2. Il significato letterale di questo capitolo
Geremia nella sua genealogia
Le parole con le quali comincia questo capitolo sono il titolo di tutto il libro: Parole di Geremia, cioè profezie dette da Geremia. Al titolo si unisce la presentazione del Profeta: Figliuolo di Chelkia; non del Sommo Sacerdote omonimo, che nell’anno 18 di Giosia trovò nel Tempio il libro della Legge (IV Re, XXII, 8), ma di uno dei ventiquattro Sacerdoti preposti al ministero del Tempio che abitavano in Ananot, piccola città a Nord-Est di Gerusalemme, nella tribù di Beniamino, poco distante dalla santa città.
Il Testo determina meglio la natura delle par oh di Geremìa, perché non si confondano con un linguaggio umano qualunque, e soggiunge: Parola del Signore, cioè rivelazione, fattagli da Dio stesso nei giorni di Giosia, ossia negli anni del regno di questo monarca, a cominciare dall’anno decimoterzo, e negli anni dei suoi successori fino alla distruzione di Gerusalemme ed al conseguente esilio del popolo, che avvenne nel quinto mese dell’anno undicesimo del regno di Sedecia.
A Giosia nel regno successe Joacaz, che regnò tre mesi e fu detronizzato dal Re di Egitto che elesse in suo luogo il fratello Eliacim, a cui cambiò il nome in quello di Joachim; a questi successe Joachin (IV Re, 24, 8), detronizzato poi da Nabucodonosor, il quale pose in suo luogo Sedecia, figlio di Giosia. Il Sacro Testo non parla dei regni di Joacaz e di Joachin, perché di brevissima durata (II Parai. XXXVI).
Geremia, Profeta del Signore
Presentato il Profeta nella sua genealogia e nella cronologia principale, il Sacro Testo lo presenta nella sua predestinazione e santificazione, e nella sua vocazione. È Dio stesso, che parla al suo servo, facendogli conoscere questo mistero di amore: prima di formar
lo nel seno materno con l’ordinaria provvidenza della generazione, Egli lo conobbe, cioè lo elesse e lo predestinò all’ufficio di Profeta, e prima della nascita lo santificò nel seno stesso della madre, arricchendolo di grazie proporzionate all’ufficio cui lo eleggeva, e liberandolo anche dal peccato originale, come credono molti e come si legge in S. Agostino (libro IV op. imperf. cont. Julian Cap. XXXIV). Rivelandogli questa predestinazione amorosa, il Signore gli manifestò la vocazione che gli dava, nominandolo non solo Profeta del suo popolo, ma anche delle genti.
L’ufficio di Profeta non era lusinghiero, perché si trattava di annunziare agli uomini non solo i misteri dell’avvenire, ma di rimproverarli dei loro delitti e di minacciare loro i castighi del Signore. L’uomo è orgoglioso, rifugge da ogni rimprovero, riguarda come molesti quelli che gli parlano di castighi; e quando è costituito in dignità, irrompe contro di loro. Geremia veniva eletto a tale ufficio in un’epoca tristissima, ed in giovanissima età; perciò, preso da sgomento, esclamò: Ah, ah, ah, Signore Dio, ecco che io non so parlare perché sono giovane.
Il pensiero di dover passare dalla semplice vita di figlio di famiglia a quella movimentata di Profeta, e di dover affrontare i grandi ed il popolo, e soprattutto il profondo sentimento della propria insufficienza, erano per Geremia un argomento di grande pena, ma per Dio erano il fondamento stesso della sua elezione, giacché Egli sceglie proprio ciò che è povero e spregevole per confondere i grandi del mondo. D’altra parte il sentimento di umiltà del giovane eletto era proprio quello che ci voleva per diventare strumento nelle mani di Dio e per manifestarne la gloria; perciò il Signore gli soggiunse: Non dire: Io sono un giovane, poiché tu andrai a fare tutto quello per cui io ti manderò, e tutto quello che ti comanderò tu lo dirai.
