sabato 28 giugno 2014

28.06.2014 - Commento alla prima lettera di S. Giovanni cap. 21, par. 3-4

3. Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi?
Dopo che gli apostoli si furono rifocillati insieme a Gesù sulla riva deserta, Gesù rivolto a Pietro lo interrogò dicendo: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu più di questi?
Pietro rispose umilmente rimettendosi questa volta al giudizio stesso del Maestro divino: Certamente, Signore tu sai che io ti amo.
Prima della Passione nella notte della cena, aveva spavaldamente affermato che, anche se tutti l'avessero abbandonato, egli non l'avrebbe rinnegato, ma, posto nell'occasione, aveva invece per tre volte protestato di non conoscerlo e di non essere suo discepolo.
Ora che Gesù vuol fargli riparare la triplice negazione con una triplice protesta di amore, egli risponde con umiltà che lo ama, ma non fa alcun confronto coi suoi compagni, e si rimette al giudizio del Maestro.
Gesù Cristo gli domandò se lo amava più degli altri, per farlo salutarmente umiliare, ricordando la presunzione con la quale s'era creduto più forte e più fedele degli altri; per questo lo interrogò in questa forma solo la prima volta, bastandogli ch'egli si fosse internamente umiliato. Gesù, come è chiaro dal contesto, non volle mettere a confronto l'amore di Pietro con quello di Giovanni, che era un amore più tenero, ma solo volle con delicatezza raccogliere Pietro in un sentimento di umile penitenza, ricordando che aveva preteso di amarlo più di tutti e poi l'aveva rinnegato. Gesù interrogandolo non lo chiamò Pietro, ma Simone, figlio di Giovanni, per mostrargli che per il suo rinnegamento non aveva più meritato quel nome di fiducia che Egli gli aveva dato, e che doveva riconquistarlo con una protesta di amore e di fedeltà.
Alla risposta di Pietro: Signore, tu sai che io ti amo, Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli. Il testo greco ha il diminutivo: Pascola i miei piccoli agnelli, quelli cioè che ora nascono alla fede.
Simone, figlio di Giovanni mi ami tu?
Per la seconda volta Gesù domandò a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Questa volta non disse: Mi ami tu
più di questi? perché non volle ricordare nuovamente a Pietro il suo peccato, ma volle un'esplicita testimonianza di amore per dargli il governo delle anime radunate in ovile, cioè della Chiesa costituita come vera società. Pietro rispose di nuovo: Certamente, Signore, Tu sai che io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola i miei agnelli, o come dice molto espressivamente il testo greco: Prenditi cura del mio gregge.
Per la terza volta: Simone, mi ami tu?
Per la terza volta Gesù disse a Pietro: Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu? Pietro allora si contristò, pensando che Gesù glielo domandasse perché non vedeva in lui l'amore, e perché ricordava ancora il peccato che aveva fatto rinnegandolo, e rispose: Signore, tu sai tutto, tu conosci che io ti amo. E voleva dirgli: tu sai quello che io sono, tu conosci il mio cuore, tu lo scruti nel fondo, e tu sai che, nonostante la mia infedeltà, io ti amo. Gesù soggiunse: Pascola le mie pecorelle, ossia, secondo il testo greco: le pecore madri, fatte adulte e capaci di procrearne delle altre.
In poche parole Gesù tracciava tutto il cammino della Chiesa, e dava a Pietro e ai suoi successori il primato di giurisdizione su tutto il suo gregge, fino al termine dei secoli. Egli affidava a Pietro le anime che aveva redente col Sangue suo sulla croce, in un amore infinito, e richiese da lui una triplice confessione di amore, perché doveva governarle per amore e con amore. Chiamò Pietro col nome di nascita, Simone, sia perché egli nella Passione del Maestro aveva smesso quel nome come compromettente e Gesù volle ricordarglielo, e sia principalmente perché volle allora compiere ciò che gli aveva detto nell'eleggerlo: Tu ti chiamerai Pietro (Mt 26,18). Nell'eleggerlo gli aveva annunziato che si sarebbe chiamato Pietro, cioè pietra fondamentale e rupe sulla quale avrebbe edificato la Chiesa; ora compiva ciò che aveva annunziato, e chiamava Pietro col nome di origine: Simone, per renderlo di fatto
Pietro, capo visibile e fondamento della Chiesa. Se l'avesse chiamato Pietro, Egli avrebbe supposto già in lui quello che stava per dirgli. Richiestagli la triplice confessione di amore, Gesù gli assegnò su quella base l'ufficio di formare il gregge con l'apostolato, di governarlo con la suprema autorità, e di perpetuarlo formando le pecore madri, cioè governando i pastori delle anime che le generano a Lui in tutto il mondo e in tutti i secoli.
