraci e rette le tue vie, e tutti i tuoi giudizi sono giusti. Forse mai l’amore e l’umiltà di un’anima raggiunsero vette più sublimi.
Quegli uomini, infatti, erano condannati non solo ingiustamente ma per avere sostenuto la loro fede in Dio; non erano rei ma eroi di fedeltà, eppure il Signore permetteva che fossero trattati come scellerati, e, senza colpire il tiranno che li condannava, permetteva che fossero colpiti essi che erano innocenti, anzi eroi di virtù e di amore. Avrebbero potuto avere un pensiero di rammarico ed ebbero invece uno slancio di lode a Dio, adorando i suoi giusti giudizi, ed umiliandosi come peccatori in nome di tutto il popolo.
Benedetto sei tu, o Signore Dio dei nostri padri, e lodato e glorioso è il tuo nome nei secoli.
Con quest’esplosione di amore, Azaria, che parlava in nome di tutti, scacciò via dal cuore il terrore che incuteva la fiamma, e respirò quasi nell’altezza dei cieli per non guardarla e non impressionarsene.
Nelle sventure, infatti, la lode a Dio è il segreto più bello e psicologicamente più profondo per cacciare dall’anima il panico dello scoraggiamento e l’urto angoscioso dei nervi tesi e doloranti. Il grido distrae dal dolore e conserva la resistenza fisica del cuore, come affermano i medici; il grido elevato a Dio soffoca le reazioni della natura e dissipa le suggestioni e le tentazioni di satana contro la provvidenza. È il superamento della propria ragione, del proprio giudizio, della propria natura, dei propri sensi, del proprio dolore, ed è un rifugiarsi nelle braccia di Dio, abbandonandosi a Lui ciecamente, certi del suo amore, sicuri della sua giustizia.
Dopo questo slancio di amore e proprio per questo slancio di amore, Azaria si preoccupò dell’onore di Dio, che in quel momento veniva compromesso dall’apparente trionfo del Re su di loro. Nabucodonosor aveva detto: « Qual è il Dio che vi strapperà dalle mie
mani? », ed Azaria, nel suo grande amore al Signore, perché non si fosse detto che Dio non aveva avuto la potenza di liberarli, raccolse su di sé tutta la colpabilità del popolo, se ne riguardò insieme ai suoi compagni come l’espressione e la rappresentanza, e fece una requisitoria accorata contro i delitti della sua nazione per giustificare la giustizia di Dio, e per impedire che il suo popolo si scandalizzasse.
Azaria affermò, perciò, che il Signore era stato giusto in tutto ciò che aveva disposto, poiché Egli è verità, rettitudine e giustizia somma, e tutte le sue opere sono secondo verità, rettitudine e giustizia. Egli aveva punito il popolo per i suoi peccati, e per questo la città di Gerusalemme era stata distrutta e tutta la nazione era caduta nella schiavitù.
Azaria non lo afferma soltanto, ma, a meglio ribadire il suo concetto nell’animo di tutti, fa a Dio una confessione dei peccati del suo popolo, quasi che ne fosse egli il responsabile insieme ai suoi compagni: Abbiamo peccato, ed abbiamo agito iniquamente allontanandoci da te, ed abbiamo mancato in ogni cosa. E non abbiamo prestato orecchio ai tuoi precetti né li abbiamo osservati né abbiamo fatto come tu ci avevi ordinato perché fossimo felici.
I tuoi precetti non erano un’imposizione tiranna, ma una via di vera felicità, e noi violandoli ci siamo gettati volontariamente nell’infelicità, contrastando il tuo amore. Tutto quello, dunque, che hai mandato sopra di noi e tutto ciò che tu hai fatto a noi l’hai fatto con vera giustizia, perché siamo peccatori ingrati, e l’hai fatto perché ritorniamo nelle vie della felicità; per questo ci hai dati in mano dei nostri nemici iniqui, pessimi e prevaricatori, e di un Re ingiusto e il peggiore che sia sopra la terra.