Non poteva, infatti, chiamarsi giovane chi veniva arricchito di grazie speciali che lo rendevano adulto di spirito, né poteva dirsi sproporzionato all’ufficio suo innanzi ai grandi colui che doveva parlare loro in nome di Dio. Egli non poteva temere nulla, ma doveva solo confidare nella divina bontà e nel divino aiuto.
Il Signore con una visione sensibile gli mostrò che l’avrebbe aiutato, e stendendo la mano gli toccò la bocca, come per porgli sulle
labbra le parole che avrebbe dovuto dire, e per costituirlo in dignità di Profeta. Le parole che gli disse esprimevano l’elezione ad una dignità regale, che il Profeta non ebbe, e che significava la regalità del futuro Redentore.
Il Verbo Eterno un giorno si sarebbe unito all’umana natura, avrebbe parlato agli uomini, e per la sua Passione sarebbe stato costituito Re di tutti i popoli, Re di tutti i Re, vincitore del peccato, che avrebbe dovuto svellere dall’uomo; distruttore del regno di satana, del quale avrebbe disperso e dissipato la potenza, per edificare, e piantare la Chiesa.
Geremia dunque per il contatto della mano di Dio venne costituito figura del Redentore, ed espresse in sé l’immagine della sua regalità universale. Come poteva temere più, e come poteva chiamarsi inetto all’ufficio cui veniva eletto, se veniva avvolto dai raggi della gloria del futuro Redentore, e se doveva compire la missione assegnatagli per annunziare al vivo quella missione di espiazione dolorosa che avrebbe salvato il mondo?
3. La prima visione del Profeta: un simbolo.
Geremia non ebbe bisogno di dare il suo assenso formale alla Volontà di Dio su di lui. Il contatto della mano divina lo rese tutto abbandonato a quella suprema Volontà, e il suo stesso atteggiamento era tutta una dedizione al Signore. L’estrema piccolezza, che si riconosceva nullità estrema, non poteva avere iniziative; rimaneva abbandonata a Dio, attendeva i suoi comandi e la sua guida. Il Signore con la visione di due simboli volle vincere in lui la titubanza subcosciente che ancora provava per il successo della sua missione, conoscendo fin d’allora la durezza del popolo suo, e l’ardua difficoltà dei divini presagi, e volle infiammarne lo zelo.
È subcosciente, infatti, in ogni Profeta il timore d’illudersi o di non vedere avverato il proprio vaticinio. Le rivelazioni che riceve, benché certissime, a volte sono condizionate, a volte esprimono un mistero difficile a decifrarsi a primo colpo; e perciò nella pratica realizzazione possono anche dar luogo a qualche sorpresa che può sembrare una smentita al vaticinio fatto. Per quanto un Profeta possa
essere tutto abbandonato a Dio, non riesce a sottrarsi a questo timore; e poiché parlando assume una responsabilità che potrebbe avere anche delle penose conseguenze, vive sempre in trepidazione di fronte a ciò che annunzia.
Il timore d’ingannarsi o di apparire un falso Profeta, era più forte in Geremia, perché ancora giovane; e perciò il Signore volle rassicurarlo, con un simbolo, che le sue parole si sarebbero infallibilmente compite. Gli mostrò una verga vigilante, cioè una verga levata come per percuotere. Il testo ebraico può significare anche che gli mostrò una verga di mandorlo, chiamato vigilante perché è il primo a fiorire dopo l’inverno. In tutti e due i casi Dio gli mostrò il simbolo di una vigilanza, e gli domandò che cosa vedesse. Era la prima volta che il giovane Profeta aveva una visione, e la sua sorpresa lo faceva rimanere perplesso. Perciò Dio gli domandò che cosa vedesse, concentrando così maggiormente la sua attenzione sull’oggetto della visione, e gliene spiegò il significato: Egli stesso si faceva garante della verità dei messaggi profetici che gli avrebbe affidati, ed Egli stesso li avrebbe compiti.