Egli gli dette un triplice regno, e può dirsi quasi che con le sue divine parole cesellò Egli la tiara del pontefice: gli dette il regno delle anime: Pascola i miei piccoli agnelli', gli dette il governo dei popoli cristiani: Prenditi cura del mio gregge', gli dette la giurisdizione suprema su tutti i pastori: Pascola le mie pecore madri che generano gli agnelli. Gesù Cristo è il Re di tutto l'universo e di tutte le genti, e per il suo Sangue ha, di pieno diritto, in eredità le nazioni.
Il potere del Papa è potere d'amore
Gesù costituì Pietro e i suoi successori vicari e rappresentanti di questa sua potestà, e per conseguenza i Papi sono di diritto divino rappresentanti della sua suprema autorità sulle anime, sulle nazioni e sui capi, tanto spirituali che temporali, dei popoli.
Presumere di relegare il Papa in una cerchia ristretta, riguardandolo come semplice capo di una professione religiosa, e pretendere che a Lui non interessi il governo dei popoli, è contrastare direttamente lo spirito e la lettera della parola di Gesù. La teoria delle due parallele che non s'incontrano e stanno ben separate e distinte, il potere civile e quello religioso, è errata dalle fondamenta poiché nessun potere civile può sottrarsi a quello divino ed al Papa che lo rappresenta.
Il Papa, sì, è Re di amore, ma è Re dei Re veramente per diritto divino; qualunque limitazione posta alla sua autorità è essenzialmente contraria alla maniera illimitata con la quale Gesù Cristo l'ha costituita. È un fatto poi confermato dalla storia che i regni che si sottraggono alla Chiesa vanno in rovina presto o tardi, e che i popoli che non riconoscono più nel Papa il Padre universale e il moderatore delle umane potestà, cadono sotto l'esosa schiavitù dei tiranni.
Certo il potere del Papa è potere di amore, non è potere di armi; è anzi potenza di triplice amore, che cura il corpo, l'anima e la vita dei suoi figli, che s'estende alla terra, al Purgatorio ed al Cielo, e riguarda tutte le creature per renderle inno di amore a Dio. Certo il potere del Papa non può ridursi ad un potere politico, nel senso umano e sporco di questa parola, ma il negare che sia una reale potestà su tutte le genti in tutta la loro vita, spirituale e corporale, temporale ed eterna, è lo stesso che negare la potestà di Dio su di ogni creatura.
Gesù velatamente predice a Pietro il martirio
Gesù Cristo, dopo avere dato a Pietro la potestà di pascolare e reggere la Chiesa, gli disse: In verità, in verità ti dico che quando eri più giovane ti cingevi la veste e andavi dove volevi, ma quando sarai invecchiato stenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vorrai. L'evangelista aggiunge che disse questo per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio. San Giovanni scrisse il Vangelo dopo la morte di san Pietro, e poté controllare meglio la verità dell'analogia e del paragone del quale Gesù si servì per predirgliela. Chi è giovane ha maggiore elasticità nei movimenti, può cingersi la veste da se, e può andare dove gli piace. Chi è vecchio, invece, ha bisogno di un altro che lo cinga e, per farglielo fare più agevolmente, stende le braccia, come se le stendesse in croce; egli poi non può andare dove desidera, ma dove lo accompagnano gli altri ai quali è soggetto.
Pietro doveva terminare la vita con un glorioso martirio, simile a quello del suo Maestro, e doveva glorificare Dio con questa ultima grandiosa testimonianza di amore. Egli fu crocifisso, fu cinto di funi, stese le mani per farsele configgere, ed andò dove non voleva, andò alla morte che ripugna sommamente alla natura. Egli anzi, condannato in Roma alla crocifissione sotto Nerone, nell'anno 67, per rispetto al suo Maestro, e perché i fedeli non avessero confuso la sua croce con quella di Gesù, domandò in grazia ai carnefici ed ottenne di essere crocifisso col capo in giù. In tal modo glorificò veramente Dio con una fedeltà eroica di amore, mostrò la potenza della sua grazia nel sostenere la debole natura, suggellò col sangue i suoi insegnamenti, e consolidò col martirio il santo fondamento della Chiesa. Per questo Gesù, dopo avergli predetto la morte velatamente per non turbarlo, gli soggiunse: Seguimi. Non ebbe quasi il cuore di dirgli: sarai crocifisso come me, ma gli ricordò la seconda parte di quel suo precetto col quale comandava di prendere la croce e seguirlo, e lo esortò a percorrere il suo stesso cammino.
