lunedì 16 giugno 2014

16.06.2014 - Commento al primo libro dei Re cap. 21, par. 2-3

2. Nel baratro dell'umana miseria.
L'umana perversità è un abisso inesplorato che fa spavento, e Dio nelle Sacra Scrittura ce ne fa vedere spesso l'orrore, come la mamma mostra al suo piccolo il precipizio, affinché non vi cada. Alle nostre furibonde passioni non basta la parola buona, l’esortazione o la minaccia perché l'anima si arresti sull’orlo dell’abisso ; anzi spesso le buone parole suscitano per reazione nei perversi lo strano desiderio di fare il contrario ; i fatti sono assai più efficaci a muoverci al bene, perché sono lo specchio nel quale possiamo riguardarci spassionatamente. Noi siamo inclinati infatti a giudicare severamente gli altri e ad indulgere con noi stessi; meditando su di un fatto noi ce ne rendiamo giudici e più facilmente applichiamo alla nostra coscienza gl'insegnamenti che da esso ricaviamo. Il comando trova chiusa quasi sempre la porta della volontà, perché sembra un'imposizione; il fatto invece convince prima d’ imporsi, ed è più proporzionato alla nostra libertà. Le passioni in tempesta sono come un mare furibondo che trascina la barchetta e la spezza tra gli scogli; nell'impeto loro non c’è forza che le possa domare, eccetto la volontà fortificata dalla grazia. Ora nei fatti pratici, la volontà è affascinata, e la grazia la rasserena ridonandole il dominio di se stessa ; il fatto è una delusione improvvisa, è come un vento gagliardo che dissipa o neutralizza il vento della tempesta.
Ora ecco un fatto di grandissima importanza per la nostra natura inclinata alla cupidigia dei beni terreni, e all'invidia dei beni altrui ; ecco una lezione pratica che ci mostra la vanità dei nostri desideri terreni e l'abisso nel quale possono trascinarci. Ecco un Re che ha possedimenti vastissimi e palazzi sontuosi, eppure desidera la vigna di un povero, un Re che non si dà pace per il rifiuto avuto, e si getta affranto sul letto per l’ira e lo sdegno, rifiutando persino di prendere cibo.
È un esempio che deve renderci pensosi sulle aspirazioni fantastiche della nostra cupidigia, poiché anche se avessimo tutto quello che desideriamo, ci sarebbe sempre un vuoto spaventoso nelle nostre ricchezze, un gorgo che le inabisserebbe e le renderebbe vane. La cupidigia ci rende praticamente poveri ; ci spoglia di quello che abbiamo, poiché il cuore non ci si ferma né se ne appaga per l’agitazione che lo tormenta; non ci fa conseguire quello che desideriamo perché allarga sempre i suoi orizzonti fantastici e moltiplica
le sue brame, giungendo fino al baratro del delitto senza raccogliere altro che rimorsi ed afflizioni di spirito. Anche quando consegue il suo intento rimane vuota, poiché Dio nella sua infinita giustizia non permette che il mal tolto ci giovi, e l'anima, che cerca l’appagamento dei suoi desideri ad ogni costo, si trova di fronte al vuoto più spaventoso e di fronte alla giustizia inesorabile di Dio che la punisce.
Acab aveva un palazzo di villeggiatura estiva in Jezrael, esso confinava con la vigna di un onesto uomo chiamato Nabot; Acab desiderò quella terra per trasformarla in un orto dove evidentemente forse avrebbe voluto divertirsi a coltivare erbaggi. Aveva già fatto tanti sogni fantastici su quella vigna, come succede in sm mili occasioni ; ne aveva determinato l’uso, ne aveva stabilita la disposizione, e contemplandola dall’alto del suo palazzo, gli era sembrata già sua, tanto si credeva sicuro di doverla possedere. Senz’altro ne fece la proposta a Nabot, una proposta che sembrava accettabile, poiché in cambio gli prometteva o una vigna più bella o il danaro. Ma Nabot era un uomo fedele alla legge, e sapeva che senza un’ estrema necessità era proibito alienare l'eredità dei propri antenati (Lev. XXV, 15, 23, 28; Num. XXXVI, 7, 8), d'altra parte dal contesto si rileva eh' egli, uomo pacifico ed alieno dalle novità, doveva essere affezionato al suo podere, e perciò rispose al Re appellandosi alla legge ed esclamando: " Che Dio mi guardi dal dare a te l’eredità dei miei padri„.