A questa prima visione, che rassicurava Geremia sullo sviluppo della sua missione, ne seguì un’altra che doveva eccitare il suo zelo nel compirla, giacché solo un grande zelo del bene del suo popolo avrebbe potuto fargli superare le grandi difficoltà che doveva incontrare, date le tribolazioni che dovevano colpire e purificare la nazione.
Il Signore mostrò al giovane una caldaia che bolliva e che veniva dalla parte del Settentrione, simbolo delle tribolazioni di guerra che si sarebbero rovesciate sul regno di Giuda dal Nord, per l’invasione caldea che, sconvolgendolo, avrebbero punito i peccati del popolo e le profanazioni religiose, le prevaricazioni sociali e gli atti d’idolatria e di apostasia.
Come in tutte le cose che vengono da Dio, l’immagine della caldaia bollente aveva come un’espressione penetrante il fondo del cuore. Non era semplicemente una caldaia; era una sintesi emozionante di mali e di sventure che commosse l’ingenuo cuore di Geremia, e gli fece concepire desideri di carità e di zelo per il suo popolo.
Dio, che non forza mai l’umana libertà, lo colpì in quel momento per fargli accettare la missione che gli assegnava, e gli disse:
Tu dunque cìngi i tuoi fianchi e sorgi, cioè: fatti coraggio, armati di fortezza, preparati a camminare per lunghi viaggi, succingendo ai fianchi le tue vesti e parla liberamente a costoro, cioè a quelli che peccano e sono causa di castighi; ai perversi ed agl’idolatri dei quali ti ho fatto cenno; di’ loro tutto quello che io ti comanderò di dire, senza timore, perché tu sei fortificato da me anche contro le minacce dei Re ed essi, pur combattendoti, non prevarranno contro di te, perché io sono con te per liberarti.
È evidente che il Signore non dichiarò invulnerabile il suo servo, il quale anzi morì martire; ma lo rassicurò e gli promise aiuto nei pericoli e nelle insidie che gli avrebbero attraversato il cammino. È evidente pure che i suoi nemici non prevalsero contro di lui, perché potettero ucciderne il corpo, ma non sopraffarne lo spirito né troncarne la missione. Dio rassicurò il suo servo per dargli coraggio e promettendogli aiuto, non per renderlo incapace di sofferenza. Del resto, anche quando lo uccisero sotto una grandine di pietre, anche allora non prevalsero, perché le pietre e la sopraffazione non ne scossero l’animo, ed il martirio gli fu di merito per conquistare l’eterna felicità.
Il Martire non è mai tanto vittorioso dei suoi nemici temporali ed eterni che quando cade sotto i loro colpi, sciogliendosi dai ceppi della materia e conquistando l’eterna vita. È proprio allora che prende nelle mani la palma della vittoria, e vince i suoi nemici.
4. La missione del cristiano e lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
La vocazione di Geremia deve richiamarci sulla nostra missione di amore e di zelo nel mondo, perché ogni Cristiano ha il dovere di essere apostolo nei limiti della propria condizione. Ogni Cristiano, porta, per così dire, nel suo carattere stesso il nome del Profeta Geremia ': colui che esalta e glorifica il Signore. Ogni Cristiano ha Dio
per sua parte, Elcia; ed è figlio di questo ideale di amore; ogni Cristiano è regale sacerdozio, cantico vivo di amore e di fede, preghiera elevata innanzi a Dio, Anatot, e parte della Chiesa vera terra di predilezione, e vero figliuolo della destra, perché aspira e tende all’eterna salvezza, Beniamino.