Egli non parlò più esplicitamente, perché era inutile, sapendo che, giunta l'ora del cimento, l'avrebbe sostenuto con la sua grazia. Gli aveva dato un immenso potere, non già perché fosse stato come un re della terra, ma perché si fosse immolato come un buon pastore per le pecorelle che gli aveva affidate; aveva tracciato il programma della vita dei Pontefici, che è vita di rinunzia e di immolazione, anche in mezzo agli onori dai quali sono circondati per rispetto della loro dignità.
Il Papa è un crocifisso
Chi vede il Papa è come affascinato dallo splendore che lo ammanta, dalla corte e dagli ossequi che gli si tributano, e non immagina neppure lontanamente il sacrificio che comporta quella dignità. Il Papa può dire veramente che stende le mani, un altro lo cinge, ed è condotto dove non vorrebbe. Egli perde
ogni libertà personale, ed è stretto da un continuo cerimoniale ed è spesso trasportato dalle persone e dagli eventi dove non vorrebbe. È la caratteristica più spiccata della crocifissione del Papa, poiché Egli per prudenza deve tante volte subire le situazioni del mondo, e non può fare tutto il bene che vorrebbe. Il Papa è un perenne crocifisso, sempre con le mani aperte per benedire, sempre con le mani inchiodate dalla perfidia umana, sempre sanguinante di angoscia.
Dobbiamo pregare per il Papa, affinché venga il giorno del grande trionfo, nel quale Egli possa stendere le mani all'umanità, e farle sentire nella piena libertà tutta la grandezza del suo benefico potere, luce di verità, fiamma di amore, e fonte vera di pace per la terra.
4. Il cammino di Pietro e di Giovanni nel mondo: un'iperbole che non è iperbole
Quando Gesù disse a Pietro: Seguimi, egli andò appresso a Lui credendo che dovesse fargli delle particolari raccomandazioni. Era tutto compreso dell'ufficio assegnatogli, poiché aveva avvertito nell'anima una profonda trasformazione. Era anche tutto compreso dalla profezia fattagli, nella quale aveva capito che si accennava alla sua vecchiezza e, vedendo Giovanni che s'era messo anch'egli a seguire Gesù, ebbe la curiosità di sapere che cosa sarebbe stato di lui. Forse sentendosi dire che sarebbe giunto alla vecchiezza, si preoccupò di sopravvivere a Giovanni che amava di particolare amore, forse desiderò per lui qualche ufficio speciale; si ricordò che quel discepolo era prediletto da Gesù, che nella Cena gli aveva appoggiato il capo sul petto, domandando chi fosse il traditore, ed immaginò che dovesse avere un posto importante. Perciò rivolto a Gesù gli domandò: Signore, di questi che sarà?
Era una curiosità che non importava appagare, poiché quando un'anima è eletta ad una missione, deve pensare a compierla senza preoccuparsi dell'ufficio degli altri. Gesù poi per spiegare a Pietro che cosa sarebbe stato di Giovanni, avrebbe dovuto dirgli tante cose che l'avrebbero contristato, poiché certo san Giovanni ebbe a patire non poco sia per l'esilio a Patmos, sia per le persecuzioni che ebbe, sino ad essere gettato in una caldaia di olio bollente; perciò rispose evasivamente: Se voglio che rimanga fino a tanto che io venga, a te che importa? Gesù Cristo aveva detto altra volta agli apostoli: Quando sarò partito ed avrò preparato il luogo per voi, verrò di nuovo e vi prenderò con me, affinché dove io sono siate anche voi (14,3). Con queste parole aveva loro promesso di assisterli nella morte e portarli in Paradiso. Dicendo a Pietro: Se io voglio che rimanga, finché io venga, Gesù evidentemente non alludeva alla sua venuta finale, ma alla sua venuta amorosa nella morte di Giovanni. Egli voleva dire: lo farò rimanere sulla terra finché io verrò a prenderlo; a te che importa sapere quando verrò a prenderlo? Tu seguimi, cioè tu percorri la tua via appresso a me, e non ti curare di altro.
In questo, alla possibile curiosità di Pietro di conoscere quale ufficio avrebbe avuto Giovanni, Gesù non rispose che con quella parola: Tu seguimi, per indicare che era cosa indipendente dalla potestà di pascolare il gregge che allora allora gli aveva dato. San Giovanni infatti doveva essere profeta, e questo dono gratis dato, dipendeva da una grazia particolare dello Spirito Santo, e non da una comunicazione di grazia fattagli dal supremo ministero di Pietro. Gesù volle così riserbarsi sull'universale potere dato a Pietro quello di elargire Egli, per lo Spirito Santo, le grazie particolari alle anime privilegiate dal suo amore. Certo la risposta di Gesù è oscura, ma dal contesto sembra che questo ne sia il significato.