Acab, essendo senza scrupoli, non si aspettava quella risposta; era certo che un suddito non poteva rifiutarsi di soddisfare il suo desiderio, e però il rifiuto gli riuscì molto amaro; non osava far violenza a Nabot, perché sarebbe apparso tiranno, non voleva rassegnarsi al rifiuto perché se ne sentiva contrariato, e perciò cadde in uno stato di abbattimento, di sdegno, di rabbia, per il quale non volle prendere cibo, e si abbandonò sul letto voltando la faccia al muro. In poche parole il Sacro Testo ci descrive lo stato psicologico di Acab; sembra quasi pleonastico al vers. 4 il ripetersi di ciò che aveva detto Nabot, ma quella ripetizione è mirabilmente espressiva giacché quando noi crediamo di aver ricevuto un affronto, ci sentiamo più volte ripetere nell’interno le parole ingiuriose, e le consideriamo con dispetto ricostruendo in noi la scena dell'alterco avuto, formulando le risposte violente che avremmo voluto dare o vorremmo dare. Proprio perché l'animo di Acab era così agitato egli si voltò con la faccia al muro gettandosi sul letto, tutto riconcentrato nell'ira sua.
Jezabel si accorse dell'afflizione di Acab, e gliene doman
dò spiegazioni. Il Re le raccontò quello che era avvenuto, riferendole la risposta di Nabot con termini più gravi: — Egli mi ha detto: lo non ti darò la mia vigna. Il povero uomo invece si era semplicemente appellato alla legge ed aveva detto in altri termini di non poter acconsentire per non violare il comando di Dio. Ma nell’ira noi siamo abituati a deformare le parole dei nostri avversari, e poiché ci preme di aver ragione e di giustificarci, subcoscientemente magari, non riportiamo che quelle sole espressioni che favoriscono la nostra tesi. Inoltre noi diamo un significato più grave o addirittura pessimista ed esagerato a quello che ci viene detto con serenità, con calma e con rettitudine d' intenzione, perché l’ira è una passione deformante che ci fa vedere tutto paranoicamente. All’empia Jezabel sembrò una viltà e una stoltezza quell'afflizione in un Re che aveva in mano tutti i poteri; perciò gli disse in tono ironico : Tu hai una grande autorità e governi bene il Regno d'Israele, cioè: Si vede che fanno gran conto di te e che tu sai farti bene rispettare. Considerandolo come un vigliacco, gli disse in tono di comando di alzarsi, di prendere cibo e di stare di buon animo perché la vigna di Nabot avrebbe pensato lei a dargliela.
La donna perversa ha una prontezza diabolica nel concepire i suoi delittuosi disegni; Jezabel capì che la violenza aperta contro Nabot l'avrebbe resa odiosa al popolo che ne aveva stima, e concepì subito il modo come calunniarlo e farlo mettere a morte. Scrisse una lettera a nome di Acab, sigillandola con l’anello di lui come si usava fare allora con le lettere d’importanza; sapeva bene di poter disporre dei capi della città di Jezrael, e quindi non ebbe ritegno di far loro con la massima sfrontatezza le sue proposte. Quello che le premeva era il salvare le apparenze innanzi al popolo; i capi le erano asserviti, ed a lei non importava gran che di ciò che avrebbero potuto pensare del suo comando, tanto più che dovevano essere degni suoi vassalli. Bisognava dunque indire un digiuno pubblico come si faceva per domandare a Dio lumi in affari gravi ; nella solenne adunanza bisognava fare accusare di bestemmia Nabot da due testimoni prezzolati, e come bestemmiatore bisognava lapidarlo. La cosa riuscì come la perfida donna l’aveva divisata, ed il povero Nabot, l'innocente, il fedele a Dio, l'onesto, condotto fuori della città, fu lapidato e morì.