Il Cristiano comincia la sua missione di zelo e di combattimento spirituale quando il Signore quasi pilastro Giosia, con la grazia dello Spirito Santo, lo sostiene e lo fortifica; la compie quando è figlio della Madre, Amon, figlio di Maria e figlio della Chiesa, nel vero regno dell’amore dove Dio è lodato, Giuda; la compie risorgendo nel Signore e vivendo nella giustizia e nella santità. Joachim, Sedecia. Diremmo quasi che la sua posizione genealogica e cronologica è la stessa di quella del Profeta, e che come lui egli deve essere vittima e martire.
È un’abitudine molto comune fra i Cristiani quella di credersi inetti alle opere dello zelo; molti di essi vi si rifiutano, molti affermano di non saper parlare. Eppure, come per Geremia, la nostra forza sta in Dio, ed in Lui solo dobbiamo confidare. Egli porrà sulla nostra bocca le sue parole, e ci darà la grazia di svellere gli errori, di distruggere il male, di disperdere le insidie diaboliche, di dissipare le illusioni del mondo, di edificare il bene e di piantare i santi germi della virtù negli altri, con la parola e con l’esempio.
Lo zelo è indispensabile in ogni tempo, ma in modo particolare ora che i castighi divini piombano sul mondo, quasi verga vigilante che lo percuote, ora che veramente la pentola europea, come S. Giovanni Bosco chiamava le nazioni europee, bolle per tanti angustiami problemi e per tanti sconvolgimenti. In mezzo a tante miserie ed a tante viltà, il Cristiano deve cingere i suoi fianchi con la fortezza del Signore, deve sorgere da coraggioso senza rispetti umani, dev’essere città forte di fede, colonna di ferro per virtù, e muraglia di bronzo innanzi alle illusioni della carne e del mondo.
Nessuno può esimersi dal dovere di glorificare Dio e di salvare le anime; ed in mezzo al mondo scellerato, il Cristiano deve rappresentare la luce, la virtù, la fortezza, il fermento del bene e la pace, non solo per la propria salvezza ma ancora per quella degli altri.
Geremia nella sua genealogia
Le parole con le quali comincia questo capitolo sono il titolo di tutto il libro: Parole di Geremia, cioè profezie dette da Geremia. Al titolo si unisce la presentazione del Profeta: Figliuolo di Chelkia; non del Sommo Sacerdote omonimo, che nell’anno 18 di Giosia trovò nel Tempio il libro della Legge (IV Re, XXII, 8), ma di uno dei ventiquattro Sacerdoti preposti al ministero del Tempio che abitavano in Ananot, piccola città a Nord-Est di Gerusalemme, nella tribù di Beniamino, poco distante dalla santa città.
Il Testo determina meglio la natura delle par oh di Geremìa, perché non si confondano con un linguaggio umano qualunque, e soggiunge: Parola del Signore, cioè rivelazione, fattagli da Dio stesso nei giorni di Giosia, ossia negli anni del regno di questo monarca, a cominciare dall’anno decimoterzo, e negli anni dei suoi successori fino alla distruzione di Gerusalemme ed al conseguente esilio del popolo, che avvenne nel quinto mese dell’anno undicesimo del regno di Sedecia.
A Giosia nel regno successe Joacaz, che regnò tre mesi e fu detronizzato dal Re di Egitto che elesse in suo luogo il fratello Eliacim, a cui cambiò il nome in quello di Joachim; a questi successe Joachin (IV Re, 24, 8), detronizzato poi da Nabucodonosor, il quale pose in suo luogo Sedecia, figlio di Giosia. Il Sacro Testo non parla dei regni di Joacaz e di Joachin, perché di brevissima durata (II Parai. XXXVI).