Gli apostoli e i fedeli aspettavano la venuta finale del Redentore nel giudizio, e la credevano vicina; ora quando si sparse la voce che Gesù aveva detto di Giovanni che sarebbe rimasto fino alla sua venuta, i fratelli, cioè i cristiani, credettero che avesse parlato dell'ultima venuta, e perciò si sparse fra loro la fiaba che quell'apostolo non sarebbe morto. Ma Giovanni ci tiene a smentirla, perché non rispondeva al pensiero del Maestro, e smentisce solo la parte della falsa interpretazione riguardante la durata della sua vita: Se io voglio che rimanga fino a tanto che io venga, a te che importa?, dicendo che Gesù non affermò che non sarebbe morto, ma solo riserbò a sé il conoscere e determinare il giorno della sua morte. L'altra parte della risposta di Gesù a Pietro: Tu seguimi, era chiara, e san Giovanni non ci si ferma sopra.
Basta talvolta un nome straniero, qualche gutturale assonanza per inchinarci credendo superuomini dei poveri incitrulliti miscredenti
San Giovanni chiudendo il suo Vangelo, ci tiene ad affermare due cose: 1) che proprio lui è stato testimone e scrittore veritiero di ciò che ha raccontato; 2) che egli ha scritto solo alcune cose della vita e delle opere di Gesù, poiché, se avesse voluto scrivere tutto, il mondo intero non avrebbe potuto contenerne i volumi. Nel chiamarsi testimone e scrittore delle cose raccontate, Giovanni si appella anche alla testimonianza degli altri discepoli e per questo soggiunge: Noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Lo Spirito Santo sapeva quanti errori la miscredenza avrebbe sparso sull'autenticità del quarto Vangelo, e la prevenne con un'affermazione categorica che nessuna mente equilibrata può mettere in dubbio.
Quando l'evangelista medesimo afferma di avere scritto lui, e l'afferma innanzi ai contemporanei che avrebbero potuto smentirlo se non avesse detto il vero, la sua testimonianza è irrefragabile, e nessuno può presumere di creare la leggenda di un altro scrittore del quarto Vangelo. Quelli che hanno creato e tentato di propagare questa leggenda sono gli autentici ministri di satana, ai quali preme svalutare con un'affermazione cervellotica la testimonianza della divinità di Gesù Cristo che viene luminosa dal quarto Vangelo. I miscredenti, storici da strapazzo, pur di negare la verità, non esitano a negare la storia, e con arbitrarie affermazioni presumono svalutare la testimonianza. Il torto dei cattolici, grande torto, imperdonabile torto, è stato quello di dare troppa importanza a questi poveri fannulloni del pensiero e della scienza, e di rendere loro il servizio di propagandare le loro panzane che oramai si prendono con le molle. È bastato un nome straniero, un sentire qualche barbara gutturale assonanza, Kunkbauer, Kunkfling, Kunku, per credere che si trattasse di superuomini, quando si trattava di gente fossilizzata da preconcetti miscredenti. Quanti hanno avuto fiducia più in questi nomi di barbarie mentale che nell'armonia squillante e folgorante dello Spirito Santo! Quanti hanno fatto naufragio nella fede per accogliere le fantastiche affermazioni di folli paranoici, di miscredenti in mala fede che mentiscono sapendo di mentire!
Quanti volumi ci sarebbero voluti per scrivere tutti gli eventi della vita di Gesù!
L'evangelista, dicendo che se avesse voluto scrivere ad una ad una tutte le cose fatte da Gesù avrebbe dovuto scrivere tanti volumi che il mondo intero non avrebbe potuto contenere, non fa, strettamente parlando, un'iperbole. Egli ha proclamato nel suo Vangelo la divinità di Gesù Cristo, Verbo eterno di Dio, e le opere sue come Verbo e come Redentore sono immense. Se si volesse scrivere minutamente sul creato, su
tutte le singole sue parti, e su tutti i misteriosi ricami della salvezza e della santificazione delle anime, non basterebbe davvero il mondo a contenerne i volumi.
Questi misteriosi volumi però sono scritti già, sono squadernati, per così dire, nell'eternità, alla luce eterna di Dio, e sono l'oggetto della nostra eterna contemplazione e felicità. San Giovanni, con la sua affermazione, ha voluto darci proprio una vaga idea dell'immensa fecondità e meraviglia delle opere del Verbo eterno, fatto uomo per amore, Redentore e vita nostra per infinita misericordia; e noi alla sua affermazione dobbiamo cadere in ginocchio, adorando Colui che in principio era il Verbo, e che per amore si è fatto carne.
Sac. Dolindo Ruotolo

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