Quanti delitti accumulati in un solo: ipocrisia, menzogna, spergiuro, ingiustizia, omicidio, e tutto questo sotto la lustra della pietà. Che cosa spaventosa è l’abisso della iniquità umana!
3. Nelle altezze della Divina Provvidenza.
L'anima nostra si smarrisce di fronte a questi misteri della Divina Provvidenza. Come mai il Signore permise che l'iniquità avesse avuto il sopravvento sul giusto ? E come mai il povero Nabot fedele alla legge fu ucciso, ricoperto d'infamia, fuori le porte della città? Qui la potenza di Dio sembra quasi assente, e prevale la potenza scellerata di una donna carica di delitti! Qui sembra quasi che il Signore dipenda dagli atti delle sue creature e che la umana libertà traviata possa sovrapporsi alle leggi della giustizia. Eppure il Signore permetteva per amore lo scempio di Nabot.
Prima di tutto si delineava nel fosco quadro di un popolo abbrutito dal male, la placida figura del Redentore, e si delineava sul giusto Nabot, ammantandolo della luce della futura Redenzione. Quel giusto era quasi fuori dell'atmosfera avvelenata d'Israele, e come nell'aurora le nuvolette alte alte del cielo sono le prime a tingersi dei colori del sole, così Nabot, levatosi in alto nel cielo soprannaturale della grazia, raccoglieva i primi raggi del Sole divino che doveva spuntare sulla terra desolata. Egli non era sopraffatto, come appariva all'occhio umano, ma completava il suo ornamento nuziale per le eterne nozze ; era come fuori del mondo ed era trattato da Dio in una maniera soprannaturale, con quei criteri di soavissimo amore che sulla terra diventano ombre oscurissime, come le nubi del cielo che sono fosche per la terra e luminose dalla parte del sole. Egli non era più un giusto, ma rappresentava il Giusto; non subiva una sopraffazione, ma compiva col suo sangue un mistero ; la sua pena lo purificava come oro nel crogiuolo, lo liberava dal peso della materia, lo trasumanava in Dio,' elevandolo come nube dalla terra, e su di lui si riflettevano i raggi futuri del Verbo umanato.
Nabot significa : verbo, profezia, frutto; egli dunque nel suo stesso nome rappresentava il Verbo umanato, ne era una profezia vivente, ed era un frutto della futura Redenzione. Il Redentore infatti formò con infinita cura la sua vigna, la novella vigna di Dio, che confinava con la Sinagoga, ma non faceva parte di essa; era una vigna che doveva dare il succo dolce e forte di una nuova vita di amore. La Sinagoga pretese possederla poiché volle che gli Apostoli si fossero uniti a lei, rigettando la vite vera e diventando come poveri erbaggi di un campo, senza altezza e senza vigore. Il Giusto resistette all'insidia, ed eccolo accusato falsamente di bestemmia come il povero Nabot, accusato da due falsi testimoni, Anna e Caifa, che ipocritamente finsero di difendere l’onore di Dio, mentre vollero colpire l’innocente. E fu condotto fuori le mura della città per essere ucciso ; non fu lapidato come Nabot, fu crocefisso, ma la sua crocifissione equivaleva ad una lapidazione, poiché Egli sopportò l'urto di tutto il popolo, e ricevette sul suo corpo, come sassi furenti e mortali, i peccati di tutto il mondo.