Geremia, Profeta del Signore
Presentato il Profeta nella sua genealogia e nella cronologia principale, il Sacro Testo lo presenta nella sua predestinazione e santificazione, e nella sua vocazione. È Dio stesso, che parla al suo servo, facendogli conoscere questo mistero di amore: prima di formar
lo nel seno materno con l’ordinaria provvidenza della generazione, Egli lo conobbe, cioè lo elesse e lo predestinò all’ufficio di Profeta, e prima della nascita lo santificò nel seno stesso della madre, arricchendolo di grazie proporzionate all’ufficio cui lo eleggeva, e liberandolo anche dal peccato originale, come credono molti e come si legge in S. Agostino (libro IV op. imperf. cont. Julian Cap. XXXIV). Rivelandogli questa predestinazione amorosa, il Signore gli manifestò la vocazione che gli dava, nominandolo non solo Profeta del suo popolo, ma anche delle genti.
L’ufficio di Profeta non era lusinghiero, perché si trattava di annunziare agli uomini non solo i misteri dell’avvenire, ma di rimproverarli dei loro delitti e di minacciare loro i castighi del Signore. L’uomo è orgoglioso, rifugge da ogni rimprovero, riguarda come molesti quelli che gli parlano di castighi; e quando è costituito in dignità, irrompe contro di loro. Geremia veniva eletto a tale ufficio in un’epoca tristissima, ed in giovanissima età; perciò, preso da sgomento, esclamò: Ah, ah, ah, Signore Dio, ecco che io non so parlare perché sono giovane.
Il pensiero di dover passare dalla semplice vita di figlio di famiglia a quella movimentata di Profeta, e di dover affrontare i grandi ed il popolo, e soprattutto il profondo sentimento della propria insufficienza, erano per Geremia un argomento di grande pena, ma per Dio erano il fondamento stesso della sua elezione, giacché Egli sceglie proprio ciò che è povero e spregevole per confondere i grandi del mondo. D’altra parte il sentimento di umiltà del giovane eletto era proprio quello che ci voleva per diventare strumento nelle mani di Dio e per manifestarne la gloria; perciò il Signore gli soggiunse: Non dire: Io sono un giovane, poiché tu andrai a fare tutto quello per cui io ti manderò, e tutto quello che ti comanderò tu lo dirai.
Non poteva, infatti, chiamarsi giovane chi veniva arricchito di grazie speciali che lo rendevano adulto di spirito, né poteva dirsi sproporzionato all’ufficio suo innanzi ai grandi colui che doveva parlare loro in nome di Dio. Egli non poteva temere nulla, ma doveva solo confidare nella divina bontà e nel divino aiuto.
Il Signore con una visione sensibile gli mostrò che l’avrebbe aiutato, e stendendo la mano gli toccò la bocca, come per porgli sulle
labbra le parole che avrebbe dovuto dire, e per costituirlo in dignità di Profeta. Le parole che gli disse esprimevano l’elezione ad una dignità regale, che il Profeta non ebbe, e che significava la regalità del futuro Redentore.
Il Verbo Eterno un giorno si sarebbe unito all’umana natura, avrebbe parlato agli uomini, e per la sua Passione sarebbe stato costituito Re di tutti i popoli, Re di tutti i Re, vincitore del peccato, che avrebbe dovuto svellere dall’uomo; distruttore del regno di satana, del quale avrebbe disperso e dissipato la potenza, per edificare, e piantare la Chiesa.
Geremia dunque per il contatto della mano di Dio venne costituito figura del Redentore, ed espresse in sé l’immagine della sua regalità universale. Come poteva temere più, e come poteva chiamarsi inetto all’ufficio cui veniva eletto, se veniva avvolto dai raggi della gloria del futuro Redentore, e se doveva compire la missione assegnatagli per annunziare al vivo quella missione di espiazione dolorosa che avrebbe salvato il mondo?
