lunedì 23 giugno 2014

23.06.2014 - Commento al vangelo di S. Matteo cap. 7 par. 2

2. Non giudicare gli altri, e non pretendere di correggerli quando sono depravati a tal segno da disprezzare i richiami della verità
L'equilibrio nella vita del corpo sta nel dare la preponderanza allo spirito, e confidare nella divina provvidenza; l'equilibrio nella vita dell'anima sta nell'abbandonarsi alla divina misericordia sentendo bassamente di sé, senza preoccuparsi delle miserie altrui quando non è preciso dovere occuparsene.
L'orgoglio che ci agita e ci fa desiderare di essere esaltati innanzi agli altri, ed il sentimento disordinato della nostra eccellenza ci fanno considerare il prossimo con disprezzo, giudicare le sue azioni con estrema severità.
Ora Gesù Cristo, dopo averci insegnato la via per custodire la pace nella vita terrena, operando alla presenza di Dio e confidando in Lui, c'insegna a custodire la pace nelle relazioni col prossimo, evitando ogni giudizio temerario sul suo conto, badando alle proprie miserie ed evitando di venire in urto anche per zelo, con chi non sopporta alcuna correzione, affidando al Signore per mezzo della preghiera la conversione dei peccatori ostinati e recalcitranti.
Non giudicate affinché non siate giudicati; Gesù non parla qui del giudizio dell'autorità che è un dovere ed una necessità, ma parla del giudizio privato che presume indagare, valutare e condannare le debolezze del prossimo, sospettando il male senza ragione, o presumendo di indagare le intenzioni delle sue opere.
È necessario badare a se stessi o, come si dice volgarmente, fare i fatti propri, perché il volersi ingerire in quelli degli altri è causa di dissapori e di contrasti.
Chi giudica è giudicato nella stessa maniera e con la stessa misura, tanto da Dio quanto dagli uomini; da Dio che è il solo giudice delle nostre azioni, perché Egli solo conosce il nostro cuore e le nostre intenzioni, e non vuole che osiamo sostituirci al suo giudizio, e dagli uomini, perché il giudicare gli altri attrae su di noi la loro attenzione e ci fa condannare nella medesima misura.
È profondamente psicologico: giudicando gli altri e mormorandone, come avviene sempre, quelli che raccolgono le nostre critiche si concentrano inconsciamente su di noi, proprio in quello che è oggetto del nostro giudizio; e ci notano gli stessi difetti. È un fatto che costatiamo continuamente.
Inoltre il giudicare gli altri ci fa perdere il controllo e la vigilanza su di noi, e ci rende facile cadere nella stessa miseria, provocando su di noi un medesimo giudizio. Anche questa è un'esperienza che tutti fanno. Il Signore stesso, poi, addolorato dalla nostra durezza, ci nega le grazie, e noi, indeboliti di un tratto, cadiamo nelle mancanze notate nel prossimo con nostra estrema vergogna.
Chi può giudicare mai giustamente, se le azioni dipendono dalle intenzioni, dalla coscienza, dallo stato particolare di responsabilità di ciascuno, e tutto questo ci è nascosto?
Come si può giudicare se spesso siamo soggetti alle allucinazioni della fantasia e dei preconcetti, e vediamo quello che non è, o lo apprezziamo in una falsa luce?
Possiamo dire con assoluta verità che giudicando, sbagliamo sempre, e che viene il tempo nel quale ci accorgiamo con rammarico di avere per lo meno esorbitato.
Giudichiamo o in base di nostre fallaci osservazioni o in base a relazioni fatteci dagli altri, le quali sono anch'esse frutto di giudizi fallaci. Tra queste ombre ingannatrici facilmente vediamo il male dove non c'è, o lo vediamo in una falsa luce ed erriamo.
Tendiamo all'esagerazione nel valutare i difetti altrui, perché l'orgoglio vuol farci credere migliori degli altri e osserviamo con cura anche le minime mancanze, quasi pagliuzze nell'occhio, mentre non guardiamo le nostre che sono grosse come travi.
Gesù condanna perciò la radice stessa dei giudizi, che sta tutta nel voler osservare le debolezze altrui e nel presumere di eliminarle.
Egli parlava dei farisei, censori spietati del prossimo, i quali non vedevano le loro gravi mancanze, ma parlava anche di quelli che in tutti i tempi li avrebbero imitati.
Quello che appare innanzi a noi delle azioni altrui non è spesso il male maggiore, e quello che si cela nel fondo della nostra coscienza non è il male minore.
Se potessimo esporre tutte le miserie della nostra vita, dovremmo coprirci di obbrobrio, e se approfondissimo certe malignità altrui, le vedremmo ridotte a minimi termini perché causate da mancanza di istruzione, di civiltà, di formazione, di coscienza, e persino dal concorso di cause fisiche, come di malanni, od anche di speciali suggestioni diaboliche.
Dio riserva perciò a sé il giudizio, come riserva il governo e la provvidenza del mondo; anche quando ci apparisse evidente la mancanza altrui, dovremmo scusarla nell'intenzione o, meglio, rimetterla a Dio.
Camminiamo tutti verso l'eternità e camminiamo per essere giudicati; ora i rei non si recano al tribunale formando essi dei tribunali lungo la via; aspettano timorosi il loro giudizio e si preoccupano di loro. Questo dobbiamo fare noi quando non abbiamo un dovere preciso di badare agli altri e di esercitare la giustizia in nome di Dio. Mancando di autorità, del resto, a che cosa gioverebbero le nostre recriminazioni? Quando ci troviamo veramente di fronte ai perversi, essi non fanno conto delle nostre osservazioni, anche quando sono fatte con retta intenzione; si ribellano come cani ringhiosi, e disprezzano la buona parola insultandoci, e calpestandola come un animale immondo calpesta le perle, che non può apprezzare perché cerca solo l'immondizia e la soddisfazione della sua voracità.
Sac. Dolindo Ruotolo

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