La Scrittura non ci dice nulla delle proteste che Nabot dovette fare della sua innocenza, ce lo presenta taciturna vittima della perversità di Jezabel. Così fu infatti la Vittima divina ; non Si lamentò mentre contro di lei infuriavano tutti ; tacque nei tribunali, e morì placidamente per amore.
Se Dio avesse difeso Nabot, come tante volte ha fatto coi suoi servi fedeli, gli avrebbe tolto dal capo l'aureola più bella, la rassomiglianza profetica col Verbo umanato; gli avrebbe tolto il mezzo di purificarsi di tutte le sue colpe in una pena amara ma piena di frutti, e lo avrebbe diminuito. Dato che noi non siamo cittadini della terra e cerchiamo l’eterna patria, il Signore coronava la vita di Nabot con un dolore che lo elevava in una sfera più grande e lo arricchiva d’un tratto delle ricchezze della novella alleanza. Agli occhi umani quella lapidazione era una spaventosa ingiustizia, agli occhi di Dio era come il percuotersi del frumento, perché fosse uscito dal suo guscio candido e bello, era come il tormento del seme che sboccia dalla terra, era come il fuoco che toglie le scorie e rende luminoso l’oro nel crogiuolo. Dio poi ha mille delicatezze di amore con i servi suoi quando li prova, e le pene che essi subiscono vengono quasi assorbite da tanti tratti d' infinita bontà che a noi sfuggono. La gioia dei Martiri nei loro tormenti non era illusione ma era l'anticipazione dell'eterna felicità, e sotto quella fiumana di pace, le loro pene quasi sparivano, rimanendone solo quel tanto che era sufficiente alla purificazione piena dell’anima. Dio non ci rivela questi ricami di delicatissimo amore, perché è cosa che riguarda chi soffre, non chi vede; da noi esige soltanto la Fede nella sua giustizia e nella sua bontà.
La sventura di Nabot in fondo si riduceva a questa espressione più semplice. Egli, confortato da Dio, passava in una sfera più alta; rinunziava ad ogni cosa terrena e si concentrava nelle eterne. L'accusa di bestemmiatore fatta a lui così tenero per la legge di Dio, suscitava nel suo cuore atti di amore e di benedizioni al Signore. Psicologicamente infatti l'accusa calunniosa che ci vien fatta contro una virtù che più amiamo, ci rende ad essa più affezionati; una donna onesta, per.es., non è mai così fiera custode del suo onore che quando si tenta macchiarlo con la calunnia. La stessa reazione che sente contro l’infamia, e lo stesso desiderio di giustificarsi, la rendono più aliena da qualunque imperfezione sulla bella virtù. Nabot dunque, pieno, di amore a Dio, accettò la morte, ed in quella elevazione interiore s’illuminò della luce futura del Verbo umanato : egli non era più della terra quando le pietre martellavano il suo corpo, quasi a sforzare l'anima all'ultimo suo volo, quasi ad infrangere gli ultimi fili del bozzolo che imprigionavano l'angelica farfalla; egli era già in alto, cantava già le prime note del cantico eterno; ogni tormento era come l’esplosione di un motore a razzo, che lo spingeva a Dio con maggiore veemenza.
In Germania lo scienziato Friz Von Opel per primo, e dopo di lui Valier, Volkhart ed altri hanno inventato un motore per automobile, la cui forza viene dall’esplosione di cannoncini ad alto esplosivo, posti a tergo della vettura. Per mezzo di un interruttore-commutatore elettrico si accendono le cariche, e l’autorazzo per il rinculo del cannone si muove. A corsa vertiginosa l’autorazzo diventa un inferno, il povero pilota è stordito e scosso dalle esplosioni. Questo motore sembra inadatto alle comunicazioni terrestri , già si pensa però di applicare l’autorazzo alle comunicazioni tra la terra e gli astri, poiché tale motore è assai più adatto a sollevarci in alto; già si pensa sul serio alla possibilità di un viaggio nella luna. Ebbene, ecco quello che sono sulle anime sante le irruenze dell’ingiusta persecuzione, sono autorazzi che esplodendo le spingono in alto. Esse sole si accorgono del vantaggio della loro ascesa; noi spettatori del fatto non raccogliamo che il fumo ed il fragore assordante delle violente esplosioni.