L’orgoglioso Re, che fremeva ancora di rabbia, era bollato per quello che era, con la libertà che veniva ad Azaria dallo stesso stato di somma angoscia nella quale era; il Re non avrebbe potuto fare a lui e ai suoi compagni più male di quello che aveva fatto, e, gettandoli nel fuoco, invece di incatenare il loro spirito l’aveva reso più libero di dire la verità. Egli non era un potente glorioso, e il suo popolo non era migliore di quello ebreo sol perché l’aveva sopraffatto; egli era ingiusto e il peggiore dei Re, e il popolo era iniquo, pessimo e prevaricatore, strumenti solo di giustizia e non dominatori del popolo di Dio.
Che cosa sublime è questa libertà di spirito innanzi agli esosi sopraffattori, nel momento stesso nel quale raggiungendo il colmo della sopraffazione si trovano nel sommo dell’impotenza!
Dopo la confessione delle colpe della propria nazione, Azaria leva la voce a Dio per implorare misericordia, e l’implora con parole tanto accorate che toccano il sublime: « Ora noi non possiamo aprire bocca, siamo diventati argomento di confusione e di obbrobrio per i tuoi servi e per quelli che ti adorano ».
Si riguarda sempre, coi suoi compagni, come rappresentante del popolo peccatore, e vede le colpe, che sono causa di flagello, in tale umiliante luce che non osa parlare, e si riguarda come argomento di confusione e di obbrobrio per il suo stesso popolo e per i servi fedeli di Dio, poiché essi veggono in lui e nei suoi compagni i colpiti dalla giustizia divina che non meritano di essere liberati.
Azaria non s’accorgeva ancora, in quel momento di angoscia, di non bruciare; aspettava la morte, la credeva oramai inesorabile, ed umiliandosi come se fosse stato reo, si riguardava come un obbrobrio innanzi a tutti, e principalmente innanzi al suo popolo.
Era la profonda psicologia di un condannato a morte, che da un posto di onore in cui prima era, si vedeva ridotto senza scampo tra le fiamme, con la taccia di un delitto innanzi al Re ed ai Babilonesi, e con l’obbrobrio di un’inesorabile giustizia punitrice innanzi al popolo suo, che lo vedeva già nella fornace, e credeva che non potesse scamparne.
Con tutto questo Azaria non si perdette di coraggio; ritornò al suo concetto di rappresentante del popolo prevaricatore, e, quasi distraendosi dal pensiero dell’obbrobrio che colpiva lui e i suoi compagni, gridò a Dio in un impeto di fiducia illimitata: « Non ci abbandonare in perpetuo, per amore del tuo nome, e non dissipare il tuo testamento; né ritrarre da noi la tua misericordia per amore di Abramo tuo prediletto, d’Isacco tuo servo e d’Israele tuo santo, ai quali parlasti promettendo loro di moltiplicare la loro stirpe come le stelle del cielo e come l’arena ch’è sul lido del mare ».
Si appellò all’onore stesso di Dio, e non domandò tanto la liberazione sua e dei compagni, quanto quella del popolo tutto, ricordando i suoi più grandi Santi, Abramo, Isacco e Giacobbe, e le promesse fatte loro da Dio. Queste promesse non potevano venir meno, e poiché il popolo prediletto era ridotto come il più vile di tutti i popoli per i suoi peccati, senza capo, senza armati, senza Profeti, senza Tempio, senza sacrifici atti a conciliare la divina misericordia, egli supplica il Signore, in un impeto di amore, di accogliere lui e i suoi compagni come un sacrificio per la salvezza e la liberazione del popolo: « Accoglici contriti di animo ed umiliati di spirito. Com’è di un olocausto di arieti e di tori, e com’è di un sacrificio di migliaia di grassi agnelli, così si compia oggi il nostro sacrificio al tuo cospetto e ti piaccia, perché non v’è confusione per quelli che confidano in te ».
Fatta l’offerta di sé e dei compagni, Azaria guarda tutto il popolo che sta assiepato nei dintorni della fornace, guarda il bieco Re che già crede di menare trionfo della sua potenza al di sopra di Dio stesso, si preoccupa della divina gloria e sentendo il cuore suo e quello dei suoi compagni orientati al Signore e nel fermo proposito di volerlo seguire con fedeltà, implora dalla sua misericordia la liberazione dal fuoco, perché splenda nel prodigio la gloria del suo nome, e siano confusi tutti quelli che fanno soffrire i suoi servi; da tutta la sua potenza sia spezzata la loro forza e conoscano che Egli solo è il Signore Dio, glorioso su tutta la terra.
Sac. Dolindo Ruotolo

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