3. La prima visione del Profeta: un simbolo.
Geremia non ebbe bisogno di dare il suo assenso formale alla Volontà di Dio su di lui. Il contatto della mano divina lo rese tutto abbandonato a quella suprema Volontà, e il suo stesso atteggiamento era tutta una dedizione al Signore. L’estrema piccolezza, che si riconosceva nullità estrema, non poteva avere iniziative; rimaneva abbandonata a Dio, attendeva i suoi comandi e la sua guida. Il Signore con la visione di due simboli volle vincere in lui la titubanza subcosciente che ancora provava per il successo della sua missione, conoscendo fin d’allora la durezza del popolo suo, e l’ardua difficoltà dei divini presagi, e volle infiammarne lo zelo.
È subcosciente, infatti, in ogni Profeta il timore d’illudersi o di non vedere avverato il proprio vaticinio. Le rivelazioni che riceve, benché certissime, a volte sono condizionate, a volte esprimono un mistero difficile a decifrarsi a primo colpo; e perciò nella pratica realizzazione possono anche dar luogo a qualche sorpresa che può sembrare una smentita al vaticinio fatto. Per quanto un Profeta possa
essere tutto abbandonato a Dio, non riesce a sottrarsi a questo timore; e poiché parlando assume una responsabilità che potrebbe avere anche delle penose conseguenze, vive sempre in trepidazione di fronte a ciò che annunzia.
Il timore d’ingannarsi o di apparire un falso Profeta, era più forte in Geremia, perché ancora giovane; e perciò il Signore volle rassicurarlo, con un simbolo, che le sue parole si sarebbero infallibilmente compite. Gli mostrò una verga vigilante, cioè una verga levata come per percuotere. Il testo ebraico può significare anche che gli mostrò una verga di mandorlo, chiamato vigilante perché è il primo a fiorire dopo l’inverno. In tutti e due i casi Dio gli mostrò il simbolo di una vigilanza, e gli domandò che cosa vedesse. Era la prima volta che il giovane Profeta aveva una visione, e la sua sorpresa lo faceva rimanere perplesso. Perciò Dio gli domandò che cosa vedesse, concentrando così maggiormente la sua attenzione sull’oggetto della visione, e gliene spiegò il significato: Egli stesso si faceva garante della verità dei messaggi profetici che gli avrebbe affidati, ed Egli stesso li avrebbe compiti.
A questa prima visione, che rassicurava Geremia sullo sviluppo della sua missione, ne seguì un’altra che doveva eccitare il suo zelo nel compirla, giacché solo un grande zelo del bene del suo popolo avrebbe potuto fargli superare le grandi difficoltà che doveva incontrare, date le tribolazioni che dovevano colpire e purificare la nazione.
Il Signore mostrò al giovane una caldaia che bolliva e che veniva dalla parte del Settentrione, simbolo delle tribolazioni di guerra che si sarebbero rovesciate sul regno di Giuda dal Nord, per l’invasione caldea che, sconvolgendolo, avrebbero punito i peccati del popolo e le profanazioni religiose, le prevaricazioni sociali e gli atti d’idolatria e di apostasia.
Come in tutte le cose che vengono da Dio, l’immagine della caldaia bollente aveva come un’espressione penetrante il fondo del cuore. Non era semplicemente una caldaia; era una sintesi emozionante di mali e di sventure che commosse l’ingenuo cuore di Geremia, e gli fece concepire desideri di carità e di zelo per il suo popolo.
Dio, che non forza mai l’umana libertà, lo colpì in quel momento per fargli accettare la missione che gli assegnava, e gli disse:
Tu dunque cìngi i tuoi fianchi e sorgi, cioè: fatti coraggio, armati di fortezza, preparati a camminare per lunghi viaggi, succingendo ai fianchi le tue vesti e parla liberamente a costoro, cioè a quelli che peccano e sono causa di castighi; ai perversi ed agl’idolatri dei quali ti ho fatto cenno; di’ loro tutto quello che io ti comanderò di dire, senza timore, perché tu sei fortificato da me anche contro le minacce dei Re ed essi, pur combattendoti, non prevarranno contro di te, perché io sono con te per liberarti.