Chi vede un aviatore elevarsi a volo, non vede che l'aeroplano, non sente che il rumore del motore, ma l'aviatore ha una visione tanto diversa delle cose. Tutte le parti del paesaggio gli appariscono schiacciate, artificiali, provvisorie, fugaci. Non si accorge di correre ma vede in cambio tutto in moto fuori di lui, ed il tempo e lo spazio vengono come polverizzati in questa visione. Tutto quello che vede sotto di lui accentua ai suoi occhi il carattere di folto, di sparso, di elegante, di grandioso. Chi volesse dipingere dall’alto la terra mentre vola, darebbe un quadro immensamente diverso delle cose quali le vediamo noi; su questo principio è fondata la nuova arte lanciata dai futuristi, l'aeropittura e l'aeroscultura. Non più case, edifizi, foreste, tramonti, ma scie dinamiche, palpitanti quasi, tremanti sotto' l’immensità del cielo: toni di
colori diversissimi da quelli che vediamo noi, armonie nuove di linee, orizzonti che si allargano, che si chiudono, che sembrano inghiottire il piccolo aeroplano. Or come possiamo noi valutare le sensazioni e le percezioni dell'anima, quando essa, mentre il corpo cade come involucro infranto, come razzo esploso, vola fuori della polvere della terra, nella visione immensamente nuova e meravigliosa dell’infinito ?
Ma c'è di più: nell'armonia profetica del futuro, Nabot era un esempio meraviglioso, che non poteva essere fucinato che nella morte. La sua vigna era figura della Chiesa, vigna di Dio, e stava in Jezrael, che significa seme di Dio, amicizia di Dio, perché la Chiesa è semente divina, germina in Dio, e raccoglie le creature nell'amicizia divina. La Chiesa è una vigna inviolabile, perché è l'eredità di Gesù Cristo, l’eredità dei suoi Padri. Gli eretici, e massime i protestanti, sono i falsi fratelli, gli Acab, padre e zio del fratello, che vogliono l’eredità del Cristo per commutarla o in altra vigna, che sembra magari più bella ad occhi superficiali e stolti, ma non è quella dei padri, o per commutarla nel danaro sonante di un proselitismo venale. La Chiesa Cattolica non cede neppure alle lusinghe dei potenti, non vi ha ceduto mai. La sua gloriosa intransigenza è come il grido di Nabot:—Mi guardi Iddio dal cedere l’eredità dei miei padri— Essa è calunniata come Nabot, è condotta dinanzi agli ipocriti giudizi del mondo, è condotta fuori della città, cioè è considerata dagli stolti come fuori della civiltà e del progresso umano, ma preferisce sempre il martirio, e non cede a nessuno l’eredità dei padri, perché è l’eredità di Dio.
Nabot dunque figurava il Redentore e figurava la schiera dei suoi martiri. Morì egli, e come si rileva dal quarto libro dei Re {IX, 26), morirono anche i suoi figliuoli; vide sterminata la suà famiglia, ma non cedette, e lasciò affidata interamente a Dio l’eredità ricevuta. Così ha fatto e così fa la Chiesa Cattolica. Nei momenti più angosciosi della sua vita è andata volentieri al martirio, Pastori e popoli, padri e figli, lasciando al Signore la cura di tutelare la sua eredità. Dio tracciava con mano maestra in Nabot questa linea stupenda della vita della sua Chiesa ; il piccolo possessore della vigna di Jezrael non era dunque sopraffatto da un’ingiustizia, era piuttosto il vincitore glorioso dell'ingiustizia ; si era spezzato ma non si era piegato ; l'umile servo aveva vinta la prepotenza del grande.
Sac. Dolindo Ruotolo

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