È evidente che il Signore non dichiarò invulnerabile il suo servo, il quale anzi morì martire; ma lo rassicurò e gli promise aiuto nei pericoli e nelle insidie che gli avrebbero attraversato il cammino. È evidente pure che i suoi nemici non prevalsero contro di lui, perché potettero ucciderne il corpo, ma non sopraffarne lo spirito né troncarne la missione. Dio rassicurò il suo servo per dargli coraggio e promettendogli aiuto, non per renderlo incapace di sofferenza. Del resto, anche quando lo uccisero sotto una grandine di pietre, anche allora non prevalsero, perché le pietre e la sopraffazione non ne scossero l’animo, ed il martirio gli fu di merito per conquistare l’eterna felicità.
Il Martire non è mai tanto vittorioso dei suoi nemici temporali ed eterni che quando cade sotto i loro colpi, sciogliendosi dai ceppi della materia e conquistando l’eterna vita. È proprio allora che prende nelle mani la palma della vittoria, e vince i suoi nemici.
4. La missione del cristiano e lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime.
La vocazione di Geremia deve richiamarci sulla nostra missione di amore e di zelo nel mondo, perché ogni Cristiano ha il dovere di essere apostolo nei limiti della propria condizione. Ogni Cristiano, porta, per così dire, nel suo carattere stesso il nome del Profeta Geremia ': colui che esalta e glorifica il Signore. Ogni Cristiano ha Dio
per sua parte, Elcia; ed è figlio di questo ideale di amore; ogni Cristiano è regale sacerdozio, cantico vivo di amore e di fede, preghiera elevata innanzi a Dio, Anatot, e parte della Chiesa vera terra di predilezione, e vero figliuolo della destra, perché aspira e tende all’eterna salvezza, Beniamino.
Il Cristiano comincia la sua missione di zelo e di combattimento spirituale quando il Signore quasi pilastro Giosia, con la grazia dello Spirito Santo, lo sostiene e lo fortifica; la compie quando è figlio della Madre, Amon, figlio di Maria e figlio della Chiesa, nel vero regno dell’amore dove Dio è lodato, Giuda; la compie risorgendo nel Signore e vivendo nella giustizia e nella santità. Joachim, Sedecia. Diremmo quasi che la sua posizione genealogica e cronologica è la stessa di quella del Profeta, e che come lui egli deve essere vittima e martire.
È un’abitudine molto comune fra i Cristiani quella di credersi inetti alle opere dello zelo; molti di essi vi si rifiutano, molti affermano di non saper parlare. Eppure, come per Geremia, la nostra forza sta in Dio, ed in Lui solo dobbiamo confidare. Egli porrà sulla nostra bocca le sue parole, e ci darà la grazia di svellere gli errori, di distruggere il male, di disperdere le insidie diaboliche, di dissipare le illusioni del mondo, di edificare il bene e di piantare i santi germi della virtù negli altri, con la parola e con l’esempio.
Lo zelo è indispensabile in ogni tempo, ma in modo particolare ora che i castighi divini piombano sul mondo, quasi verga vigilante che lo percuote, ora che veramente la pentola europea, come S. Giovanni Bosco chiamava le nazioni europee, bolle per tanti angustiami problemi e per tanti sconvolgimenti. In mezzo a tante miserie ed a tante viltà, il Cristiano deve cingere i suoi fianchi con la fortezza del Signore, deve sorgere da coraggioso senza rispetti umani, dev’essere città forte di fede, colonna di ferro per virtù, e muraglia di bronzo innanzi alle illusioni della carne e del mondo.
Nessuno può esimersi dal dovere di glorificare Dio e di salvare le anime; ed in mezzo al mondo scellerato, il Cristiano deve rappresentare la luce, la virtù, la fortezza, il fermento del bene e la pace, non solo per la propria salvezza ma ancora per quella degli altri.
Sac. Dolindo Ruotolo
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